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Crisi economica
1. La risoluzione adottata dal precedente congresso della CCI metteva subito in evidenza la pungente smentita inflitta dalla realtà alle previsioni ottimiste dei dirigenti della classe borghese all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, particolarmente dopo il crollo di questo “Impero del male” che costituiva il blocco imperialista detto “socialista”. Essa citava in particolare l’ormai famosa dichiarazione del presidente George Bush senior del marzo 1991 che annunciava la nascita di un “Nuovo ordine mondiale” basato sul “rispetto del diritto internazionale” e sottolineava il suo carattere surrealista di fronte al caos crescente in cui sprofonda oggi la società capitalista. Venti anni dopo questi discorsi “profetici”, e particolarmente dopo l’inizio di questo nuovo decennio, mai, dalla fine della seconda guerra mondiale, il mondo aveva mostrato un volto così caotico. A poche settimane di distanza abbiamo assistito ad una nuova guerra in Libia, che viene ad aggiungersi alla lista di tutti i conflitti sanguinosi che hanno toccato il pianeta nel corso dell’ultimo periodo, a dei nuovi massacri in Costa d’Avorio ed ancora alla tragedia che ha toccato uno dei paesi più potenti e moderni del mondo, il Giappone. Il terremoto che ha devastato una parte di questo paese ha sottolineato ancora una volta che non esistono “catastrofi naturali” ma solo delle conseguenze catastrofiche a dei fenomeni naturali. Ha mostrato che la società dispone oggi dei mezzi necessari per costruire edifici capaci di resistere ai terremoti e che permetterebbero di evitare tragedie come quelle di Haiti l’anno scorso. Ma ha anche mostrato tutta l’imprevidenza di cui ha dato prova uno Stato pur così avanzato come il Giappone: il terremoto in sé ha provocato ben poche vittime ma lo tsunami che l’ha seguito ha falciato circa 30 000 esseri umani in pochi minuti. Ma non basta: provocando una nuova Chernobyl, ha messo in luce non solo l’imprevidenza della classe dominante, ma anche il suo incedere da apprendista stregone, incapace di controllare le forze che essa stessa ha messo in movimento. L’impresa Tepco, che sfruttava l’energia della centrale atomica di Fukushima, non è la prima né tanto meno l’unica responsabile della catastrofe. E’ il sistema capitalista nel suo insieme, basato com’è sulla ricerca sfrenata del profitto e sulla competizione tra settori nazionali e non sulla soddisfazione dei bisogni dell’umanità, che è fondamentalmente responsabile delle catastrofi presenti e future subite dalla specie umana. In fin dei conti, la Chernobyl giapponese costituisce una nuova illustrazione del fallimento ultimo del modo di produzione capitalista, un sistema la cui sopravvivenza costituisce una minaccia crescente per la stessa sopravvivenza dell’umanità.
2. Evidentemente è la crisi che subisce attualmente il capitalismo mondiale che esprime più direttamente il fallimento storico di questo modo di produzione. Due anni fa la borghesia di tutti i paesi era presa da un timor panico di fronte alla gravità della situazione economica. L’OCSE non esitava a scrivere: “L’economia mondiale é in preda alla sua recessione più profonda e più sincronizzata degli ultimi decenni” (Rapporto intermedio del marzo 2009). Tenendo conto di tutta la moderazione con cui questa venerabile istituzione si esprime abitualmente, ci si può fare un’idea del terrore che avvertiva la classe dominante di fronte al fallimento potenziale del sistema finanziario internazionale, il crollo brutale del commercio mondiale (più del 13% nel 2009), la brutalità della recessione delle principali economie, l’ondata dei fallimenti che toccano o minacciano imprese emblematiche dell’industria come la General Motors o la Chrysler. Questo terrore della borghesia l’aveva condotta a convocare i vertici del G20 di cui quello del marzo 2009 a Londra decideva in particolare il raddoppio delle riserve del Fondo monetario internazionale e l’iniezione massiccia di liquidità nell’economia da parte degli Stati allo scopo di salvare un sistema bancario in difficoltà e rilanciare la produzione. Lo spettro della “Grande depressione degli anni ‘30” ossessionava gli spiriti cosa che conduceva la stessa OCSE a scongiurare tali demoni scrivendo: “Benché talvolta questa severa recessione mondiale sia stata qualificata come una ‘grande recessione’, siamo lontani da una nuova ‘grande depressione’ come quella degli anni ‘30, grazie alla qualità e all’intensità delle misure che i governi prendono attualmente” (Ibid.). Ma, come riportato nella risoluzione del 18° congresso[1], “una delle caratteristiche della classe dominante è di dimenticare oggi i discorsi fatti ieri” e lo stesso rapporto intermedio dell’OCSE della primavera 2011 esprime un vero sollievo di fronte al ripristino della situazione del sistema bancario e alla ripresa economica. La classe dominante non può fare altrimenti. Incapace di avere una visione lucida, globale e storica, sulle difficoltà che incontra il suo sistema perché tale visione la porterebbe a scoprire l’impasse definitiva in cui questo si trova, essa è costretta a commentare giorno per giorno le fluttuazioni della situazione immediata cercando di trovare in queste dei motivi di consolazione. Così facendo, essa viene spinta a sottovalutare la situazione anche se, di tanto in tanto, i mass-media adottano un tono allarmista a proposito del significato del principale fenomeno che è emerso negli ultimi due anni: la crisi del debito sovrano di un certo numero di Stati europei. Di fatto, il fallimento potenziale di un numero crescente di Stati costituisce una nuova tappa dell’inabissamento del capitalismo nella sua crisi insanabile. Essa mette in evidenza i limiti delle politiche con cui la borghesia é riuscita a frenare l’evoluzione della crisi capitalista degli ultimi decenni.
3. Sono ormai più di 40 anni che il sistema capitalista fa fronte alla crisi. Il Maggio 68 in Francia e l’insieme delle lotte proletarie che l’hanno seguito a livello internazionale hanno avuto una tale portata perché erano alimentati da un peggioramento globale delle condizioni di vita della classe operaia, peggioramento conseguente ai primi sintomi della crisi capitalista, tra cui l’aumento della disoccupazione. Questa crisi ha poi conosciuto una brutale accelerazione nel 1973-75 con la prima grande recessione internazionale del dopoguerra. In seguito, nuove recessioni ogni volta più profonde ed estese hanno sconvolto l’economia mondiale fino a culminare in quella del 2008-2009 che ha riportato alla mente lo spettro degli anni ’30. Le misure adottate dal G20 del marzo 2009 per evitare una nuova “Grande Depressione” sono significative della politica condotta da diversi decenni dalla classe dominante: esse si riassumono nell’iniezione nelle economie di masse considerevoli di crediti. Tali misure non sono nuove. Di fatto, da oltre 35 anni, queste costituiscono il cuore delle politiche condotte dalla classe dominante per cercare di scappare alla principale contraddizione del modo di produzione capitalista: l’incapacità a trovare dei mercati solvibili capaci di assorbire la sua produzione. La recessione del 1973-75 era stata superata attraverso massicci crediti ai paesi del Terzo Mondo ma, dall’inizio degli anni ‘80, con la crisi del debito di questi paesi, la borghesia dei paesi più avanzati aveva dovuto rinunciare a questo polmone per la sua economia. Sono quindi gli Stati dei paesi più avanzati, e primo fra tutti gli Stati Uniti, che hanno preso il posto di “locomotive” dell’economia mondiale. La “reaganomics” (politica neoliberale dell’Amministrazione Reagan) dell’inizio degli anni 80, che aveva permesso un rilancio significativo dell’economia di questo paese, era basata sulla creazione di deficit budgetari inediti e considerevoli nello stesso momento in cui Ronald Reagan dichiarava che “lo Stato non è la soluzione ma il problema”. Contemporaneamente, i deficit commerciali anch’essi considerevoli di questa potenza permettevano alle merci prodotte dagli altri paesi di trovare uno sbocco. Nel corso degli anni ‘90, le “tigri” e i “dragoni” asiatici (Singapore, Taiwan, Corea del Sud, ecc.) hanno accompagnato per un certo tempo gli Stati Uniti in questo ruolo di “locomotiva”: i loro spettacolari tassi di crescita ne facevano una destinazione importante per le merci dei paesi più industrializzati. Ma questa “storia di successo” è stata costruita a prezzo di un indebitamento considerevole che ha condotto questo paese a delle convulsioni importanti nel 1997 così come la Russia “nuova” e “democratica” che si è ritrovata insolvente, cosa che ha amaramente deluso quelli che avevano puntato sulla “fine del comunismo” per rilanciare in maniera durevole l’economia mondiale. All’inizio degli anni 2000 l’indebitamento ha conosciuto una nuova accelerazione, particolarmente grazie all’enorme sviluppo dei mutui ipotecari per la costruzione in diversi paesi, in particolare negli Stati Uniti. Quest’ultimo paese ha allora accentuato il suo ruolo di “locomotiva dell’economia mondiale”, ma al prezzo di una crescita abissale dei debiti, – particolarmente tra la popolazione americana – debiti basati su ogni sorta di “prodotti finanziari” ritenuti capaci di scongiurare il rischio di cessazione dei pagamenti. In realtà, la dispersione dei crediti sospetti non ha assolutamente abolito il loro carattere di spada di Damocle sospesa sull’economia americana e mondiale. Al contrario essa ha fatto accumulare nel capitale delle banche gli “attivi tossici” che sono stati all’origine del loro crollo a partire dal 2007 e della brutale recessione mondiale del 2008-2009.
4. Come riportato nella risoluzione adottata al precedente congresso, “non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria non fa che illustrare il fatto che la fuga in avanti nell’indebitamento - che aveva permesso di superare i problemi della sovrapproduzione - non può proseguire all’infinito. Prima o poi, l’“economia reale” si vendica, perché quello che è alla base delle contraddizioni del capitalismo, la sovrapproduzione, l’incapacità dei mercati ad assorbire la totalità delle merci prodotte, torna in primo piano.” Dopo il vertice del G20 del marzo 2009 questa stessa risoluzione precisava che “la fuga in avanti nell’indebitamento è uno degli ingredienti della brutalità della recessione attuale. La sola “soluzione” che sia capace di mettere in piedi la borghesia è … una nuova fuga in avanti nell’indebitamento. Il G20 non ha potuto inventare una soluzione alla crisi per la semplice ragione che non ne esistono.”.
La crisi dei debiti sovrani che si propaga oggi, il fatto che gli Stati siano incapaci di onorare i loro debiti, costituisce un’illustrazione spettacolare di questa realtà. Il potenziale fallimento del sistema bancario e la recessione hanno obbligato tutti gli Stati a iniettare delle somme considerevoli nelle loro economie mentre le vendite erano in caduta libera per la riduzione della produzione. Per questo motivo i deficit pubblici hanno conosciuto, nella gran parte dei paesi, un aumento considerevole. Per i più esposti tra questi, come l’Irlanda, la Grecia o il Portogallo, ciò ha significato una situazione di potenziale fallimento, l’incapacità di pagare i loro funzionari e di rimborsare i loro debiti. Le banche si rifiutano ormai di consentire nuovi prestiti, se non a dei tassi esorbitanti poiché non hanno più alcuna garanzia di poter essere rimborsate. I “piani di salvataggio” di cui esse hanno beneficiato da parte della Banca europea e del Fondo monetario internazionale costituiscono dei nuovi debiti il cui rimborso si aggiunge a quello dei debiti precedenti. E’ più che un circolo vizioso, è una spirale infernale. La sola “efficacia” di questi piani consiste nell’attacco senza precedenti contro i lavoratori, contro i dipendenti pubblici i cui salari ed il cui numero vengono ridotti in maniera drastica, ma anche contro l’insieme della classe operaia attraverso sia i tagli nei settori dell’educazione, della salute e delle pensioni che l’aumento di tasse ed imposte. Ma tutti questi attacchi antioperai, tagliando selvaggiamente il potere d’acquisto dei lavoratori, non potranno che contribuire ad un’ulteriore nuova recessione.
5. La crisi del debito sovrano dei PIIGS (Portogallo, Islanda, Irlanda, Grecia, Spagna) costituisce solo una parte infima del terremoto che minaccia l’economia mondiale. Non è certo perché beneficiano ancora per il momento del rating[2] AAA[3] come indice di fiducia delle agenzie di rating (le stesse agenzie che, fino alla vigilia dello scompiglio delle banche del 2008, avevano accordato loro il rating massimo) che le grandi potenze industriali se la cavano molto meglio. Alla fine di aprile 2011, l’agenzia Standard and Poor’s emetteva un’opinione negativa di fronte alla prospettiva di un Quantitative Easing n°3, cioè di un terzo piano di rilancio dello Stato federale americano destinato a sostenere l’economia. In altri termini, la prima potenza mondiale corre il rischio di vedersi ritirata la fiducia “ufficiale” sulla sua capacità di rimborsare i suoi debiti, se non con un dollaro fortemente svalutato. Di fatto, in maniera ufficiosa, questa fiducia comincia a mancare con la decisione della Cina e del Giappone, dopo l’autunno scorso, di effettuare massicci acquisti di oro e di materie prime piuttosto che dei buoni del Tesoro americani, cosa che ha condotto la Banca federale americana a comprarne per il 70-90% alla loro emissione. Questa perdita di fiducia si giustifica perfettamente quando si constati l’incredibile livello di indebitamento dell’economia americana: nel gennaio 2010, l’indebitamento pubblico (Stato federale, singoli Stati federati, comuni, ecc.) rappresentava già all’incirca il 100% del PIL, ma questo costituiva solo una parte dell’indebitamento totale del paese (che comprende anche i debiti delle famiglie e delle imprese non finanziarie) che raggiungeva il 300% del PIL. E la situazione non era migliore per gli altri grandi paesi dove il debito totale ammontava nello stesso periodo al 280% del PIL per la Germania, 320% per la Francia, 470% per la Gran Bretagna ed il Giappone. In questi ultimi paesi, il debito pubblico ha da solo raggiunto il 200% del PIL. Successivamente, per tutti i paesi, la situazione é solo peggiorata nonostante i diversi piani di rilancio.
Pertanto il fallimento dei PIIGS costituisce solo la punta di un iceberg che nasconde il fallimento di un’economia mondiale che deve la sua sopravvivenza ormai da decenni alla disperata fuga in avanti nell’indebitamento. Gli Stati che dispongono della propria moneta come la Gran Bretagna, il Giappone e naturalmente gli USA hanno potuto mascherare questo fallimento stampando banconote a tutta forza (al contrario di quelli della zona Euro, come la Grecia, l’Irlanda o il Portogallo, che non dispongono di questa possibilità). Ma questa frode permanente degli Stati che sono diventati dei veri contraffattori, con a capo della gang lo Stato americano, non potrà proseguire indefinitamente così come non potevano proseguire le manipolazioni del sistema finanziario, come lo ha dimostrato la crisi di questo nel 2008 che non riuscita però a farlo esplodere. Uno dei segni visibili di questa realtà è l’attuale accelerazione dell’inflazione mondiale. Spostandosi dalla sfera delle banche a quella degli Stati, la crisi dell’indebitamento marca l’entrata del modo di produzione capitalista in una nuova fase della sua crisi acuta in cui si aggravano ulteriormente la violenza e l’estensione delle sue convulsioni. Non c’è via di “uscita dal tunnel” per il capitalismo. Questo sistema può solo condurre la società in una crescente barbarie.
Tensioni imperialiste
6. La guerra imperialista costituisce la massima manifestazione della barbarie verso cui il capitalismo decadente precipita la società umana. La storia tragica del 20° secolo ne costituisce la manifestazione più evidente: di fronte al vicolo cieco in cui si trova il suo modo di produzione, di fronte all’esacerbazione delle rivalità commerciali fra Stati, la classe dominante è spinta verso una fuga in avanti nelle politiche di guerra, negli scontri militari. Per la maggior parte degli storici, compresi quelli che non si richiamano al marxismo, è chiaro che la Seconda Guerra Mondiale è figlia della grande Depressione degli anni ’30. Analogamente, l’aggravamento delle tensioni imperialiste della fine degli anni ’70 e dell’inizio degli anni ’80 tra i due blocchi di allora, quello americano e quello russo (invasione dell’Afganistan da parte dell’URSS nel 1979, crociata contro “l’Impero del male” da parte dell’amministrazione Reagan) derivavano in gran parte dal ritorno della crisi aperta dell’economia capitalista alla fine degli anni sessanta. Tuttavia, la storia ha mostrato che questo legame tra l’aggravarsi degli scontri imperialisti e crisi economica del capitalismo non è diretto o immediato. L’intensificazione della “guerra fredda” si è alla fine conclusa con la vittoria del blocco occidentale e l’implosione del blocco avversario, che ha poi portato alla disgregazione del primo. Ma pur sfuggendo alla minaccia di una nuova guerra generalizzata che poteva portare alla sparizione della specie umana, il mondo non è stato risparmiato da un’esplosione delle tensioni e degli scontri militari: la fine dei blocchi rivali ha significato la fine della disciplina che essi riuscivano ad imporre nei loro rispettivi territori. Da allora, l’arena imperialista planetaria è dominata dal tentativo della prima potenza mondiale di mantenere la propria leadership sul mondo, e in primo luogo sui suoi antichi alleati. La 1a Guerra del Golfo, nel 1991, aveva già questo obiettivo, ma la storia degli anni ’90, in particolare la guerra in Jugoslavia, ha mostrato il fallimento di questa ambizione. La “guerra contro il terrorismo mondiale” dichiarata dagli Stati Uniti in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 voleva essere un nuovo tentativo per riaffermare la loro leadership, ma il loro esaurimento in Afganistan e in Iraq ha sottolineato ancora una volta l’incapacità di ristabilire questa leadership.
7. Questi fallimenti degli Stati Uniti non li hanno scoraggiati dal proseguire la politica offensiva che portano avanti dall’inizio degli anni ’90 e che fa degli USA il principale fattore di instabilità sulla scena mondiale. Come riportato nella risoluzione del precedente congresso: “Di fronte a questa situazione, Obama e la sua amministrazione non potranno fare altro che proseguire la politica bellicista dei loro predecessori (…); se Obama aveva previsto di ritirare le forze americane dall’Iraq, era per poter rafforzare l’intervento in Afghanistan e in Pakistan”. E’ quello che si è prodotto recentemente con l’esecuzione di Bin Laden da parte di un commando americano in territorio pakistano. Questa operazione “eroica” aveva evidentemente uno scopo elettorale ad un anno e mezzo dalle prossime elezioni presidenziali. Essa voleva in particolare contrastare le critiche dei repubblicani che rimproveravano ad Obama la sua debolezza nell’affermazione della preminenza degli Stati Uniti sul piano militare, critiche che si erano radicalizzate al momento dell’intervento in Libia in cui la leadership dell’operazione era stata lasciata al tandem franco-britannico. L’uccisione di Bin Laden voleva anche significare che, dopo aver fatto giocare a questi il ruolo del cattivo della storia per quasi 10 anni, era tempo di sbarazzarsene per evitare di sembrare impotenti. Facendo così, la potenza americana dava prova di essere la sola ad avere i mezzi militari, tecnologici e logistici per portare a termine questo tipo di operazione, giusto nel momento in cui la Francia e la Gran Bretagna facevano fatica a condurre a buon fine la loro operazione anti-Gheddafi. Essa voleva indicare al mondo che gli USA non esitano nemmeno a violare la “sovranità nazionale” di un “alleato”, che essi intendono fissare le regole del gioco ovunque lo ritengano necessario. Infine, questa uccisione è riuscita ad obbligare la maggior parte dei governi del mondo a salutare, spesso a malincuore, il valore di questa operazione.
8. Ciò detto, il colpo spettacolare riuscito ad Obama in Pakistan non può in alcun modo permettergli di stabilizzare la situazione nella regione, in particolare nello stesso Pakistan dove questo schiaffo assestato alla sua “fierezza nazionale” rischia di attizzare i vecchi conflitti tra diversi settori della borghesia e dell’apparato statale. Analogamente, la morte di Bin Laden non permetterà agli Stati Uniti e agli altri paesi impegnati in Afghanistan di riprendere il controllo del paese e di consolidare l’autorità del governo Karzai completamente minato dalla corruzione e dalle divisioni tribali. Più in generale, essa non permetterà per niente di mettere un freno alle tendenze al “ciascuno per sé” e alla contestazione dell’autorità della prima potenza mondiale che si continuano a manifestare, come si è recentemente visto con la costituzione di una serie di alleanze puntuali sorprendenti: riavvicinamento tra Turchia e Iran, alleanza tra Iran, Brasile e Venezuela (strategica e anti-USA), tra India e Israele (militare e come rottura dell’isolamento), tra Cina e Arabia Saudita (militare e strategica), ecc. In particolare, essa non potrebbe scoraggiare la Cina dal portare avanti le ambizioni imperialiste che il suo recente statuto di grande potenza industriale le permette. E’ chiaro che questo paese, malgrado la sua importanza demografica ed economica, non ha assolutamente i mezzi militari o tecnologici, né è pronto ad averli, per costituire la testa di un nuovo blocco. Tuttavia esso ha i mezzi per disturbare ancora di più le ambizioni americane – che sia in Africa, in Iran, nella Corea del Nord, in Birmania – e di dare il suo contributo all’instabilità crescente che caratterizza i rapporti imperialisti. Il “nuovo ordine mondiale” predetto 20 anni fa da Georg Bush padre, e che lui sognava sotto l’egida degli Stati Uniti, non può che presentarsi sempre più come un “caos mondiale”, un caos che le convulsioni dell’economia capitalista non potranno che aggravare ancora.
Lotta di classe
9. Di fronte al caos che investe la società borghese su tutti i piani - economico, guerriero ed anche ambientale - come abbiamo potuto vedere recentemente in Giappone – solo il proletariato può apportare un soluzione, la sua soluzione, la rivoluzione comunista. La crisi insolubile dell’economia capitalista, le convulsioni crescenti che la caratterizzano, costituiscono le condizioni oggettive di questa rivoluzione. E ciò da una parte obbligando la classe operaia a sviluppare sempre più le sue lotte di fronte agli attacchi drammatici che essa subisce da parte della classe sfruttatrice. Dall’altra permettendole di comprendere che queste lotte assumono tutto il loro significato come momenti di preparazione del suo scontro decisivo con un modo di produzione ormai condannato dalla storia - il capitalismo – in vista del suo rovesciamento.
Tuttavia, come riportato nella risoluzione del precedente congresso internazionale: “Il cammino che porta alle lotte rivoluzionarie e al rovesciamento del capitalismo é ancora lungo e difficile. (…) Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia, é necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa.” Più nell’immediato la risoluzione precisava che “la forma principale che prende oggi questo attacco, quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti. (…) Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più”.
10. I due anni che ci separano dal precedente congresso hanno ampiamente confermato questa previsione. Questo periodo non ha conosciuto lotte ampie contro i licenziamenti di massa e contro la crescita senza precedenti della disoccupazione subiti dalla classe operaia nei paesi più sviluppati. Al contrario, è a partire dagli attacchi portati direttamente dai governi in applicazione dei piani di “risanamento dei conti pubblici” che hanno cominciato a svilupparsi delle lotte significative. Questa risposta è ancora molto timida, particolarmente là dove questi piani di austerità hanno preso le forme più violente, in paesi come la Grecia o la Spagna per esempio dove, tuttavia, la classe operaia aveva dato prova nel recente passato di una combattività relativamente importante. In un certo modo sembra che la brutalità stessa degli attacchi provochi un sentimento d’impotenza nei ranghi operai, tanto più che questi attacchi sono condotti da governi “di sinistra”. Paradossalmente é proprio là dove questi attacchi sembrano meno violenti, come in Francia, che la combattività operaia si è espressa più massicciamente, con il movimento contro la riforma delle pensioni dell’autunno 2010.
11. Allo stesso tempo i movimenti più di massa che si siano conosciuti nel corso dell’ultimo periodo non sono venuti dai paesi più industrializzati ma dai paesi della periferia del capitalismo, particolarmente in un certo numero di paesi del mondo arabo, e specificamente la Tunisia e l’Egitto dove, alla fine, dopo aver tentato di soffocarli con una feroce repressione, la borghesia è stata costretta a licenziare i dittatori del posto. Questi movimenti non erano delle lotte operaie classiche come ce n’erano state in questi stessi paesi in un recente passato (vedi ad esempio le lotte a Gafsa in Tunisia nel 2008 o gli ampi scioperi nell’industria tessile in Egitto, durante l’estate del 2007, che ricevettero la solidarietà attiva da parte di numerosi altri settori). Infatti hanno preso spesso la forma di rivolte sociali in cui si trovavano associati ogni sorta di settore della società: lavoratori del settore pubblico e privato, disoccupati, ma anche dei piccoli commercianti, degli artigiani, le professioni libere, la gioventù scolarizzata, ecc. E’ per questo che il proletariato, il più delle volte, non è comparso direttamente in maniera distinta (come è apparso, per esempio, negli scioperi in Egitto verso la fine delle rivolte), ancor meno assumendo il ruolo di forza dirigente. Tuttavia, all’origine di questi movimenti (cosa che si rifletteva in molte delle rivendicazioni portate avanti) si trova fondamentalmente le stesse cause che sono all’origine delle lotte operaie negli altri paesi: l’aggravamento considerevole della crisi, la miseria crescente che questa provoca all’interno di tutta la popolazione non sfruttatrice. E se in generale il proletariato non é apparso direttamente come classe in questi movimenti, la sua impronta era ben presente in questi paesi dove ha avuto un peso notevole, particolarmente attraverso la profonda solidarietà che si è manifestata nelle rivolte, la loro capacità di evitare di lanciarsi in atti di violenza cieca e disperata malgrado la terribile repressione che hanno dovuto affrontare. In fin dei conti, se la borghesia in Tunisia e in Egitto si é finalmente decisa, spinta anche dai buoni consigli della borghesia americana, a sbarazzarsi dei vecchi dittatori, è in gran parte a causa della presenza della classe operaia in questi movimenti. Una delle prove, in negativo, di questa realtà, é l’involuzione che hanno conosciuto i movimenti in Libia: non il rovesciamento del vecchio dittatore Gheddafi ma lo scontro militare tra cricche borghesi dove gli sfruttati sono stati arruolati come carne da cannone. In questo paese, una gran parte della classe operaia era costituita da lavoratori immigrati (egiziani, tunisini, cinesi, subsahariani, bengalesi) la cui reazione principale è stata di fuggire di fronte alla repressione che si è abbattuta con ferocia dai primi giorni.
12. La degenerazione in conflitto armato del movimento in Libia, con l’entrata in gioco dei paesi della NATO, ha permesso alla borghesia di promuovere delle campagne di mistificazione nei confronti degli operai dei paesi avanzati la cui reazione spontanea era stata di sentirsi solidali con i manifestanti di Tunisi e del Cairo e di salutare il loro coraggio e la loro determinazione. In particolare, la presenza massiccia delle giovani generazioni nel movimento, specialmente della gioventù scolarizzata il cui avvenire si presenta sotto gli auspici sinistri della disoccupazione e della miseria, faceva eco ai recenti movimenti che hanno animato la gioventù studentesca in numerosi paesi europei nell’ultimo periodo: movimento contro il CPE in Francia della primavera del 2006, rivolte e scioperi in Grecia alla fine del 2008, manifestazioni e scioperi degli studenti di scuola e università in Gran Bretagna alla fine 2010, movimenti studenteschi in Italia nel 2008 e negli Stati Uniti nel 2010, ecc.). Queste campagne borghesi per snaturare, agli occhi dei lavoratori degli altri paesi, il significato delle rivolte in Tunisia ed in Egitto, sono state evidentemente facilitate dalle illusioni che pesano fortemente sulla classe operaia di questi paesi: le illusioni nazionaliste, democratiche e sindacaliste in particolare, come fu d’altra parte il caso nel 1980-81 con la lotta del proletariato polacco.
13. Questo movimento di trent’anni fa aveva permesso alla CCI di elaborare la sua analisi critica della teoria dell’anello debole sviluppata particolarmente da Lenin al momento della rivoluzione in Russia. La CCI, basandosi sulle posizioni elaborate da Marx ed Engels, aveva messo avanti a questo punto l’idea che fosse dai paesi centrali del capitalismo, e particolarmente dai vecchi paesi industrializzati dell’Europa occidentale, che venisse il segnale della rivoluzione proletaria mondiale, per la concentrazione del proletariato di questi paesi, e più ancora per la sua esperienza storica, e che gli danno le armi migliori per evitare finalmente le trappole ideologiche più sofisticate messe in atto da tempo dalla borghesia. Così, una delle tappe fondamentali del movimento della classe operaia mondiale nell’avvenire sarà costituita non solo dallo sviluppo delle lotte di massa nei paesi centrali dell’Europa occidentale, ma anche dalla loro capacità di evitare le trappole democratiche e sindacali, in particolare attraverso una presa in mano di queste lotte da parte dei lavoratori stessi. Questi movimenti costituiranno un faro per la classe operaia mondiale, compresa quella della principale potenza capitalistica, gli Stati Uniti, la cui caduta in una miseria crescente, una miseria che tocca già decine di milioni di lavoratori, sta trasformando il “sogno americano” in un vero incubo.
CCI (maggio 2011)
[2] Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari, che le imprese (vedi anche modelli di rating IRB secondo Basilea 2) in base alla loro rischiosità. In questo caso, essi si definiscono rating di merito creditizio (https://it.wikipedia.org/wiki/Rating).
[3] AAA = indice di rating che corrisponde ad una situazione di elevata capacità di ripagare il debito.