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Dalla fine degli anni ’60 ad oggi il sistema economico internazionale si trova in una diffusa fase di crisi, ma i tassi di crescita del PIL globale sono positivi dal secondo dopoguerra. Non è un paradosso se si scopre che dietro la crescita si nasconde l’ammontare crescente del debito. Un’economia basata sul debito permette agli operatori, pubblici o privati che siano, di creare liquidità e quindi di speculare. È il caso in cui il denaro genera denaro.
Oggi, essendo il capitalismo un sistema complesso, il battito d’ali di una farfalla in Brasile genera uno tsunami in Giappone. Lo abbiamo visto alla fine del 2006 con la crisi del settore edilizio negli Stati Uniti: l’insolvenza dei mutui subprime (ad alto tasso di interesse) ha innescato una reazione a catena provocando il fallimento di numerose agenzie di credito. Da allora la parola catastrofe è circolata tra politici ed economisti, e la stima delle cifre non ha smesso di aumentare. L’ultima stima che gli economisti del Fondo Monetario Internazionale fanno della perdita potenziale è 945 miliardi di dollari. (Il Sole 24 Ore, 9 Aprile 2008).
Sull’altra faccia della medaglia si trova il capitale industriale. Il sistema di produzione attuale non prevede un rapporto razionale tra i bisogni umani e le merci effettivamente prodotte. Potremmo immaginare un gruppo di imprenditori in concorrenza che cercano di produrre la stessa merce ma ad un costo minore per venderla meglio, ma per fare ciò devono aumentare le unità prodotte senza tener conto della richiesta, entrando quindi in sovrapproduzione. Si avranno così una quantità di merci invendute che peseranno sul Capitale come profitto non realizzato. Siamo in regime di completa irrazionalità, in cui vengono disattesi i reali bisogni dell’umanità per la realizzazione di un profitto cieco e pericoloso.
Un’espressione diretta dell’irrazionalità del sistema produttivo sono le trasformazioni irreversibili imposte dall’uomo al sistema Terra. Da quando l’uomo è diventato agricoltore ha sempre trasformato la terra fecondandola e rendendola rigogliosa, disegnando paesaggi e creando luoghi bellissimi. Quello che si è fatto in epoca industriale assomiglia invece ad un tentativo di avvelenamento. Un disastro ecologico rappresenterebbe per l’economia umana la scomparsa di uno dei due termini fondamentali del rapporto: la natura. Di conseguenza si avrebbe la scomparsa del secondo che è l’uomo.
La risposta politica a questa serie di problemi diventa necessaria, ma non è sufficiente. Si veda il caso del protocollo di Kyoto. Una regolamentazione tra gli Stati per l’emissione degli elementi nocivi dove i paesi più inquinanti o non firmano, gli Stati Uniti, oppure sono esonerati dagli standard perché non partecipi dell’inquinamento del primo periodo industriale, Cina e India. La realtà è che industria, energia, trasporti e abitazioni, sono settori economici che trainano gli investimenti statali e privati, ma che se dovessero adattarsi a non inquinare sarebbero puniti dalla competizione sul mercato internazionale. Senza poi contare la “borsa delle emissioni”, dove al mercato si può comprare la possibilità di inquinare.
La marea distruttiva non interessa solo l’ambiente. Con la dissoluzione del blocco dell’Est, cominciata nel 1989, è venuto a mancare quell’equilibrio tra le potenze imperialiste che reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale. Dal 1991 in poi abbiamo avuto una serie di conflitti sanguinosi, in cui gli Stati Uniti hanno tentato di affermare la loro supremazia militare nel mondo cercando, di volta in volta, l’aiuto dei vecchi alleati occidentali. Il primo tentativo si ebbe con la guerra del Golfo a cui è seguita subito dopo la carneficina dell’ex-Jugoslavia, in cui Usa, Germania, Francia e Inghilterra non ricucirono la vecchia alleanza. Di seguito si sono diffusi numerosi conflitti su tutto il pianeta (Somalia, Kosovo, Albania) in cui tutte le maggiori potenze hanno cercato di far valere i propri interessi imperialisti. Affinché gli alleati si trovassero di nuovo al fronte tutti insieme ci volle l’attentato alle Torri Gemelle del 2001. È stata un ottima scusa per invadere quella che già era stata una zona calda, l’Afghanistan, e per continuare, con lo spauracchio delle armi di distruzione di massa, in Iraq due anni dopo.
La violenza utilizzata per l’affermazione della libertà democratica è la stessa che intercorre nei rapporti umani. Le condizioni dello sfruttamento hanno reso il lavoro bestiale, agiscono su quel campo che distingueva l’uomo dall’animale invertendone completamente i termini. È nel lavoro che l’uomo potrebbe esprimere i caratteri sociali della propria specie, nel lavoro potrebbe sfruttare la propria forza in modo volontario e cosciente; ma, dato lo stato dei rapporti umani, è nel lavoro che invece diventa un appendice della macchina produttiva del Capitale, una merce speciale, che vive e soprattutto muore sul lavoro. Marx, nei “Manoscritti” giovanili, mostra come la merce suprema, il denaro, influenzi la vita umana. Questo, con la sua “potenza sovvertitrice”, agisce sull’immagine del possessore che si rispecchia nel denaro stesso e diventa ciò che può pagare. Agisce inoltre sull’individuo e sui vincoli sociali apparentemente immutabili, “muta l’amore in odio e l’odio in amore”( K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pag. 120).
Con la dissoluzione della comunità, del vivere comune, l’uomo è votato alla depressione, all’angoscia. L’isolamento sociale lede la dignità umana e la fiducia in se stessi al punto di generare la scomparsa di una prospettiva futura e far nascere un culto esasperato del presente. Si tende a negare la possibilità di un progetto capace di edificare una società superiore e si afferma una propensione relativistica che porta all’abbandono di uno spazio etico comune.
La rinuncia ad una prospettiva comune porta ad interessarsi ad una serie di progetti. Uno è l’ecologismo, che si basa sulla convinzione della possibilità di un mantenimento dello sviluppo economico compatibile con l’equità sociale e con il rispetto del pianeta. Dall’altra parte ci sono invece i sostenitori della Decrescita, secondo i quali la crescita economica comporterebbe sempre un maggiore impatto ecologico. In generale, entrambi cercano una qualità di vita migliore di quella attuale, un maggiore egualitarismo tra i membri della società: affrontano il presente in maniera problematica cercando una possibile strada per il futuro nell’ecologia.
Esistono, poi, degli episodi in cui gruppi di individui si aggregano per la coabitazione a diverse scale. In tutte le megalopoli odierne i casi di co-abitazione coatta, per far fronte a tasse ed affitti, sono molto numerosi. Non mancano però esempi di vere e proprie città di fondazione, diffuse soprattutto negli Usa, organizzate con l’intento di ottimizzare gli spazi ed alcune attività collettive. Queste intentional comunity (comunità intenzionali) si basano appunto sull’intenzione di risolvere problemi pratici che lo Stato non può risolvere. È quello che succede anche nelle periferie delle città francesi, dove gruppi di famiglie agiate si chiudono in quartieri-bunker e lasciano fuori la porta la violenza urbana.
Sono un po’ differenti gli esperimenti moderni di co-housing (co-abitazione), diffusi ormai in Europa come in America, che non assomigliano né alle comunità del socialismo-utopista (Fourier, Owen) e né tanto meno alle comunità hippie degli anni sessanta, entrambe fallimentari perché cercavano un tentativo di isolamento dalla società e dal sistema. In quelle moderne invece la pratica della coabitazione prevede la condivisione (possibile intorno alle 30 famiglie) di spazi comuni, come cucine, biblioteche, palestre, laboratori, spazi per i bambini, ecc.; pur sorgendo all’interno del sistema capitalistico come rifiuto dello stesso, ma allo stesso tempo sfruttandone i vantaggi. Le abitazioni sfruttano le tecnologie per il risparmio energetico e gli abitanti fanno la loro vita lavorativa fuori da questo tipo di unità-di-vicinato.
Viene da chiedersi se da questo tipo di esperienze possa venir fuori una soluzione in grado di abolire le odierne contraddizioni della società, e infine, che dia la possibilità di soddisfare i bisogni dell’intera popolazione del pianeta.
È sempre nelle città che compaiono altri tipi di reazioni alla patologia sociale, sintetizzabile nel non-senso della vita, un moderno nichilismo, ma che i filosofi idealisti elevano ad angoscia esistenziale. Si tratta di risposte individuali o collettive, distruttive o autodistruttive, esasperate dal carattere totalizzante di una società fondamentalmente ingiusta. Senza affrontare i pur importanti casi individuali del suicidio e dell’omicidio, o della droga, i quali hanno cifre statistiche terribilmente alte, si faranno due esempi molto vicini a noi. Il primo è la rivolta delle banlieu francesi nel 2005, dove il disagio dei giovani proletari delle periferie si e trasformato in una incondizionata violenza verso obbiettivi che nulla avevano a che vedere con la causa della loro condizione. L’incendio di automobili, l’attacco ad asili e stazioni dei pompieri quali simboli istituzionali, o peggio, i raid a scopo di rapina nelle manifestazioni degli studenti in lotta contro il CPE.
Un altro caso è l’intreccio tra la mafia e la popolazione giovanile del sud Italia. Potendo affermare che la disoccupazione è funzionale ad un sistema che non ha una domanda di lavoro costante, e inoltre, che tra i disoccupati si include il ceto dei non lavoratori (vagabondi, delinquenti, ecc.), allora al crescere della disoccupazione cresce anche la criminalità. Un area dove la disoccupazione raggiunge quote del 50% è un serbatoio dove gli eserciti criminali attingono manodopera. Comunque in entrambi i casi la violenza è frutto di un rapporto logoro instaurato tra gli uomini ed il lavoro e di conseguenza tra gli uomini e la comunità.
Di fronte a questa situazione complessiva che la maggioranza dell’umanità è costretta a vivere, di fronte alla mancanza di una prospettiva diversa dalla distruzione morale e fisica che questo sistema ci impone, come si può reagire?
È possibile prospettare una società diversa? E che tipo di società?
Per chiudere, una possibile risposta a questa serie di domande sta nella natura stessa dell’uomo, nella sua capacità di progettare, che lo distingue della bestia. Secondo Marx, l’uomo, con le sue azioni, non si limita solo a produrre un cambiamento di forma della realtà, ma realizza in essa il proprio scopo, che conosce già e che determina il suo operare, “e al quale egli deve subordinare la propria volontà” (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. V). Cos’è allora che limita l’uomo, che non gli permette di raggiungere la consapevolezza del cambiamento? Per reintegrare l’uomo nella natura, bisogna ridargli quella dignità negatagli da un sistema di sfruttamento e di appropriazione che incatena le forze potenziali dell’umanità.
19 aprile 2008, F.