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Ormai in Italia non passa giorno senza che si sappia che più di un operaio è morto mentre lavorava cadendo da una impalcatura, asfissiato o annegato in un pozzo, bruciato vivo … ed ogni volta dobbiamo subirci l’ipocrisia di politici, sindacati e media che “costernati” invocano le “le leggi sulla sicurezza sul lavoro” siano rispettate. La realtà è che in tutto il mondo più di 6.000 di lavoratori muoiono ogni giorno perché l’unica cosa che interessa a questo sistema di sfruttamento, in Italia, in America, in Germania, in Russia, ovunque è fare profitto al minor costo possibile.
Nel 1984, abbiamo scoperto con orrore il terribile bilancio umano dell’esplosione della fabbrica Union Carbide à Bhopal in India. Nello spazio di tre giorni, 8.000 operai sono morti! 350.000 nelle settimane e nei mesi seguenti, in seguito alle ferite o agli effetti dell’inquinamento chimico! Le condizioni di sfruttamento spaventoso che regnano in questa vera “galera industriale” sono state la prima ragione di quest’ecatombe. La deflagrazione ha avuto luogo durante la notte mentre gli operai e le loro famiglie dormivano ammassati alla fabbrica, in un immensa bidonville. Già all’epoca la pelle di un lavoratore non valeva gran che, da allora queste galere industriali sono proliferate ai quattro angoli del mondo, in Asia, in Medio Oriente ed ancora in Africa.
Oggi, in India, nel Bangladesh ed in Turchia, decine di migliaia di operai lavorano incessantemente in giganteschi cantieri navali, ribattezzati “cantieri della morte”. La tecnica è semplice ed identica dappertutto. Le navi da distruggere sono lanciate a tutta velocità verso la spiaggia! Una volta arenatesi, questi giganti del mare vengono smantellati a mani nude da centinaia di lavoratori... qualche volta con la fiamma ossidrica. Nessuna protezione, nessuna misura della sicurezza. Queste carcasse sono inoltre ancora imbottite di pericolosi prodotti chimici, anche mortali, il più delle volte sono cariche di amianto. Ma se tutte le nazioni del mondo vi spediscono la loro flotta a morire, è proprio perché queste condizioni di sfruttamento inumano assicurano “prezzi imbattibili”. D’altra parte, è in un simile “cantiere della morte” che è andata a finire la portaerei le Clemenceau e che uno dei fiori della marina mercantile francese, le France, sta finendo i suoi giorni. In un rapporto del 1995 sul più grande cimitero di battelli del mondo - il cantiere d’Alang in India – l’ingegnere Maresh Panda descriveva così le condizioni di vita e di lavoro degli operai: “Questi avevano problemi di pelle e problemi respiratori dovuti al contatto con materiali tossici. Gli scafi potevano contenere del carburante e i tagliatori li foravano con la fiamma ossidrica col rischio di esplosioni. Il suolo era saturo di prodotti tossici. Ora, la maggior parte degli operai era a piedi nudi e poteva ferirsi. (…) Alloggiavano dai 20 ai 30 in una stessa baracca e dormivano su cuccette sovrapposte. Potevano arrivare a lavorare venti ore al giorno”.
In una trasmissione francese di Envojé spécial intitolata “Les fossoyeurs d’épaves” (“I becchini di relitti”)[1], un operaio descrive l’orrore che vive quotidianamente: esplosioni di ogni genere, compagni ammazzati o mutilati, sopravvivenza in capanne di tavole e magri pasti, … . Eppure intere famiglie fanno migliaia di chilometri per potere lavorare in questi posti, il che la dice lunga sulla miseria di intere fette di popolazioni del pianeta!
Negli Emirati Arabi Uniti, a Dubaï, milioni di operai vivono lo stesso orrore costruendo grattacieli a perdita d’occhio[2]. La Cina, come la Corea a suo tempo, deporta milioni di lavoratori verso i grandi centri industriali. In totale nel mondo 2,2 milioni di operai muoiono ogni anno sul lavoro. E queste cifre ufficiali date dall’Organizzazione internazionale del lavoro minimizzano di molto e volontariamente la realtà.
Ecco il segreto del “miracolo economico” dei “paesi emergenti”. Negli anni 80 e 90, le borghesie occidentali hanno tentavano di alimentare le illusioni la classe operaia facendole balenare davanti agli occhi i miracoli tedeschi, o di Taïwan. Per ritrovare una buona salute economica, bisognava emularli: rigore e serietà sul lavoro, abnegazione per l’impresa … Oggi, i soli “modelli” che restano da imitare sono le galere industriali.
Jeanneton, 25 aprile 2008
[1] Il cui video è pubblicato su Dalymotion
[2] leggi sul nostro sito Internet www.internationalism.org gli articoli “Dubaï, Bangladesh: La classe operaia si rivolta contro lo sfruttamento capitalista” e “Lotte operaie a Dubaï: un esempio della crescita della combattività operaia a livello internazionale”.