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L’attuale marea nera nel Golfo del Messico getta una luce cruda sull’assenza di scrupoli e sulla pericolosità dei metodi che il capitalismo utilizza per sfruttare le risorse naturali.
Dall’affondamento della piattaforma petrolifera della BP “Deepwater Horizon”, il 22 aprile scorso, durante il quale sono morti undici operai, almeno 800.000 litri di petrolio greggio si versano ogni giorno nel golfo del Messico contaminando le coste per centinaia di chilometri e formando uno strato enorme di petrolio nel golfo stesso. Nessuno può stabilire esattamente quale quantità di petrolio sia stata già versata[1]. “Un mese dopo l’affondamento della piattaforma di perforazione Deepwater Horizon, la maggior parte del petrolio che è sfuggito finora è restata sotto l’acqua[2]. Queste enormi masse d’acqua contaminate dal petrolio che fluttuano sotto la superficie del golfo del Messico possono avere delle dimensioni di circa sedici chilometri di lunghezza, sei chilometri di larghezza ed un centinaio di metri di spessore.” Con l’aiuto di opportuni mezzi disperdenti si è evitato finora “che una parte del petrolio raggiunga la terra. È là che aspetta la maggior parte dei giornalisti”. (cioè il grande pubblico)[3].
Le prime indagini hanno mostrato che “il Minerals Management Service (MMS), il servizio amministrativo americano per la gestione dei minerali, responsabile della sorveglianza della produzione petrolifera, ha rilasciato le sue autorizzazioni senza avere effettuato controlli al piano di sicurezza e di compatibilità con l’ambiente (…). In questo caso concreto, l’MMS ha omesso di verificare la capacità del Blowout Preventer (la valvola centrale di sicurezza destinata a prevenire le fughe, nota) prima della sua messa in servizio. (…) Nel sistema idraulico-chiave di quest’elemento di molte tonnellate, si è avuta manifestamente una fuga. Inoltre, un test di sicurezza effettuato poche ore prima dell’esplosione sarebbe fallito”[4].
Altre indagini hanno mostrato che la BP non disponeva neppure di attrezzature adeguate per aspirare dai fondali marini il petrolio suscettibile di sfuggire e di depositarvisi. Così come non esistono mezzi per realizzare perforazioni di alleggerimento in tali casi di emergenza. Cosa rivela quest’atteggiamento consistente nello sfruttare a grandi profondità marine giacimenti petroliferi senza disporre di alcuna possibilità di captazione di soccorso del petrolio e di dispositivi d’interruzione del pompaggio in stato di funzionamento?
“La piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, di un costo di 560 milioni di dollari, era una delle piattaforme di perforazione più moderne del mondo. Era capace di resistere ad onde di dodici metri ed agli uragani”[5]. Da una parte, costi di produzione astronomici per la costruzione di tale piattaforma (più di un mezzo miliardo di dollari!), delle spese di sfruttamento di 100 milioni di euro per la perforazione e, allo stesso tempo, nessun sistema di sicurezza esistente o in stato di funzionamento per le situazioni di emergenza. Come spiegare questa contraddizione?
La corsa al profitto a spese della natura
Quando la perforazione sistematica del petrolio è cominciata un centinaio di anni fa, c’era bisogno soltanto di modesti investimenti finanziari e tecnici per sfruttare le fonti petrolifere. Tuttavia, un secolo più tardi, le compagnie petrolifere devono far fronte ad una situazione nuova. “Una grande parte del petrolio del mondo viene estratta da campi che sono stati scoperti più di 60 anni fa senza grandi investimenti tecnologici. Oggi, invece, gli esploratori di giacimenti minerari devono utilizzare metodi costosi per ricercare campi petrolifèri che, inoltre, si trovano in posti sempre più difficilmente accessibili della terra - e forniscono delle quantità di petrolio considerate finora soltanto come marginali. (…) Soprattutto, le imprese occidentali non possono più accedere come prima alle fonti facili, economiche e ricche di utili dell’Asia e dell’America latina. Queste fonti si trovano infatti nelle mani di società petrolifere nazionali, come la Saudi Aramco (Arabia Saudita), Gazprom (Russia), NIOC (Iran) o PDVSA (Venezuela) e sono sotto il controllo di uno Stato nazionale. Questi sono i veri giganti in quest’affare e controllano più dei tre quarti delle riserve globali”.
I “Big Oil” (i grandi petrolieri), come si chiamano ancora le vecchie multinazionali private, controllano ancora appena il dieci per cento delle riserve di gas e di petrolio globali. Non resta più a BP & Co. che dei progetti costosi, onerosi e pericolosi. È dunque per necessità che queste società sono spinte ai limiti estremi per raggiungere questi giacimenti che nessun altro vorrebbe esplorare. (…).”
Spese sempre più elevate, rischi sempre più grandi
“E’ da tempo ormai che le società petrolifere hanno abbandonato le piattaforme fermamente ancorate ai fondali marini. Mostri fluttuanti, detti semi-sommergibili, nuotano sugli oceani con chilometri d’acqua sotto di loro. Dei tubi verticali d’acciaio speciale o di materiali compositi estremamente saldi si spingono nell’oscurità degli abissi. Dei normali tubi si romperebbero sotto il loro stesso peso. A 1500 metri di profondità, la temperatura dell'acqua scende a cinque gradi centigradi - tuttavia il petrolio scaturisce quasi all’ebollizione. Ciò comporta non pochi problemi nella gestione dell’impianto. I rischi sono considerevoli. Con la profondità, le esigenze tecniche in materia di perforazione sono enormemente più grandi. La tecnica è pericolosa: indurendo, appaiono delle fessure nel cemento attraverso le quali il petrolio ed il gas possono sfuggire con una violenza inaudita. Basta allora una scintilla per provocare l’esplosione”[6] … come è poi accaduto!
Febbrilmente decine di migliaia di persone hanno combattuto, invano fino ad oggi, per tenere il petrolio lontano dalle spiagge. Aerei tipo Lockheed C-130 hanno polverizzato tonnellate di Corexit, prodotto sparso per sciogliere lo strato di petrolio - benché si sospetti che questo miscuglio chimico possa contribuire a danneggiare esso stesso l’ambiente acquatico. In futuro, c’è da temere che queste misure di salvataggio chimico possano produrre danni ancora più grandi e più imprevedibili a lungo termine sulla natura[7]. Per il momento, le conseguenze economiche per la popolazione del posto sono già catastrofiche poiché molti pescatori sono spinti alla rovina.
Mentre la corsa allo sfruttamento di nuove fonti petrolifere esige investimenti sempre più elevati, si assumono rischi tecnici sempre più grandi. Le condizioni della concorrenza capitalista trascinano gli imprenditori concorrenti ad assumersi dei rischi sempre più elevati e a rispettare sempre meno le necessità di protezione della natura. La fusione delle calotte glaciali dei poli che apre il passaggio marittimo a Nord-ovest, il disgelo del permafrost, hanno già da tempo acuito l’appetito delle compagnie petrolifere e provocano tensioni tra paesi che rivendicano territori in queste regioni.
Mentre l’utilizzo senza freni delle fonti di energia non rinnovabili e fossili, come il petrolio, costituisce in realtà un puro spreco, e la ricerca di fonti petrolifere sempre nuove una pura assurdità, la crisi economica - e la concorrenza che le è legata – spingono le imprese a investire sempre meno denaro nei sistemi di sicurezza possibili e necessari. Il capitalismo saccheggia in maniera sempre più predatoria le risorse del pianeta. In passato, la politica “della terra bruciata”, messa in pratica ed utilizzata ad esempio dagli Stati Uniti nel corso della prima guerra del golfo nel 1991, dove gli impianti petroliferi nel Golfo Persico sono stati attaccati, provocando incendi enormi e la fuga di quantità ingenti di petrolio, era stato un metodo corrente della guerra. Ora, è la pressione quotidiana della crisi che comporta la pratica della “terra bruciata” e la contaminazione dei mari, per potere imporre i propri interessi economici.
La marea nera attuale era prevedibile – così come lo era la catastrofe del 2005, quando l’uragano Katrina ha sommerso la città di New Orleans, provocando la morte di 1800 persone, l’evacuazione dell’intera città e lo spostamento di centinaia di migliaia di abitanti. L’attuale marea nera è del tutto simile alla catastrofe di New Orleans, il risultato dell’incapacità del capitalismo di offrire una protezione sufficiente contro i pericoli della natura. È il prodotto della ricerca del massimo profitto da parte del capitalismo.
Dv
[1] Sui luoghi dell'incidente, secondo le prime stime, circa 1000 barili (160.000 litri) di petrolio greggio al giorno si versavano nel mare. Alcuni giorni più tardi, in seguito alla scoperta di una terza fuga, sono state rivalutate a circa a 5000 barili (circa 800.000 litri) al giorno. Recenti calcoli di diversi ricercatori, basati su riprese video sottomarine delle fuoriuscite del petrolio, ritengono che la perdita sia di almeno 50.000 barili (circa 8 milioni di litri) al giorno.
[2] A grandi profondità si trovano grandi volumi d’acqua inquinata da particelle di petrolio. La concentrazione in petrolio è meno di un litro per metro cubo d’acqua, ma l’estensione di questa contaminazione è importante (Wikipedia).
[3] Da “Prodotti chimici contro catastrofe petrolifera. Operazione camuffamento e ritardo”, Spiegelonline, 18 maggio 2010
[4] https://www.spiegel.de/wissenschaft/natur/0,1518,694602,00.html et https://www.spiegel.de/spiegel/0,1518,694271,00.html
[5] Idem.
[6] Idem.
[7] 1,8 milioni di litri di liquido speciale Corexit sono stati utilizzati finora nel golfo del Messico … Esiste il pericolo che una parte di queste nuvole di petrolio sotto la superficie si sposti in direzione dell’Oceano Atlantico.