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- il rigetto del riformismo e di ogni alleanza con qualsiasi forza borghese, anche con quelle cosiddette “progressiste” o di “sinistra”;
- la difesa della presa in mano delle lotte da parte degli operai stessi e non da parte di presunti “specialisti” quali le organizzazioni sindacali;
- e soprattutto l’internazionalismo!
Vogliamo qui in particolare salutare e sostenere la riflessione di questi compagni sul ruolo ed il posto che ha la violenza nelle lotte.
Il 5 maggio, in Grecia, tre lavoratori sono morti asfissiati in una banca in fiamme. Di fronte a questo tragico avvenimento il TPTG afferma nel suo testo: “La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria”.
Darsi ad una violenza cieca sarebbe infatti cadere nella trappola tesa dalla borghesia, sarebbe un segno di disperazione, d’impotenza, di “nichilismo” come scrive il TPTG.
Come affermano questi compagni, lo Stato esercita su di noi un vero e proprio terrore. Gli operai ergendosi di fronte a questo moloch devono necessariamente utilizzare anche loro una certa violenza. Lottare, fare sciopero, manifestare è già in sé un’espressione di violenza contro l’ordine del capitale.
Ma la classe operaia non può utilizzare qualsiasi tipo di violenza: l’omicidio, il linciaggio la vendetta cruenta, ad esempio, non appartengono alla lotta proletaria. Sono al contrario le stimmate di questa società barbara che è il capitalismo; appartengono alla borghesia, questa classe dominante pronta a tutto pur di difendere i suoi privilegi.
La violenza proletaria è tutt’altra cosa. Questa è frutto della riflessione collettiva, è organizzata; ha lo scopo di rovesciare questo sistema di sfruttamento e sostituirlo con una società senza classi né miseria. È comparabile all’atto apparentemente “violento” dell’ostetrica che libera il bambino durante il parto. La violenza proletaria deve anch’essa servire al parto di un nuovo mondo[2].
Tempi critici e soffocanti
Quello che segue è il resoconto della manifestazione del 5 maggio e di quanto avvenuto nei giorni seguenti, accompagnato da alcune riflessioni di carattere generale sulla situazione critica che il movimento greco sta attraversando. Malgrado si collochi all’interno di una fase parossistica di terrorismo finanziario, che cresce in ampiezza di giorno in giorno attraverso la minaccia costante della bancarotta dello Stato e i reiterati appelli a “fare sacrifici”, la risposta del proletariato, alla vigilia del voto delle nuove misure di austerità in Parlamento, è stata impressionante. Si è trattato, probabilmente, della più grande manifestazione di lavoratori dai tempi della fine della dittatura (più imponente persino di quella del 2001 che portò al ritiro del progetto di riforma delle pensioni).
Stimiamo che vi fossero almeno 200.000 manifestanti nelle strade del centro di Atene, e circa 50.000 di più nel resto del paese.
Vi sono stati scioperi pressoché in tutti i settori (…) del processo di (ri)produzione. È riapparsa sulla scena una moltitudine proletaria simile a quella che aveva preso possesso delle strade nel dicembre 2008 (anche in questa occasione i media della propaganda ufficiale hanno parlato, in termini peggiorativi, di “giovani incappucciati”), ugualmente armata di asce, mazze, martelli, bottiglie molotov, pietre, bastoni, maschere e occhialini anti-gas. Nonostante in alcuni casi i manifestanti mascherati siano stati accolti con grida di disapprovazione, allorché cercavano, talvolta con successo, di attaccare degli edifici, in generale si sono trovati in sintonia con questa marea variopinta, colorata di manifestanti inferociti. Gli slogan andavano dal rifiuto del sistema politico nel suo insieme – “Bruciamo il bordello parlamentare!” – alle parole d’ordine patriottiche – “Fuori dal FMI!” – o populiste – “Ladri!”, o anche “La gente esige che gli imbroglioni vadano in prigione”. (…) Gli slogan aggressivi contro i politici in generale, nel corso della giornata, sono diventati via via preponderanti.
Alla manifestazione indetta dalla GSEE-ADEDY (confederazione sindacale che include sia il settore pubblico che quello privato), i partecipanti hanno riempito la piazza a migliaia. Il presidente della GSEE è stato accolto da fischi e ululati, quando ha iniziato a parlare. (…) E quando la direzione del sindacato ha voluto ripetere la manovra che aveva già tentato una prima volta l'11 marzo scorso, per aggirare il grosso della manifestazione e prenderne la testa, solo in pochi l'hanno seguita...
La manifestazione convocata dal PAME (il “Fronte operaio” del KKE, il Partito comunista greco), è stata a sua volta imponente (oltre 20.000 persone) ed è arrivata in piazza Syntagma per prima. L’intenzione era quella di restarvi soltanto qualche istante, e di andarsene prima dell’arrivo del grosso del corteo. Tuttavia, i partecipanti alla manifestazione si sono fermati per lo più nella piazza, gridando slogan rabbiosi contro i politici. (…) Secondo il leader del KKE, si sarebbe trattato di provocatori fascisti (di fatto egli ha accusato il LAOS, partito che raccoglie un mix di militanti dell'ultra-destra e di nostalgici della Giunta dei colonnelli) che, brandendo le bandiere del PAME, avrebbero incitato i militanti del KKE a entrare di forza nel palazzo del Parlamento, screditando in tal modo la lealtà costituzionale del partito! Malgrado questa accusa possieda un qualche fondamento, poiché alcuni fascisti sono stati effettivamente visti sul posto, la verità – secondo alcune testimonianze – è che i dirigenti del KKE hanno avuto non poche difficoltà a convincere i propri militanti ad abbandonare rapidamente la piazza, e a non gridare slogan contro il Parlamento.
È forse troppo azzardato vedere in questo episodio un segno della disobbedienza montante verso le regole d’acciaio di questo partito monolitico; ma in tempi così incerti, nessun può davvero saperlo...
La settantina di fascisti che fronteggiavano le forze anti-sommossa insultavano i politici (“Politici, figli di puttana!”), cantavano l’inno nazionale e lanciavano pietre contro il palazzo del Parlamento, probabilmente con l’intenzione, rivelatasi vana, di evitare un’escalation di violenza.
Tuttavia, sono stati rapidamente riassorbiti dall’enorme ondata di manifestanti che nel frattempo aveva raggiunto la piazza.
Ben presto, una moltitudine di lavoratori (elettrici, postali, impiegati municipali etc,) ha cercato in tutti i modi di entrare nel palazzo del Parlamento, ma le migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa schierati sul piazzale antistante l’entrata glielo hanno impedito. Un altro gruppo di lavoratori, uomini e donne dall’età più disparate, ha preso a insultare e minacciare i poliziotti che si trovavano davanti alla Tomba del Milite Ignoto. Per quanto la polizia sia riuscita, grazie a un massiccio contrattacco con tanto di lancio di gas lacrimogeni, a disperdere la folla, altri gruppi di manifestanti continuavano ad affluire davanti al Parlamento, mentre i primi gruppi che erano stati costretti a battere in ritirata, si riorganizzavano in via Panepistimiou e in corso Syngrou. Qui, questi gruppi hanno iniziato a distruggere ogni cosa e hanno attaccato le forze anti-sommossa che si trovavano nelle strade adiacenti.
Nonostante la maggior parte dei grandi edifici del centro fossero stati protetti con imposte metalliche, i manifestanti sono riusciti ad attaccare alcune banche ed edifici pubblici. Si è potuto assistere a una vasta distruzione di proprietà, soprattutto in corso Syngrou. Qui, infatti, le forze di polizia non avevano sufficienti effettivi per reagire tempestivamente a questo gruppo di manifestanti poiché avevano ricevuto l’ordine di dare priorità alla protezione del Parlamento e all’evacuazione delle vie Panepistimiou e Stadiou, lungo le quali i manifestanti riconfluivano senza sosta verso il Parlamento stesso. Alcune automobili di lusso, un ufficio del Ministero delle Finanze e uno della Prefettura di Atene sono stati incendiati. Qualche ora più tardi, questa parte della città sembrava ancora una zona di guerra. Gli scontri si sono susseguiti per quasi tre ore. (…)È impossibile raccontare tutto quello che è accaduto per le strade. Riportiamo un solo episodio: alcuni insegnanti, insieme ad altri lavoratori, sono riusciti a circondare degli agenti del gruppo Delta – un nuovo corpo anti-sommossa che si sposta in moto – e hanno dato loro una buona dose di legnate, mentre i poliziotti gridavano: “Per favore, no! Siamo lavoratori anche noi!”.
I manifestanti che erano stati respinti verso via Panepestimiou, intanto, tornavano a gruppi verso il Parlamento, dove hanno a lungo fronteggiato la polizia. (…) Qui si sono nuovamente mescolati e si sono fermati. Un impiegato municipale di mezza età, che teneva delle pietre tra le mani, ci ha raccontato, commosso, come la situazione gli ricordasse i primi anni dopo la fine della dittatura, e la manifestazione del 1980 – alla quale partecipò – che commemorava gli avvenimenti del Politecnico e nel corso della quale la polizia uccise una donna di 20 anni, la lavoratrice Kanellopoulou.
Di lì a poco sono arrivate, tramite i telefoni cellulari, le terribili notizie battute dalle agenzie di stampa estere: 3 o 4 persone morte nell’incendio di una banca. C’era stato in effetti qualche tentativo di dar fuoco a delle banche, ma nella maggior parte dei casi, i manifestanti si erano fermati, poiché vi erano dei crumiri barricati all’interno. Solo lo stabile della Marfin Bank è stato dato effettivamente alle fiamme. Nondimeno, soltanto pochi minuti prima della tragedia, non erano affatto degli “hooligan mascherati” che gridavano “crumiri!” all’indirizzo degli impiegati della banca, ma dei gruppi organizzati di scioperanti, che li apostrofavano e li insultavano affinché lasciassero l’edificio. (…)
Date le dimensioni e la densità della manifestazione, il fracasso, i canti, evidentemente una certa confusione – naturale in situazioni come questa – rende difficile riferire con precisione ciò che è accaduto in quel tragico frangente. L’ipotesi che appare più plausibile (mettendo insieme i frammenti d’informazione raccolti da alcuni testimoni), è quella che in questa banca posta nel cuore della città, il giorno dello sciopero generale, circa 20 impiegati siano stati costretti dal loro padrone a lavorare, chiusi a chiave nell’edificio “per garantire la loro sicurezza”, e che tre di essi siano morti per asfissia. Inizialmente è stata lanciata una bottiglia molotov attraverso un buco fatto nel vetro di una finestra al pianterreno. Quando alcuni impiegati sono usciti sul balcone, dei manifestanti hanno gridato loro di uscire e hanno cercato di spegnere l’incendio. Non sappiamo dire cosa è accaduto a quel punto e come in un istante l’edificio sia andato a fuoco.
La macabra serie di fatti che sono seguiti all’incendio è stata probabilmente già riportata a sufficienza: i manifestanti che cercano di soccorrere le persone rimaste intrappolate all’interno, i pompieri che ci mettono troppo tempo a fare uscire alcuni impiegati, il sorridente banchiere miliardario inseguito da una folla inferocita.
(In seguito, il Primo ministro ha riferito in Parlamento sull’accaduto, denunciando “l’irresponsabilità politica” di chi si oppone alle misure di austerità e provoca morte, mentre i “provvedimenti salutari” del governo “difendono la vita”).
Il ribaltamento della situazione ha avuto successo. Ne è immediatamente seguita un’imponente operazione delle forze anti-sommossa: la folla è stata dispersa e inseguita e l’intero centro della città è rimasto accerchiato fino a tarda notte. L’enclave libertaria di Exarchia è stata posta in stato d’assedio; uno squat anarchico è stato sgomberato e diversi occupanti sono stati arrestati; un locale frequentato da immigrati è stato devastato. Una nube di fumo persistente ha continuato a incombere sulla città, lasciando un misto di amarezza e di inebetimento.
Le conseguenze dell’accaduto sono diventate visibili l’indomani: gli avvoltoi dei media hanno strumentalizzato la tragica morte dei 3 impiegati, (…)presentandola come una “tragedia personale”, separata dal suo contesto reale (meri corpi umani astratti dalle loro relazioni sociali); alcuni si sono spinti a chiedere la criminalizzazione della resistenza e della protesta in quanto tali. Nel frattempo, il governo ha preso tempo spostando l’attenzione su altre questioni e i sindacati si sono sentiti sollevati da ogni obbligo di indire uno sciopero, il giorno stesso in cui le misure del governo venivano approvate.
In questo clima di paura e di delusione, nel pomeriggio alcune migliaia di persone si sono ugualmente riunite davanti al Parlamento, nel corso di una manifestazione organizzata dai sindacati e dalle organizzazioni di sinistra. La rabbia era ancora palpabile. Alcuni pugni si sono levati, sono stati lanciati bottiglie d’acqua e petardi contro le forze antisommossa, si sono gridati slogan contro la polizia e il Parlamento. Una donna anziana ha chiesto agli altri manifestanti di cantare: “Che se ne vadano!” (i politici); un giovane, dopo avere pisciato in una bottiglia, l’ha lanciata contro la polizia. Era presente anche qualche anti-autoritario e quando è scesa la notte, e i sindacati e la maggior parte delle organizzazioni di sinistra hanno abbandonato il campo, alcune persone, del tutto ordinarie, a mani nude, hanno deciso di rimanere. Caricati con violenza dalla polizia in assetto anti-sommossa, inseguiti e calpestati dagli squadroni di piazza Syntagma, giovani e vecchi, spaventati ma furiosi, si sono dispersi nelle vie adiacenti.
L’ordine era finalmente ristabilito. Tuttavia, nei loro occhi si poteva leggere non soltanto paura ma anche odio. Non c’è dubbio, torneranno...
Passiamo ora a qualche riflessione di carattere più generale:
1) Severe misure contro gli anarchici e gli anti-autoritari sono già state prese, e si profila un loro ulteriore inasprimento. La criminalizzazione di un intero movimento politico-sociale, che coinvolge anche le organizzazioni dell’estrema sinistra, è sempre stata utilizzata dallo Stato come strategia di diversione, e a maggior ragione sarà utilizzata oggi, nel momento in cui i tre morti della Marfin Bank hanno creato un clima favorevole alla manovra[3]. (…)
2 e 3 (…)
Tuttavia, la demonizzazione degli anarchici non indurrà le centinaia di migliaia di persone che hanno sfilato in corteo, né coloro che sono rimasti a casa – ma che sono comunque coinvolti – a dimenticare il FMI e il “pacchetto di salvataggio” che il governo ha imposto. La persecuzione del nostro movimento non aiuterà le persone a pagare le fatture, né garantirà loro un avvenire che rimane incerto. Il governo sarà presto costretto a criminalizzare la resistenza tout court; anzi si può dire che abbia già cominciato a farlo, come testimoniano gli avvenimenti del 6 maggio.
2) Lo Stato farà un piccolo sforzo, tirando le orecchie a qualche uomo politico per placare “l’emozione popolare” ed evitare che si trasformi in “sete di sangue”. Alcuni casi flagranti di “corruzione” saranno forse puniti, e alcuni uomini politici sacrificati, per confondere le acque.
3) Vi è un costante riferimento a una “deriva costituzionale”, che viene tanto dal LAOS (estrema destra) quanto dal KKE, in uno spettacolo di recriminazioni che rivela i crescenti timori, da parte della classe dirigente, di un aggravarsi della crisi politica e della crisi di legittimità delle istituzioni. Vengono riciclati diversi scenari (un “partito di uomini d’affari”, un regime sul modello della Giunta dei colonnelli), che riflettono le paure profonde di un sollevamento proletario, ma che in realtà sono utilizzate per spostare la questione della “crisi del debito” dalle strade all’arena politica – sotto forma della domanda banale: “chi è la soluzione?” anziché “qual è la soluzione?”.
4) (…) Ciò detto, è tempo di approcciare le questioni più cruciali. È ormai chiaro che il giochetto rivoltante che consiste nel trasformare la paura/colpa del debito nella paura/colpa della resistenza e del sollevamento (violento) contro il terrorismo del debito, è già cominciato. Se la lotta di classe si intensifica, le condizioni potranno assomigliare sempre di più a quelle di un’autentica guerra civile.
La questione della violenza è diventata centrale. Così come valutiamo la gestione della violenza da parte dello Stato, siamo costretti ad analizzare la violenza proletaria: il movimento deve affrontare il problema della legittimazione della violenza e del suo contenuto in termini pratici.
Per quel che riguarda il movimento anarchico e anti-autoritario, e la sua tendenza insurrezionalista che è preponderante, la tradizionale glorificazione “machista” e feticizzata della violenza sussiste da troppo tempo ed è stata troppo importante, perché oggi ce la si possa lasciare alle spalle. La violenza fine a sé stessa, in tutte le sue varianti (inclusa la lotta armata propriamente detta) non ha smesso di diffondersi negli ultimi anni, soprattutto dopo la rivolta del dicembre 2008, allorché un certo grado di decomposizione nichilista ha fatto la sua apparizione (…) (vi abbiamo fatto riferimento nel nostro testo Le passage rebelle d’une minorité prolétarienne...), estendendosi al movimento stesso. Alla periferia di questo movimento, ai suoi margini, sono apparsi in numero crescente dei giovanissimi, portatori di una violenza nichilista senza limiti (il “nichilismo di dicembre”) e propugnatori di una “distruzione” che può coinvolgere anche il “capitale variabile” (i crumiri, gli “elementi piccolo-borghesi, i “cittadini rispettosi della legge”). Che una tale degenerazione nasca dalla rivolta e dai suoi limiti, piuttosto che dalla crisi in quanto tale, è di un’evidenza palmare.
Alcune condanne di questi atteggiamenti avevano già allora iniziato a farsi sentire, e così pure una certa auto-critica (alcuni gruppi anarchici arrivarono a designare gli autori di quegli atti con l’epiteto di “canaglie para-statali”), ed è molto probabile che gli anarchici e gli anti-autoritari organizzati (gruppi o squat) cercheranno di isolare, sia politicamente che operativamente, queste tendenze. (…) Tuttavia, la situazione è molto più complessa, e va oltre la capacità di (auto)critica teorica e pratica del movimento. A posteriori, si può sostenere che i tragici avvenimenti di cui abbiamo riferito, con tutte le loro conseguenze, si sarebbero potuti verificare già all’epoca della rivolta del dicembre 2008. Se ciò non è accaduto non è stato solamente frutto del caso (la stazione di servizio che si trovava accanto a un palazzo in fiamme e che non è esplosa, il fatto che gli scontri più violenti, quelli di sabato 7 dicembre, si siano svolti di notte, quando la maggior parte degli edifici erano vuoti); ma è stato anche in virtù della creazione di una sfera pubblica proletaria (per quanto limitata) e di diverse comunità di lotta impegnate a costruire un proprio percorso, non soltanto per mezzo della violenza, ma anche attraverso i propri contenuti e discorsi, e con altri mezzi di comunicazione.
Sono state queste comunità preesistenti (studenti, tifosi di calcio, immigrati, anarchici) a trasformarsi in comunità di lotta, talvolta attorno a delle tematiche di rivolta che hanno potuto dare alla violenza un ruolo significativo. Emergeranno ancora comunità come quelle, adesso che non è più soltanto una minoranza di proletari a essere coinvolta? Emergeranno delle forme pratiche di auto-organizzazione nei luoghi di lavoro, nei quartieri e nelle strade in misura tale da determinare la forma e il contenuto della lotta, e collocare di conseguenza la violenza in una prospettiva di liberazione?
Si tratta di questioni complesse e urgenti, alle quali potremo trovare una risposta soltanto nella lotta.
TPTG, 9.5.2010
[1] Ta Paidia Tis Galarias (I ragazzi della galleria), è un gruppo-rivista greco di area comunista radicale, attento ai conflitti di classe internazionali e alla critica serrata alle ideologie. Il suo sito è www.tapaidiatisgalarias.org/, dove è disponibile la versione integrale di questo articolo in diverse lingue.
[2] Per conoscere più a fondo la posizione della CCI sulla questione della violenza vedi “Terrore, terrorismo e violenza di classe” che può essere richiesto al nostro indirizzo.
[3] Questa tendenza a criminalizzare alcuni gruppi anarchici, così come alcuni gruppi marxisti definiti di “ultra sinistra”, è presente anche a livello internazionale (ndr)