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La CCI ha adottato le tesi su “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo” (Rivista Internazionale n. 14), nel maggio del 1990, qualche mese dopo il crollo del blocco dell’est che avrebbe preceduto la disgregazione dell’Unione Sovietica. La trappola che gli Stati Uniti tesero a Saddam Hussein, che spinse quest’ultimo ad invadere il Kuwait nell’agosto del 1990, e la conseguente concentrazione delle forze americane in Arabia Saudita costituivano una prima conseguenza della sparizione del blocco dell’est, il tentativo della potenza americana di serrare i ranghi dell’Alleanza atlantica minacciata di disgregazione a seguito della sparizione del suo avversario dell’est.
Fu in seguito a questi avvenimenti, che preparavano l’offensiva militare contro l’Iraq dei principali paesi occidentali sotto la direzione degli Stati Uniti, che la CCI discusse ed adottò un testo di orientamento su “Militarismo e decomposizione” (Rivista Internazionale n.15) che costituiva un complemento alle tesi sulla decomposizione.
Nel 22° Congresso internazionale, nel 2017, la CCI ha adottato una attualizzazione delle Tesi sulla decomposizione (“Rapporto sulla decomposizione oggi”, Rivista Internazionale n.35) che, fondamentalmente, confermava il testo adottato 27 anni prima. Oggi la guerra in Ucraina ci spinge a produrre un documento complementare sulla questione del militarismo simile a quello del 1990 di cui costituisce un’attualizzazione. Questa scelta è tanto più necessaria perché noi abbiamo commesso un errore non prevedendo lo scoppio di questa guerra, risultato di una dimenticanza da parte nostra del quadro di analisi che ci eravamo dati diversi decenni fa sulla questione della guerra nel periodo di decadenza del capitalismo.
1) Il testo “Militarismo e decomposizione” del 1990 nel suo punto 1 ricorda il carattere vivente del metodo marxista e la necessità di confrontare sempre le analisi che abbiamo potuto fare in passato con le nuove realtà che ci si presentano, o per confermarle o per aggiustarle e precisare. Non è necessario ritornarci in questo testo. Piuttosto, di fronte alle interpretazioni errate dell’attuale guerra in Ucraina che ci vengono fornite da certi “esperti” borghesi, ma anche dalla maggioranza dei gruppi dell’ambiente politico proletario, è utile ritornare sulle basi del metodo marxista rispetto alla questione della guerra, e più in generale sul materialismo storico.
Alla base di questo c’è l’idea che: “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.” (Marx, Prefazione alla critica dell’economia politica). Questa predominanza della base materiale economica sugli altri aspetti della vita della società è stata spesso l’oggetto di una interpretazione meccanica e riduzionista. Engels lo rileva e ne fa una critica in una lettera a Joseph Bloch del settembre 1890 (e in molti altri testi): “Secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc. -, le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose e il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È in un’azione reciproca di tutti questi momenti che alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali (…)”
Evidentemente non possiamo chiedere agli “esperti” della borghesia di basarsi sul metodo marxista. Quello che rattrista invece è costatare che molte organizzazioni che rivendicano esplicitamente il marxismo e che difendono effettivamente questo metodo per quanto riguarda i principi fondamentali del movimento operaio, come l’internazionalismo proletario, si attengono, relativamente all’analisi delle cause delle guerre, non alla visione difesa da Engels, ma a quella che egli critica. Per esempio, a proposito della guerra del Golfo del 1990-91, abbiamo potuto leggere questo: “Gli Stati Uniti hanno definito apertamente l’interesse nazionale americano che li spingeva ad agire: garantire un approvvigionamento stabile e a un prezzo ragionevole del petrolio prodotto nel Golfo: lo stesso interesse che li faceva sostenere l’Iraq contro l’Iran li fa sostenere ora l’Arabia Saudita e le petromonarchie contro l’Iraq” (Volantino del PCInt – Le prolétaire). O ancora: “Nei fatti la crisi del Golfo è realmente una crisi per il petrolio e per chi lo controlla. Senza petrolio a buon mercato i profitti calano. I profitti del capitalismo occidentale sono minacciati ed è per questo motivo e nessun altro che gli Stati Uniti preparano un bagno di sangue in Medio Oriente…” (Volantino della CWO, sezione in Gran Bretagna della Tendenza Comunista Internazionalista). Un’analisi completata dalla sezione della TCI in Italia, Battaglia Comunista : “Il petrolio, presente direttamente o indirettamente in tutti i cicli produttivi, ha un peso determinante nel processo di formazione della rendita monopolista e, di conseguenza, il controllo del suo prezzo è di una importanza vitale (…) Con un’economia che dà chiaramente dei segni di recessione, un debito pubblico di una dimensione asfissiante, un apparato produttivo in forte deficit di produttività rispetto ai concorrenti europei e giapponesi, gli Stati Uniti non possono per niente permettersi in questo momento di perdere il controllo di una delle variabili fondamentali di tutta l’economia mondiale: il prezzo del petrolio.”
Quanto è avvenuto da più di 30 anni in Medio Oriente ha smentito questo tipo di analisi. Le diverse avventure degli Stati Uniti in questa regione (come la guerra iniziata nel 2003 da Bush junior) hanno avuto per la borghesia americana un costo economico incomparabilmente superiore a tutto quello che ha potuto apportare loro il controllo del prezzo del petrolio.
L’attuale guerra in Ucraina non ha degli obiettivi direttamente economici. Né per la Russia che ha scatenato le ostilità il 24 febbraio 2022, né per gli Stati Uniti che da più di due decenni hanno approfittato dell’indebolimento della Russia seguito al crollo del suo impero nel 1989 per spingere l’estensione della NATO fino alle frontiere di questo paese. La Russia, se pure arrivasse a stabilire il suo controllo su nuove porzioni dell’Ucraina, dovrà sostenere spese colossali per ricostruire quelle regioni che oggi sta devastando. D’altra parte, nel tempo, le sanzioni economiche prese dai paesi occidentali indeboliranno ancora di più un’economia già poco florida. Dal lato occidentale quelle stesse sanzioni implicano anche esse un costo considerevole, senza contare l’aiuto militare all’Ucraina che già ammonta a decine di miliardi di dollari. In realtà questa guerra costituisce una nuova illustrazione delle analisi della CCI per quello che riguarda la guerra nel periodo di decadenza del capitalismo e più particolarmente nella fase di decomposizione che costituisce il punto culminante di questa decadenza.
2) Dall’inizio del ventesimo secolo il movimento operaio ha messo in evidenza che l’imperialismo e la guerra imperialista costituivano la manifestazione più significativa dell’entrata del modo di produzione capitalista nella sua fase di declino storico, della sua decadenza. Questo cambiamento di periodo storico comportava una modificazione fondamentale nelle cause delle guerre. La Sinistra Comunista di Francia descrisse in modo luminoso i tratti di questa modificazione:
«Nell’epoca del capitalismo ascendente le guerre (nazionali, coloniali e di conquista imperialista) esprimevano la marcia ascendente di fermentazione, di rafforzamento e di allargamento del sistema economico capitalista. La produzione capitalista trovava nella guerra la continuazione della sua politica economica con altri mezzi. Ogni guerra si giustificava e pagava i suoi costi aprendo un nuovo campo di una più grande espansione, assicurando lo sviluppo di una più grande produzione capitalista.
Nell’epoca del capitalismo decadente, la guerra – allo stesso titolo che la pace – esprime questa decadenza e concorre potentemente ad accelerarla.
Sarebbe sbagliato vedere nella guerra un fenomeno in sé, negativo per definizione, distruttore ed ostacolo allo sviluppo della società, in opposizione alla pace che, invece, sarà presentata come il corso normale e positivo dello sviluppo continuo della produzione e della società. Significherebbe introdurre un concetto morale in un corso obiettivo, economicamente determinato.
La guerra fu il mezzo indispensabile al capitalismo che gli aprì possibilità di ulteriore sviluppo nell’epoca in cui queste possibilità esistevano e non potevano essere aperte se non attraverso lo strumento della violenza. Invece il declino del mondo capitalista, che ha esaurito storicamente tutte le possibilità di sviluppo, trova nella guerra moderna, la guerra imperialista, l’espressione del suo declino che, senza aprire alcuna possibilità di sviluppo ulteriore per la produzione, non fa che sprofondare nell’abisso le forze produttive ed accumulare ad un ritmo accelerato rovine su rovine.
Nel sistema capitalista non esiste una opposizione fondamentale tra guerra e pace, ma esiste una differenza tra le due fasi, ascendente e decadente, della società capitalista e, di conseguenza, una differenza di funzione della guerra (nel rapporto della guerra e della pace) nelle due rispettive fasi.
Se, nella prima fase, la guerra ha la funzione di assicurare un allargamento del mercato, al fine di una più grande produzione di beni di consumo, nella seconda fase la produzione è essenzialmente basata sulla produzione di mezzi di distruzione, cioè in vista della guerra. La decadenza della società capitalista trova la sua manifestazione eclatante nel fatto che dalle guerre in vista dello sviluppo economico (periodo ascendente), si arriva a che l’attività economica si restringe essenzialmente in vista della guerra (periodo decadente).
Questo non significa che la guerra sia diventata il fine della produzione capitalista, che resta sempre la produzione di plusvalore, ma significa che la guerra, prendendo un carattere permanente, è diventato il modo di vivere del capitalismo decadente” (Rapporto alla Conferenza di luglio 1945 della Sinistra Comunista di Francia – GCF -, ripreso nel "The Historic Course” rapporto adottato al 3°Congresso della CCI, International Review n.18[1]).
Questa analisi, formulata nel 1945, si è rivelata fondamentalmente valida anche in seguito, anche in assenza di una nuova guerra mondiale. Dal 1945 il mondo ha conosciuto più di un centinaio di guerre, che hanno provocato almeno altrettanto morti della Seconda Guerra mondiale. Una situazione che è proseguita, ed anche intensificata dopo il crollo del blocco dell’est e la fine della “Guerra fredda” che costituivano la prima grande manifestazione dell’entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione. Il nostro testo del 1990 già lo indicava: “La decomposizione generale della società costituisce la fase ultima del periodo di decadenza del capitalismo. In questo senso, in questa fase non sono rimesse in causa le caratteristiche proprie del periodo di decadenza: la crisi storica dell'economia capitalista, il capitalismo di Stato, il militarismo e l'imperialismo. Di più, nella misura in cui la decomposizione si presenta come il culmine delle contraddizioni nelle quali si dibatte in modo crescente il capitalismo dall'inizio della sua decadenza, le caratteristiche proprie di questo periodo si trovano, nella fase ultima, ancora più accentuate(…) Come la fine dello stalinismo non rimette in causa la tendenza storica al capitalismo di Stato, la scomparsa attuale dei blocchi imperialisti non implica la minima rimessa in causa della presa dell'imperialismo sulla vita della società. La differenza fondamentale risiede nel fatto che se la fine dello stalinismo corrisponde all'eliminazione di una forma particolarmente aberrante del capitalismo di Stato, la fine dei blocchi non fa che aprire la porta ad una forma ancora più barbara, aberrante e caotica dell'imperialismo.” La guerra del Golfo nel 1990-91, quella nella ex-Jugoslavia lungo il1990, la guerra in Iraq durata 11 anni a partire dal 2003, quella in Afganistan che è durata una ventina d’anni e molte altre ancora di minore importanza, in particolare in Africa, sono venuti a confermare questa previsione.
Oggi la guerra in Ucraina, cioè nel cuore dell’Europa, ha nuovamente illustrato questa realtà e ad un livello ancora più importante. Essa costituisce una conferma eloquente della tesi della CCI sulla completa irrazionalità, dal punto di vista degli interessi globali di questo sistema, della guerra nella decadenza del capitalismo (vedere il testo “The significance and impact of the war in Ukraine”, International Review n.168, adottato a maggio 2022).
3) In effetti, anche se la distinzione fra le guerre del 19° secolo e quelle del 20°, come viene fatta nel testo del 1945 della GCF, è perfettamente valido, anche se è globalmente giusta l’idea che “La decadenza della società capitalista trova la sua manifestazione eclatante nel fatto che dalle guerre in vista dello sviluppo economico (periodo ascendente), si arriva a che l’attività economica si restringe essenzialmente in vista della guerra (periodo decadente)”, non si può attribuire una causa direttamente economica a tutte le guerre del 19° secolo. Per esempio, le guerre napoleoniche hanno avuto un costo catastrofico per la borghesia francese, cosa che, alla fine, l’ha indebolita considerevolmente rispetto alla borghesia inglese, facilitando il cammino di questa verso la sua posizione dominante dalla metà del 19° secolo. Lo stesso si può dire per la guerra del 1870 fra la Prussia e la Francia. In questo ultimo caso Marx (nel “Primo indirizzo del Consiglio Generale sulla guerra franco-tedesca”) riprende il termine di “guerra dinastica” utilizzata dagli operai francesi e tedeschi per qualificare questa guerra. Dal lato tedesco, il re di Prussia mirava a costituirsi un impero raggruppando intorno alla sua corona la moltitudine di piccoli Stati germanici che, in precedenza, non erano riusciti che a costituire un’unione doganale (Zollverein). L’annessione dell’Alsazia-Lorena era il regalo di questo matrimonio. Per Napoleone III la guerra doveva servire fondamentalmente a rafforzare una struttura politica, il secondo Impero, minacciato dallo sviluppo industriale della Francia. Dal lato prussiano, al di là delle ambizioni del monarca, questa guerra permetteva di creare una unità politica della Germania, quello che ha gettato le basi del pieno sviluppo industriale di questo paese, mentre dal lato francese essa era totalmente reazionaria. Nei fatti l’esempio di questa guerra illustra perfettamente la presentazione che fa Engels del materialismo storico. Possiamo vedere le sovra-strutture della società, in particolare quelle politiche ed ideologiche (la forma di governo e la creazione di un sentimento nazionale), giocare un ruolo importante nel decorso degli avvenimenti. Allo stesso tempo si vede la base economica della società imporsi in ultima istanza con la realizzazione dello sviluppo industriale della Germania e quindi dell’insieme del capitalismo.
In effetti, le analisi che si vogliono “materialiste”, cercando in ogni guerra una causa economica, dimenticano che il materialismo marxista è anche dialettico. E questa “dimenticanza” diventa un ostacolo considerevole per la comprensione dei conflitti imperialisti della nostra epoca, che è proprio segnata dal notevole rafforzamento del militarismo nella vita della società.
4) Il testo “Militarismo e decomposizione” del 1990 consacra una parte importante al ruolo che avrebbe preso la potenza americana nei conflitti imperialisti dell’epoca che si apriva: “Nel nuovo periodo storico in cui siamo entrati, e gli avvenimenti del Golfo lo confermano, il mondo si presenta con un carattere di instabilità, dove regna la tendenza al "ciascuno per se", dove le alleanze tra Stati non avranno più il carattere di stabilità che caratterizzava i blocchi, ma saranno dettati dalla necessità del momento. Un mondo di disordine cruento, di caos sanguinoso nel quale il gendarme americano tenterà di far regnare un minimo di ordine con l'uso sempre più massiccio e brutale della propria potenza militare.” Questo ruolo di “gendarme del mondo” gli Stati Uniti hanno continuato a giocarlo dopo il crollo del loro rivale nella Guerra fredda, come si è visto in Jugoslavia, in particolare alla fine degli anni ’90 e soprattutto in Medio Oriente dall’inizio del 21° secolo (in particolare con l’Afganistan e l’Iraq). Essi hanno ugualmente assunto questo ruolo in Europa integrando nuovi paesi nell’organizzazione militare che essi controllano, la NATO, paesi che precedentemente facevano parte del Patto di Varsavia o addirittura dell’URSS (Bulgaria, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia). La questione che era già posta nel 1990 con la fine della divisione del Mondo tra il blocco occidentale e il blocco dell’est, era quella dell’instaurazione di una nuova divisione del mondo come era avvenuto dopo la Seconda Guerra mondiale: “Finora, nel periodo di decadenza, una tale situazione di dispersione degli antagonismi imperialisti, di assenza di una divisione del mondo (o delle sue zone decisive) tra due blocchi, non si è mai prolungata. La sparizione delle due costellazioni imperialiste che erano uscite dalla seconda guerra mondiale porta con sé la tendenza alla ricomposizione di due nuovi blocchi.” (“After the collapse of the Eastern Bloc, destabilization and chaos”, International Review n.61).
Allo stesso tempo questo testo segnalava tutti gli ostacoli che si presentavano rispetto a un tale processo, e in particolare quello rappresentato dalla decomposizione del capitalismo: “la tendenza a una nuova divisione del mondo tra due blocchi militari è contrastata, e forse anche definitivamente compromessa, dal fenomeno sempre più profondo e generalizzato di decomposizione della società che noi abbiamo già messo in evidenza.” Questa analisi era sviluppata nel testo Militarismo e decomposizione, e, 3 decenni dopo, l’assenza di una tale divisione del Mondo tra due blocchi militari l’ha confermata.
Il testo "The significance and impact of the war in Ukraine" sviluppa questa questione appoggiandosi largamente sul testo del 1990 per mettere in evidenza che la ricostituzione di due blocchi imperialisti che si dividano il mondo continua a non essere all’ordine del giorno. Può valere la pena di ricordare quello che scrivevamo nel 1990:
" All'inizio del periodo di decadenza, e fino ai primi anni della seconda guerra mondiale, poteva esistere una certa "parità" tra differenti! partner di una coalizione imperialista, benché il bisogno di un capo gruppo si sia sempre fatto sentire. Per esempio, nella prima guerra mondiale, non esisteva, in termini di potenza militare operativa, una fondamentale disparità tra i tre “vincitori”: Gran Bretagna, Francia e USA. Questa situazione era già cambiata in modo molto importante nel corso della seconda guerra, dove i "vincitori" erano posti sotto la dipendenza stretta degli Stati Uniti che manifestavano una considerevole superiorità sui loro "alleati". Essa si accentuava ulteriormente durante il periodo di "guerra fredda" (appena terminato), dove ogni capo blocco, Stati Uniti e URSS, soprattutto per il controllo degli armamenti nucleari più sofisticati, disponeva di una superiorità che soverchiava completamente quella degli altri paesi del proprio blocco. Una tale tendenza si spiega con il fatto che, con l'affossamento del capitalismo nella sua decadenza:
- la posta in gioco e la dimensione dei conflitti tra blocchi richiedono un carattere sempre più mondiale e generale (più gangster si devono controllare, più il "boss" deve essere potente);
- gli armamenti richiedono investimenti sempre più giganteschi (in particolare, solo le più grandi nazioni potevano liberare le risorse necessarie alla costituzione di un arsenale nucleare completo e consacrare dei mezzi sufficienti alla ricerca sulle armi più sofisticate);
- e soprattutto, le tendenze centrifughe tra tutti gli Stati, dovute all'inasprimento degli antagonismi nazionali, non possono che accentuarsi.
Questo ultimo fattore è come il capitalismo di Stato: più le differenti frazioni di una borghesia nazionale tendono ad affrontarsi tra di loro, con l'aggravamento della crisi che accresce la loro concorrenza, e più lo Stato deve rinforzarsi per poter esercitare la sua autorità su di esse. Allo stesso modo, più la crisi storica, e la sua forma aperta, produce danni, più un capo blocco deve essere forte per contenere e controllare le tendenze al suo smembramento tra le differenti frazioni nazionali che lo compongono. Ed è chiaro che nella fase ultima della decadenza, quella della decomposizione, un tale fenomeno non può che aggravarsi ancora fino a dimensioni considerevoli.
È per questo insieme di ragioni, e soprattutto per l'ultima, che la ricostituzione di una nuova coppia di blocchi imperialisti non solo non è possibile prima di molti anni, ma può benissimo non aver mai più luogo, intervenendo prima la rivoluzione o la distruzione dell’umanità.”
Oggi questa analisi resta completamente valida ma bisogna segnalare che nel testo del 1990 avevamo completamente omesso di considerare che la Cina potesse diventare un giorno una nuova testa di blocco, mentre è oggi chiaro che questo paese sta diventando il principale rivale degli Stati Uniti. Dietro questa omissione c’era un errore maggiore di analisi: non avevamo previsto che la Cina potesse diventare una potenza economica di primo piano, che è una pre-condizione perché un paese possa pretendere di assumere il ruolo di leader di un blocco imperialista. D’altra parte è quello che ha capito la borghesia cinese: essa non potrà fare concorrenza alla borghesia americana sul piano militare se non si dota di una potenza economica e tecnologica capace di sostenere la sua potenza militare, per non conoscere la stessa sorte che ha conosciuto l’Unione Sovietica alla fine degli anni ’80. È anche per questa ragione che la Cina, anche se allarga in maniera crescente le sue ambizioni militari (in particolare rispetto a Taiwan), non può ancora, e per un buon momento ancora, pretendere di raggruppare intorno a sé un nuovo blocco imperialista.
5) La guerra in Ucraina ha rinnovato le inquietudini rispetto a una Terza Guerra mondiale, in particolare con le allusioni di Putin sull’arma nucleare. È importante notare che per la guerra mondiale non è lo stesso che per i blocchi imperialisti. Nei fatti, una guerra mondiale costituisce la fase ultima della costituzione dei blocchi. Più precisamente, è l’esistenza di blocchi imperialisti costituiti che fa sì che una guerra che, in partenza, non coinvolge che un numero limitato di paesi, degenera, attraverso il gioco delle alleanze, in una conflagrazione generalizzata. Così, lo scoppio della Prima Guerra mondiale, le cui cause storiche profonde derivano dall’acutizzarsi delle rivalità imperialiste fra le potenze europee, prende la forma di un intreccio di situazioni in cui i differenti alleati entrano progressivamente nel conflitto: l’Austria-Ungheria, con il sostegno del suo alleato tedesco, vuole mettere a profitto l’uccisione a Sarajevo dell’erede al trono, il 28 giugno 1914, per mettere al passo il Regno di Serbia, accusato di attizzare il nazionalismo delle minoranze serbe nell’Impero austro-ungarico. Questa riceve immediatamente il sostegno del suo alleato russo che, da parte sua, ha firmato con la Gran Bretagna la “Triplice Intesa”. All’inizio di agosto del 1914 tutti questi paesi entrano in guerra l’uno contro l’altro, trascinando in seguito altri paesi, come il Giappone, l’Italia nel 1915 e gli Stati Uniti nel 1917. Analogamente, nel settembre del 1939, quando la Germania attacca la Polonia, è un trattato del 1920 tra la Polonia, il Regno Unito e la Francia che porta questi due paesi a dichiarare guerra alla Germania, mentre le loro borghesie non si auguravano un tale conflitto, come dimostrato dalla firma del trattato di Monaco un anno prima. Il conflitto fra le tre principali potenze europee si estende rapidamente all’insieme del mondo.
Oggi, l’articolo 5 del trattato NATO stabilisce che un attacco contro uno dei suoi membri sarà considerato come un attacco contro tutti gli alleati. È per questo che i paesi che prima del 1989 appartenevano al Patto di Varsavia (e anche all’Unione Sovietica, come i paesi baltici) hanno aderito con entusiasmo alla NATO: questo costituiva la garanzia che la vicina Russia non avrebbe provato ad attaccarli. Lo stesso atteggiamento che assumono adesso la Finlandia e la Svezia dopo decenni di “neutralità”. Perciò Putin non poteva accettare una situazione in cui lo Stato ucraino rischiava di aggiungersi alla NATO, come scritto nella sua Costituzione.
Quindi l’assenza di una divisione del Mondo in due blocchi significa che una terza guerra mondiale non è attualmente all’ordine del giorno, e forse non lo sarà mai più. Tuttavia sarebbe irresponsabile sottostimare la gravità della situazione mondiale. Come scrivevamo nel gennaio 1990:
“È per questo che è fondamentale mettere in evidenza che, se la soluzione del proletariato – la rivoluzione comunista – è la sola che possa opporsi alla distruzione dell’umanità (che è la sola “soluzione” che la borghesia possa apportare alla sua crisi), questa distruzione non risulterebbe necessariamente da una terza guerra mondiale. Essa potrebbe anche risultare dal procedere fino alle sue estreme conseguenze di questa decomposizione (catastrofi ecologiche, epidemie, carestie, guerre locali, ecc.).
L’alternativa storica “Socialismo o Barbarie”, messa in evidenza dal marxismo, dopo essersi concretizzata sotto la forma di “Socialismo o Guerra imperialista mondiale” per la maggior parte del 20° secolo, si era precisata sotto la terrificante forma di “Socialismo o Distruzione dell’umanità” nel corso degli ultimi decenni a causa dello sviluppo delle armi atomiche. Oggi, dopo il crollo del blocco dell’Est, questa prospettiva resta del tutto valida. Ma bisogna precisare che una tale distruzione può provenire dalla guerra imperialista O dalla decomposizione della società.” ("After the collapse of the Eastern Bloc, destabilization and chaos, idem)
I tre decenni successivi all’adozione di questo documento da parte della CCI hanno ben messo in evidenza che anche al di fuori di una terza guerra mondiale, “le catastrofi ecologiche, le epidemie, le carestie, le guerre locali” sono i quattro cavalieri dell’apocalisse che minacciano la sopravvivenza dell’umanità.
6) Il Testo di orientamento “Militarismo e decomposizione” si concludeva con una parte su “Il proletariato di fronte alla guerra imperialista”. Tenuto conto dell’importanza di questa questione, può valere la pena di citare larghi estratti di questa parte, piuttosto che parafrasarlo:
"Più che mai dunque la questione della guerra resta centrale nella vita del capitalismo e costituisce, di conseguenza, un elemento fondamentale per la classe operaia. L'importanza di questa questione non è evidentemente nuova. Essa era già centrale sin dalla prima guerra mondiale (come messo in evidenza dai congressi internazionali di Stoccarda nel 1907 e di Basilea nel 1912). Essa diventa ancora più decisiva, evidentemente, nel corso del primo macello imperialista, come messo in evidenza dall'azione di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Liebknecht, nonché dalla rivoluzione in Russia e Germania. Essa conserva tutta la sua acutezza tra le due guerre mondiali, in particolare durante la guerra di Spagna, senza parlare, evidentemente, dell'importanza che essa riveste nel corso del più grande olocausto di questo secolo, tra il 1939 e il 1945. Essa ha conservato infine tutta la sua importanza nel corso delle differenti guerre di "liberazione nazionale" dopo il 1945, momenti dello scontro tra i due blocchi imperialisti. Nei fatti, dopo l'inizio del secolo, la guerra è stata la questione più decisiva che abbiano affrontato il proletariato e le sue minoranze rivoluzionarie, molto prima della questione sindacale o parlamentare, per esempio. E non poteva che essere così nella misura in cui la guerra costituisce la forma più concentrata della barbarie del capitalismo decadente, quella che esprime la sua agonia e la minaccia che fa pesare sulla sopravvivenza dell'umanità.
Nel periodo attuale in cui, più ancora che nei decenni passati, la barbarie guerriera sarà un dato permanente e onnipresente della situazione mondiale, implicando in modo crescente i paesi sviluppati (nei soli limiti che potrà fissarle il proletariato di questi paesi), la questione della guerra è ancora più essenziale per la classe operaia. È noto che la CCI ha messo in evidenza da molto tempo che, contrariamente al passato, lo sviluppo di una prossima ondata rivoluzionaria non verrà fuori dalla guerra, ma dall'aggravamento della crisi economica. Questa analisi resta del tutto valida: le mobilitazioni operaie, i punti di partenza dei grandi scontri di classe, proverranno dagli attacchi economici. Nello stesso modo, sul piano della presa di coscienza, l'aggravamento della crisi sarà un fattore fondamentale rivelando il fallimento storico del modo di produzione capitalista. Ma, proprio su questo piano della presa di coscienza, la questione della guerra è chiamata, ancora una volta, a giocare un ruolo di prim'ordine:
- mettendo in rilievo le conseguenze fondamentali di questo fallimento storico: la distruzione dell'umanità;
- costituendo la sola conseguenza obbiettiva della crisi, della decadenza e della decomposizione che il proletariato possa fin d'ora limitare (all'opposto delle altre manifestazioni della decomposizione) nella misura in cui nei paesi centrali esso non è schierato, all'ora attuale, dietro le bandiere nazionaliste. (Punto 13)
È vero che la guerra può essere utilizzata contro la classe operaia molto più facilmente che la stessa crisi e gli attacchi economici perché:
- può favorire lo sviluppo del pacifismo
- può dare alla classe un sentimento di impotenza, permettendo alla borghesia di piazzare i suoi attacchi economici. (Punto 14)”
Oggi, la guerra in Ucraina provoca effettivamente un sentimento di impotenza tra i proletari, quando non si trasforma in una drammatica irreggimentazione e nel trionfo dello sciovinismo, come è il caso in questo paese e anche, in parte, in Russia. Nei paesi occidentali essa permette anche un certo rafforzamento dell’ideologia democratica grazie ai fiumi di propaganda veicolati dai mezzi di informazione. Secondo questi, noi saremmo di fronte ad uno scontro tra, da un lato, il “male”, la “dittatura” (Putin) e dall’altro il “bene”, la “democrazia” (Zelensky e i suoi sostenitori occidentali). Una tale propaganda era evidentemente meno efficace nel 2003 quando il “boss” della “Grande democrazia americana”, Bush junior, ha fatto la stessa cosa di Putin scatenando la guerra contro l’Iraq (utilizzazione di una grande menzogna, violazione della “legge internazionale” dell’ONU, uso di armi “proibite”, bombardamento delle popolazioni civili, “crimini di guerra”).
Ciò detto, è necessario avere presente l’analisi che la CCI ha sviluppato sulla questione dell’”anello debole”, mettendo avanti la differenza tra il proletariato dei paesi centrali, e in particolare quello dell’Europa occidentale, e quello dei paesi della periferia e del fu blocco “socialista” (vedere in particolare gli articoli “Critica della teoria dell’anello debole: il proletariato dell’Europa occidentale al centro della generalizzazione della lotta di classe”, Rivista Internazionale n.7, novembre 1983 – e: “Debate: On the critique of the theory of the "weakest link", International Review n.37). La guerra fra la Russia e l’Ucraina sottolinea la grande debolezza politica del proletariato di questi paesi. La guerra attuale avrà un impatto politico negativo anche sul proletariato dei paesi centrali ma questo non significa che il bombardamento sulle idee democratiche a cui è sottoposto lo paralizzi definitivamente. In particolare, già adesso esso subisce le conseguenze di questa guerra attraverso gli attacchi economici che accompagnano la spettacolare crescita dell’inflazione (che era cominciata prima della guerra, ma accentuata da questa). Necessariamente esso dovrà riprendere il cammino della lotta di classe contro questi attacchi.
“Nell'attuale situazione storica, l'intervento dei comunisti all'interno della classe è determinato, oltre che dall'aggravarsi considerevole della crisi economica e degli attacchi che ne risultano contro l'insieme del proletariato, da:
- l'importanza fondamentale della questione della guerra,
- il ruolo decisivo dei rivoluzionari nella presa di coscienza da parte della classe della gravità della posta in gioco presente.
È importante dunque che questa questione figuri in permanenza in primo piano nella propaganda dei rivoluzionari. E nei periodi, come quelli attuali, in cui questa questione si trova nei primi piani dell'attualità internazionale, è importante che essi mettano a profitto la particolare sensibilizzazione degli operai a questo riguardo, dandovi una priorità ed una insistenza tutta particolare.
In particolare, le organizzazioni rivoluzionarie avranno il dovere di vegliare e:
- denunciare le manovre dei sindacati che fingono di chiamare per delle lotte economiche per meglio far passare la politica di guerra (per esempio, nel nome d'una "giusta divisione" dei sacrifici tra operai e padroni);
- denunciare con forza l'ipocrisia ripugnante dei "gauchistes" che, in nome "dell'internazionalismo" e della "lotta contro l'imperialismo", chiamano nei fatti a sostenere uno dei campi imperialisti;
- mostrare la vera natura delle campagne pacifiste, che costituiscono un mezzo privilegiato per smobilitare la classe operaia nella sua lotta contro il capitalismo, trattenendola sul putrido terreno dell'interclassismo;
- sottolineare tutta la gravita della posta in gioco presente, soprattutto comprendendo pienamente tutte le implicazioni dei cambiamenti considerevoli che sta subendo il mondo, e particolarmente il periodo di caos nel quale è entrato.” (Ibidem, punto 15)
7) Questi orientamenti formulati più di 30 anni fa restano interamente validi oggi. Ma, nella nostra propaganda di fronte alla guerra imperialista, è anche necessario ricordare la nostra analisi sulla condizione della generalizzazione delle lotte rivoluzionarie, analisi sviluppata in particolare nel nostro testo del 1981 “Le condizioni storiche della generalizzazione della lotta della classe operaia” (Rivoluzione Internazionale n.27 e 28). Per decenni i rivoluzionari, basandosi sugli esempi della Comune di Parigi (seguita alla guerra franco-prussiana), della rivoluzione del 1905 in Russia (durante la guerra russo-giapponese), del 1917 in questo stesso paese, del 1918 in Germania, hanno pensato che la guerra imperialista creava le migliori condizioni per la rivoluzione proletaria, o anche che questa non poteva scaturire che dalla guerra mondiale. È un’analisi ancora molto diffusa fra i gruppi della Sinistra Comunista, cosa che spiega in parte la loro incapacità a capire la questione del corso storico. Solo la CCI ha rimesso chiaramente in discussione questa analisi per tornare all’analisi “classica” sviluppata da Marx ed Engels ai loro tempi (e in parte da Rosa Luxemburg) che considerava che la lotta rivoluzionaria del proletariato sarebbe scaturita dal crollo economico del capitalismo e non dalla guerra fra Stati capitalisti.
Possiamo riassumere così gli argomenti posti a sostegno della nostra analisi:
1. Se in un paese la guerra provoca delle reazioni di massa da parte del proletariato, la borghesia dispone di una carta maggiore per tagliare l’erba sotto i piedi di queste reazioni: l’arresto delle ostilità, l’uscita dalla guerra. È quello che è avvenuto nel novembre del 1918 in Germania, dove la borghesia, istruita dall’esempio della rivoluzione in Russia, ha immediatamente firmato l’armistizio con i paesi dell’Intesa qualche giorno dopo l’insurrezione dei marinai del Baltico. Invece nessuna borghesia è capace di superare le convulsioni economiche che sarebbero alla base delle lotte di massa e generalizzate del proletariato.
2. “… la guerra produce dei vincitori come dei vinti, nello stesso momento in cui si sviluppa la collera rivoluzionaria contro la borghesia si sviluppa nella popolazione anche una tendenza alla vendetta. E questa tendenza vendicativa penetra fino nei ranghi dei rivoluzionari, come testimoniato dalla tendenza del “nazional-comunismo” nel KAPD e la lotta contro il trattato di Versailles che diventerà l’asse della propaganda del KPD. Peggio ancora è l’effetto prodotto sugli operai dei paesi vincitori. Come dimostrato già dal primo dopoguerra e ancora di più dal secondo, quello che prevale, affianco a una reale e lenta ripresa della lotta di classe, è uno spirito di rilassamento, se non un puro e semplice spirito sciovinista”. (Rivoluzione Internazionale n. 27 e 28)
3. La borghesia ha tirato gli insegnamenti della Prima Guerra mondiale e dell’ondata rivoluzionaria che questa provocò. Da una parte essa ha constatato che aveva bisogno di uno schiacciamento politico profondo del proletariato nei paesi centrali prima di impegnarsi nella Seconda Guerra mondiale. È quello che fu realizzato con l’istaurazione del terrore nazista in Germania e dell’arruolamento antifascista nei paesi degli Alleati. Dall’altra parte la classe dominante ha preso molteplici misure per prevenire o soffocare all’origine ogni sollevazione proletaria nel corso o alla fine della guerra, in particolare nei paesi vinti.
"In Italia, dove più forte era il pericolo, la borghesia, come abbiamo visto, si affretta a cambiare regime e poi alleanze. Nell'autunno del 1943 l'Italia è divisa in due, con il sud in mano agli alleati e il resto occupato dai nazisti; su consiglio di Churchill ("bisogna lasciar cuocere l'Italia nel suo brodo"), gli alleati ritardano la loro avanzata verso il nord ottenendo così due risultati: da un lato si lascia all'esercito tedesco il compito di reprimere il movimento proletario, dall'altro si consente alle forze "antifasciste" il compito di deviare questo stesso movimento dal terreno di una lotta anticapitalista a quello della lotta antifascista.(…)
In Germania, forte dell'esperienza del primo dopoguerra, la borghesia mondiale ha condotto un'azione sistematica per evitare il ritorno di avvenimenti simili a quelli del 1918-19. In primo luogo, poco prima della fine della guerra, gli Alleati procedono a uno sterminio di massa delle popolazioni dei quartieri operai attraverso bombardamenti senza precedenti di grandi città come Amburgo o Dresda, dove, il 13 febbraio 1945, 135.000 persone (il doppio di Hiroshima) muoiono sotto le bombe. Questo obiettivo non aveva nessun valore militare (e d'altra parte le armate tedesche erano già in piena rotta): si tratta in realtà di terrorizzare ed impedire ogni organizzazione del proletariato. In secondo luogo, gli Alleati rigettano ogni proposta di armistizio fino a che non hanno occupato la totalità del territorio tedesco: essi vogliono amministrare direttamente questo territorio sapendo che la borghesia tedesca vinta rischia di non essere capace di controllare da sola la situazione. Infine, dopo la capitolazione di questa, e in stretta collaborazione con essa, gli Alleati trattengono per lunghi mesi i prigionieri di guerra tedeschi, al fine di evitare la miscela esplosiva che il loro ricongiungimento con la popolazione civile avrebbe potuto costituire.
In Polonia, nel corso della seconda metà del 1944, è l'Armata Rossa che lascia lo sporco compito di massacrare gli operai insorti a Varsavia alle forze naziste: l'Armata Rossa aspettò dei mesi a pochi chilometri da Varsavia che le truppe tedesche soffocassero la rivolta. La stessa cosa avvenne a Budapest all'inizio del 1945.” (La lotta di classe contro la guerra imperialista. Le lotte operaie nell'Italia del 1943, Rivista Internazionale n. 17).
4. L’insurrezione rivoluzionaria del proletariato durante la Prima Guerra mondiale era stata favorita dalle caratteristiche di questa: predominanza di scontri tra fanterie, guerra di trincea che favoriva la fraternizzazione tra i soldati dei due campi che si trovavano per lunghi periodi a qualche metro gli uni dagli altri. La Seconda Guerra mondiale non ha preso la forma di una guerra di trincea; essa è stata caratterizzata dall’uso massiccio di mezzi meccanici e tecnologici, in particolare i blindati e l’aviazione, una tendenza che da allora non ha fatto che rafforzarsi in maniera crescente; gli Stati ricorrono ad eserciti di mestiere capaci di utilizzare armi sempre più sofisticate, il che limita in maniera maggiore la possibilità di fraternizzazione diretta fra i combattenti dei due campi. Infine, ultimo ma non meno importante, una terza guerra mondiale farebbe ricorso, prima o poi, all’arma nucleare, cosa che risolve in maniera radicale la questione di un’insurrezione proletaria durante il suo svolgimento.
8) In passato abbiamo fatto la critica della parola d’ordine del “disfattismo rivoluzionario”. Questa parola d’ordine avanzata nel corso della Prima Guerra mondiale, in particolare da Lenin, si basava su una preoccupazione fondamentalmente internazionalista: la denuncia delle menzogne dei socialsciovinisti che affermavano che era necessario che il proprio paese vincesse la guerra per permettere ai proletari di questo paese di impegnarsi nella lotta per il socialismo. Di fronte a queste menzogne, gli internazionalisti affermarono che non era la vittoria di un paese che favoriva la lotta dei proletari di questo paese contro la loro borghesia, ma, al contrario, la sua sconfitta (come avevano mostrato gli esempi della Comune di Parigi dopo la sconfitta di fronte alla Prussia e della Rivoluzione del 1905 seguita alla sconfitta della Russia rispetto al Giappone). In seguito questa parola d’ordine del “disfattismo rivoluzionario” è stato interpretato come l’augurio da parte del proletariato di ogni paese di vedere la sconfitta della propria borghesia al fine di favorire la lotta per il rovesciamento di questa, cosa che, evidentemente, volta le spalle a un vero internazionalismo. In realtà Lenin stesso (che nel 1905 aveva salutato la sconfitta della Russia di fronte al Giappone) ha soprattutto messo avanti la parola d’ordine di “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile” che costituiva una concretizzazione dell’emendamento che aveva presentato, in compagnia di Rosa Luxemburg e di Martov, e fatto adottare al Congresso di Stoccarda dell’Internazionale Socialista nel 1907: “Nel caso in cui la guerra scoppiasse [i partiti socialisti] hanno il dovere di mobilitarsi immediatamente per farla subito cessare e di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e accelerare la caduta del domino capitalista.”
La rivoluzione in Russia del 1917 ha costituito una concretizzazione eclatante della parola d’ordine “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile”. I proletari hanno rivolto contro i loro sfruttatori quelle armi che questi ultimi gli avevano fornito per massacrare i loro fratelli di classe degli altri paesi. Ciò detto, come detto prima, anche se non è escluso che dei soldati possano ancora rivolgere le loro armi contro i loro ufficiali (durante la guerra in Vietnam è successo che dei soldati americani uccidessero “per caso” dei superiori gerarchici), tali fatti non potrebbero essere che di un’ampiezza molto limitata e non potrebbero in alcun modo costituire la base di un’offensiva rivoluzionaria. È per questo motivo che nella nostra propaganda conviene mettere avanti non solo la parola d’ordine “disfattismo rivoluzionario” ma anche quello della “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile”.
Più in generale, è responsabilità dei gruppi della Sinistra Comunista fare il bilancio delle prese di posizione dei rivoluzionari di fronte alla guerra in passato, mettendo in evidenza quello che resta valido (la difesa dei principi internazionalisti) e quello che non lo è più (le parole d’ordine “tattiche”). In questo senso se la parola d’ordine “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile” non può d’ora in avanti costituire una prospettiva realista, bisogna al contrario sottolineare la validità dell’emendamento adottato al Congresso di Stoccarda del 1907, e in particolare l’idea che i rivoluzionari “hanno il dovere di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e accelerare la caduta del domino capitalista.” Questa parola d’ordine non è evidentemente realizzabile nell’immediato, data la situazione attuale di debolezza del proletariato, ma resta una potente indicazione per l’intervento dei comunisti nella classe.
CCI, maggio 2022
[1] Tutti gli articoli citati dalla International Review sono disponibili anche in spagnolo e francese nei rispettivi numeri della Rivista in queste lingue