Aprile-maggio 2010
La borghesia mostra apertamente le sue intenzioni. Il suo freddo e disumano discorso si riassume in poche parole: “Se volete evitare il peggio, la catastrofe economica ed il fallimento, bisogna che stringiate la cinta come fino ad ora non avete mai fatto!”. Certo, nell’immediato, gli Stati capitalisti non si trovano tutti nella stessa situazione di deficit incontrollabile o di cessazione di pagamento dei pagamenti, ma tutti sanno che sono irrimediabilmente trascinati in questa direzione. E tutti utilizzano questa realtà per difendere i loro sordidi interessi. Dove trovare il denaro necessario per tentare di ridurre, anche se di poco e per poco tempo, questi mostruosi deficit? Non c'è da cercare lontano. Se già alcuni sono passati all’offensiva contro la classe operaia, tutti ne preparano ideologicamente il terreno.
La Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna: un antipasto di quello che toccherà a tutta la classe operaia
Il piano di austerità greco destinato a ridurre i deficit pubblici è di un’estrema brutalità e di un cinismo inaudito. Il primo ministro delle finanze di questo paese ha dichiarato senza batter ciglio che “gli impiegati devono dar prova di patriottismo … e dare l’esempio”[1]. Dovrebbero accettare senza dire niente, senza battersi, la riduzione dei salari, la soppressione delle indennità, che le sostituzioni di coloro che vanno in pensione avvengano col contagocce e che il pensionamento venga promulgato oltre i 65 anni ed, infine, che si possa essere licenziati e gettati via come dei fazzolettini usati. Tutto ciò per difendere l’economia nazionale, quella del loro Stato sfruttatore, dei loro padroni e di altre sanguisughe. Tutte le borghesie nazionali europee partecipano attivamente all’attuazione di questo piano di drastica austerità. La Germania, la Francia, la Spagna e anche l’Italia prestano difatti un’attenzione tutta particolare alla politica ed agli attacchi portati avanti da questo Stato. Vogliono lanciare al proletariato a scala internazionale questo messaggio: “Guardate la Grecia, i suoi abitanti sono costretti ad accettare sacrifici per salvare l’economia. Tutti voi dovrete fare lo stesso”.
Dopo le famiglie americane, le banche, e le imprese, ecco giunto il tempo in cui sono gli stessi Stati a subire pienamente la crisi economica e ad essere minacciati dal fallimento. Risultato: a loro volta devono orchestrare attacchi spietati. Nei prossimi mesi dovranno organizzare una draconiana riduzione del numero di impiegati, del “costo del lavoro” in generale e, dunque, del livello di vita di tutti. La borghesia, quando i suoi interessi meschini lo comandano, tratta gli operai come bestiame da condurre al macello. La situazione è identica in Portogallo, in Irlanda ed in Spagna, identici piani brutali, e misure anti-operaie. In Francia ed in Italia tutta la borghesia prepara il terreno per seguire questa strada. Ma questa non è una specificità della zona euro. Negli Stati Uniti, il paese più potente del pianeta, dopo nemmeno due anni di crisi, si censiscono più del 17% di disoccupati, 20 milioni di nuovi poveri e 35 milioni di persone che sopravvivono grazie a buoni pasto. Ed ogni giorno che passa apporta la sua nuova fetta di miseria.
Gli Stati confrontati alla loro insolvenza
Come si è arrivati a questo? Per tutta la borghesia, in particolare per la sua frazione di estrema sinistra, la risposta è molto semplice. Ci sarebbe un solo errore, quello commesso dai banchieri e dai mastodonti come Goldman Sachs, J.P. Morgan ed altri. È vero che il sistema finanziario è diventato pazzo. Conta solamente l’interesse immediato, secondo il vecchio adagio “dopo di me, il diluvio”. È noto a tutti che ora queste grandi banche, per guadagnare sempre più denaro, hanno accelerato la cessazione di pagamento dei pagamenti di pagamento della Grecia scommettendo sul suo fallimento. Faranno sicuramente la stessa cosa domani con il Portogallo o la Spagna. Le grandi banche mondiali e le istituzioni finanziarie non sono che avvoltoi. Ma questa politica del mondo finanziario, in fin dei conti suicida, non è la causa della crisi del capitalismo. Ne è al contrario l’effetto che, ad un certo stadio del suo sviluppo, ne diventa un fattore aggravante.
Come al solito la borghesia di ogni risma mente. Stende davanti agli occhi della classe operaia una vera cortina di fumo. Per lei la posta è grossa. Consiste nel fare di tutto per evitare che gli operai trovino il legame tra le insolvenze crescenti degli Stati ed il fallimento dell’intero sistema capitalista. Perché la verità è proprio lì: il capitalismo è moribondo e la follia della sua sfera finanziaria è una delle conseguenze visibili.
Quando è esplosa la crisi con forza a metà 2007 dovunque, ed in particolare negli Stati Uniti, è venuto fuori il fallimento del sistema bancario. Questa situazione era solamente il prodotto di decine di anni di politica di indebitamento generalizzata ed incoraggiata dagli stessi Stati per creare dei mercati artificiali indispensabili alla vendita delle merci. Ma quando, infine, gli individui e le imprese, strangolati da questi prestiti, si sono rivelati incapaci di effettuare i rimborsi, le banche si sono ritrovate sull’orlo del crollo insieme a tutta l’economia capitalista. E’ allora che gli Stati hanno dovuto addossarsi tutta una parte dei debiti del settore privato e fare piani di rilancio faraonici e costosi per tentare di limitare la recessione.
Adesso sono quindi gli Stati stessi a ritrovarsi indebitati fino al collo, incapaci di far fronte ai loro debiti (senza per altro che il settore privato si sia salvato) e in una potenziale situazione di fallimento. Certo uno Stato non è un’impresa, quando si trova in cessazione dei pagamenti, non mette la chiave sotto la porta. Può ancora sperare di indebitarsi pagando sempre più interessi, praticare un salasso da tutte le nostre economie, stampare ancora più carta moneta. Ma ci sarà un tempo in cui i debiti (almeno gli interessi) devono essere rimborsati, anche da uno Stato. Per comprendere ciò basta guardare ciò che sta accadendo per lo Stato greco, portoghese ed anche spagnolo. In Grecia lo Stato ha tentato di finanziarsi attraverso il prestito sui mercati internazionali. Il risultato non si è fatto attendere. Tutti, sapendo che questo è oggi insolvibile, gli hanno proposto dei prestiti a breve termine ed a tassi di più dell’8%. Inutile dire che una tale situazione finanziaria è impossibile da sopportare. Che cosa resta allora come soluzione? Prestiti anch’essi a breve termine da parte di altri Stati, come la Germania o la Francia. Ma attenzione, queste potenze possono forse riuscire a far recuperare puntualmente le casse greche, ma saranno poi incapaci di aiutare il Portogallo, la Spagna ed ancor meno l’Inghilterra ... Non avranno mai tanta liquidità. E questa politica, in ogni caso, può condurre solo ad un loro rapido indebolimento finanziario. Anche un paese come gli Stati Uniti, che tuttavia può appoggiarsi sul dominio internazionale del dollaro, vede aumentare senza sosta il suo deficit pubblico. La metà degli Stati americani è in fallimento. In California il governo paga i suoi funzionari non più in dollari ma con una specie di “moneta locale”, buoni validi unicamente sul territorio californiano!
In breve, nessuna politica economica può tirare fuori gli Stati dalla loro insolvenza. Per rinviare le scadenze non hanno altra scelta che ridurre di molto le “spese”. Ecco esattamente il senso dei piani adottati in Grecia, in Portogallo, in Spagna e domani inevitabilmente in tutti gli altri paesi. Non si tratta più di semplici piani di austerità come quelli conosciuti regolarmente dalla classe operaia dalla fine degli anni 1960. Adesso si chiede di far pagare molto cara alla classe operaia la sopravvivenza del capitalismo. L’immagine che dobbiamo avere presente sono le interminabili file d’attesa di famiglie operaie che negli anni 30 facevano la coda davanti alle panetterie per un pezzo di pane. Ecco l’unico futuro che ci promette la crisi senza via d’uscita del capitalismo. Di fronte alla miseria crescente, solo le lotte di massa della classe operaia mondiale possono aprire la prospettiva di una nuova società rovesciando questo sistema basato sullo sfruttamento, la produzione di merci ed il profitto.
Tino, 26 febbraio
(da Révolution Internationale, n. 410, organo della CCI in FranciaQuesto articolo ha anche anticipato con una certa precisione quello che sarebbe accaduto dal 10 al 24 febbraio: giornate di scioperi effettuate massicciamente da una classe operaia che non vuole più subire i violenti attacchi dello Stato, con dei sindacati che ordiscono per dividere gli operai e sterilizzare il crescente malcontento.
La situazione greca è importante perché è una sorte di test per la borghesia europea ed anche per quella mondiale. Numerosi Stati nei prossimi mesi saranno costretti a fare gli stessi attacchi frontali come quelli che lo Stato greco sta attuando contro le condizioni di vita della classe operaia. Se in questo paese passeranno le misure di drastica austerità, ciò servirà da test positivo per dare l’avvio a tutta una serie di attacchi a livello mondiale. È per tale motivo che le borghesie francesi e tedesche, soprattutto, mettono a disposizione la loro abile esperienza nell’inquadramento della classe operaia. Aiutano il governo di Papandreu a suddividere a scacchiera il territorio ed a consegnarlo in mano ai sindacati. Questi, agendo d’anticipo ed organizzando giornate di lotte, sperano di riuscire a canalizzare il crescente malcontento.
Un anno fa, ci sono state tre settimane di lotte massicce in Grecia dopo l’assassinio da parte della polizia di un giovane anarchico, Alexandros Grigoropoulos. Ma il movimento nelle strade, nelle scuole e nelle università ha incontrato notevoli difficoltà a coordinarsi con le lotte sui posti di lavoro. C’è stato un solo sciopero, quello degli insegnanti delle scuole primarie, che per una mattina ha sostenuto il movimento. Anche se quello è stato un periodo di massicce agitazioni sociali, compreso uno sciopero generale, alla fine non ci sono stati collegamenti.
Tuttavia in Grecia le azioni dei lavoratori sono proseguite anche oltre la fine del movimento di protesta e fino ad oggi. Infatti, il ministro del Lavoro, Andreas Lomberdos, è stato costretto a mettere in allarme la borghesia internazionale. Ha affermato che le misure previste per i prossimi tre mesi per arginare il crollo del debito nazionale che minaccia di gettare la Grecia fuori dalla zona euro, potrebbero implicare uno spargimento di sangue. “Non possiamo fare gran che per impedirlo” ha aggiunto. Il mese scorso il Primo ministro greco, in un discorso davanti al Parlamento, ha dichiarato che la crisi del debito nazionale è “la prima crisi di sovranità nazionale dal 1974”. Il nuovo governo socialista parla di riunire tutti i partiti borghesi e tentare di costituire un governo di unità nazionale di emergenza che dovrebbe essere in grado di sospendere alcuni articoli della Costituzione che garantiscono il diritto di riunione pubblica, di manifestazione e di sciopero!
Anche prima del tentativo da parte del governo di mettere in opera le sue “riforme” e cioè gli attacchi contro la classe operaia per ridurre il deficit di bilancio dal 12,7% al 2,8%, c’è stata una grande ondata di lotte operaie. In questi ultimi due mesi sono entrati in sciopero gli scaricatori di porto, i lavoratori della Telecom, i netturbini, i medici, le infermiere, gli insegnanti delle scuole materne e primarie, i tassisti, gli operai della siderurgia e gli impiegati municipali! A prima vista, tutte queste lotte sembrano esplodere ogni volta per ragioni distinte, in realtà sono tutte delle risposte agli attacchi che lo Stato ed il capitale sono costretti ad attuare nel tentativo di fare pagare la crisi ai lavoratori.
Prima ancora di portare avanti il programma di austerità (approvato dall’Unione Europea) il Primo Ministro Papandreu ha avvertito che esso sarebbe stato “doloroso”. Ed il 29 gennaio, prima ancora che il piano fosse esposto nei dettagli, c’è stata una manifestazione di collera da parte dei vigili del fuoco e di altri lavoratori del settore pubblico ad Atene.
Il piano governativo ha previsto su tre anni un congelamento totale dei salari per i lavoratori del settore pubblico ed una riduzione del 10% sulle indennità. Si stima che ciò equivale ad una diminuzione dei salari che va dal 5 al 15%. Gli impiegati che andranno in pensione non saranno sostituiti, e si prevede anche l’aumento dell’età pensionabile che lo Stato presenta come un mezzo per economizzare sui costi delle pensioni.
Il fatto che lo Stato, proprio ora, sia costretto a portare degli attacchi ancora più duri contro una classe operaia combattiva rivela la profondità della crisi che colpisce la Grecia. Il ministro Lomberdos l’ha precisato con estrema chiarezza quando ha detto che “queste misure possono essere applicate solamente in modo violento”. Tuttavia questi attacchi sferrati contemporaneamente contro tutti i settori operai danno a quest’ultimi una reale possibilità di condurre una lotta comune per delle rivendicazioni comuni.
Se esaminiamo attentamente ciò che fanno i sindacati in Grecia, possiamo vedere come le loro azioni hanno per obiettivo mantenere le lotte divise. Il 4 e 5 febbraio c’è stato uno sciopero ufficiale di 48 ore dei doganieri e degli agenti delle tasse che hanno chiuso i porti e le stazioni di frontiera, mentre alcuni agricoltori mantenevano i loro blocchi. L’Indipendent (05/02/10) è uscito col titolo “Gli scioperi mettono la Grecia in ginocchio” e descrive l’azione come la “prima manifestazione di un’attesa eruzione di scioperi clamorosi”. Questa “attesa eruzione” di scioperi comprende un progetto di sciopero del settore pubblico ed una marcia sul Parlamento promossa dal ADEDY per protestare contro gli attacchi alle pensioni, il 10 febbraio; uno sciopero indetto dal PAME, il sindacato stalinista, l’11 febbraio; uno sciopero del settore privato indetto dal GSEE, il sindacato più importante, che rappresenta 2 milioni di lavoratori, il 24 febbraio.
Così divisa, la classe operaia non metterà “in ginocchio” lo Stato greco. Il Financial Times del 5 febbraio ha stimato che finora “i sindacati hanno reagito moderatamente ai piani di austerità del governo, il che riflette uno stato d’animo disponibile a fare dei sacrifici per superare la crisi economica”, ma ha identificato allo stesso tempo “una reazione violenta dei sindacati contro il programma di austerità del governo”. In realtà, i sindacati non hanno improvvisamente tolto il loro sostegno al governo socialista ma, con il montare della collera espressa dalla classe operaia, sanno che se non si danno da fare c’è il rischio che i lavoratori comincino a smascherare la commedia sindacale. Per il momento i sindacati hanno mostrato il loro volto radicale; hanno interrotto il dialogo sui piani futuri per le pensioni e previsto degli scioperi di una o due giornate in date differenti. I sindacati vorrebbero veramente fare accettare ai lavoratori i sacrifici ma ora devono tenere conto della reazione della classe operaia.
Per lo sviluppo futuro delle loro lotte è necessario che i lavoratori diffidino non solo dei sindacati ma anche di altri “falsi amici”. Per esempio il KKE (partito comunista greco), che ha una certa influenza nella classe operaia, un anno fa qualificava i manifestanti come agenti segreti di “misteriose forze straniere” e “provocatori”. Adesso dice che “i lavoratori e i contadini hanno il diritto di ricorrere ad ogni mezzo di lotta per difendere i loro diritti”. Le altre forze di sinistra, come i trotskisti, servono solo a deviare la collera dei lavoratori, focalizzando l’attenzione contro i fascisti o altre forze di destra, o contro l’influenza dell’imperialismo americano - qualsiasi cosa purché i lavoratori non prendano nelle loro mani le lotte e le dirigano contro il più alto rappresentante del capitale, lo Stato. Con gli scioperi nel paese limitrofo, la Turchia, che si svolgono nello stesso momento degli scioperi in Grecia[2], i sindacati ed i loro alleati stanno particolarmente attenti a presentare tutti i problemi che incontrano gli operai come specificità greche e non come espressione della crisi internazionale ed irrimediabile del capitalismo.
Ciò che è caratteristico della situazione in Grecia, è la proliferazione di diversi gruppi armati che mettono bombe sotto gli edifici pubblici, che non fanno altro che aggiungere ancora più violenza allo spettacolo abituale, favorendo così un’ulteriore repressione da parte dello Stato. Questi gruppi, dai nomi esotici come “Congiura delle cellule del Fuoco”, “Gruppo di guerriglia dei terroristi” o “Frazione nichilista”, non offrono assolutamente niente come prospettiva alla classe operaia. Gli operai possono costruire la loro solidarietà di classe prendendo coscienza della propria forza, sviluppando fiducia in sé stessi a partire dalle lotte e sviluppando le proprie forme di organizzazione, non restando seduti a casa a guardare in televisione le bombe poste dai gauchisti radicali. Il rumore che provoca una riunione di massa di lavoratori, che discutono del modo con cui devono organizzare la propria lotta, spaventa la classe dominante molto più di migliaia di bombe.
DD (5 febbraio)
(da Révolution Internationale n. 410, organo della CCI in Francia)
[1] Mentre andiamo in stampa, nuovi scioperi e scontri si stanno sviluppando in Grecia, e ci sembra che la situazione confermi nella sostanza quanto da noi analizzato
[2] Vedi “Turchia: Solidarietà con la resistenza degli operai di Tekel contro il governo ed i sindacati!”, ICC online, pagina italiana.
Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso sul nostro sito Internet in lingua spagnola su una nuova lotta a Vigo, in Galizia, provincia spagnola[1].
Abbiamo appreso la notizia di una lotta congiunta di operai disoccupati ed operai attivi dei cantieri navali della città di Vigo.
Ringraziamo uno dei nostri lettori che ci ha mandato il suo commento e come prima cosa affermiamo che condividiamo la conclusione che lui trae da questa lotta: “Soltanto l’unità e la solidarietà di tutti i disoccupati e i lavoratori, in assemblee e manifestazioni congiunte, potranno portarci alla vittoria. Salutiamo i lavoratori ed i disoccupati dei cantieri navali di Vigo. I disoccupati e gli operai del mondo intero dovrebbero prendere esempio dai [proletari dei] cantieri navali di Vigo, per la loro unità, la loro solidarietà, perché è tutti uniti che riusciremo a vincere il capitalismo mondiale”. Abbiamo poi ricevuto sul nostro forum un altro messaggio che andava nello stesso senso: “L’articolo sulle lotte condotte dai disoccupati e gli attivi dei cantieri navali di Vigo è stato pubblicato senza la minima reazione, eppure possiamo trarre da queste una lezione che dobbiamo sempre avere in testa: quella dell’unità della classe; qualche cosa di molto importante sta accadendo a Vigo, perché a manifestare insieme sono lavoratori attivi e disoccupati, raggruppando altri lavoratori fino all’arresto di tutto il settore navale. Leggete ed apprenderete molte cose. Saluti”.
A Vigo ci sono più di 60.000 disoccupati. Soltanto nel 2009 e nel solo settore della metallurgia, sono spariti 8.000 posti di lavoro. L’indignazione, unita alla preoccupazione di fronte ad un avvenire sempre più difficile, si diffonde tra gli operai. In particolare nei cantieri navali, i disoccupati, attraverso un accordo tra sindacati e padronato, sono stati iscritti ad una “Borsa del lavoro” da cui si sarebbe dovuto attingere tutte le volte che si fossero resi disponibili dei posti di lavoro.
I disoccupati iscritti a questa Borsa del lavoro - circa 700 – si sono resi conto, andando su tutte le furie, che al posto loro nei cantieri venivano assunti puntualmente operai stranieri con salari ben più bassi e a condizioni terribili. Secondo il portavoce dei disoccupati, ad esempio, “ci sono dei lavoratori che dormono nei parcheggi e che mangiano solo un panino al giorno”.
Questo è stato l’elemento detonatore della lotta. Gli operai hanno tenuto a precisare che loro non sono assolutamente contro l’assunzione di lavoratori stranieri. Ed è così che un loro portavoce ha insistito: “non abbiamo alcuna obiezione sul fatto che vengano assunte persone che vengono da altre parti, ma a condizione che il padronato non passi al di sopra della convenzione collettiva della provincia, perché con il salario di uno solo di noi vengono pagati due o tre stranieri”. Malgrado ciò, i media, specialisti della “comunicazione”, se ne sono usciti con la loro “spiegazione” accusando i lavoratori di xenofobia. Per esempio, El Faro de Vigo così intitolava l’articolo che parlava della lotta: “I disoccupati della metallurgia si oppongono all’assunzione di stranieri”, che è una spudorata menzogna. Infatti sono stati gli stessi operai disoccupati a denunciare le manovre del padronato che “fa venire della mano d’opera a buon mercato in condizioni di quasi schiavitù”.
La borghesia è una classe cinica, machiavellica. Assume lavoratori stranieri sottomettendoli a condizioni salariali molto peggiori di quelle degli operai del paese. Se questi ultimi si mettono in lotta, opponendosi a tali condizioni di assunzione, vengono subito accusati di razzismo, di xenofobia, di “difesa d’idee di estrema destra”, di nazionalismo, ecc., mentre la risposta immediata degli operai non è stata affatto contro i loro fratelli di classe, ma contro il fatto di stabilire un precedente assumendoli a condizioni salariali inferiori, ciò che fa solamente abbassare di più le condizioni salariali per tutti. È quello che abbiamo visto in Gran Bretagna all’epoca della lotta degli operai edili[2] o della lotta degli operai dei cantieri navali di Sestao[3].
Il 3 febbraio, i disoccupati si sono recati alle porte di Astilleros Barreras (l’impresa più importante del settore navale) con l’intenzione di organizzare un’assemblea generale insieme ai lavoratori di questa impresa. Trovando le porte chiuse, si sono messi a gridare slogan al megafono ed a spiegare le loro rivendicazioni finché alla fine la grande maggioranza degli impiegati ha abbandonato le installazioni e si è unita ai disoccupati. Secondo la cronaca di Europa-Press, “cinque furgoni di polizia antisommossa si sono presentati sul posto. I poliziotti si sono schierati su tutta la zona armati di fucili a proiettili di gomma e scudi, ma alla fine le forze di sicurezza hanno ripiegato verso la rotonda di Beiramar (…). Alla fine il gruppo, composto di disoccupati e di lavoratori, è partito in una manifestazione in direzione di Bouzas e su questo tragitto gli operai degli altri cantieri navali della zona (come Cardama, Armon e Freire-Así) si sono uniti a loro, in modo che l’attività si è fermata in tutte le industrie navali”.
Questa esperienza ci ha mostrato come si concretizza la solidarietà e l’unità tra i compagni disoccupati e quelli che hanno ancora un lavoro: assemblee generali unite, manifestazione di strada per fare conoscere la lotta agli altri lavoratori, comunicazione e legame diretto con i lavoratori delle altre imprese per guadagnarli alla lotta comune.
In altre parole, la stessa cosa di quello che è successo a Vigo nel 2006[4]: gli operai riprendono i metodi proletari di lotta che non hanno niente a che vedere con la divisione, il corporativismo, la passività, tipici dei metodi sindacali[5].
Il 4 febbraio, queste azioni si sono ripetute. Verso le 10 di mattina, i disoccupati si sono recati di nuovo alle porte di Barreras. Ed ancora una volta, i loro compagni dell’impresa sono usciti per unirsi alla lotta. Malgrado il dispiegamento poliziesco, tutti sono ripartiti manifestando. Secondo El Faro di Vigo, “La protesta di ieri era sorvegliata da un forte dispiegamento poliziesco. Ci sono stati momenti di tensione, ma alla fine non ci sono state baruffe. I disoccupati hanno manifestato nelle zone di Beiramar e Bouzas di Vigo, accompagnati dai lavoratori del settore, e hanno affermato che continueranno le mobilitazioni finché i padroni non accetteranno di regolare con essi i problemi che, secondo quanto loro stessi denunciano, esistono nell’assunzione al lavoro del personale”.
Non abbiamo altre notizie. Ma pensiamo che questi fatti hanno un forte significato sulla combattività e sulla presa di coscienza dei lavoratori, sulla ricerca dell’unità e della solidarietà di fronte ai colpi bassi che il capitale ci assesta.
Esprimiamo la nostra solidarietà ai nostri compagni lotta. Incoraggiamo a trarne delle lezioni ed alla nascita di una solidarietà attiva. Non sono i motivi che mancano visto che è stata da poco superata la soglia dei 4 milioni di disoccupati, il governo annuncia l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni, ecc.
CCI (5 febbraio)
[1] Questo articolo è stato scritto grazie ad un messaggio del 3 febbraio 2010 inviatoci da un lettore alla sezione “Commenti” del nostro sito:https://es.internationalism.org/node/2765#comment-636 [3].
[2] Vedi “Grèves en Grande Bretagne : les ouvriers commencent à remettre en cause le nationalisme [4]” su Révolution Internationale n°399, marzo 2010.
[4] “ Sciopero della metallurgia a Vigo in Spagna, un passo avanti nella lotta proletaria [6]”, in Rivoluzione Internazionale n°145.
[5] Sul sabotaggio sindacale, leggere il nostro articolo pubblicato a settembre 2009: “Vigo (Espagne): les méthodes syndicales mènent tout droit à la défaite [7]”
In Gran Bretagna la classe dominante può anche utilizzate il patriottismo mostrato a Wooton Bassett[1] per sostenere ideologicamente la propaganda che il conflitto in Afganistan è “umanitario” e “contro il terrore”, ma non può nascondere il fatto che masse di giovani, che molto spesso sono obbligati a fare il soldato per motivi economici, stanno ritornando a casa nelle bare mentre il caos continua a regnare nella regione.
C’è un altro fattore: il fatto che la classe lavoratrice non è sconfitta. Fin dalla fine del periodo di controrivoluzione, verso la fine degli anni 60, la classe operaia a livello internazionale ha continuato, attraverso alti e bassi, a sviluppare la sua combattività. Basta guardare i recenti scioperi in Turchia, in Grecia ed in Gran Bretagna per rendersene conto. La borghesia questo lo sa e sono queste lotte o il pericolo che rappresentano a costituire un fattore frenante della tendenza a guerre più generalizzate. L’incapacità della borghesia a dominare completamente la scena sociale le impedisce, per quanto sofisticata possa essere sua propaganda, di farci marciare verso la guerra mondiale come ha fatto nel 1914 e nel 1939.
Per sua natura la classe operaia è una classe internazionale, non ha nazioni da difendere, nessuna parte da sostenere nelle guerre fra gli Stati capitalisti. I lavoratori di tutti i paesi devono, come ha scritto Lenin nel 1914, trasformare le guerre imperialiste in guerre civili e combattere l’unica guerra che può mettere un fine a tutte le guerre: la guerra di classe.
La nebbia ideologica del patriottismo che è calata nel 1914 e nel 1939, che ha oscurato questa necessità, è stata dispersa fino ad un certo punto dalla lotta di classe ma i rivoluzionari devono lavorare alla sua scomparsa totale per permettere alla classe operaia di vedere lo Stato capitalista per ciò che è in realtà, un mostro militarista assetato di sangue.
Queste erano le idee che hanno dominato le discussioni in entrambe le riunioni. Alla prima riunione, di novembre, sull’internazionalismo e la seconda guerra mondiale il punto centrale era su come la borghesia utilizza l’ideologia per difendere la guerra imperialista e quale è l’alternativa proletaria alla guerra. Ma più interessante è stata la discussione alla seconda riunione a febbraio su come gli internazionalisti rispondono alla guerra.
Durante gli ultimi anni la CCI ha visto uno sviluppo internazionale di un nuovo ambiente internazionalista. Alcuni di questi gruppi si identificano con la tradizione della Sinistra comunista mentre altri con l’anarchismo e il sindacalismo. Ma quale che sia la loro origine, questi pongono al centro della loro politica l’internazionalismo. Questo sviluppo ci ha obbligato a rivedere il nostro atteggiamento verso l’anarchismo. C’è un ampio movimento con una gamma di posizioni e i comunisti di sinistra, piuttosto che rifarsi a vecchi schemi, devono trovare il modo di lavorare con gli elementi internazionalisti di questo milieu ogni volta che è possibile. In questa ottica WR ha invitato esplicitamente i compagni della Anarchist Federation (AF), di Solidarity Federation e della Communist Workers Organisation (CWO) a partecipare alla riunione con lo scopo di chiarificare su che cosa siamo d’accordo o in disaccordo e come gli internazionalisti possono intervenire insieme in futuro. Dalla riunione è emerso chiaramente che tutti i presenti (i compagni della CWO e di AF e alcuni anarchici sciolti) erano d’accordo sulla centralità dell’internazionalismo come risposta alla guerra imperialista. La presenza di un membro della Tendenza Internazionale Bolscevica Trotzkista ha reso questo accordo più esplicito quando tutti i presenti hanno denunciato la versione dell’antimperialismo difesa da questa tendenza: essenzialmente un grezzo antiamericanismo basato sul chiamare gli sfruttati ed i diseredati a sostenere la propria borghesia, in quanto “male minore”, contro l’imperialismo più grande. C’è stato anche un certo accordo, basato sull’esperienza condivisa dei gruppi di No War But the Class War a Londra e Sheffield, su come i comunisti di sinistra e altri internazionalisti possono discutere e lavorare insieme. Le azioni esemplari e l’attivismo frenetico del passato sono stati rifiutati in favore di ulteriori discussioni e interventi unitari sui principi nel caso di altre campagne di guerra e manifestazioni pacifiste.
Questa riunione rappresenta un piccolo passo avanti nei rapporti tra internazionalisti in Gran Bretagna e per questo deve essere salutata, ma c’è ancora molto lavoro da fare. Questa prima discussione deve essere sviluppata e noi facciamo un appello a tutti gli internazionalisti, con qualsiasi corrente essi si identifichino, a prendere contatti con noi per organizzare riunioni comuni e sviluppare la discussione.
Kino 8/3/10
[1] Cittadina inglese dove si svolti i funerali dei soldati morti il l’1 ed il 5 aprile scorso in Afghanistan.
La maggior parte delle persone presenti alla riunione ha condiviso l’idea che oggi votare non ha alcun valore per la classe operaia e che malgrado molti lavoratori abbiano ancora illusioni verso il Partito laburista (qualcuno nella riunione si è riferito questo come al “male minore”), il Partito laburista ha dimostrato, fin dalla sua formazione all’inizio del Novecento, la sua lealtà completa alla classe dirigente piuttosto che alla classe lavoratrice.
E non solo in Gran Bretagna: dappertutto i governi di sinistra hanno stabilito record negli attacchi di austerità (un altro compagno ha fatto l’esempio del PASOK nell’attuale situazione in Grecia) e nel sostegno alla guerra (i sindacati ed il Partito laburista hanno un forte pedigree su questo piano sia nel secolo scorso che oggi e l’agitatore di sinistra recentemente defunto, Michael Foot, è stato un entusiasta della guerra delle Falklands-Malvinas).
Anche se le indicazioni di letture distribuite prima della riunione (Lettera aperta a Lenin di Gorter e L’estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin) e la presentazione hanno posto l’attenzione sui dibattiti della Terza Internazionale dove l’antiparlamentarismo è diventato una posizione chiave della Sinistra Comunista, non c’è stata la possibilità di sviluppare una discussione reale su questo punto, anche se sono stati ventilati diversi punti di vista sulle intenzioni e le preoccupazioni di Lenin e dei bolscevichi in questo periodo della rivoluzione russa (1920).
Gli altri gruppi politici presenti erano la CCI e Solidarity Federation e c’era un certo numero di persone non appartenenti ad alcun gruppo. La riunione è stata condotta in un’atmosfera fraterna e il forum si incontrerà di nuovo il 1° aprile.
Duffy 8/3/10
Il 14 marzo la CCI ha tenuto una Riunione Pubblica nella città di Monterrey, in Messico; ad essa ha assistito il Grupo Socialista Libertario e alcuni compagni che, sebbene fossero in numero limitato, rappresentano le diverse generazioni che costituiscono oggi la nostra classe. Il tema della riunione “Sviluppo della crisi economica e le mobilitazioni operaie in Grecia e Spagna”. La presentazione e la discussione che ne è seguita hanno riconosciuto la somiglianza con gli attacchi e le trappole con cui si confronta il proletariato in Messico, e quindi la discussione si è orientata verso l’analisi degli attacchi che stanno subendo i lavoratori del settore elettrico. La riunione ha quindi deciso di pronunciarsi in questo senso su questi problemi, con l’intento di offrire all’insieme della classe operaia la possibilità di inserire nella sua riflessione le idee che altri proletari producono, cosa che può permettere un migliore bilancio delle esperienze e di trarre le lezioni da queste.
1. La crisi che assilla il capitalismo spinge la classe dominante a mettere in pratica misure che colpiscono in modo profondo le condizioni di vita dei salariati; questa situazione non è propria del Messico, in ogni parte del mondo si mettono in atto programmi che alzano il livello dello sfruttamento al fine di recuperare e proteggere i profitti capitalisti. In questa direzione vanno le politiche che si annunciano in Spagna e che già si stanno attuando in Grecia, ma anche gli attacchi in Messico, con l’aumento dei prezzi e delle tasse e con i licenziamenti massicci di lavoratori, come è stato con gli elettrici e i minatori.
2. I governi di destra come di sinistra sono nemici dei lavoratori. In Messico è stato un governo di destra ad applicare violente misure contro i salariati, ma in Spagna e in Grecia, governati da partiti di sinistra, vengono attuati piani simili. Destra e sinistra attuano attacchi che hanno il solo obiettivo di aumentare lo sfruttamento e peggiorare le condizioni di vita degli operai. L’unica preoccupazione dei governi di destra o di sinistra è soddisfare la sete di profitti. E’ per questo che i lavoratori non possono sperare di poter risolvere i loro problemi con un semplice cambio di governo.
3. Lo sviluppo della combattività operaia di fronte agli attacchi della borghesia, fa sì che si cerchi di costruire trappole per disperdere il malcontento e la forza delle mobilitazioni dei lavoratori. Un esempio particolarmente significativo lo si è avuto alla Compagnia LyFC[1], dove il sindacato asseconda gli attacchi del governo con manovre ed inganni. E’ noto lo sforzo del sindacato per isolare gli operai del settore elettrico dal resto della classe, imponendo obiettivi estranei ai loro interessi, come la “difesa dell’impresa statale”, della “economia nazionale” o del sindacato, e con la smobilitazione con la scusa che le leggi o gli avvocati avrebbero potuto aiutare e dare una soluzione.
4. La difesa delle proprie condizioni di vita da parte dei lavoratori è già, in sé, una critica al sistema che si basa sulla separazione tra i proprietari dei mezzi di produzione e i salariati, ma perché queste espressioni mostrino la forza reale dei lavoratori occorre che esse siano sotto il controllo dei lavoratori stessi, senza delegarlo a qualsivoglia sindacato e senza che esse siano deviate in strade senza uscita come quelle delle urne elettorali.
5. L’appello fatto dallo SME[2] di fare ricorso agli avvocati come soluzione, le mobilitazioni inquadrate in modo da impedire una reale unificazione, gli sforzi per sottomettere il malcontento e piegarlo di fronte a qualche partito, deputato o personaggio politico, mostrano come lo SME – come tutti i sindacati, senza eccezione - non è una struttura proletaria visto che il suo lavoro è stato di evitare la solidarietà, far passare i licenziamenti e diffondere la demoralizzazione. L’insistenza dello SME nel fare appelli alla difesa del capitale statale e di cercare di usare i lavoratori come carne da cannone, “recuperando postazioni” e spingendo agli scontri con la polizia, anche se sembrano pratiche radicali non sono che provocazioni che arricchiscono la trappola in cui hanno trascinato i lavoratori.
6. Di fronte agli attacchi portati dai governi e alle trappole costruite dai sindacati, i lavoratori devono riflettere sulla propria condizioni di sfruttati e sulle capacità che hanno come classe quando si uniscono e si organizzano. Le esperienze degli scioperi in Turchia[3] di dicembre e gennaio dimostrano come il proletariato può lottare al di fuori della struttura sindacale, mettendo in campo così la sua vera forza.
14 marzo 2010
Nel mese di marzo la nostra organizzazione ha tenuto delle Riunioni Pubbliche sul tema “Al suicidio e alla sofferenza sul posto di lavoro, una sola risposta: la solidarietà di classe [9]”[1].
In essa si metteva innanzitutto in evidenza come il fenomeno dei suicidi sul posto di lavoro o comunque legati a questioni di lavoro si sono moltiplicati negli ultimi mesi, e non solo in Italia; anzi, in alcuni paesi e in alcune fabbriche, come la Telecom francese, il numero di lavoratori spinti al suicidio ha raggiunto un livello assolutamente inedito e clamoroso. I motivi di questi suicidi possono sembrare a volte diversi: in alcuni casi, come a France Telecom, è soprattutto il clima pesante che si vive al lavoro (controlli, spostamenti, ritmi sostenuti, ecc.) che creano uno stress che ha spinto un certo numero di lavoratori al suicidio; in altri casi è la perdita del lavoro la causa scatenante di questi gesti estremi. Ma a guardare più da vicino, al di là della fenomenologia immediata, la causa di questi suicidi è come si vive il lavoro in questa fase della storia del capitalismo: non più soltanto come una fatica, uno sfruttamento e una alienazione (per non poter godere pienamente del frutto del proprio lavoro), ma come una vera e propria sofferenza, una sofferenza che giunge fino a diventare tanto insopportabile da spingere a farla finita direttamente con la vita.
Questo fenomeno è stato studiato anche da psicologi che confermano come questa sofferenza non abbia niente di “esistenziale”, di personale, ma sia legato alle condizioni che si vivono oggi sul posto di lavoro.
Nelle discussioni che si sono avute nelle diverse riunioni tenute da noi su questo tema, ci sono state diverse testimonianze a conferma di questo clima. Ma, più interessanti ancora, sono state le riflessioni che, a partire dalla nostra introduzione, si sono sviluppate nelle discussioni, sempre vivaci e partecipate.
Una di queste ha riguardato come considerare queste persone che si suicidano: sono i più deboli, cioè quelli che crollano per una loro debolezza personale, o sono quelli più sensibili, che risentono più fortemente questa situazione, che non vogliono accettare e che, in questa fase particolare, esprimono la loro rabbia, la loro ribellione con un gesto eclatante, che possa spingere altri a riflettere, o che comunque venga sbattuta in faccia ai responsabili di questa situazione. Nella discussione la maggioranza degli intervenuti, se non tutti, hanno optato per questa seconda spiegazione, che più si lega ad una analisi oggettiva della società attuale, rispetto all’altra che rischia di ridurre un fenomeno ormai sociale ad una questione individuale.
Se questo grido di ribellione assume questa forma è per le difficoltà attuali della lotta di classe, per l’isolamento che questi lavoratori sentono, per la mancanza di quella solidarietà che possa trasformare questa volontà di ribellione in lotta aperta e collettiva (che a sua volta dà coraggio e sviluppa ulteriormente il senso di solidarietà, fino all’estremo limite di aprire una prospettiva di una diversa società). L’esistenza di queste difficoltà non vuol dire che non esistono le lotte o che in queste lotte non si manifestino anche esempi di solidarietà:
- In Turchia, a dicembre e gennaio scorsi, ci sono state lotte operaie alla Teckel che hanno unito operai turchi e curdi, e hanno mostrato una volontà tenace di estendere la lotta ad altri settori[2];
- in Spagna, a Vigo, i lavoratori attivi dei cantieri navali e i disoccupati hanno manifestato insieme, raggruppando altri lavoratori fino ad ottenere il fermo di tutto il settore navale[3];
- e questo costituisce la ripetizione di quello che era già successo in Gran Bretagna alla raffineria di Lindsey da parte di operai edili nel gennaio2009 o in Spagna, ai cantieri navali di Sestao nell’aprile 2009[4].
Il punto è che queste lotte sono ancora troppo poche o poco estese e quindi non all’altezza di contrastare le conseguenze anche psicologiche della crisi.
La questione della solidarietà è veramente al centro dei problemi attuali che i lavoratori incontrano sul posto di lavoro, ma è anche un sentimento che attraversa la società tutta intera, toccando non solo gli strati popolari (quelli che, per le loro condizioni materiali, sono più portati alla ricerca della solidarietà). Nella discussione alle riunioni pubbliche sono stati fatti diversi esempi in cui si mostrava come all’origine di alcuni suicidi ci fosse stato un sentimento di profondo sconforto nell’essere costretti ad assumere un ruolo di vessazione rispetto ad altri. E’ il caso di quei piccoli imprenditori, ex operai, che provano ripugnanza a ricorrere ai licenziamenti a causa della crisi, o dei dirigenti che sono indignati da quello che bisogna fare agli operai a causa della crisi: è successo, ad esempio, pochi mesi fa vicino Napoli, dove il direttore di un supermercato sull’orlo del fallimento si è suicidato perché il padronato, a fronte dei mesi di salari arretrati vantati dagli operai, gli aveva ordinato di dare a questi l’elemosina di duecento euro: piuttosto che rendersi complice di questa umiliazione per i suoi ex compagni di lavoro, il direttore si è suicidato, esprimendo in questa maniera estrema la sua volontà di ribellarsi alla barbarie di questo sistema.
Questi episodi dimostrano che il senso della solidarietà è insito nell’essere umano, al punto da coinvolgere anche persone che non fanno parte (o non fanno più parte) della classe operaia. Un altro esempio lo si è avuto di recente con quell’imprenditore che ha pagato, al posto di quei genitori che non avevano potuto farlo, le rette per la mensa scolastica a dei bambini a cui il sindaco aveva tagliato il cibo, scrivendo anche una lettera in cui spiegava che a spingerlo era stato lo schifo verso il razzismo insito nella decisione del sindaco.
Da questi esempi la discussione nelle riunioni pubbliche ha anche sviluppato l’idea che è in corso una proletarizzazione dei ceti medi che allarga il numero di persone interessate ad opporsi a questo sistema: altro che scomparsa della classe operaia! (Da sempre erroneamente identificata con gli operai di fabbrica). La crisi storica e insormontabile di questo sistema allarga sempre più la forbice fra chi possiede di gran lunga più di quanto gli serve per vivere (una stretta minoranza della popolazione, anche nei pesi “ricchi”) e chi è ormai ridotto alla miseria, o alla soglia di questa anche quando ha un lavoro.
Un ulteriore punto, contenuto nella relazione e non sviluppato a sufficienza nelle discussioni, vale la pena di riprendere qui: è la questione del significato sociale del lavoro, anche quello alienato dell’operaio. I lavoratori che si sono suicidati perché licenziati, non lo hanno fatto solo perché così veniva a mancare il mezzo di sostentamento per sé e la propria famiglia, ma anche perché con la perdita del lavoro essi si sentivano inutili socialmente. In questo aspetto tragico e negativo c’è tuttavia, almeno implicitamente, il senso dell’importanza che i lavoratori danno al loro lavoro, anche quello alienato e sfruttato che ci offre il capitalismo. In effetti è il lavoro degli sfruttati che fa funzionare la società, e non certo il capitale o i suoi funzionari (che economicamente sono dei semplici funzionari del capitale e socialmente dei parassiti). Questo sentimento è fondamentale e se oggi la perdita del lavoro può portare al suicidio, la comprensione piena e cosciente di questa importanza è anche uno degli elementi che porterà la classe operaia a proporsi per la direzione e la trasformazione della società: è il sudore e il sangue dei lavoratori che produce la ricchezza di questa società, ricchezza che viene però loro strappata, è per questo che gli operai non hanno che da perdere le loro catene, e hanno un mondo da conquistare.
Helios
[1] La presentazione della riunione è scaricabile dal nostro sito dal nostro sito [9].
[2] Vedi articolo sul nostro sito web nella sezione ICConline.
[3] Vedi articolo in questo stesso numero.
I dati essenziali che hanno caratterizzato queste elezioni e che al tempo stesso sono fonte di dilemma e preoccupazione per molti, in particolare per quanti si sentono parte del “popolo della sinistra”, sono due: il forte astensionismo e la scalata della Lega che è l’unica che ha veramente vinto e che ha permesso al centro destra di conquistare anche delle regioni finora roccaforti della sinistra.
Molti si chiedono: come è possibile che con tutti gli attacchi che ci ha fatto questo governo, con tutto il marciume politico e morale di cui ha dato prova, tanti lavoratori continuano a votare Pdl o votano addirittura per la Lega? Non è forse questa l’espressione di un’adesione all’ideologia reazionaria, razzista e antidemocratica di queste forze politiche e pertanto di un pericoloso segno di arretramento politico e culturale dei lavoratori?
Questo gran numero di astensioni non ha forse favorito la vittoria della coalizione di centro destra favorendo così una prospettiva di ulteriore degrado politico sociale e culturale della società?
La crescita dell’astensionismo
Per rispondere all’insieme di queste questioni è necessario capire innanzitutto di cosa è espressione l’aumento dell’astensionismo. Effettivamente, con queste elezioni, si è raggiunto un record: se ai 14,6 milioni di persone che non sono andate a votare si aggiungono gli altri 2 milioni e mezzo che ci sono andati ma per annullare la scheda, si arriva al 41% di persone che nei fatti non ha votato. E’ vero che le elezioni regionali riscuotono un interesse limitato. Ma non è solo questo. Questi dati confermano una dinamica che è in aumento: dal 2000 ad oggi c’e stato un calo complessivo dell’affluenza alle urne del 12,4%. In più questa erosione della partecipazione alle urne è riscontrabile anche nelle altre grandi democrazie del mondo. In Francia, ad esempio, le recenti elezioni regionali hanno visto un’astensione del 53% al primo turno e del 49% al secondo.
E’ evidente che c’è una tendenza sempre più forte ad una disaffezione della popolazione verso le elezioni. Come spiegarlo? E’ certo che l’alternanza destra-sinistra permette alla borghesia di mantenere il gioco democratico, ma come contropartita mostra sempre più chiaramente che con la destra o con la sinistra le condizioni dei lavoratori non fanno che peggiorare, il che non può che sviluppare il sentimento che le elezioni non servono a niente. Questo astensionismo è il prodotto di uno scoraggiamento verso i “politici” che non esitano a fare imbrogli, ingannare la gente, pensare ai propri interessi senza alcun rispetto per niente e nessuno, tantomeno per la stragrande maggioranza della gente che, per poter sopravvivere, deve fare i salti mortali. E’ significativo a questo proposito l’astensione di un intero paese, Bocchigliero in Calabria, dove è stato lo stesso sindaco a dire ai cittadini di non votare in segno di protesta rispetto al disinteresse delle forze politiche per i bisogni del paese.
Questo sentimento non è esclusivo di chi si è astenuto, ma anche di quanti, pur tappandosi il naso, hanno votato il Pd o Idv solo perché altrimenti si sarebbe lasciato campo libero alla “fascistizzazione della società”.
Ma allora, perché la Lega ha avuto tanti voti? Un primo aspetto da tenere in conto è che nei fatti la Lega ha recuperato essenzialmente i voti persi dal Pdl, così come dei voti Pd sono passati all’Idv, cioè sono state “premiate” le due frazioni politiche meno screditate da scandali e baruffe interne e che, per lo meno, mostrano una maggiore coerenza e radicalità nel portare avanti le loro “battaglie”. Inoltre, quando la crisi economica getta milioni di persone nella miseria, quando si è constatato per anni che sia da destra che da sinistra arrivano solo chiacchiere e belle promesse, il richiamo ideologico nella scelta del voto tende a scemare e, nel momento in cui ti trovi da solo tu individuo e la scheda, o ti sfoghi sulla scheda mandando tutti a quel paese, o scegli in base a quello che nell’immediato ti viene proposto per migliorare il posto dove vivi, sperando che questa volta almeno si possano togliere i cumuli di spazzatura per strada, si possa avere una scuola o un ospedale che funzioni meglio, ecc. La speranza di chi vota Lega è uguale a quella di chi vota Pd, Idv o altro: sperare di poter vivere in condizioni più decenti.
Ma c’è ancora un altro aspetto. Più c’è miseria, precarietà e disagio, più ha buon gioco una forza populista come la Lega che, sul territorio, si fa paladina dei bisogni della gente contro il “governo ladrone”, sfruttando ed alimentando una lotta tra poveri. Se mancano i posti all’asilo o non ci sono case popolari per tutti, quando non si vede come fare una battaglia che coinvolga tutti quelli che ne hanno bisogno, siano essi italiani, polacchi, rumeni o africani, il precario italiano che non sa dove vivere o la donna italiana che non sa dove lasciare il figlio quando va a lavorare, sono spinti a votare chi gli promette di poter risolvere il suo problema immediato, anche se a scapito di un altro che è immigrato. Naturalmente questo è un pericolo importante perché divide la classe operaia mettendo i proletari gli uni contri gli altri, ma è una conseguenza della miseria e di una azione precisa di mistificazione e divisione che non può essere superata con la buona coscienza del singolo individuo nel chiuso di un’urna, ma solo con lo sviluppo di una reazione unita e solidale dei proletari contro le politiche di tagli e di attacchi fatte sulla propria pelle.
La crescita dell’Idv esprime per certi versi la stessa presa del populismo, anche se su di un piano diverso: quello del rigetto di un mondo politico fatto di corruzione, di disprezzo per il senso di giustizia sociale, di prepotenza e prevaricazione nella soddisfazione dei propri interessi. E’ su questo sano sdegno che un Di Pietro, un Santoro, un Travaglio o un Saviano riscuotono tanta simpatia. Come esprime molto bene un intervento fatto sul forum NapoliOltre[1]: “Il popolo della sinistra (…) continua a dire che non si sente rappresentato dalle persone che si sono candidate per essere elette ma comunque si vota per evitare il peggio. Quindi si vota contro più che si vota per… (…). Io stessa riconosco che manca una reale politica di sinistra in questo come anche nei precedenti appuntamenti elettorali ma non ce la faccio proprio ad astenermi, perchè penso che lasciare spazio al Pdl, determina un arretramento sociale e culturale”
Ma le forze della sinistra borghese possono rappresentare una reale alternativa almeno su questo piano? E’ difficile crederlo visto, ad esempio, su cosa si è basata la gestione Bassolino in Campania: clientele e favori, che non hanno al fondo nulla di diverso dal “metodo Berlusconi” se non l’entità e la spudoratezza[2].
Il peso dell’ideologia democratica
La realtà della crisi economica e della decomposizione sociale ed il fatto che per decenni governi di destra o di sinistra non hanno migliorato in niente le condizioni dei lavoratori, spinge alla comprensione che scegliere una frazione della borghesia o un’altra non risolve un bel niente. Tuttavia l’astensionismo non è tanto espressione di una consapevolezza di cosa siano veramente le elezioni, quanto piuttosto dello sconforto di fronte alla mancanza di una prospettiva reale. Non a caso anche chi si è astenuto, in modo più o meno cosciente, ha vissuto la vittoria del centro destra comunque come una sconfitta. D’altro canto chi, nonostante il disgusto, ha votato, tende a colpevolizzare gli altri per le sorti che ci aspettano: come puoi lamentarti degli attacchi del governo se poi non fai niente per manifestare il tuo dissenso?
Questo è espressione del peso ancora forte dell’ideologia democratica, secondo la quale: “Puoi anche non credere più nella politica, ma devi votare perché è un tuo diritto, ma anche un tuo dovere di cittadino che attraverso il voto partecipa alla vita sociale esprimendosi liberamente”. E questo è lo strumento più potente per mantenere l’illusione che, per quanto orribile, siamo in una società libera; in una società dove, nonostante tutto, ogni individuo può decidere della propria sorte e di quella della propria collettività. Quando invece è esattamente l’opposto. Come ha scritto un gruppo di lavoratori di un ospedale di Napoli in un volantino:
“O si lotta uniti e solidali attraverso l’autorganizzazione di scioperi di massa per la difesa delle proprie condizioni di vita ed a largo raggio, senza delegare a nessuno la nostra vita, o nelle urne si perde: il trucco sta nel fatto che spingendoci a votare ci danno l’illusione che possiamo scegliere democraticamente e quindi autonomamente il nostro futuro. In realtà andiamo solo a votare quelle politiche economiche antioperaie che la borghesia attraverso il proprio quadro politico (parlamento borghese) ha già deciso di adottare prima dell’elezioni”. (Aprile/2010, Lavoratori Comunisti (che pensano con la loro testa)”[3]
I proletari devono essere coscienti che, al di là della maggiore comprensione della futilità e della sterilità del processo elettorale, è l’ideologia democratica quella che costituisce uno dei più forti ostacoli alla piena espressione della classe operaia come unica forza politica e sociale capace di cambiare concretamente la società e dare a tutti un futuro.
Eva, 25 aprile 2010
[2] Vedi su questo stesso numero “Corruzione: parte integrante della politica parlamentare”
[3] volantino esposto e diffuso in un ospedale di Napoli scaturito da una discussione tra colleghi sulle elezioni e pubblicato sul forum NapoliOltre: https://napolioltre.forumfree.it/?t=47112886&st=15 [13]
La gente si mette a fare politica borghese per i motivi più vari, ma pochi possono resistere all’opportunità di usare il fatto di essere membri del parlamento o del governo per cercare di aumentare le proprie finanze. La loro lealtà allo Stato nell’ingannare e sfruttare la popolazione è ampiamente ricompensata dai lauti stipendi, dai regali, dai lussuosi privilegi e da tutto ciò che passa abbondantemente tra le loro mani.
Il continuo scandalo delle spese di ministri e parlamentari, dei responsabili delle varie strutture statali ha rivelato questa verità elementare del funzionamento della macchina democratica dello Stato.
È certamente interessante conoscere i brutti particolari dell’ingordigia di quelli il cui lavoro dovrebbe essere l’applicazione dei principi di uguaglianza e di responsabilità sociale. È anche istruttivo vedere l’inesorabile aumento dell’avarizia dei politici: sembra che più il capitalismo affondi nella sua crisi irrisolvibile, più i responsabili del sistema cercano di conservare la propria pelle a scapito della popolazione con un numero sempre maggiore di furti dalle finanze pubbliche. Le colossali indennità pagate ai manager delle banche, che spesso sono gli stessi responsabili delle perdite di miliardi di euro avutesi nella crisi del credito, sono una eco del settore privato della sordida mungitura dei parlamentari dalla mucca pubblica. Ma perché i media sbattono tutta queste venalità davanti ai nostri occhi sulle prime pagine dei giornali e con le prime notizie televisive? Perché non continuano a tenerle nascoste per non far infuriare la massa della popolazione che nel frattempo affonda nella povertà? La borghesia ha imparato da tempo – forse con le inchieste sul lavoro infantile nelle fabbriche del diciannovesimo secolo – che non può nascondere completamente la corruzione e l’ampia disumanità del sistema capitalista agli occhi dei lavoratori. Deve trovare un modo per presentarle e preservare il sistema sociale attuale dalla grave minaccia degli sfruttati deviandoli su false questioni. Quindi le classi dirigenti più intelligenti e più potenti del mondo a volte ci fanno vedere un pezzo di verità ma nello stesso tempo presentano la loro intrinseca natura di sfruttatori come qualche cosa di provvisorio, di eccezionale oppure come qualcosa che possa essere “riformata” facendo pressione tramite l’attuale macchina democratica.
Su questo piano la sinistra del capitale mostra la sua totale dedizione al capitalismo con la pretesa che possiamo “smascherare” tutti i vari abusi del sistema. Così gli scandali delle spese dei parlamentari, delle frequentazioni poco pulite, della corruzione dei politici, etc., vengono scoperti da un giornalista coraggioso o da un magistrato inflessibile; i politici sorpresi in queste attività poco edificanti scompaiono temporaneamente dalla scena, mentre i politici più esperti si uniscono nell’impegno di ripulire la vita pubblica e… bla, bla, bla. Tuttavia questo familiare processo di redenzione che avviene dopo ogni scandalo spesso è poco convincente; il meccanismo elettorale non sempre ne viene rinvigorito. Oggi la borghesia ha meno possibilità di manovre e gli scandali sono sempre di più e più grandi. La corruzione dei parlamentari e dei politici non è un’eccezione del sistema, è il sistema democratico.
Como 6/3/10
(da World Revolution, n.332, organo della CCI in Gran Bretagna)
Il giorno 22 aprile 2010, dopo 16 anni di politica di stretta alleanza, dopo quasi due anni dalla co-fondazione del PDL e a un mese circa dalla conclusione di una tornata elettorale che li ha visti stravincere su una sinistra sempre più pallida e insignificante, Berlusconi e Fini hanno dato luogo ad uno scontro storico, epocale, di quelli di cui la stampa di tutti i paesi è sempre ghiotta perché dà da scrivere per settimane e settimane. Ma cosa è mai successo? Si tratta di un dissapore momentaneo o di una spaccatura permanente? E Fini non poteva evitarla? E se no, perché si è deciso soltanto adesso? Ed infine, cambierà qualcosa, cambierà qualcosa a favore dell’Italia?
Cosa è successo
Quello che è successo è la maturazione di uno scontro le cui premesse si trovano nella storia del rapporto tra Fini e Berlusconi e a cui abbiamo già fatto cenno in precedenza:
“… la questione morale assume un’importanza tutta particolare per la borghesia. Un governo che deve far fronte ad aziende che chiudono, ad un aumento enorme della disoccupazione, ad un numero crescente di famiglie che non riescono più a sopravvivere, ad una massa enorme di giovani senza alcuna prospettiva ed al pericolo che tutto questo comporta sul piano sociale, deve essere un governo che abbia un minimo di credibilità. Non può presentarsi come una banda di faccendieri e uomini di malaffare, impegnati in faide continue per conservare il potere, di personaggi senza alcuna etica e morale. Ed è infatti da qualche tempo che Fini, da uomo politico di vecchia guardia, parla del pericolo di “disaffezione alla politica” soprattutto tra i giovani. (…)
Anche se esistono degli interventi che sembrerebbero portare di tanto in tanto serenità e pacificazione nel centro-destra (…), bisogna tener presente che mentre in un partito come la vecchia Democrazia Cristiana scontri anche durissimi tra correnti differenti venivano sempre ricomposti quando era in gioco la vita del partito, nel Pdl, che è essenzialmente l’unione contingente di forze con tradizioni politiche e un modo di fare politica abbastanza diversi, la lotta intestina tra queste rischia di mettere in gioco il partito stesso e di conseguenza la capacità della destra di governare in questo momento.” [1]
Questo lo scenario che noi abbiamo ricordato nel settembre scorso. Quello che è successo il 22 aprile, e che non si era mai visto prima, è che Fini, dopo anni di incubazione di critiche piuttosto dure rivolte all’operato di Berlusconi, le ha finalmente esternate nell’ambito della prima riunione della direzione del partito davanti ai microfoni e alle telecamere che trasmettevano in diretta a tutto il popolo italiano. La critica di Fini ha toccato ripetutamente gli aspetti più legati al dispotismo berlusconiano facendo riferimento a “gli insulti ricevuti da giornalisti lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio”[2] o alle leggi ad personam sulla giustizia[3]. Ma la critica più importante è stata quella di appiattimento sulla Lega Nord, con una politica fotocopia rispetto a quella di Bossi, articolata su una serie di punti come quello degli immigrati, che vanno comunque rispettati come persone umane, anche se clandestini, o quello del 150° anniversario dell’unità d’Italia, che viene preparato in sordina per non rabbuiare il prezioso alleato padano, o ancora quello del federalismo, “che senza alcune cautele, in tempi di vacche magre, rischia di mettere a repentaglio la coesione sociale”[4]. Ugualmente importante la preoccupazione di Fini per la credibilità dell’operato del governo: “L’ottimismo va bene, ma fra tre anni dobbiamo presentare agli elettori fatti (per cui, siccome c’è la crisi) “dobbiamo rimodulare il programma sulle cose che è possibile fare da qui alla fine della legislatura”[5].
Un dissapore momentaneo o una spaccatura permanente?
Come la stessa stampa ha lasciato intendere, quella a cui abbiamo assistito non è un malinteso passeggero ma una resa dei conti che ha lasciato segni profondi e che ha reso la convivenza dei due leader nello stesso partito di fatto insostenibile. Ma questo non significa che Fini se ne uscirà dal partito, almeno con le sue gambe, non ne ha alcun interesse. Infatti l’obiettivo reale che ha in questo momento Fini non è tanto quello di recuperare un Larussa, un Alemanno o uno Schifani, che sono ben contenti di essere passati nella squadra di Berlusconi che sa bene come ripagarli per la loro infedeltà, ma di cominciare a lavorare dall’interno del partito verso la sua base e soprattutto verso una parte non trascurabile del suo elettorato che, pur avendo votato in passato Berlusconi, si è sentito a disagio per la serie di porcate che avrebbe commesso il capo del governo e che la magistratura a più riprese gli ha attribuito. Insomma Fini cerca di coprire tutto lo spazio a destra che c’è per una destra seria e responsabile, spazio che finora era stato lasciato parzialmente coperto solo dall’UDC di Casini.
Perché Fini si è deciso soltanto adesso e non ha spaccato prima con Berlusconi?
Se Fini si è deciso solo adesso a fare questo passo è perché è stato un po’ travolto dall’irruenza di Berlusconi. La stessa fondazione del PDL è stata una pensata di Berlusconi maturata dalla sera alla mattina e sbandierata pubblicamente per la prima volta in un comizio improvvisato dal capo del governo salendo sul predellino di un’automobile in una pubblica piazza di Milano. Fini aveva solo da prendere o lasciare, e ha scelto di prendere. Ma in qualche modo Fini si è anche illuso di poter usare Berlusconi e la sua capacità di attirare consensi salendo sul suo carro, ma questo gli è costato la perdita della fedeltà di una serie di colonnelli del suo ex partito che, un po’ alla volta, si sono disaffezionati al capo storico per accostarsi sempre più a chi poteva concedere loro fette reali di potere. Ma adesso, dopo le ultime elezioni regionali, Fini non poteva più attendere. Le ragioni sono tutte nel discorso che lui ha fatto alla direzione del Pdl. E queste ragioni riguardano effettivamente la natura stessa del partito e la sua azione.
Berlusconi, Bossi, Fini, tre anime diverse e non sempre conciliabili della destra italiana
In realtà Berlusconi, Bossi e Fini rappresentano tre anime diverse della destra italiana. Berlusconi, lo abbiamo detto più volte, è un personaggio ambiguo dal passato non chiaro che è sceso in politica essenzialmente per curare i suoi affari personali e questo è l’unico dato sicuro. Il suo straripante potere economico ha forzato, una dopo l’altra, le varie regole del gioco fino a comprare, in qualche modo, i favori dei suoi vari competitori e a raggiungere una situazione di dominio pressoché incontrastato sulla scena politica italiana. La sua politica populista, la menzogna ripetuta ad oltranza come metodo di convincimento delle masse popolari, la corruzione come sistema di vita, hanno ottenuto finora risultanti devastanti per l’Italia, ma estremamente vantaggiosi per la sua gang.
Bossi è il leader di un partito che ha fatto dalla sua origine del separatismo della cosiddetta Padania la sua bandiera. Nella sostanza la Lega è una bella pensata che punta a drenare nelle regioni del nord tutta la ricchezza prodotta sul territorio italiano. In particolare il federalismo fiscale, ovvero l’idea che ogni singola regione provveda a gestire economicamente le proprie risorse, significa che, sebbene la ricchezza di una regione sia il prodotto ultimo di una serie di elementi che spesso provengono da altre parti del paese o da altri paesi, come la mano d’opera, le materie prime e gli stessi consumatori che costituiscono il mercato per le merci prodotte, il ricavato resta esclusivamente sul posto in cui si realizza il passaggio ultimo del ciclo economico. E’ esattamente la stessa logica della politica neocolonialista dove le potenze economiche hanno drenato e drenano, secondo i sacri principi del capitalismo, tutte le risorse ai paesi “emergenti” togliendo loro ogni possibilità di recuperare alcunché.
Fini è invece un ex fascista convertito alla democrazia perché ha capito in tempo che sono cambiati i tempi e che il fascismo non è più attuale. Ma, da persona che fa le cose a modo e non essendo né un arruffapopoli né tantomeno un secessionista alla Bossi, essendo anzi erede di una destra che, pur nei suoi eccessi, ha fatto della mistificazione sociale la sua bandiera, tiene sia all’unità del paese sia a basare la sua leadership sulla credibilità della sua azione politica. E non avendo il centone facile come ce l’ha Berlusconi, deve badare a fare bene i suoi passi.
Anche se il quadro che abbiamo dato è piuttosto essenziale, si capisce abbastanza bene come mentre Berlusconi può convivere tranquillamente con Bossi, e Bossi con Berlusconi, non altrettanto si può dire per Fini che risulta, sulla distanza, incompatibile sia con l’uno che con l’altro. In particolare si capisce perché Fini, nel suo discorso alla direzione del Pdl, abbia additato Bossi come l’elemento di divisione nella misura in cui Fini giustamente si preoccupa della perdita di consenso che potrà subire il Pdl, e la componente ex-AN in particolare, in seguito alla realizzazione di un federalismo fiscale che dovesse penalizzare eccessivamente le regioni del centro-sud. Tutto questo tanto più che la crisi economica non è esaurita e che i vari Stati si preparano a imporre alle loro popolazioni misure draconiane del tipo di quelle che si sta cercando di imporre in Grecia e che stanno suscitando giustamente tanta reazione.
Naturalmente è ancora troppo presto per capire cosa accadrà nel prossimo futuro. Ma di una cosa possiamo essere sicuri fin da questo momento: comunque vadano le cose, i lavoratori non ne avranno alcun vantaggio.
Ezechiele 25 aprile 2010
[1]Vedi Dietro lo scandalo di escort, festini e cocaina, gli scontri nella maggioranza governativa [17], su RI n°162;
[2] Corriere della Sera del 23/4/2010.
[3] “… non dobbiamo dare l’impressione che stiamo difendendo sacche di impunità, ricordati quando volevi far saltare seicentomila processi. (…)? Quello era un’amnistia mascherata …” (La Repubblica 23/04/2010).
[4] da La Repubblica del 23/4/2010.
[5] Idem.
Le truppe britanniche, nel frattempo, hanno adottato nuove regole da seguire denominate “courageous restraint” (riduzione coraggiosa). Ciò significa che il prode esercito britannico ha generosamente deciso di utilizzare meno artiglieria pesante nelle zone popolate. L’idea è che la popolazione afgana, non essendo più macellata indiscriminatamente, sarà riconoscente agli alleati e si allineerà dietro il governo di Karzai.
Presi tra due fuochi
Gli alleati stanno provando a spostarsi da un uso della nuda forza ad una strategia più sfumata destinata a vincere su ‘i cuori e la mente’ della popolazione afgana. La brutalità dell’occupazione è bene illustrata da un avvenimento orribile (riportato solamente da The Times in Gran Bretagna) - il presunto massacro di parecchi bambini da parte delle truppe degli Stati Uniti nella provincia di Nurang nel dicembre 2009: “gli investigatori del governo afgano hanno detto che otto scolari sono stati uccisi, tutti eccetto uno della stessa famiglia. La gente del posto ha detto che alcune vittime erano state ammanettate prima di essere uccise". Questa atrocità ha innescato dimostrazioni antiamericane a Kabul, dove ci sono stati altri numerosi ‘errori’in sparatorie, esecuzioni, attacchi missilistici e raid aerei sui civili.
Ma malgrado la nuova politica della ‘riduzione’, sono state ancora utilizzate armi pesanti e durante i primi giorni del ‘Moshtarak’ un missile ha distrutto una casa, uccidendo 12 persone, di cui 6 bambini. Inizialmente, gli Stati Uniti si sono scusati e hanno addotto problemi tecnici, ma successivamente hanno ritrattato, dicendo che la casa veniva usata dai Talebani. Naturalmente questo è il logico risultato dell’incoraggiamento degli alleati nei confronti dei residenti a rimanere nelle loro case durante l’offensiva. I residenti sono stati avvertiti con un volantino che diceva di non dare riparo ai Talebani.
Qualunque sia la realtà che si cela dietro questo avvenimento, è chiaro che dei civili innocenti sono, ancora una volta, le reali vittime del conflitto. Se riescono a resistere ai ribelli armati che entrano nelle loro case, si trasformano in legittimi obiettivi dei missili degli Stati Uniti.
Questo non vuol dire che i Talebani applicano la politica della ‘riduzione’ quando uccidono i civili. Per niente. Secondo la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, i morti tra i civili nel 2009 sono stati 2412 con in più 3566 feriti. Il 67% è direttamente attribuibile alle forze antigovernative (cioè ai Talebani), il 25% alle forze filogovernative, il resto è poco chiaro.
Prospettive di successo
Indipendentemente dalla valutazione dell’entità delle forze in gioco, non c'è motivo di supporre che l’Operazione Moshtarak giunga ad una rapida conclusione. Questo l’abbiamo già detto. Il nucleo originale dei Talebani è stato in gran parte schiacciato dall’offensiva iniziale degli Stati Uniti nel 2001. Ciò non ha impedito il ricostituirsi e il reinsediamento del governo fantoccio di Karzai. In effetti, il risorgere dei Talebani è dovuta almeno in parte alla corruzione e al gangsterismo diffuso dal regime di Karzai.
In una recente inchiesta fatta da Oxfam in Afghanistan “il 70 per cento della popolazione intervistata ha visto la povertà e la disoccupazione come le principali conseguenze del conflitto. Quasi la metà degli intervistati ha detto che la corruzione e l’inefficacia del loro governo erano i motivi principali per il combattimento continuo, mentre il 36 % ha detto che la colpa era dell’insurrezione dei Talebani”.
La terribile povertà della maggior parte della popolazione afgana è dovuta al 40% del tasso di disoccupazione, una base di potenziali reclute per i Talebani. Per quanto riguarda la corruzione, in qualche inchiesta viene evidenziata come ancora più preoccupante della violenza e della povertà. Le tangenti rappresentano quasi il 23% del P.I.L. nazionale (approssimativamente uguale al commercio dell’oppio). Non sono gli afgani a guadagnarci nell’affare: tre quarti di tutte le indagini di corruzione riguardano gli occidentali.
Lungi dal risolvere questi problemi così profondamente radicati, è chiaro che la presenza occidentale serve solo ad esacerbarli. Questo potente mix farà in modo che il disordine continuerà a permanere, indipendentemente dalle vittorie o dalle sconfitte militari.
Il ruolo che ha la povertà nello spingere i giovani ad arruolarsi nelle forze armate è ben illustrato dal caso afgano. Grazie alla continua crescita della disoccupazione, l’esercito britannico ha raggiunto per la prima volta dopo anni i suoi obiettivi di reclutamento. In realtà, il soldato britannico medio è stato condotto sul campo di battaglia dalla stessa penuria generata dal capitalismo che ha mosso i loro nemici talebani.
Sia gli Alleati che i Talebani sono nemici della classe lavoratrice
L’Afghanistan incarna la realtà della guerra nell’epoca del capitalismo decadente. In assenza di una speranza che possa rassicurare se stessi e le proprie famiglie, i lavoratori ed altri strati sfruttati sono spinti nelle braccia dei capitalisti e dei loro eserciti e milizie reazionarie. Là si massacrano l’uno con l’altro al servizio della classe dirigente che è responsabile in primis del loro impoverimento.
Le terribili condizioni di questi conflitti, l’indottrinamento e la disciplina imposti loro allo scopo di superare la naturale riluttanza umana ad uccidere, tendono a disumanizzare i militari fino a che i brutali massacri testimoniati in Afghanistan non diventano inevitabili.
I comunisti non sostengono nessuna delle parti in questi conflitti. Noi denunciamo i crimini di tutte le parti in causa mentre mettiamo in mostra i processi della società capitalista che li producono. Soltanto quando gli sfruttati rifiuteranno di sacrificarsi per i loro sfruttatori, inizierà a farsi strada la prospettiva di sostituire il capitalismo con una società veramente umana senza sfruttamento e senza guerra.
Ishamael 4/3/10
Il 3 marzo scorso abbiamo ricevuto sul nostro sito in lingua spagnola un commento relativo alla situazione degli abitanti dei quartieri operai e popolari dell’agglomerato di Concepción, in seguito al sisma di fine febbraio. Contrariamente a quanto propagandato dai media a livello internazionale che hanno denigrato il comportamento delle popolazioni locali attribuendo loro dei «saccheggi scandalosi», questo testo restituisce la realtà dei fatti mettendo avanti lo spirito autenticamente proletario di solidarietà e di mutua assistenza che ha animato gli operai nella ridistribuzione dei beni, opponendosi all’azione predatrice delle bande armate contro le quali la popolazione operaia ha tentato di assumere e di organizzare la sua propria difesa.
L’autorganizzazione dei proletari di fronte alla catastrofe, ai lumpen-capitalisti e all’incapacità dello Stato
(Da parte di un compagno anonimo)
Sarebbe auspicabile che nella misura in cui voi [CCI] avete questo mezzo di diffusione [il nostro sito Internet], rendiate conto di ciò che si sta passando a Concepción e nei suoi dintorni[1], come pure in altre regioni del Cile che sono state pesantemente toccate dal sisma. Si sa che fin dal primo momento, la gente ha messo in pratica il buono senso più ovvio rendendosi ai depositi di derrate alimentari per prendere tutto ciò di cui avevano bisogno. Ciò è così logico, così razionale, necessario ed inevitabile, che appare assurdo farne la critica. La gente ha creato un'organizzazione spontanea (soprattutto a Concepción) per distribuire il latte, i pannolini per bambini e l'acqua, in funzione delle necessità di ciascuno, tenendo conto, fra l'altro, del numero di bambini per famiglia. La necessità di prendere i prodotti disponibili appariva così ovvia, e così potente la determinazione del popolo a mettere in pratica il suo diritto a sopravvivere, che finanche i poliziotti hanno aiutato la gente a portare via i prodotti alimentari dal supermercato Leader a Concepción, per esempio. E quando si è provato ad impedire che la gente facesse la sola cosa ragionevole, gli impianti in questione sono stati semplicemente incendiati, per la semplice e logica ragione che fa sì che se tonnellate di prodotti alimentari finiranno per marcire anziché essere logicamente consumate, è meglio che questi prodotti alimentari siano bruciati, evitando così il pericolo di focolai supplementari d'infezione. Questi “saccheggi” hanno permesso a migliaia di persone di sostentarsi per qualche tempo, al buio, senza acqua potabile e senza la minima speranza che arrivasse un aiuto qualunque.
Ma, dopo alcune ore, la situazione è cambiata completamente. In tutto l'agglomerato di Concepción delle bande ben armate che viaggiavano in auto di buona qualità, hanno cominciato a saccheggiare non solo i piccoli negozi, ma anche degli appartamenti particolari e gruppi di case interi. Il loro obiettivo era di accaparrarsi di quel poco di beni che la gente avrebbe potuto recuperare nei supermercati, così come gli attrezzi domestici, il denaro e tutto ciò che queste bande potevano trovare. In alcune zone di Concepción, queste bande hanno prima saccheggiato le case e poi le hanno incendiate, scappando subito dopo. Gli abitanti, che si sono trovati all'inizio senza la minima difesa, hanno cominciato ad organizzarsi per potersi difendere, facendo delle ronde di sorveglianza, creando delle barricate per proteggere gli accessi ai quartieri ed in alcune zone mettendo in comune i viveri per assicurare l'alimentazione di tutti gli abitanti. Con questo breve richiamo dei fatti che si sono verificati nei giorni scorsi, non pretendo “di completare” le informazioni fornite da altri mezzi. Vorrei soltanto richiamare l'attenzione su tutto ciò che questa situazione critica contiene da un punto di vista anticapitalista. Lo slancio spontaneo della gente per appropriarsi di tutto ciò che è necessario alla loro sussistenza, la loro tendenza al dialogo, alla ripartizione, a cercare accordi e ad agire insieme, è stata presente dall'inizio di questa catastrofe. Tutti abbiamo potuto vedere intorno a noi questa tendenza comunitaria naturale sotto forme differenti. In mezzo all'orrore vissuto da migliaia di lavoratori e dalle loro famiglie, questo slancio per la vita in comune è emerso come una luce di speranza in mezzo alle tenebre, ricordandoci che non è mai troppo tardi per ridiventare noi stessi.
Di fronte a questa tendenza organica, naturale, comunista, che ha animato il popolo durante queste ore di spavento, lo Stato è impallidito e si è mostrato per ciò che è: un mostro freddo ed impotente. Inoltre l'interruzione brutale del ciclo demenziale di produzione e di consumo, ha lasciato il padronato alla mercé degli eventi, ad attendere, acquattato, che l'ordine fosse ristabilito. Così la situazione ha aperto una vera breccia nella società, attraverso la quale potrebbero scaturire le fonti di un mondo nuovo che è già nei cuori della gente meno agiata. Diventava dunque urgente e necessario ristabilire ad ogni costo il vecchio ordine di rapina, di abuso e di accaparramento. Ma questo non è stato fatto a partire dalle alte sfere, ma a partire dal terreno stesso della società di classe: coloro che si sono incaricati di rimettere le cose al loro posto, in altre parole, di imporre con la forza i rapporti di terrore che permettono l'esistenza dell'appropriazione privata capitalista, sono state le mafie dei narcotrafficanti radicati come delle metastasi nelle zone popolari, degli arrivisti tra i più arrivisti, dei figli della classe operaia alleati con dei borghesi al prezzo dell’avvelenamento dei loro fratelli, del commercio sessuale delle loro sorelle, dell’avidità consumatrice dei loro propri figli. Dei mafiosi, altrimenti detti dei capitalisti allo stato puro, dei predatori del popolo, ben sistemati nei loro veicoli 4x4 ed armati di fucili, disposti ad intimidire ed a spogliare i loro propri vicini o gli abitanti di altri quartieri per cercare di monopolizzare il mercato nero ed ottenere denaro facile, in altre parole per ottenere potere. Che questi individui siano alleati naturali dello Stato e della classe padronale è dimostrato dal fatto che le loro indegne malefatte siano state utilizzate dai mass media per creare il panico in una popolazione già demoralizzata, giustificando così la militarizzazione del paese. Quale altro scenario potrebbe essere più propizio ai nostri padroni politici e padronali, che vedono in questa crisi catastrofica soltanto una buona occasione per fare lauti affari e ulteriori profitti spremendo ancor più una forza-lavoro dominata dal timore e dalla disperazione?
Da parte degli avversari di quest'ordine sociale, è un nonsenso tessere degli elogi ai saccheggi senza precisare il contenuto sociale di tali azioni. Non c’è proprio paragone tra una massa di gente più o meno organizzata, ma almeno con un obiettivo in comune, che prende e distribuisce prodotti di prima necessità per sopravvivere e delle bande armate che rapinano la popolazione per arricchirsi. Il sisma di sabato 27 non si è limitato a colpire molto duramente la classe operaia e a distruggere le infrastrutture esistenti. Ha anche seriamente rovesciato i rapporti sociali in questo paese. In alcune ore, la lotta di classe è emersa con tutta la sua forza davanti ai nostri occhi, troppo abituati forse alle immagini della televisione per potere cogliere bene l'essenziale degli avvenimenti. La lotta di classe è qui, nei nostri quartieri ridotti in rovine nella penombra, crepitando e scricchiolando sotto i nostri passi, sul suolo stesso della società, dove si affrontano in uno scontro mortale due tipi di esseri umani che si trovano infine l’uno di fronte all’altro: da un lato, le donne e gli uomini dallo spirito collettivo che si cercano per aiutarsi e condividere; dall'altro gli antisociali che li saccheggiano e gli sparano contro per cominciare così la loro propria accumulazione primitiva di capitale. Qui, ci siamo noi, gli esseri invisibili ed anonimi di sempre, presi dalle nostre vite di sfruttati, dei nostri vicini e dei nostri genitori, ma pronti a stabilire dei legami con tutti quelli che condividono la stessa alienazione. Là ci sono loro, poco numerosi ma pronti a spogliarci con la forza di quel poco o quasi niente che possiamo dividerci. Da un lato il proletariato, dall'altro, il capitale. È così semplice. In molti quartieri di questo territorio devastato, in queste ore di prima mattina, la gente comincia ad organizzare la propria difesa di fronte a queste orde armate. A quest'ora ha cominciato a prendere una forma materiale la coscienza di classe di quelli che si sono visti costretti, brutalmente ed in un batter d’occhio, a capire che le loro vite gli appartengono e che nessuno verrà loro in aiuto.
Messaggio ricevuto il 3 marzo 2010.
[1] Il sisma ha avuto luogo il 27 febbraio 2010 in piena notte, con una magnitudo di 8,8. Ha provocato la morte di circa 500 persone, ma lo tsunami che l’ha seguito ha accumulato ancora più morti. Sono state toccate molte città del Cile, tra cui la capitale Santiago. Ma è nel secondo agglomerato del paese, quello di Concepción (900.000 abitanti in tutto l’agglomerato), che le morti e i danni sono stati più gravi [NdT].
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/73/grecia
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[3] https://es.internationalism.org/node/2765#comment-636
[4] https://fr.internationalism.org/node/3690
[5] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/lutte_dans_les_chantiers_navals_de_sestao_l_accusation_de_racisme_une_calomnie_contre_les_ouvriers.html
[6] https://it.internationalism.org/rziz/145/vigo
[7] https://fr.internationalism.org/icconline/2009/a_vigo_en_espagne_les_methodes_syndicales_menent_tout_droit_a_la_defaite.html
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[9] https://it.internationalism.org/content/riunioni-pubbliche-della-cci-al-suicidio-e-alla-sofferenza-sul-posto-di-lavoro-una-sola
[10] https://it.internationalism.org/content/gb-scioperi-nelle-raffinerie-di-petrolio-e-nelle-centrali-elettriche-gli-operai-cominciano
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[12] https://napolioltre.forumfree.it/?t=47112886
[13] https://napolioltre.forumfree.it/?t=47112886&st=15
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/internazionalisti-argentina
[17] https://it.internationalism.org/content/dietro-lo-scandalo-di-escort-festini-e-cocaina-gli-scontri-nella-maggioranza-governativa
[18] https://it.internationalism.org/en/tag/4/92/afganistan
[19] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[20] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[21] https://it.internationalism.org/en/tag/4/94/sud-e-centro-america