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Gli esperti della borghesia includono la Cina nella loro collezione di potenze che hanno espresso di recente un avanzato sviluppo economico. Questa categoria, riferita con l’acronimo “BRIC” e che include anche il Brasile, la Russia e l’India, si presume possa costituire la salvezza del capitalismo in crisi. Questi paesi vengono dipinti come l’opposto di quelli che formano il “PIIG” (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). In realtà, non sono che l’altra faccia della stessa medaglia. I PIIGS sono sprofondati velocemente nella crisi economica aperta, i BRIC sono in procinto di farlo, spegnendo le deboli speranze della classe dominante in un miracolo economico capace di superare la crisi mortale del capitalismo. Come riportato nella Rivista Internazionale n. 148[1]: “I paesi emergenti, come l’India e il Brasile, stanno vedendo una rapida riduzione di attività. Anche la Cina, che dal 2008 è stata presentata come la nuova locomotiva dell’economia mondiale, ufficialmente sta andando sempre peggio. Un articolo apparso sul sito del China Daily il 26 dicembre afferma che due province (tra cui quella di Guangdong, che è certamente una delle più ricche del paese poiché ospita gran parte del settore manifatturiero per i prodotti di grande consumo) hanno notificato a Pechino che esse avrebbero ritardato i pagamenti degli interessi sul loro debito. In altre parole, il fallimento minaccia anche la Cina”
Nello sviluppo minaccioso per l’economia cinese - e per il capitalismo più in generale - vi è una massiccia bolla speculativa legata al boom delle costruzioni che si gonfia e che, come quelle negli USA, in Irlanda, Spagna ed altrove, può solo scoppiare con delle conseguenze terribili. A Shanghai c’è una vasta capacità di spazio abitativo inutilizzato ed invendibile valutato in centinaia di milioni di metri quadrati. Qui ed a Pechino gli alloggi hanno un prezzo circa 20 volte superiore a quello della paga annuale media di un lavoratore. L’85% dei lavoratori che ne hanno bisogno, non può permettersi una nuova casa. Il regime ha frenato il credito a causa di un aumento dell’inflazione così, proprio come per Gran Bretagna, Stati Uniti, Irlanda, Spagna, ecc., lo sgonfiamento della bolla minaccia il sistema bancario, in particolare la versione cinese dei “sub-prime”, un sistema di mercato bancario al nero, non ufficiale, finanziato da grandi imprese statali del regime. Queste perdite a loro volta hanno un impatto negativo su importanti amministrazioni locali dello Stato che saranno quindi incapaci di soddisfare i loro obblighi. Lungi dall’essere un faro di speranza, lo sviluppo della crisi globale del capitalismo significa ancora di più che l’economia cinese è solo un ulteriore fattore di disperazione per il capitalismo.
Gli sviluppi nella lotta di classe in Cina mostrano che questa fa pienamente parte dell’ondata generale globale di lotta di classe e proteste sociali che si sta sviluppando dal 2003. Inoltre, l’estensione e la profondità delle lotte, che ora coinvolgono una nuova generazione di proletari in gran parte migranti e altamente istruiti, fanno degli avvenimenti in Cina un grande potenziale. Non come espressione di illusione borghese in una qualche “ripresa economica” ma come importante segnale per il proletariato mondiale nello sviluppo della lotta di classe.
Migliaia e migliaia di notizie di “incidenti” di scioperi e proteste nelle città, insieme ad agitazioni nelle campagne che stanno aumentando di numero e di intensità. Gli scioperi stanno diventando più ampi: lo sciopero di tre giorni nel gennaio scorso nella zona industriale di Chengdu, è stato, secondo The Economist (02/02/12) “… insolitamente grande per un’impresa di proprietà del governo centrale”. Gli operai hanno guadagnato un piccolo aumento di circa 40 dollari mensili che, conquistato a furia scioperi e con un’aperta repressione, presto non sarà più sufficiente. Il black-out mediatico su questa agitazione non è durato a lungo grazie all’uso di internet. Anche nel settore privato la frequenza degli scioperi è aumentata nello scorso anno.
Nel delta del Pearl River, che produce circa un terzo delle esportazioni cinesi, migliaia di lavoratori a Dongguan, lo scorso novembre, sono scesi in piazza per protestare contro i tagli salariali e si sono scontrati con la polizia. Su internet sono apparse le foto dei lavoratori feriti. In queste ultime settimane la protesta si è estesa. The Economist, osservando le recenti proteste ed il loro sviluppo nell’intera provincia del Guangdong, sottolinea come queste stiano assumendo una forma diversa, in contrasto con gli scioperi ordinati e pacifici che hanno avuto luogo sempre qui nel 2010: “... attualmente, piuttosto che chiedere di migliorare la loro sorte, gli operai stanno soprattutto protestando per i tagli ai salari ed ai posti di lavoro. Gli scioperanti sembrano più militanti... Un rapporto pubblicato questo mese dall’Accademia cinese delle scienze sociali, dice che, rispetto al 2010, gli scioperi del 2011 sono stati meglio organizzati, più conflittuali e più probabilmente un innesco per azioni simili. ‘Gli operai questa volta non sono disposti ad accettare di fare sacrifici e, in secondo luogo, ancor meno sono disposti a mollare e tornare a casa’” (idem).
La repressione è ancora l’arma principale dello Stato cinese – la polizia in borghese è dappertutto. Ma questa politica può essere pericolosa. Quando una lavoratrice incinta è stata recentemente malmenata dalla polizia nel Guangdong, migliaia di lavoratori hanno attaccato gli edifici del governo e della polizia.
E’ improbabile che questi lavoratori ritornino indietro a fare i contadini, in particolare quando la campagna sta sollevando una propria forma di protesta contro gli effetti della crisi – come di recente nel villaggio di Wukan. Ci sono 160 milioni di lavoratori immigrati (20 milioni hanno perso il lavoro quando l’onda d’urto della crisi economica del 2008 ha colpito la Cina) e adesso vivono nelle città. Non c’è nulla per loro nelle campagne che possa spingerli a tornare indietro e, dato che come migranti devono pagare anche l’istruzione per i loro figli e la sanità per la famiglia (che dovrebbero pagare le imprese che però in larga parte non fanno per i salari minimi), si apre un’altra area del conflitto di classe.
La crisi economica mondiale sta peggiorando e questo avrà un effetto significativo sulla Cina e la sua economia. Dato il livello attuale e in via di sviluppo della lotta di classe in questo paese, possiamo aspettarci ulteriori sviluppi nelle lotte dei lavoratori in Cina, a partire dalla serie di scioperi e proteste che abbiamo visto nel mese di gennaio.
Baboon, 2-2-2012
[1] In Inglese, francese e spagnolo sul nostro sito: www.internationalism.org