I recenti avvenimenti nei paesi a regime stalinista, scontri alla testa del partito e repressione in Cina, esplosioni nazionaliste e lotte operaie in URSS, costituzione in Polonia di un governo diretto da Solidarnosc, rivestono un’importanza considerevole. Essi rivelano la crisi storica, l’entrata in un periodo di convulsioni acute dello stalinismo. In questo senso, essi ci danno la responsabilità di riaffermare, precisare e attualizzare la nostra analisi sulla natura di questi regimi e le loro prospettive di evoluzione.
1) Le convulsioni che scuotono attualmente i paesi a regime stalinista non possono essere compresi al di fuori del quadro generale di analisi, valido per tutti i paesi del mondo, della decadenza del modo di produzione capitalista e dell’inesorabile aggravarsi della sua crisi. Tuttavia un’analisi seria della situazione attuale di questi paesi deve necessariamente prendere in conto le specificità dei loro regimi. Questo esame dei caratteri particolari dei paesi dell’est è stato fatto dalla CCI a più riprese, in particolare in occasione delle lotte operaie dell’estate 1980 in Polonia e della costituzione del sindacato “indipendente” Solidarnosc.
Così, nel dicembre 1980 il quadro generale di questa analisi era stato abbozzato in questi termini:
“Come per l’insieme dei paesi di questo blocco (quello dell’est) la situazione in Polonia si caratterizza per:
a) l’estrema gravità della crisi, che getta oggi milioni di. proletari in una miseria vicina alla fame;
b) la grande rigidità delle istituzioni, che non lasciano praticamente alcun posto per il possibile sorgere di forze politiche borghesi di opposizione capaci di giocare un ruolo di tampone: in Russia, come nei suoi paesi satelliti, ogni movimento di contestazione rischia di cristallizzare l’enorme malcontento che esiste nel seno di un proletariato e di una popolazione sottomessa da decenni alla più violenta delle controrivoluzioni, che è stata proporzionata al formidabile movimento di classe che ha dovuto schiacciare, la rivoluzione del 1917;
c) l’enorme importanza del terrore poliziesco come mezzo praticamente unico di mantenimento dell’ordine.” (Révue Internationale n.24, pag. 2)
Nell’ottobre del 1981, due mesi prima dell’instaurazione dello “stato d’assedio”, nel momento in cui si accentuava la campagna governativa contro Solidarnosc, tornavamo su questa questione nei seguenti termini:
“... gli scontri fra Solidarnosc e POUP non sono una semplice farsa, come non è solo farsa l’opposizione fra destra e sinistra nei paesi occidentali. Tuttavia in occidente il quadro istituzionale permette, in generale, di “gestire” queste opposizioni in maniera che esse non minaccino la stabilità del regime e che le lotte per il potere siano contenute e si risolvano nella formula più appropriata per affrontare il nemico proletario. Al contrario, se in Polonia la classe dominante è arrivata, con molta improvvisazione, ma per il momento con successo, a instaurare dei meccanismi di questo tipo, niente ci porta a dire che si tratti di una formula definitiva ed esportabile verso altri paesi ‘fratelli’. Le stesse invettive che servono a credibilizzare un partner—avversario, quando questo è indispensabile al mantenimento dell’ordine, possono accompagnare la sua eliminazione quando esso non è più utile (...). Costringendola a una divisione dei compiti alla quale la borghesia dell’est è strutturalmente refrattaria le lotte proletarie hanno creato una contraddizione vivente. E’ ancora troppo presto per prevedere come si risolverà. Di fronte a una situazione storicamente inedita..., il compito dei rivoluzionari è di mettersi con modestia all’ascolto dei fatti”. (Rèvue Internationale n. 27, pag.7)
Infine, a seguito dell’instaurazione dello stato d’assedio in Polonia e della messa fuori legge di Solidarnosc, la CCI era stata portata a sviluppare questo quadro di analisi (Rèvue Internationale n.34) a partire dal quale, con gli opportuni aggiornamenti, possiamo capire quello che succede oggi in questa parte del mondo.
2) “La caratteristica più evidente, la più generalmente conosciuta dei paesi dell’est, quella su cui d’altra parte riposa il mito della loro natura “socialista”, sta nel grado estremo di statizzazione della loro economia (...). Il capitalismo di Stato non è un fenomeno proprio solo di questi paesi. E’ un fenomeno che proviene innanzitutto dalle condizioni di sopravvivenza del modo di produzione capitalista nel periodo di decadenza: di fronte alle minacce di disintegrazione di un’economia e di un corpo sociale sottomessi a delle contraddizioni crescenti, di fronte all’inasprirsi delle rivalità commerciali e imperialiste che la saturazione generale dei mercati provoca, solo un rafforzamento permanente del posto dello Stato nella società permette di mantenere un minimo di coesione in questa e di assicurare la sua militarizzazione crescente. Se la tendenza al capitalismo di Stato è dunque un dato storico universale essa non tocca tuttavia in maniera identica ogni paese”. (Rèvue Internationale n.34, pagg. 4 e 5)
3) Nei paesi avanzati, dove esiste una vecchia borghesia industriale e finanziaria, questa tendenza si manifesta in generale attraverso un’intersecazione dei settori “privati” e dei settori statali. In questo tipo di sistema la borghesia “classica” non è privata del suo capitale e conserva l’essenziale dei suoi privilegi. D’altra parte il ruolo dello Stato non si manifesta tanto attraverso la nazionalizzazione dei mezzi di produzione quanto attraverso l’azione di un insieme di strumenti di bilancio, finanziari, monetari e legislativi che gli permettono in ogni. momento di orientare le grandi scelte economiche, senza per questo rimettere in causa i meccanismi del mercato.
Questa tendenza al capitalismo di Stato “prende le sue forme più estreme dove il capitalismo conosce le contraddizioni più brutali, dove la borghesia classica è più debole. In questo senso, la presa in carico diretta da parte dello Stato dell’essenziale dei mezzi di produzione che caratterizza il blocco dell’Est (e in larga misura del “terzo mondo”) è in primo luogo una manifestazione dell’arretratezza e della fragilità della sua economia.” (ibidem, pag.5)
4) “Esiste un legame stretto fra le forme di dominazione economica della borghesia e le forme della sua dominazione politica” (ibidem):
— un capitale nazionale sviluppato, detenuto in maniera “privata” dai differenti settori della borghesia, trova nella “democrazia” parlamentare il suo apparato politico più appropriato;
— “alla statalizzazione quasi completa dei mezzi di produzione corrisponde il potere totalitario di un partito unico” (1).
Tuttavia, “il regime di partito unico non è una caratteristica propria dei paesi dell’est o di quelli del ‘terzo mondo’. Esso è esistito per decenni in paesi dell’Europa occidentale come l’Italia, la Spagna, il Portogallo. L’esempio più notevole è evidentemente quello del regime nazista che dirige tra il 1933 e il 1945 il paese più sviluppato e potente d’Europa. Nei fatti la tendenza storica verso il capitalismo di Stato non implica solo un aspetto economico. Essa si manifesta anche attraverso una crescente concentrazione del potere politico nelle mani dell’esecutivo a detrimento delle forme classiche della democrazia borghese, il parlamento e il gioco partitico. Mentre i partiti politici, nei paesi sviluppati del 19° secolo, erano i rappresentanti della società civile nel o presso lo Stato, con la decadenza del capitalismo essi si trasformano in rappresentanti dello Stato nella società civile” (il caso più evidente è quello degli antichi partiti operai incaricati oggi di inquadrare la classe operaia dietro lo Stato). “Le tendenze totalitarie dello Stato si esprimono, compreso nei paesi in cui sussistono gli ingranaggi formali della democrazia, attraverso una tendenza al partito unico che trova le sue concretizzazioni più nette nei momenti di convulsioni acute della società borghese: ‘Unione nazionale’ durante le guerre imperialiste, convergenza di tutte le forze borghesi dietro i partiti di sinistra nei periodi rivoluzionari, (...)“.
5) “La tendenza al partito unico trova raramente la sua piena realizzazione nei paesi più sviluppati. Gli USA, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, la Scandinavia non hanno mai conosciuto un tale tipo di regime. Quando questo avvenne in Francia, sotto il regime di Vichy, fu essenzialmente legato all’occupazione del paese da parte dell’esercito tedesco. Il solo esempio storico di un paese pienamente sviluppato in cui questa tendenza sia giunta fino in fondo è quello della Germania” (per delle ragioni che la Sinistra Comunista ha analizzato da lungo tempo).
“(...) Se negli altri paesi avanzati le strutture politiche e i partiti tradizionali si sono mantenuti è perché essi si sono rivelati sufficientemente solidi, per la loro vecchia influenza, per la loro esperienza, per i loro legami con il potere economico, per la forza delle mistificazioni di cui erano portatori, per assicurare la stabilità e la coesione del capitale nazionale di fronte alle difficoltà affrontate da essi (crisi, guerra, lotte sociali).” (ibidem).
In particolare, lo stato dell’economia di questi paesi, la potenza conservata dalla borghesia classica non necessitavano né permettevano l’adozione di misure “radicali” di statalizzazione del capitale che solo le strutture e i partiti “totalitari” sono in grado di mettere in opera.
6) “Ma quello che nei paesi più sviluppati non esiste che come eccezione, nei paesi arretrati è la regola nella misura in cui non esiste alcuna delle condizioni che abbiamo enumerato e in cui questi paesi sono quelli che subiscono più violentemente le convulsioni della decadenza capitalista”. (ibidem)
Così, nelle antiche colonie arrivate alla “indipendenza” nel corso del 20° secolo (in particolare dopo la II guerra mondiale) la costituzione di un capitale nazionale è stato per lo più realizzata attraverso e intorno allo Stato, in generale sotto la guida, in assenza di una borghesia autoctona, di intellettuali formati nelle università europee. In certe circostanze si è potuto vedere anche la giustapposizione e la cooperazione di questa nuova borghesia di Stato con i resti di vecchie classi sfruttatrici precapitaliste.
“Tra i paesi arretrati quelli dell’est occupano un posto particolare. Ai fattori direttamente economici che spiegano il peso che vi occupa il capitalismo di Stato si sovrappongono fattori storici e geopolitici: le circostanze della costituzione dell’URSS e del suo impero.” (ibidem)
7) Lo Stato capitalista in URSS si ricostituisce sulle rovine della rivoluzione proletaria. La debole borghesia dell’epoca zarista era stata completamente eliminata dalla rivoluzione del 1917 (...) e dalla sconfitta delle armate Bianche. Perciò non è né essa né i partiti tradizionali che prendono in carica in Russia l’inevitabile controrivoluzione derivante dalla sconfitta della rivoluzione mondiale. Questo compito è affidato allo Stato che è sorto dopo la rivoluzione e che ha rapidamente assorbito il partito bolscevico (...). Così la classe borghese si ricostituisce non a partire dalla vecchia borghesia (se non in maniera eccezionale e individuale) né a partire da una proprietà individuale dei mezzi di produzione, ma a partire dalla burocrazia del Partito-Stato e dalla proprietà statale dei mezzi di produzione. In Russia la somma dei fattori, arretratezza del paese, distruzione della borghesia classica, schiacciamento fisico della classe operaia, hanno quindi portato la tendenza universale al capitalismo di Stato alle sue forme più estreme: statalizzazione quasi completa dell’economia, dittatura totalitaria del partito unico. Non dovendo più disciplinare i diversi settori della classe dominante o conciliare eventualmente con gli interessi economici di questa, perché ha completamente assorbito la classe dominante identificandosi con essa, lo Stato ha potuto quindi fare a meno delle forme politiche classiche della società borghese (democrazia e pluralismo), anche come finzione. (ibidem, pag. 5 e 6)
8) La stessa brutalità, la centralizzazione estrema con cui il regime dell’URSS esercita il suo potere sulla società si ritrovano nella maniera in cui questa potenza stabilisce e conserva la sua dominazione sull’insieme dei paesi del suo blocco. E’ unicamente basandosi sulla forza delle armi che la Russia si è costituita un impero, sia nel corso stesso della seconda guerra mondiale (sottomissione dei paesi baltici e dell’Europa centrale), sia grazie alle differenti guerre di “indipendenza nazionale” che fanno seguito a questa (come fu per la Cina o il Nord Vietnam per esempio), o ancora in occasione di colpi di stato militari (Egitto 1952, Etiopia 1974, Afghanistan 1978, per esempio). Alla stessa maniera l’utilizzazione della forza delle armi (Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968, Afghanistan 1979, per esempio), o la minaccia di questa utilizzazione, costituisce la forma praticamente esclusiva del mantenimento della coesione del suo blocco.
9) Allo stesso titolo della forma del suo capitale nazionale e del suo regime politico, questo modo di dominazione imperialista risulta fondamentalmente dalla debolezza economica dell’URSS (la cui economia è più arretrata della maggior parte dei suoi vassalli).
“Paese di gran lunga il più sviluppato del suo blocco, prima potenza economica e finanziaria del mondo, gli USA si assicurano il loro dominio sui principali paesi del loro impero, che sono anch’essi dei paesi pienamente sviluppati, senza fare appello necessariamente alla forza militare, così come questi paesi non hanno bisogno della repressione permanente per assicurare la loro stabilità. (...) E’ in maniera ‘volontaria’ che i settori dominanti delle principali borghesie occidentali aderiscono all’alleanza americana: essi vi trovano vantaggi economici, finanziari, politici e militari (l’ombrello americano di fronte all’imperialismo russo).” (ibidem, pag.7)
Al contrario, l’appartenenza di un capitale nazionale al blocco dell’est ai traduce in generale per la sua economia in un handicap catastrofico (principalmente per il saccheggio diretto di questa economia esercitato dall’URSS).
“In questo senso tra i principali paesi del blocco americano non esiste nessuna ‘spontanea propensione’ a passare nell’altro blocco come è invece successo nell’altro senso (cambiamento di campo della Yugoslavia nel 1948, della Cina alla fine degli anni ‘60, tentativi dell’Ungheria nel 1956, della Cecoslovacchia nel 1968)”. (ibidem). La permanenza di forze centrifughe in seno al blocco russo spiega dunque la brutalità della dominazione imperialista che vi viene esercitata. Essa spiega ugualmente la forma dei regimi politici che dirigono questi paesi.
10) “La forza e la stabilità degli USA permettono loro di accettare l’esistenza di qualsiasi tipo di regime all’interno del loro blocco: dal regime ‘comunista’ cinese a quello ‘anticomunista’ di Pinochet, dalla ‘democratica’ Inghilterra, dalla bicentenaria repubblica francese alla monarchia feudale saudita, dalla Spagna franchista alla Spagna social-democratica.” (ibidem).
Al contrario, “il fatto che l’URSS (...) non possa mantenere il controllo del suo blocco che attraverso la forza delle armi determina il fatto che i suoi satelliti siano dotati di regimi che, come il suo, non possono mantenere il loro controllo sulla società che attraverso la stessa forza delle armi (polizia e istituzione militare)” (ibidem).
Inoltre è unicamente dai partiti stalinisti che la Russia può attendersi un minimo (e nemmeno è sicuro!) di fedeltà dal momento che l’accesso e il mantenimento al potere di questi partiti è essenzialmente dipendente dal sostegno diretto dell’Armata Rossa. “Per questo fatto, (...) se il blocco americano può perfettamente ‘gestire’ la ‘democratizzazione’ di un regime fascista o militare quando questo diventa utile (Giappone, Germania, Italia l’indomani della guerra, Portogallo, Grecia, Spagna negli anni ‘70), l’URSS non può accettare alcuna ‘democratizzazione’ in seno al suo blocco.” (ibid.) Un cambiamento di regime politico in un paese “satellite” porta con sé la minaccia diretta del passaggio di questo paese nel blocco avversario.
11) Il rafforzamento del capitalismo di Stato è un dato permanente e universale della decadenza del capitalismo. Tuttavia, come si è visto, questa tendenza non si esprime necessariamente sotto la forma della statalizzazione completa dell’economia, l’appropriazione diretta da parte dello Stato dell’apparato produttivo. In certe circostanze storiche quest’ultima costituisce l’unica via possibile per il capitale nazionale, oppure la formula più adatta alla sua difesa e al suo sviluppo. Ciò è valido principalmente per le economie arretrate, ma in certe condizioni (i periodi di ricostruzione per esempio) è valido anche per delle economie sviluppate, come quelle della Gran Bretagna e della Francia dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia questa forma particolare di capitalismo di Stato comporta gravi inconvenienti per l’economia nazionale.
Nei paesi più arretrati la confusione tra l’apparato politico e quello economico permette e genera lo sviluppo di una burocrazia completamente parassitaria, la cui sola preoccupazione è di riempirsi le tasche, di saccheggiare in maniera sistematica l’economia nazionale per costituirsi delle fortune colossali: i casi di Batista, Marcos, Duvalier, Mobutu sono molto conosciuti, ma sono lungi dall’essere i soli. Il furto, la corruzione e il racket sono dei fenomeni generalizzati nei paesi sottosviluppati e infettano tutti i livelli dello Stato e dell’economia. Questa situazione costituisce evidentemente un handicap supplementare per queste economie, che contribuisce a gettarle sempre più nel baratro.
Nei paesi avanzati la presenza di un forte settore statale tende ugualmente a convertirsi in handicap per l’economia nazionale man mano che la crisi mondiale si aggrava. In effetti in questo settore il modo di gestire le imprese, la loro struttura di organizzazione del lavoro e della mano d’opera, limitano molto spesso il loro adattamento al necessario aumento della competitività. “Servitori dello Stato”, vestali del “servizio pubblico”, che godono per lo più della garanzia dell’impiego con il vantaggio che la loro impresa (lo Stato stesso) non può fallire e chiudere i battenti, la strato dei funzionari anche quando non pratica la corruzione non è necessariamente il più capace di adattarsi alle leggi impietose del mercato. Nella grande ondata di “privatizzazioni” che tocca attualmente la maggior parte dei paesi occidentali avanzati bisogna vedere, di conseguenza, non solo una maniera di limitare l’estendersi dei conflitti di classe sostituendo il padrone unico, lo Stato, con una moltitudine di padroni, ma anche un mezzo per rinforzare la competitività dell’apparato produttivo.
12) Nei paesi a regime stalinista, il sistema della “Nomenclatura”, dove le responsabilità economiche, nella quasi totalità dei casi, sono legate essenzialmente al posto occupato nell’apparato del partito, sviluppa su scala ancora più vasta gli ostacoli a un miglioramento dell’apparato produttivo. Mentre l’economia “mista” esistente nei paesi sviluppati d’occidente costringe un poco le imprese pubbliche e anche le amministrazioni a una minima preoccupazione per la produttività e la redditività, la forma di capitalismo di stato prevalente nei paesi a regime stalinista ha per caratteristica di deresponsabilizzare completamente la classe dominante. Di fronte a una cattiva gestione la sanzione del mercato non esiste più e le sanzioni amministrative non sono usuali perché è tutto l’apparato, dall’alto in basso, che manifesta una tale irresponsabilità.
Fondamentalmente la condizione per il mantenimento dei privilegi è la servilità rispetto alla gerarchia di questo apparato o di fronte a questa o quella delle sue cricche. La prima preoccupazione della maggior parte dei “responsabili”, sia economici che politici (e in generale si tratta delle stesse persone), non è quella di far fruttificare il capitale, ma di utilizzare il loro posto per riempire le loro tasche e quelle della loro famiglia e dei loro fedeli, senza la minima preoccupazione per il buon andamento delle imprese o dell’economia nazionale. Un tale modo di “gestione” non esclude, evidentemente, uno sfruttamento feroce della forza lavoro. Ma questa ferocia non riguardano in generale l’imposizione di norme di lavoro che permettano di aumentare la produttività. Essa si manifesta essenzialmente nel livello di vita miserabile degli operai e la brutalità con cui viene risposto alle loro rivendicazioni.
In sintesi questo tipo di regime si può caratterizzare come il regno dei corrotti, dei piccoli capi incompetenti e ringhiosi, dei prevaricatori cinici, dei faccendieri senza scrupoli e dei poliziotti. Queste caratteristiche appartengono a tutta la società capitalista e non fanno che rafforzarsi con la sua decomposizione, ma quando esse si sostituiscono completamente alla competenza tecnica, allo sfruttamento razionale della forza lavoro e alla ricerca della competitività sul mercato, esse compromettono in maniera radicale lo stato dell’economia nazionale. In queste condizioni, le economie per lo più già considerevolmente arretrate di questi paesi sono particolarmente mal armate per affrontare la crisi capitalista e l’inasprirsi della concorrenza che essa provoca sul mercato mondiale.
13) Di fronte al fallimento totale dell’economia di questi paesi la sola soluzione che possa permettere se non di arrivare a una vera competitività ma almeno di conservare la testa fuori dall’acqua consiste nell’ introduzione di meccanismi che consentano una vera responsabilizzazione dei suoi dirigenti. Questi meccanismi presuppongono una “liberalizzazione” dell’economia, la creazione di un mercato interno che sia tale, una più grande “autonomia” delle imprese e lo sviluppo di un forte settore “privato”. E’ questo d’altra parte il programma della “perestroika”, come del governo Mazowiecki in Polonia e di Deng Xiaoping in Cina. Tuttavia anche se un tale programma diventa sempre più indispensabile, la sua messa in atto comporta degli ostacoli praticamente insormontabili.
In primo luogo un tale programma implica l’instaurazione della “verità dei prezzi” sul mercato; questo vuol dire che i prodotti di corrente consumo, e anche di prima necessità, che oggi sono sovvenzionati dallo Stato, saranno destinati ad aumentare in maniera vertiginosa: gli aumenti del 500% che si sono visti in Polonia nell’agosto 1989 danno un’idea di quello che attende la popolazione, e in particolare la classe operaia. L’esperienza passata (e anche presente) della stessa Polonia dimostrano che una tale politica può provocare delle violente esplosioni sociali che ne compromettono la applicazione.
In secondo luogo questo programma prevede la chiusura delle fabbriche non “redditizie” (che sono tantissime) o riduzioni sensibili dei loro occupati. La disoccupazione (che attualmente si presenta in maniera marginale) si svilupperà in maniera massiccia, costituendo una ulteriore minaccia per la stabilità sociale visto che il pieno impiego era una delle rare garanzie di cui disponevano ancora gli operai e costituiva uno dei mezzi di controllo di una classe operaia esasperata per le sue condizioni di esistenza. Ancora più che nei paesi occidentali, nei paesi dell’est la disoccupazione di massa rischia di trasformarsi in una vera bomba sociale.
In terzo luogo, la “autonomia” delle imprese si scontra con la accanita resistenza di tutta la burocrazia economica la cui ragion d’essere ufficiale è quella di pianificare, organizzare e controllare l’attività dell’apparato produttivo. La notevole inefficienza di cui essa ha finora dato prova in questo compito la spinge al sabotaggio delle “riforme”.
14) Infine, l’apparizione, accanto alla borghesia di Stato, di uno strato di “manager” alla occidentale costituisce per la prima (che è integrata nell’apparato di potere politico) una concorrenza inaccettabile. Il carattere essenzialmente parassitario della sua esistenza sarà messo a nudo in maniera impietosa, il che minaccerà, in breve tempo, non solo il suo potere ma anche l’insieme dei suoi privilegi economici. Per il partito nel suo insieme, la cui ragion d’essere risiede nella messa in applicazione e nella direzione del “socialismo reale”, è tutto il suo programma, la sua identità stessa che sono rimessi in causa.
L’evidente scacco della “perestrojka” di Gorbaciov, come d’altra parte di tutte le precedenti riforme dello stesso tipo, rende conto in maniera chiara di queste difficoltà. Nei fatti, la messa in atto effettiva di tali “riforme” non può condurre che a un conflitto aperto tra i due settori della borghesia, quella di Stato e la borghesia “liberale” (anche se quest’ultima si ritrova anch’essa in una parte dell’apparato di Stato). La conclusione brutale di questo conflitto, quale si è visto recentemente in Cina, dà un’immagine delle forme che esso può rivestire negli altri paesi a regime stalinista.
15) Come esiste un legame stretto fra la forma dell’apparato economico e la struttura dell’apparato politico, così la riforma dell’una si ripercuote necessariamente sull’altro. La necessità di una “liberalizzazione” dell’economia trova la sua espressione nel sorgere, in seno al partito o al di fuori di esso, di forze politiche che si fanno portatrici di questa necessità. Questo fenomeno genera delle forti tendenze alla scissione in seno al partito, come la creazione di formazioni “indipendenti” che si richiamano in maniera più o meno esplicita al ristabilimento delle forme classiche del capitalismo, come è il caso di Solidarnosc. (2)
Una tale tendenza all’apparizione di parecchie formazioni politiche, con programmi economici differenti, porta con sé la pressione in favore del riconoscimento legale del “multipartitismo” e del “diritto di associazione”, di elezioni “libere”, di “libertà di stampa”, in breve degli attributi classici della democrazia borghese. In più, una certa libertà di critica, “l’appello all’opinione pubblica”, possono essere delle leve per scalzare i burocrati “conservatori” che si impuntano. E’ perciò che i “riformatori” sul piano economico lo sono anche sul piano politico. E’ per questa ragione che la “perestrojka” è accompagnata dalla “glasnost”. Inoltre la “democratizzazione”, compresa l’apparizione di forze politiche di “opposizione”, può, in certe circostanze, come in Polonia nel 1980 e nel 1988 e in Russia oggi, costituire una diversione e un mezzo di inquadramento di fronte all’esplosione del malcontento della popolazione, in particolare della classe operaia. Quest’ultimo elemento costituisce, evidentemente, un fattore supplementare di pressione in favore delle “riforme politiche”.
16) Tuttavia, come la “riforma economica” si è data dei compiti praticamente irrealizzabili, così la “riforma politica” ha ben poche possibilità di successo. L’introduzione effettiva del “pluripartitismo” e di elezioni “libere”, che è la conseguenza logica di un processo di “democratizzazione”, costituisce una vera minaccia per il partito al potere. Come si è recentemente visto in Polonia e in una certa misura anche in Russia l’anno scorso, tali elezioni non possono condurre che alla messa in evidenza del completo discredito, del vero odio verso il Partito in seno alla popolazione. Nella logica di tali elezioni la sola cosa che il Partito possa attendersi è quindi la perdita del suo potere. Ciò è qualcosa che il Partito, a differenza dei partiti “democratici” di occidente, non può tollerare dato che:
- se esso perdesse il potere tramite le elezioni non potrebbe mai riconquistarlo con lo stesso mezzo;
- la perdita del suo potere politico significherebbe concretamente l’espropriazione della classe dominante poiché il suo apparato é appunto la classe dominante.
Mentre nei paesi ad economia “liberale” o “mista”, in cui si mantiene una classe borghese classica, direttamente proprietaria dei mezzi di produzione, il cambiamento del partito al potere (a meno che non si tratti appunto di un partito stalinista) non ha che un debole impatto sui suoi privilegi e sul suo posto nella società, un evento simile in un paese dell’est significa, per la grande maggioranza dei burocrati piccoli e grandi, la perdita dei loro privilegi, la disoccupazione, e anche persecuzioni da parte dei loro vincitori. La borghesia tedesca ha potuto adattarsi al “kaiser”, alla repubblica socialdemocratica, al totalitarismo nazista, alla repubblica “democratica”, senza che fosse messo in causa l’essenziale dei suoi privilegi. Un cambiamento di regime in URSS, invece, significherebbe in questo paese la sparizione della borghesia nella sua forma attuale come del partito. E se un partito politico può suicidarsi, pronunciare la sua autodissoluzione, una classe dominante e privilegiata non si suicida.
17) E’ perciò che le resistenze che si manifestano, all’interno dell’apparato dei partiti stalinisti dei paesi dell’est contro le riforme politiche, non possono essere ridotte al timore dei burocrati più incompetenti di perdere il loro posto e i loro privilegi. E’ il partito come corpo, come entità sociale e come classe dominante che si esprime attraverso queste resistenze.
D’altra parte, quello che scrivevamo nove anni fa: “ogni movimento di contestazione rischia di cristallizzare l’enorme malcontento che esiste in seno a un proletariato e una popolazione sottomessi da decenni alla più violenta delle repressioni”, resta valido ancora oggi. In effetti, anche se le “riforme democratiche” hanno come uno dei loro obiettivi di costituire una valvola di sfogo dell’enorme rabbia che esiste nella popolazione, esse comportano anche il rischio di permettere l’emergere di questa rabbia sotto forma di esplosioni incontrollabili. Quando le manifestazioni di malcontento non sono più passibili di essere schiacciate con il sangue e con gli arresti in massa, esse rischiano di esprimersi apertamente e violentemente. Quando la pressione nella pentola diventa troppo forte, il vapore che si vuole far uscire dalla valvola rischia di far saltare il coperchio.
In una certa misura gli scioperi dell’estate scorsa in Russia sono un’illustrazione di questo fenomeno. In un contesto diverso da quello della perestrojka l’esplosione della combattività operaia non avrebbe potuto estendersi in questa maniera o con una tale durata. Lo stesso si può dire per quello che riguarda l’attuale esplosione dei movimenti nazionalisti in questo paese che mette in evidenza il pericolo che la politica di “democratizzazione” rischia di far correre all’integrità territoriale della seconda potenza mondiale.
18) In effetti, dato che praticamente il solo fattore di coesione del blocco russo è la forza armata, ogni politica che tende a far passare in secondo piano questo fattore porta con sé l’esplosione del blocco. Fin da ora il blocco dell’est ci presenta il quadro di una disgregazione crescente. Per esempio, le invettive tra la Germania Est e l’Ungheria, tra i governi “riformatori” e quelli “conservatori”, non sono per niente una farsa. Esse rendono conto dei contrasti che stanno per istaurarsi tra le diverse borghesie nazionali. In questa zona le forze centrifughe sono talmente forti da scatenarsi alla prima occasione. E oggi questa occasione si alimenta dei timori, suscitati in seno ai partiti diretti dai “conservatori”, che il movimento partito dall’URSS, e che si è amplificato in Polonia e Ungheria, non arrivi, per contagio, a destabilizzarli.
Un fenomeno simile si ritrova nelle Repubbliche periferiche dell’URSS. Queste regioni sono per certi versi delle colonie della Russia zarista o anche della Russia stalinista (per esempio i paesi baltici annessi in seguito al patto tedesco-sovietico del 1939). Ma contrariamente alle altre grandi potenze la Russia non ha mai potuto procedere a una decolonizzazione perché questo avrebbe significato per lei la perdita definitiva di qualsiasi controllo su queste regioni, di cui alcune sono molto importanti dal punto di vista economico. I movimenti nazionalisti che oggi, grazie al rilassamento del controllo centrale del partito russo, si sviluppano con quasi un mezzo secolo di ritardo rispetto a quelli che avevano toccato gli imperi francesi o inglese, portano con sé una dinamica di separazione dalla Russia.
In fin dei conti, se il potere centrale di Mosca non reagisse, assisteremmo a un fenomeno di esplosione, non solo del blocco russo, ma anche della sua potenza dominante. In una tale ipotesi la borghesia russa, che oggi è la seconda potenza mondiale, non sarebbe che alla testa di una potenza di secondo piano, più debole della Germania, per esempio.
19) Così, la “perestrojka” ha aperto un vero vaso di Pandora creando situazioni sempre più incontrollabili, come quella, per esempio, che si è venuta a creare in Polonia, con la costituzione di un governo diretto da Solidarnosc. La politica “centrista” (come la definisce Eltsin) di Gorbaciov è in realtà un esercizio di equilibrismo instabile tra due tendenze il cui scontro è inevitabile: quella che vuole andare fino in fondo nel movimento di “liberalizzazione” perché le mezze misure non possono risolvere niente, né sul piano economico, né su quello politico, e quella che si oppone a questo movimento nel timore che esso provochi la caduta della forma attuale della borghesia e anche la perdita della potenza imperialista della Russia.
Dal momento che, attualmente, la borghesia regnante dispone ancora del controllo della forza militare (compreso evidentemente in Polonia), questo scontro non può condurre che a delle lotte violente, ed anche a dei bagni di sangue, come quello che si è avuto in Cina questa estate. E tali lotte saranno rese più brutali per il fatto che dopo più di mezzo secolo per l’URSS, e di quaranta anni per i suoi satelliti, si sono accumulate quantità di odio incredibili da parte delle popolazioni verso le cricche staliniste sinonimo di terrore, massacri, torture, miseria e di un’arroganza cinica fenomenale. Se la burocrazia stalinista perdesse il potere nei paesi che essa controlla, sarebbe vittima di veri e propri pogrom.
20) Ma quale che sia l’evoluzione futura della situazione nei paesi dell’est, gli avvenimenti che li agitano attualmente segnano la crisi storica, il crollo definitivo dello stalinismo, questa mostruosità simbolo della più terribile controrivoluzione subita dal proletariato.
In questi paesi si è aperto un periodo di instabilità, di scosse, di convulsioni, di caos senza precedenti, le cui conseguenze supereranno largamente le loro frontiere. In particolare, il crollo del blocco russo apre le porte a una destabilizzazione del sistema di relazioni internazionali, delle costellazioni imperialiste che erano uscite dalla seconda guerra mondiale con gli accordi di Yalta. Ciò non vuol dire tuttavia che sia in una qualsiasi maniera rimesso in causa il corso storico verso degli scontri decisivi fra le classi. In realtà, il crollo attuale del blocco dell’est costituisce una delle manifestazioni della decomposizione generale della società capitalista la cui origine si trova proprio nell’incapacità della borghesia di dare liberamente la propria risposta, la guerra generalizzata, alla crisi aperta dell’economia mondiale. In questo senso, oggi più che mai, la chiave della prospettiva storica è nelle mani del proletariato.
21) Gli avvenimenti attuali nel blocco dell’est confermano che questa responsabilità del proletariato mondiale ricade principalmente sui suoi battaglioni dei paesi centrali, particolarmente quelli dell’Europa occidentale. In effetti, nella prospettiva delle convulsioni economiche e politiche, degli scontri tra settori della borghesia che attendono i regimi stalinisti, esiste il pericolo che gli operai di questi paesi si lascino irreggimentare e anche massacrare dietro una delle forze capitaliste in campo (come fu il caso nella Spagna ‘36), o anche che le lotte sociali siano deviate su un tale terreno. Le lotte operaie dell’estate 1989 in URSS, malgrado il loro carattere di massa e la combattività che esse rivelano, non hanno abolito l’enorme ritardo politico che pesa sul proletariato di questo paese e del blocco che esso domina. In questa parte del mondo, a causa della stessa arretratezza economica del capitale, ma soprattutto per la profondità e la brutalità con cui si è manifestata la controrivoluzione, gli operai sono ancora particolarmente vulnerabili di fronte alle mistificazioni e alle trappole democratiche, sindacaliste e nazionaliste. Per esempio, le esplosioni nazionaliste di questi ultimi mesi in Russia, ma anche le illusioni che le recenti lotte in questo paese hanno rivelato, come il debole livello attuale della coscienza politica degli operai in Polonia malgrado l’importanza delle lotte che essi hanno condotto da due decenni, costituiscono una nuova illustrazione dell’analisi della CCI su questa questione (rigetto della “teoria dell’anello debole”, vedi Rivista Internazionale n°7). In questo senso, la denuncia nella lotta dell’insieme delle mistificazioni democratiche e sindacaliste da parte degli operai dei paesi centrali costituirà, soprattutto vista l’importanza delle illusioni che gli operai dell’est si fanno sull’Occidente, un elemento fondamentale della capacità di questi ultimi di sventare le trappole che la borghesia non mancherà di tendere loro, di non lasciarsi distogliere dal proprio terreno di classe.
22) Gli avvenimenti che attualmente agitano i cosiddetti paesi “socialisti”, la sparizione di fatto del blocco russo, il fallimento patente e definitivo dello stalinismo sul piano economico, politico e ideologico, costituiscono il fatto storico più importante dalla seconda guerra mondiale insieme con il risorgere internazionale del proletariato alla fine degli anni ‘60. Un avvenimento di tale portata si ripercuoterà, e già ha iniziato a farlo, sulla coscienza della classe operaia, e ciò tanto più che esso riguarda un’ideologia e un sistema politico presentati per più di un mezzo secolo come “socialisti” e “operai”. Con lo stalinismo è il simbolo e la punta di lancia della più terribile controrivoluzione della storia che spariscono. Ma ciò non significa che lo sviluppo della coscienza del proletariato mondiale ne risulti facilitato, al contrario. Anche nella sua fine lo stalinismo rende un ultimo servizio alla dominazione capitalista: decomponendosi il suo cadavere continua ad appestare l’atmosfera che il proletariato respira. Per i settori dominanti della borghesia il definitivo crollo dell’ideologia stalinista, i movimenti “democratici”, “liberali” e nazionalisti che sconvolgono i paesi dell’est costituiscono un’occasione per scatenare e intensificare le loro campagne di mistificazione. L’identificazione sistematica tra comunismo e stalinismo, la menzogna mille volte ripetuta e martellata oggi ancora più di prima per cui la rivoluzione proletaria non potrebbe condurre che al fallimento, vanno a trovare con il crollo dello stalinismo, e per tutto un periodo di tempo, un impatto accresciuto nei ranghi della classe operaia. E’ dunque un riflusso momentaneo della coscienza del proletariato, di cui già ora si possono notare le manifestazioni - in particolare con il ritorno in forze del sindacato - che bisogna attendersi.
Se gli attacchi incessanti e sempre più brutali che il capitalismo non mancherà di sferrare contro gli operai costringeranno questi a scendere in lotta, in un primo tempo non ne risulterà una maggiore capacità della classe di avanzare nella sua presa di coscienza. In particolare, l’ideologia riformista peserà molto fortemente sulle lotte del prossimo periodo, favorendo grandemente l’azione dei sindacati.
Tenuto conto dell’importanza storica dei fatti che lo determinano, l’attuale riflusso del proletariato, benché non rimetta in causa il corso storico, la prospettiva generale agli scontri fra le classi, si presenta come ben più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia. Ciò detto, noi non ne possiamo prevedere né l’ampiezza reale, né la durata. In particolare, il ritmo di sprofondamento del capitalismo occidentale - di cui si può percepire attualmente un’accelerazione con la prospettiva di una nuova recessione aperta - va a costituire un fattore determinante del momento in cui il proletariato potrà riprendere la sua marcia verso la coscienza rivoluzionaria. Rovesciando le illusioni sul “raddrizzamento” dell’economia mondiale, mettendo a nudo la menzogna che presenta il capitalismo “liberale” come una soluzione al fallimento del preteso “socialismo”, svelando il fallimento storico dell’insieme del modo di produzione capitalista, e non solamente delle sue incarnazioni staliniste, l’intensificazione della crisi capitalista spingerà il proletariato a volgersi di nuovo verso la prospettiva di un’altra società, a iscrivere in maniera crescente le sue lotte in questa prospettiva.
Come la CCI scriveva già dopo la sconfitta del 1981 in Polonia, la crisi capitalista resta il migliore alleato del proletariato.
C.C.I. 5/10/1989
1. Il fatto che in un certo numero di paesi dell’est esistano parecchi partiti non cambia evidentemente niente alla realtà che è il partito stalinista a detenere la totalità del potere, essendo gli altri partiti solo delle appendici.
2. Così, in seno alla direzione del partito in Polonia alcuni si richiamano alla “Socialdemocrazia”, nell’ufficio politico del partito ungherese si trova un certo Imre Poszgay, candidato designato all’elezione presidenziale prevista nel 1990, che dichiara che “è impossibile riformare la pratica comunista esistente attualmente in Unione Sovietica e nell’Europa dell’est... Questo sistema deve essere liquidato”. Allo stesso modo, il membro dell’apparato di partito Eltsin, vecchio capo del PC di Mosca, dichiara agli Americani che l’URSS deve imparare dagli Stati Uniti, e Mazowiecki, nel suo discorso di investitura, non parla una sola volta di “socialismo”.
Lo stalinismo ha costituito la punta di lancia della più terribile controrivoluzione subita dal proletariato nel corso della sua storia. Una controrivoluzione che ha permesso la più grande carneficina di tutti i tempi, la seconda guerra mondiale, e l’affossamento di tutta la società in una barbarie senza precedenti. Oggi, col crollo economico e politico dei cosiddetti paesi socialisti, con la scomparsa di fatto del blocco imperialista dominato dall’URSS, lo stalinismo, come forma di organizzazione politico-economica del capitale e come ideologia, è in agonia. Va a scomparire quindi uno dei peggiori nemici della classe operaia. Ma la sua scomparsa non facilita certo il compito alla classe. Anzi, come vedremo in questo articolo, anche mentre sta morendo, lo stalinismo rende un ultimo servizio al capitalismo.
In tutta la storia umana lo stalinismo costituisce il fenomeno certamente più tragico e odioso che sia mai esistito. E non solo perché è responsabile del massacro di dozzine di milioni di esseri umani o perché ha instaurato per decenni un terrore implacabile su circa un terzo dell’umanità, ma soprattutto perché ha dimostrato di essere il peggior nemico della rivoluzione comunista, cioè dell’unica condizione per l’emancipazione della specie umana dalle catene dello sfruttamento e dell’oppressione, e proprio in nome di questa stessa rivoluzione comunista.
IL RUOLO DELLO STALINISMO NELLA CONTRORIVOLUZIONE
Da quando ha stabilito il proprio dominio politico sulla società, la borghesia ha sempre visto nel proletariato il suo peggior nemico. Per esempio, nel corso stesso della rivoluzione borghese della fine del 18° secolo la borghesia ha subito capito il carattere sovversivo delle idee di un Babeuf. E per questo lo ha spedito sul patibolo anche se all’epoca il suo movimento non poteva costituire una reale minaccia per lo stato capitalista (1). Tutta la storia della dominazione borghese è marcata dai massacri di operai perpetrati allo scopo di difendere questa dominazione: massacro dei canuti di Lione nel 1831, dei tessitori della Slesia nel 1844, degli operai parigini nel giugno 1848, dei comunardi nel 1871, degli insorti del 1905 in tutto l’impero russo. Per questo tipo di necessità la borghesia ha sempre potuto trovare nelle sue formazioni politiche classiche gli uomini di polso di cui aveva bisogno. Ma quando la rivoluzione proletaria si è posta all’ordine del giorno della storia, la borghesia non si è più contentata di fare appello a queste sole formazioni per preservare il suo potere. La responsabilità di spalleggiare i partiti borghesi tradizionali o anche di prendere la testa dell’offensiva antiproletaria, passa a quei partiti traditori che erano stati in passato organizzazioni proletarie. Il ruolo preciso di queste nuove reclute della borghesia, la funzione per la quale erano indispensabili ed insostituibili, consisteva nella loro capacità, derivante proprio dalla loro origine e dal loro nome, di esercitare un controllo ideologico sul proletariato per distruggerne la presa di coscienza ed imbrigliarlo sul terreno della classe nemica. La maggiore gloria, infatti, della Socialdemocrazia in quanto partito borghese, non sta tanto nei massacri perpetrati in prima persona a partire dal gennaio del 1919 a Berlino (dove, come ministro delle forze armate, il socialdemocratico Noske ha assunto appieno la sua responsabilità di “cane sanguinario”, come lui stesso si definiva), ma piuttosto come sergente-reclutatore per la prima guerra mondiale e, in seguito, come agente di mistificazione della classe operaia, di divisione e di dispersione delle sue forze, di fronte all’ondata rivoluzionaria che ha messo fine all’olocausto imperialista. In effetti solo il tradimento dell’ala opportunista che dominava la maggior parte dei partiti della II Internazionale, solo il suo passaggio armi e bagagli nel campo della borghesia ha reso possibile, in nome della “difesa della civilizzazione”, l’‘imbrigliamento del proletariato europeo dietro la “difesa nazionale” e lo scatenamento di questa carneficina. Inoltre, la politica di questi partiti, che pretendevano di essere ancora socialisti e per questo continuavano ad avere una notevole influenza sul proletariato, ha giocato un ruolo importante nel mantenimento delle illusioni riformiste e democratiche nel proletariato che lo hanno disarmato impedendogli di seguire l’esempio dato dagli operai russi nel 1917.
In questo periodo, gli elementi e le frazioni che si erano contrapposte a questo tradimento, che avevano mantenuta alta la bandiera dell’internazionalismo e della rivoluzione proletaria, si erano raggruppati nei partiti comunisti, sezioni della III Internazionale. Ma questi stessi partiti, in seguito, giocheranno un ruolo analogo a quello dei partiti socialisti. Logorati dall’opportunismo che si era rafforzato in conseguenza del mancato sviluppo della rivoluzione mondiale, fedeli esecutori della direzione di una “Internazionale” che si trasformava sempre più in un semplice strumento della diplomazia dello stato russo alla ricerca della sua integrazione nel mondo borghese, i partiti comunisti hanno seguito lo stesso cammino dei loro predecessori. Come questi, hanno finito per integrarsi completamente nell’apparato politico del capitale nazionale dei rispettivi paesi. Ma, di passaggio, hanno anche partecipato alla sconfitta degli ultimi soprassalti dell’ondata rivoluzionaria del dopoguerra, come in Cina nel 1927-28, e soprattutto hanno contribuito in maniera decisiva alla trasformazione della sconfitta della rivoluzione mondiale in una terribile controrivoluzione.
In effetti, dopo una tale sconfitta, la demoralizzazione e lo scombussolamento del proletariato erano inevitabili. Tuttavia, la f orna che ha preso la controrivoluzione nella stessa URSS - non il rovesciamento del potere uscito dalla rivoluzione d’ottobre 1917, ma la degenerazione di questo potere e del partito che lo deteneva - le ha dato una estensione ed una profondità enormemente più grande che se la rivoluzione fosse morta sotto i colpi delle armi bianche. Il partito comunista dell’unione sovietica (PCUS), che aveva costituito l’avanguardia incontestabile del proletariato mondiale sia nella rivoluzione del ‘17 che nella fondazione dell’Internazionale comunista nel ‘19, diventa, in seguito alla sua immedesimazione con lo stato post-rivoluzionario, il principale agente della controrivoluzione in URSS, il vero carnefice della classe operaia (2). E sfruttando il suo glorioso passato ha continuato a mietere illusioni nella maggioranza degli altri partiti comunisti e dei loro militanti, come nelle grandi masse del proletariato mondiale. E’ grazie a tale prestigio che questi militanti e queste masse potranno tollerare tutti i tradimenti fatti dallo stalinismo in questo periodo. In particolare l’abbandono dell’internazionalismo proletario sotto la copertura della “costruzione del socialismo in un solo paese”, l’identificazione al “socialismo” del capitalismo che si è ricostituito in Russia nelle forme più barbare, la sottomissione delle lotte del proletariato mondiale agli imperativi della difesa della “patria socialista” e infine la difesa della democrazia contro il fascismo. Tutte queste menzogne e mistificazioni hanno potuto, in gran parte, avere una presa sulle masse operaie proprio perché venivano veicolate da partiti che continuavano a presentarsi come gli eredi “legittimi” della rivoluzione d’Ottobre. E’ proprio questa falsa identificazione tra stalinismo e comunismo, utilizzata da tutti i settori della borghesia mondiale (3), che ha permesso alla controrivoluzione di paralizzare più generazioni operaie consegnandole mani e piedi legati alla seconda carneficina imperialista, di averla vinta sulle frazioni comuniste che avevano lottato contro la degenerazione dell’Internazionale comunista e dei suoi partiti o comunque di ridurle a livello di piccoli nuclei completamente isolati.
Sono stati in particolare i partiti stalinisti, negli anni ‘30, a deviare su di un terreno borghese la collera e la combattività degli operai colpiti brutalmente dalla crisi economica mondiale. Questa crisi, per la sua ampiezza e profondità, era il segno indiscutibile del fallimento storico del modo di produzione capitalistico e avrebbe potuto, a questo titolo ed in altre circostanze, costituire la leva per una nuova ondata rivoluzionaria. Ma la maggioranza degli operai che si orientavano verso questa prospettiva sono rimasti prigionieri nelle maglie dello stalinismo che pretendeva di rappresentare la tradizione della rivoluzione mondiale. In nome della difesa della “patria socialista” ed in nome dell’antifascismo, i partiti stalinisti hanno sistematicamente svuotato di ogni contenuto di classe le lotte proletarie di questo periodo e le hanno trasformate in forze di appoggio della democrazia borghese, quando non in preparativi della guerra imperialista. Questo fu il caso, in particolare, dei “fronti popolari” in Francia e in Spagna, dove un’enorme combattività operaia fu deviata ed annientata attraverso l’antifascismo, portato avanti principalmente dagli stalinisti, e fatto passare come una pratica proletaria. In quest’ultimo caso i partiti stalinisti hanno dimostrato che, anche al di fuori dell’URSS dove già da molti anni giocavano il ruolo di carnefici, erano ben più capaci dei loro maestri socialdemocratici nel compito di massacratori del proletariato (vedi in particolare il loro ruolo nella repressione del sollevamento proletario a Barcellona nel maggio 1937 descritto nell’articolo di “Bilan” “Piombo, mitraglia, prigioni …“ nella Rivista Internazionale n. 1, novembre ‘76). Come numero di vittime di cui porta la diretta responsabilità a livello mondiale, lo stalinismo non ha nulla da invidiare al fascismo, altra manifestazione della controrivoluzione. Ma il suo ruolo antioperaio sarà molto più importante perché lo assicurerà in nome della rivoluzione comunista e del proletariato, provocando in quest’ultimo un riflusso della sua coscienza di classe senza uguali nella storia.
Infatti, mentre alla fine e dopo la prima guerra imperialista, nel momento in cui si sviluppava l’ondata rivoluzionaria mondiale, l’impatto dei partiti comunisti era direttamente in rapporto con la combattività e soprattutto la coscienza nell’insieme del proletariato, l’evoluzione della loro influenza, a partire dagli anni 30, è in proporzione inversa alla coscienza nella classe. Alla loro fondazione, la forza dei partiti comunisti costituiva, in qualche modo, un termometro della potenza della rivoluzione; dopo esser passati alla borghesia, la loro forza diventa una misura della profondità della controrivoluzione.
E’ per questo che lo stalinismo non è mai stato così potente come dopo la seconda guerra mondiale. Questo periodo, infatti, costituisce il punto culminante della controrivoluzione. Grazie ai partiti stalinisti, per mezzo dei quali la borghesia ha potuto scatenare un’altra carneficina imperialista, e che sono stati tra i migliori sergenti-reclutatori del proletariato nei movimenti di “resistenza”, questa carneficina, contrariamente alla prima, non ha portato ad un sollevamento rivoluzionario del proletariato. L’occupazione di una buona parte dell’Europa da parte dell’“Armata rossa” (4) da una parte, la partecipazione dei partiti stalinisti ai governi della “Liberazione” dall’altra, hanno messo a tacere ogni velleità di lotta del proletariato sul proprio terreno di classe, attraverso il terrore o la mistificazione, ciò che lo ha spinto in un disorientamento ancora più profondo di quello che esisteva alla vigilia della guerra. Nella guerra, la vittoria degli alleati, alla quale lo stalinismo ha dato tutto il suo contributo, lungi dallo sgombrare il terreno per la classe operaia (come pretendevano i trotzkisti per giustificare la loro partecipazione alla “Resistenza”), non ha fatto altro che rafforzarne la sottomissione all’ideologia borghese. Questa vittoria, presentata come quella della “Democrazia” e della “Civilizzazione” sulla barbarie fascista, ha permesso alla borghesia di ridare splendore al blasone delle illusioni democratiche e della visione di un capitalismo “umano” e “civilizzato”, prolungando così di vari decenni la notte della controrivoluzione.
Non è affatto un caso se la fine della controrivoluzione, la ripresa storica delle lotte di classe a partire da 1968, coincide con un indebolimento importante, nell’insieme del proletariato mondiale, della presa dello stalinismo, del peso delle illusioni sulla natura dell’URSS e delle mistificazioni antifasciste. Ciò è particolarmente evidente nei due paesi occidentali dove esistevano i partiti “comunisti” più forti e dove si sono avute le lotte più significative di questa ripresa: la Francia nel 1968 e l’Italia nel 1969.
COME LA BORGHESIA UTILIZZA IL CROLLO DELLO STALINISMO
Questo indebolimento della presa ideologica dello stalinismo sulla classe operaia risulta in buona parte dalla scoperta da parte degli operai della vera natura dei regimi cosiddetti socialisti. Nei paesi dominati da questi regimi è evidente che gli operai hanno potuto constatare subito che lo stalinismo era uno dei loro peggiori nemici. Già dal 1953 in Germania orientale, e dal 1956 in Polonia ed Ungheria, le rivolte operaie e la loro repressioni nel sangue hanno dimostrato che, in questi paesi, gli operai non si facevano illusioni sullo stalinismo. Questi avvenimenti (così come l’intervento armato del patto di Varsavia in Cecoslovacchia nel 1968) hanno inoltre contributo ad aprire gli occhi ad un certo numero di operai in Occidente (5), anche se molto di più sono servite a tal scopo le lotte del 1970, 76 e 80 in Polonia che, proprio perché si situavano molto più direttamente su di un terreno di classe ed in un momento di ripresa mondiale delle lotte operaie, hanno potuto dimostrare in maniera molto più chiara al proletariato dei paesi occidentali la natura antioperaia dei regimi stalinisti. E’ per questo infatti che i partiti stalinisti occidentali hanno preso le distanze dalla repressione scatenata dagli stati “socialisti”.
Un altro elemento che ha favorito l’usura delle mistificazioni staliniste è stato la messa in evidenza, da parte di queste lotte, del fallimento dell’economia “socialista”. Tuttavia, man mano che si confermava questo fallimento e che di conseguenza si indebolivano le mistificazioni staliniste, la borghesia occidentale ne approfittava per sviluppare le sue campagne sulla “superiorità del capitalismo rispetto al socialismo”. Così le illusioni democratiche e sindacaliste che gli operai polacchi subivano sono state sfruttate, in particolare a partire dall’80, con la formazione del sindacato “Solidarnosc”, per essere ripresentate riverniciate a nuovo agli operai in Occidente. E’ infatti il rafforzamento di queste illusioni, accentuato dalla repressione del dicembre ‘81 e la messa fuori legge di “Solidarnosc”, che permette di comprendere il disorientamento ed il riflusso della classe operaia agli inizi degli anni ‘80.
L’emergere, a partire dall’autunno 1983, di una nuova ondata di ampie lotte nella maggior parte dei paesi sviluppati occidentali, ed in particolare in Europa occidentale, la simultaneità stessa di queste lotte a livello internazionale, dimostravano che la classe operaia stava liberandosi dalla presa delle illusioni e delle mistificazioni che l’avevano paralizzata nel periodo precedente. In particolare lo scavalcamento dei sindacati ed il loro rigetto, manifestatisi soprattutto nello sciopero dei ferrovieri in Francia alla fine dell’86 o nel movimento della scuola in Italia nell’87, la costituzione da parte dei gruppi di estrema “sinistra”, in questi ed in altri paesi, di “coordinamenti” che presentandosi come strutture “non sindacali” servivano nei fatti all’inquadramento dei lavoratori, sono tutte manifestazioni dell’indebolimento delle mistificazioni sindacaliste. Nello stesso periodo si indebolivano anche le mistificazioni elettorali con una crescita delle astensioni, in particolare nelle circoscrizioni operaie. Ma oggi, grazie al crollo dei regimi stalinisti e a tutte le campagne che ne derivano, la borghesia è riuscita a rovesciare la tendenza che si era manifestata in questi anni 80.
In effetti, se le trappole sindacaliste e democratiche che la borghesia era riuscita a tendere a ridosso delle lotte operaie dell’agosto ‘80 in Polonia, e grazie alle quali aveva potuto scatenare la repressione del dicembre 81, avevano permesso di provocare un sensibile disorientamento nel proletariato dei paesi più avanzati, il crollo generale e storico dello stalinismo di oggi non può che portare ad un disorientamento ancora maggiore.
Ciò perché gli avvenimenti attuali si situano ad un livello ben diverso da quello della Polonia 80. Innanzitutto non vi è implicata un’unica nazione ma tutte quelle del blocco, a cominciare dal capofila, l’URSS. La propaganda stalinista poteva presentare le difficoltà del regime polacco come il risultato degli “errori” di Gierek. Ha oggi nessuno, neanche i nuovi dirigenti di questi paesi, si sognano di accollare ai loro predecessori la responsabilità totale delle difficoltà dei loro regimi. A detta di molti di questi dirigenti, soprattutto quelli ungheresi, è in discussione l’insieme della struttura dell’economia e delle pratiche politiche aberranti che hanno marcato i regimi stalinisti fin dalla loro origine. Un tale riconoscimento del fallimento di questi regimi da parte di chi ne è alla testa chiaramente è pane per i denti della borghesia occidentale.
La seconda ragione per la quale la borghesia riesce ad utilizzare appieno ed efficacemente il crollo dello stalinismo e del blocco che dominava, sta nel fatto che questo crollo non deriva dall’azione della lotta di classe ma da un fallimento completo dell’economia di questi paesi. Negli attuali avvenimenti dei paesi dell’Est, il proletariato, in quanto classe, in quanto portatore di una politica antagonista al capitalismo, è purtroppo assente. In particolare, gli scioperi operai dell’estate scorsa nelle miniere dell’URSS sono piuttosto un’eccezione e denotano, per il peso delle mistificazioni che hanno gravato su di loro, la debolezza politica del proletariato di questi paesi. Questi scioperi erano essenzialmente una conseguenza dello sfacelo dello stalinismo e non un fattore attivo in questo sfacelo. D’altra parte, la maggior parte degli scioperi che si sono avuti in questi ultimi tempi in questo paese, contrariamente a quello dei minatori, non avevano come scopo la difesa degli interessi operai ma si situavano su di un terreno nazionalista (paesi baltici, Armenia, Azerbaijan, ecc.), e dunque completamente borghese. Nelle numerose manifestazioni di massa che scuotono attualmente i paesi dell’Europa dell’est, in particolare la Repubblica Democratica Tedesca, la Cecoslovacchia e la Bulgaria, non si vede neanche l’ombra di una sola rivendicazione operaia. Queste manifestazioni sono completamente dominate da rivendicazioni tipicamente ed esclusivamente democratico-borghesi: “elezioni libere”, “libertà”, “dimissioni dei PC al potere”, ecc. In questo senso, se l’impatto delle campagne democratiche sviluppatesi in seguito agli avvenimenti della Polonia 80-81 erano state limitate dal fatto che scaturivano da una situazione di lotta, l’assenza di una lotta di classe significativa nei paesi dell’est, oggi, non può che rafforzare gli effetti devastanti delle attuali campagne della borghesia.
Ad un livello più generale, il crollo di un intero blocco imperialista, le cui conseguenze saranno enormi, il fatto che questo avvenimento storico sia avvenuto indipendentemente dalla presenza del proletariato, non può che generare in quest’ultimo un sentimento di impotenza, anche se tutto questo è potuto avvenire, come dimostrano le tesi pubblicate in questo numero, solo a causa dell’incapacità della borghesia di imbrigliare a livello mondiale, fino ad oggi, la classe operaia in un terzo olocausto imperialista. E’ stata la lotta di classe, dopo aver rovesciato lo zarismo e poi la borghesia, in Russia, a porre fine alla prima guerra mondiale, provocando il crollo della Germania imperiale. E’ in gran parte per questa ragione che ha potuto svilupparsi a livello mondiale la prima ondata rivoluzionaria. Al contrario, il fatto che la lotta di classe non era stato che un fattore secondario nel crollo dei paesi dell’“Asse” e nella fine della seconda guerra mondiale, ha giocato un ruolo importante nella paralisi ed il disorientamento del proletariato all’indomani di questa. Oggi, non è indifferente che il blocco dell’est sia crollato sotto i colpi della crisi economica piuttosto che sotto i colpi della lotta di classe. Se fosse prevalsa questa seconda alternativa, piuttosto che indebolirsi come sta avvenendo oggi, la fiducia del proletariato nelle proprie capacità si sarebbe potuta rafforzare. Inoltre, nella misura in cui il crollo del blocco dell’est fa seguito ad un periodo di “guerra fredda” con il blocco occidentale, in cui quest’ultimo appare come il “vincitore” senza colpo ferire, si genera nelle popolazioni occidentali, e anche tra i proletari, un sentimento di euforia e di fiducia verso i propri governi, simile (facendo le debite proporzioni) a quello che pesò sui proletari dei paesi “vincitori” nelle due guerre mondiali e che fu una delle cause della sconfitta dell’ondata rivoluzionaria seguita alla prima guerra.
Una tale euforia, catastrofica per la coscienza del proletariato, sarà evidentemente molto più limitata dato che oggi non stiamo uscendo da una carneficina imperialista. Tuttavia quella che oggi si manifesta in alcuni paesi dell’est ha certamente un impatto in occidente e non potrà che accentuare gli effetti nefasti della situazione attuale. Infatti quando è caduto il muro di Berlino, simbolo del terrore imposto dallo stalinismo, la stampa ed alcuni esponenti borghesi hanno paragonato l’atmosfera che regnava in questa città a quella della “Liberazione”. Non è un caso: i sentimenti provati dalla popolazione della Germania dell’est nel momento in cui si abbatteva questo simbolo erano paragonabili a quelli delle popolazioni che avevano subito per anni l’occupazione ed in terrore della Germania nazista. Ma, come ci ha dimostrato la storia, questo tipo di sentimenti sono tra i peggiori ostacoli per la presa di coscienza del proletariato. La soddisfazione provata dagli abitanti dei paesi dell’est davanti al crollo dello stalinismo e soprattutto il rafforzamento delle illusioni democratiche che questo comporta, si ripercuoteranno fortemente, e si ripercuotono già sul proletariato dei paesi occidentali e particolarmente su quello tedesco che riveste una particolare importanza all’interno del proletariato mondiale nella prospettiva della rivoluzione proletaria. Inoltre il proletariato di questo paese dovrà affrontare, nel prossimo periodo, il peso delle mistificazioni nazionaliste che saranno rafforzate dalla prospettiva di una riunificazione della Germania, anche se questa non è ancora all’ordine del giorno.
Queste mistificazioni sono già oggi particolarmente forti tra gli operai della maggior parte dei paesi dell’est. Non solo nelle differenti repubbliche che costituiscono l’URSS, ma anche nelle “democrazie popolari” per il modo particolarmente brutale in cui il “Grande Fratello” ha esercitato la sua dominazione imperialista. Gli interventi sanguinosi dei carri armati russi nella RDT nel 1953, in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968, cosi come la costante rapina subita dall’economia dei paesi “satelliti” per dei decenni, hanno potuto solo alimentare tali mistificazioni. A fianco alle illusioni democratiche e sindacali, esse hanno contribuito non poco, nel 1980-81, allo scombussolamento degli operai polacchi che ha poi aperto la porta alla repressione del dicembre 1981. Con lo sfaldamento del blocco dell’est al quale assistiamo oggi queste mistificazioni acquisteranno nuovo vigore rendendo ancora più difficile la presa di coscienza degli operai di questi paesi. Queste mistificazioni nazionaliste peseranno anche sugli operai dell’occidente non necessariamente (tranne il caso della Germania) con un rafforzamento diretto del nazionalismo, ma attraverso il discredito e l’alterazione che subirà nella loro coscienza l’idea stessa di internazionalismo proletario. In effetti, questa idea è stata completamente snaturata dallo stalinismo e, sulle sue orme, dall’insieme delle forze borghesi che l’hanno identificato con la dominazione imperialista dell’URSS sul suo blocco. Per questo l’intervento dei carri armati del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, nel ‘68, è stato fatto in nome dell’“internazionalismo proletario”. La caduta ed il rigetto dell’internazionalismo di stile stalinista da parte delle popolazioni dei paesi dell’est non potrà che pesare negativamente sulla coscienza degli operai d’occidente e ciò tanto più in quanto la borghesia occidentale non perderà occasione per opporre al vero internazionalismo proletario la propria “solidarietà internazionale”, intesa come sostegno alle economie dell’est in rovina (quando non si giungerà a veri appelli alla carità) o alle “rivendicazioni democratiche” delle loro popolazioni quando queste si scontreranno con la repressione statale (ricordiamoci delle campagne a proposito della Polonia nell’81, o recentemente della Cina).
Nei fatti, ed è questo il perno delle campagne scatenate attualmente dalla borghesia, il crollo dello stalinismo investe la prospettiva stessa della rivoluzione comunista mondiale. L’internazionalismo non è che un elemento di questa prospettiva. La tiritera che i mass media ci ripetono fino alla nausea: “il comunismo è morto, è fallito”, riassume molto bene il messaggio fondamentale che le borghesie di tutti i paesi vogliono ficcare nelle teste degli operai che sfruttano. E la menzogna sulla quale si erano unite tutte le forze borghesi in passato, nei momenti più bui della controrivoluzione, cioè l’identificazione tra il comunismo e lo stalinismo, raccoglie oggi la stessa unanimità. Questa identificazione aveva permesso alla borghesia negli anni 30 di imbrigliare la classe operaia dietro di sé al fine di completarne la sconfitta. Oggi, quando lo stalinismo è completamente screditato agli occhi di tutti gli operai, questa menzogna serve a distoglierlo dalla prospettiva del comunismo.
Il proletariato dei paesi dell’est subisce già da parecchio tempo questo disorientamento: quando “dittatura del proletariato” è sinonimo di terrore poliziesco, “potere della classe operaia” significa potere cinico dei burocrati, “socialismo” denota sfruttamento brutale, miseria, penuria e malgoverno, quando a scuola bisogna imparare a memoria delle citazioni di Marx o di Lenin, ci si può solo allontanare da tutto ciò, cioè rigettare ciò che costituisce il fondamento stesso della prospettiva storica del proletariato, rifiutarsi categoricamente di studiare i testi di base del movimento operaio, rigettare gli stessi termini di “movimento operaio” e di “classe operaia” che sono considerati delle oscenità. In un tale contesto, l’idea stessa di una rivoluzione del proletariato è completamente screditata. “A che servirebbe un nuovo Ottobre ‘17 se, alla fin dei conti, il risultato ultimo è la barbarie stalinista?” Questo pensano oggi praticamente tutti gli operai dei paesi dell’est e la borghesia occidentale, aiutata dall’evidente e spettacolare fallimento di questo sistema, cerca oggi di disseminare lo stesso scombussolamento tra gli operai d’occidente.
Pertanto, l’insieme degli avvenimenti che scuotono i paesi dell’est e che si ripercuotono sul mondo intero, peseranno negativamente per tutto un periodo sulla presa di coscienza della classe operaia. In un primo tempo, l’apertura della “cortina di ferro” che separa in due il proletariato mondiale non permetterà agli operai dell’occidente di mettere a disposizione dei loro fratelli di classe dei paesi dell’est l’esperienza acquisita nelle lotte di fronte alle trappole ed alle mistificazioni sviluppate dalla borghesia più forte del mondo. Al contrario, sono le illusioni democratiche particolarmente forti tra gli operai dell’est, la loro convinzione sulla “superiorità del capitalismo sui socialismo”, che si rovesceranno sull’occidente indebolendo nell’immediato le acquisizioni delle esperienze del proletariato di questa parte del mondo. E’ per questo che l’agonia di questo strumento della controrivoluzione, lo stalinismo, viene oggi rivoltata contro la classe operaia.
LE PROSPETTIVE PER LA LOTTA DI CLASSE
Il crollo dei regimi stalinisti, derivante essenzialmente dal fallimento totale dell’economia, non potrà, in un contesto mondiale di approfondimento della crisi capitalista, che aggravare questo fallimento. Per la classe operaia di questi paesi significa attacchi alle sue condizioni di vita, miseria e fame senza precedenti. Una tale situazione provocherà necessariamente delle esplosioni di collera. Ma il contesto politico ed ideologico nei paesi dell’est è tale che la combattività operaia non potrà, per tutto un periodo, sfociare in un reale sviluppo della coscienza (vedi la presentazione delle tesi). Il caos e le convulsioni che si sviluppano sul piano economico e politico, la barbarie e l’imputridimento dell’insieme della società capitalista che essi esprimono in modo concentrato e caricaturale non potranno sfociare nella comprensione della necessità di rovesciare questo sistema finché una tale comprensione non si sarà sviluppata nei battaglioni decisivi del proletariato delle grandi concentrazioni operaie dell’occidente e particolarmente nell’Europa (6).
Attualmente, come abbiamo visto, questi settori subiscono essi stessi lo scatenamento delle campagne borghesi e sono colpiti da un riflusso della loro coscienza. Questo non vuoi dire che non saranno capaci di lottare contro gli attacchi economici del capitalismo la cui crisi è irreversibile. Significa soprattutto che, per un certo tempo, queste lotte saranno, molto più che negli scorsi anni, prigioniere degli organi di inquadramento della classe operaia e in primo luogo dei sindacati, come si può già constatarlo nelle lotte più recenti. In particolare i sindacati beneficeranno del rafforzamento generale delle illusioni democratiche e troveranno un terreno più propizio alle loro manovre con lo sviluppo dell’ideologia riformista che deriva dalle illusioni sulla “superiorità del capitalismo” rispetto ad ogni altra forma di società.
Tuttavia, il proletariato oggi non è quello degli anni ‘30. Non sta uscendo da una sconfitta come quella subita dopo l’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra. La crisi mondiale del capitalismo è insanabile. Essa potrà solo aggravarsi (vedi rapporto sulla situazione internazionale, in questo numero): dopo il crollo del “Terzo mondo” alla fine degli anni 70, dopo l’attuale implosione delle economie dette “socialiste”, il prossimo settore del capitale mondiale della lista è quello dei paesi più sviluppati che avevano potuto, in parte, scamparla fino ad oggi scaricando la maggior parte delle convulsioni del sistema verso la periferia. La messa in evidenza inevitabile del fallimento completo, non di un settore particolare del capitalismo, ma dell’insieme di questo modo di produzione, non potrà che minare le basi stesse delle campagne della borghesia occidentale sulla “superiorità del capitalismo”.
Alla fine, lo sviluppo della sua combattività dovrà sfociare in un nuovo sviluppo della coscienza, sviluppo interrotto ed ostacolato oggi dalla caduta dello stalinismo. Spetta alle organizzazioni rivoluzionarie contribuire in maniera decisa a questo sviluppo, non cercando di consolare oggi gli operai, ma mettendo chiaramente in evidenza che, malgrado la difficoltà del cammino, non esiste altra via per il proletariato se non quella che porta alla rivoluzione comunista.
25/11/89 F. M.
1) E’ significativo che la “rivoluzionaria” e “democratica” borghesia francese non ha esitato a schernire la “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo” che aveva appena adottato (e alla quale si fa molto riferimento oggi) vietando ogni associazione operaia (legge Chapelier del 14 giugno 1791). Questo divieto sarà abrogato solo un secolo più tardi, nel 1884.
2) La degenerazione ed il tradimento di questo ha incontrato una forte resistenza. In particolare, una gran parte dei militanti e la quasi totalità dei dirigenti del partito dell’Ottobre 1917 sono stati sterminati dallo stalinismo. Su questa questione vedi in particolare “La degenerazione della rivoluzione russa” e “La sinistra comunista in Russia” sulla Rivista Internazionale n°2, novembre 1977.
3) Nella seconda metà degli anni 20 e per tutti gli anni 30, la “democratica” borghesia occidentale si è ben guardata dal manifestare, di fronte allo stalinismo “barbaro” e “totalitario”, quella ripugnanza che invece comincia a sbandierare a partire dalla “guerra fredda”, e ripresa oggi nelle varie campagne. Essa ha invece sostenuto pienamente Stalin nella persecuzione da questo scatenata contro l’“Opposizione di sinistra” e il suo principale dirigente, Trotskij. Per quest’ultimo, dopo la sua espulsione dalla Russia nel ‘28, il mondo è diventato un “pianeta senza lasciapassare”. Nei suoi confronti tutti i “democratici” del mondo, e in prima linea i socialdemocratici, che erano al governo in Germania, Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Belgio o Francia, hanno nuovamente dato prova della loro ripugnante ipocrisia mandando a quel paese i “virtuosi principi” quali il “diritto d’asilo”. Questo bel mondo non ha trovato niente da ridire quando Stalin, con i processi di Mosca, ha liquidato la vecchia guardia del partito bolscevico accusandola di “hitlero-trotzkismo”. Queste “anime candide” hanno perfino lasciato capire che “non c’è fumo senza fuoco”.
4) Un’ulteriore prova, ammesso che ce ne sia ancora bisogno, del fatto che i regimi che si formano nell’Europa dell’est dopo la seconda guerra mondiale (oltre chiaramente al regime che già esisteva in Russia) non hanno niente a che vedere col regime instauratosi in Russia nel 1917, sta nel rapporto tra le loro origini e la guerra imperialista. La natura operaia della Rivoluzione d’Ottobre è dimostrata dal fatto che questa sorge CONTRO la guerra imperialista. La natura antioperaia e capitalista delle “democrazie popolari” è contrassegnata dal fatto che esse si sono instaurate GRAZIE alla guerra imperialista.
5) Chiaramente questo non è il solo fattore che permette di spiegare l’usura dell’impatto dello stalinismo - così come dell’insieme delle mistificazioni borghesi - nella classe operaia tra la fine della guerra e la ripresa storica del proletariato alla fine degli anni 60. D’altra parte, in molti paesi (in particolare quelli dell’Europa del nord), lo stalinismo dalla seconda guerra mondiale giocava solo un ruolo molto secondario rispetto a quello della socialdemocrazia nell’inquadramento degli operai. L’indebolimento delle mistificazioni antifasciste, per l’inesistenza nella maggioranza dei paesi di uno spauracchio “fascista”, così come l’usura dell’influenza dei sindacati (siano essi stalinisti o socialdemocratici) già ampiamente utilizzati negli anni 60 per sabotare le lotte, possono anch’essi spiegare l’indebolimento dell’impatto dello stalinismo, come di quello della socialdemocrazia, sul proletariato, ciò che ha permesso a quest’ultimo di ritornare sulla scena storica fin dai primi attacchi della crisi aperta.
6) Vedi la nostra analisi su questa questione nell’articolo “Il proletariato d’Europa occidentale al centro della generalizzazione della lotta di classe” pubblicato nella Rivista Internazionale n.7.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1917-rivoluzione-russa
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1980-sciopero-di-massa-polonia
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/2/28/stalinismo-il-blocco-dellest
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/2/36/falsi-partiti-operai
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/2/40/coscienza-di-classe
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/5/99/collasso-del-blocco-dellest
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione