Migliaia di lavoratori in sciopero. Trasporti pubblici completamente paralizzati. Uno sciopero che si estende nel settore pubblico: prima le ferrovie, la metropolitana e gli autobus, poi Poste, settori di produzione e distribuzione dell’energia elettrica, della distribuzione del gas, i telefoni, la scuola, la sanità. Anche qualche impresa del settore privato entra in lotta, come i minatori che si scontrano violentemente con la polizia. Manifestazioni che hanno riunito una quantità importante di lavoratori di diversi settori: il 7 dicembre, su appello di vari sindacati (1), si raggiunge la cifra di un milione di manifestanti contro il piano Juppé (2) nelle principali città della Francia. Due milioni il 12 dicembre.
Il movimento di scioperi e manifestazioni operaie si sviluppa sullo sfondo di agitazioni studentesche e in alcune manifestazioni e assemblee generali di lavoratori partecipano degli studenti. Il riferimento al maggio ‘68 si fa sempre più strada sui mezzi di informazione che si dilungano a fare parallelismi: esasperazione generale, studenti per strada, scioperi che si estendono.
Siamo davvero di fronte a un nuovo movimento sociale comparabile a quello del maggio ‘68, movimento che iniziò la prima ondata internazionale di lotta di classe dopo cinquanta anni di controrivoluzione? Per niente. In realtà il proletariato in Francia è stato vittima di una manovra ben costruita destinata a indebolirlo nella sua coscienza e nella sua combattività, una manovra indirizzata anche verso la classe operaia di altri paesi perché tirino false lezioni dagli avvenimenti francesi. E’ per questo che, contrariamente a quanto avviene quando la classe operaia entra in lotta per iniziativa propria e sul suo proprio terreno, la borghesia in Francia e negli altri paesi ha dato tanta risonanza a questi avvenimenti.
La borghesia utilizza e rafforza le difficoltà della classe operaia.
Gli avvenimenti del maggio ‘68 in Francia iniziarono con tutta una serie di scioperi la cui caratteristica principale era lo scavalcamento dei sindacati fino allo scontro con essi. Non è in nessuna maniera la situazione di oggi, né in Francia, né negli altri paesi.
Certamente l’ampiezza e la generalizzazione degli attacchi che la classe operaia ha subito dall’inizio degli anni ‘90 hanno alimentato la sua combattività come descriviamo nella Risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal nostro 11° Congresso internazionale (pubblicata in questo stesso numero):
Senza dubbio la maniera in cui questa combattività si è espressa è tuttavia profondamente marcata dal riflusso che la classe operaia ha subito al seguito del crollo del blocco dell’Est e lo scatenamento delle campagne sulla “morte del comunismo”. Si è trattato del riflusso più profondo che la classe operaia ha conosciuto dalla ripresa storica delle sue lotte nel 1968.
Dappertutto la classe operaia si scontra con una classe borghese che porta avanti un’offensiva politica per indebolire la sua capacità di rispondere agli attacchi e superare il profondo riflusso della sua coscienza. All’avanguardia di questa offensiva troviamo i sindacati, che dappertutto si danno da fare per prevenire le lotte operaie, per fare in maniera che esse non scappino al loro controllo.
Da mesi, a livello internazionale, la classe operaia dei paesi industrializzati è sottoposta ad un autentico bombardamento di attacchi. In Svezia, Belgio, Italia, Spagna, per non citare che gli ultimi esempi. In Francia era dal piano Delors del 1983 che non si vedeva la borghesia assestare una tale mazzata agli operai. In una sola volta: aumento dell’IVA, cioè dei prezzi al consumo, aumento delle imposte e dei ticket sanitari, congelamento dei salari degli impiegati pubblici, abbassamento delle pensioni, aumento degli anni lavorativi necessari per andare in pensione per alcune categorie di lavoratori, e tutto questo quando le cifre della borghesia annunciano un aumento della disoccupazione. Nei fatti, alla pari dei suoi compari di tutti gli altri paesi, la borghesia francese è confrontata a un crescente aggravamento della crisi mondiale del capitalismo che la obbliga ad attaccare ogni giorno di più le condizioni di esistenza dei proletari. E questo è tanto più urgente a causa dell’importante ritardo accumulato durante gli anni in cui la sinistra, con Mitterand e il PS, stava alla testa dello Stato, una situazione che aveva sguarnito il fianco sociale, obbligando lo Stato ad una certa “esitazione” nelle sue politiche antioperaie.
L’attuale ondata di attacchi doveva per forza alimentare una combattività operaia che già si è espressa in differenti momenti e paesi come Svezia, Belgio, Spagna e anche in Francia...
In effetti di fronte a questa situazione i proletari non possono restare passivi. Non resta loro che difendersi lottando. E per impedire che la classe operaia entri in lotta con le sue proprie armi, la borghesia ha giocato d’anticipo spingendo la classe ad entrare in lotta prematuramente e sotto il controllo totale dei sindacati. Non ha lasciato tempo ai proletari per mobilitarsi secondo i loro ritmi e con i loro mezzi, le assemblee generali, le discussioni, la partecipazione alle assemblee di altri luoghi di lavoro diversi, l’entrata in sciopero se i rapporti di forza lo consentono, l’elezione di comitati di sciopero, le delegazioni in altre assemblee di operai in lotta.
Il movimento di scioperi che si è sviluppato in Francia, anche se ha evidenziato il profondo malcontento che regna presso la classe operaia, è stato, innanzitutto, il risultato di una manovra in grande stile della borghesia con l’obiettivo di portare gli operai a una sconfitta di massa e, soprattutto, di provocare tra loro il massimo del disorientamento.
Una trappola tesa agli operai
Per preparare la sua trappola la borghesia ha manovrato magistralmente, facendo cooperare molto efficacemente le sue differenti frazioni nella ripartizione del lavoro: la destra, la sinistra, i mezzi di informazione, i sindacati, la base radicale di questi, formata principalmente da militanti delle frazioni di estrema sinistra.
Come prima tappa della manovra la borghesia fa di tutto per far entrare in sciopero un settore della classe operaia. L’aumento del malcontento in Francia, aggravato dagli attacchi alla Previdenza per quanto sia una realtà, tuttavia non era ancora a livello di maturazione tale da provocare l’entrata massiccia in lotta dei settori della classe operaia più decisivi, in particolare quelli dell’industria. Questo ha favorito il gioco della borghesia che, spingendo un settore a lottare, non correva il rischio che gli altri settori lo seguissero spontaneamente e scavalcando l’inquadramento sindacale. Il settore “individuato” è quello dei macchinisti delle ferrovie. Con il “contratto di piano” annunciato dalle Ferrovie (SNCF), la borghesia minaccia i macchinisti di dover lavorare otto anni di più per andare in pensione, con il pretesto che essi sono dei “privilegiati” rispetto agli altri impiegati statali. Si trattava di una provocazione così grossa che i lavoratori non ci pensano su due volte prima di gettarsi nella lotta. Era proprio quello che la borghesia cercava, che essi si inquadrassero nella strada che il sindacato aveva preparato. In ventiquattro ore i conduttori della metropolitana e degli autobus di Parigi, minacciati di perdere alcuni vantaggi dello stesso tipo, sono trascinati in una trappola simile. I sindacati si danno da fare per forzare i lavoratori ad entrare in sciopero, mentre ce ne sono diversi che sono perplessi, non capendo il perché di una tale precipitazione. La direzione della RATP (Compagnia della metropolitana parigina) dà una mano ai sindacati prendendo l’iniziativa di chiudere alcune linee e facendo di tutto per impedire di lavorare a coloro che lo volevano.
Perché la borghesia fece perno su queste due categorie di lavoratori per iniziare la sua manovra?
Alcune delle caratteristiche di questi settori erano favorevoli per la realizzazione del piano della borghesia. Queste due categorie hanno effettivamente dei trattamenti particolari la cui modifica era un buon pretesto per giustificare un attacco specifico. Ma soprattutto c’era la garanzia che una volta che fossero entrati in sciopero ferrovieri e conduttori di metrò e autobus si sarebbero paralizzati tutti i trasporti pubblici. Far sì che un tale movimento non passasse inosservato per nessuno era un mezzo supplementare e di grande efficacia nelle mani della borghesia per evitare ogni scavalcamento, visto che il suo obiettivo era proseguire nell’estensione degli scioperi ad altri settori del pubblico impiego. Così, senza trasporti, il principale e quasi unico mezzo per partecipare alle manifestazioni era quello di servirsi dei pullman del sindacato. Non rimaneva la minima possibilità di realizzare incontri di massa tra operai in sciopero, nelle loro assemblee generali. Infine, lo sciopero dei trasporti è, in più di quanto già detto, un mezzo per dividere gli operai, mettendoli gli uni contro gli altri, giacché in mancanza di trasporti gli altri lavoratori incontravano le peggiori difficoltà per andare ogni giorno al lavoro.
Ma i ferrovieri non hanno costituito solo un mezzo per portare avanti la manovra, ma anche il suo bersaglio specifico. La borghesia era ben cosciente dei vantaggi che poteva ricavare da questo settore della classe operaia che si era distinto nel dicembre del 1986 per la sua capacità di scontrarsi con l’inquadramento sindacale al momento della sua entrata in lotta.
Una volta che questi due settori erano in sciopero sotto il controllo totale dei sindacati, poteva partire la fase seguente della manovra: lo sciopero in un settore tradizionalmente combattivo e avanzato della classe operaia, quello delle Poste, e all’interno di questo, quello dei centri di distribuzione. Durante gli anni ottanta questi resistettero a lungo alle trappole sindacali, non esitando a scontrarsi con essi. Con l’incorporazione di questo settore nel “movimento”, la borghesia cerca di attirarlo nella rete della manovra, per neutralizzarlo e assestargli la stessa sconfitta degli altri settori. In più la manovra sarebbe stata così più efficace nei confronti di quei settori che non erano in sciopero, per dare al movimento una certa legittimità capace di far diminuire la sfiducia o lo scetticismo verso di esso. La borghesia si è comportata con più accortezza ancora che verso ferrovieri e lavoratori del metrò. Perciò favorì e organizzò “delegazioni di operai” senza nessun segno apparente di appartenenza sindacale (e possibilmente composte di operai sinceri ingannati dai sindacalisti di base) che si recarono nei centri di distribuzione durante le assemblee generali. Ingannati sul vero significato di queste delegazioni, gli operai dei principali centri di distribuzione postale decidono di unirsi alla lotta. Per dare il maggior impatto al fatto, il potere invia i suoi giornalisti sul posto: l’edizione pomeridiana di Le Monde di quel giorno metterà l’avvenimento in primo piano.
In questa fase di pieno dispiegamento della manovra, l’ampiezza già raggiunta dal movimento dà peso agli argomenti usati dai sindacati per guadagnare nuovi settori: gli operai dell’elettricità e del gas (EDF-GDF), dei telefoni, gli insegnanti. Di fronte ai dubbi di parecchi lavoratori sull’opportunità di “lottare ora”, di fronte alla loro insistenza per discutere le modalità e le rivendicazioni, i sindacati oppongono la consegna perentoria del “ora è il momento”, colpevolizzando chi non era ancora in lotta con argomenti tipo “siamo gli ultimi a non stare ancora in sciopero”.
Per incrementare ancora di più la quantità di scioperanti, bisogna far credere che si sta sviluppando un ampio e profondo movimento sociale. A stare a sentire sindacati, sinistra ed estrema sinistra, ci sarebbe da credere che il movimento starebbe suscitando una immensa speranza nella classe operaia. Per appoggiare questa idea, viene pubblicato sui giornali quotidianamente “l’indice di popolarità” dello sciopero, sempre favorevole presso tutta la “popolazione”. E’ certo che lo sciopero è “popolare” e che è considerato da molti operai come un mezzo per impedire che il governo porti fino in fondo i suoi attacchi. Ma l’attenzione con cui lo sciopero è trattato sui mezzi di informazione, specialmente la televisione, è la miglior prova dell’interesse della borghesia perché sia così, facendo salire al massimo l’indice della popolarità.
Anche la partecipazione degli studenti, finché dura, fa parte della messa in scena. Sono stati fatti scendere in strada per dare l’impressione di un aumento generale del malcontento, per far credere che esistono speranze simili a quelle del maggio ‘68 e, allo stesso tempo, annegare le rivendicazioni operaie in quelle interclassiste tipiche del movimento studentesco. Alcuni arrivano anche a partecipare ad assemblee sui luoghi di lavoro “per incontrarsi con le lotte operaie”, e questo con il beneplacito dei sindacati (3).
Ogni iniziativa è sottratta alla classe operaia che non ha altra scelta che quella di seguire i sindacati. Nelle assemblee convocate da questi l’insistenza perché gli operai si esprimessero non aveva altro significato che quello di dare un’apparenza di vita all’assemblea, laddove tutto era già stato deciso altrove. All’interno delle assemblee la pressione dei sindacati per l’entrata in sciopero è talmente forte che delle frazioni significative di operai, alquanto dubbiosi sulla natura di questo sciopero, non osano esprimersi. Per certi altri invece, completamente presi dalla mistificazione sindacale, c’è l’euforia di una unità fittizia. In effetti una delle chiavi per la riuscita della manovra della borghesia è il fatto che i sindacati hanno sistematicamente fatto propri, per snaturarli e rivolgerli contro di essa, aspirazioni e metodi della lotta della classe operaia:
- la necessità di reagire in maniera massiccia e non dispersa di fronte agli attacchi borghesi;
- l’allargamento della lotta a più settori, superando le barriere corporative;
- la tenuta quotidiana di assemblee generali su ogni luogo di lavoro, incaricate in particolare di pronunciarsi sull’entrata in lotta o sul prosieguo del movimento;
- l’organizzazione di manifestazioni di piazza in cui grandi masse di operai di diversi settori e differenti luoghi trovano un sentimento di solidarietà e di forza (4).
In più i sindacati si sono presi la cura, nella maggior parte del movimento, di far mostra della loro unità. I mezzi di informazione hanno abbondantemente mostrato le strette di mano tra i capi dei due sindacati tradizionalmente “nemici”: la CGT e Force Ouvrière (che si costituì su una scissione della CGT con il sostegno dei sindacati americani, al tempo della Guerra Fredda). Questa “unità” dei sindacati, che si ritrovava spesso nelle manifestazioni sotto forma di bandiere comuni CGT-FO-CFDT-FSU, era finalizzata a trascinare il massimo di operai possibile nello sciopero dietro sindacati, visto che per anni una delle cause del discredito dei sindacati e del rifiuto degli operai di seguire le loro indicazioni di sciopero era proprio il loro perpetuo litigare. In questo i trotskysti hanno portato il loro piccolo contributo dal momento che essi non hanno cessato di reclamare l’unità tra i sindacati, facendo di questa una precondizione allo sviluppo delle lotte.
Per quanto riguarda la destra al potere, dopo la determinazione ostentata all’inizio del movimento, fa finta di mostrare dei segni di debolezza (ampiamente amplificati dai mezzi di informazione) per far credere che gli scioperanti avrebbero potuto vincere, ottenere il ritiro del piano Juppé e, perché no, la caduta del governo. Nei fatti il governo fa durare le cose sapendo bene che operai che hanno condotto uno sciopero lungo non sono poi così facilmente disponibili a riprendere la lotta.. E’ solo alla fine di tre settimane che il governo annuncia il ritiro di alcune delle misure che avevano dato fuoco alle polveri: ritiro del “contratto di piano” nelle ferrovie, e più in generale le disposizioni riguardanti il regime di pensionamento dei dipendenti statali.. L’essenziale della sua manovra è tuttavia mantenuto: aumento delle tasse, blocco dei salari degli impiegati statali, e, soprattutto, gli attacchi sulla Previdenza sociale.
I sindacati, all’unisono con i partiti di sinistra, cantano vittoria e si danno da fare per spingere alla ripresa del lavoro. E lo fanno in maniera così abile da riuscire a non smascherarsi: la loro tattica consiste nel far esprimere, questa volta senza nessuna pressione da parte loro, le assemblee generali maggioritariamente in favore della ripresa del lavoro. Sono i ferrovieri, di cui i sindacati sottolineano la “vittoria”, che, il venerdì 15 dicembre, danno il segnale di questa ripresa, come avevano dato il segnale dell’entrata in sciopero. La televisione mostra a ripetizione l’immagine di qualche treno che ricomincia a circolare. L’indomani, un Sabato, i sindacati organizzano immense manifestazioni a cui sono portati gli operai del settore privato (cioè dell’industria). E’ il sotterramento in gran pompa del movimento, una chiusura alla grande che permette di far inghiottire più facilmente agli operai la pillola amara della loro sconfitta sulle rivendicazioni essenziali. Deposito dopo deposito, le assemblee di ferrovieri votano la fine dello sciopero.Negli altri settori la stanchezza e l’effetto di trascinamento fanno il resto.Il lunedì 18 la tendenza alla ripresa al lavoro è quasi generale. Il martedì 19 la CGT, da sola, organizza una giornata d’azione e delle manifestazioni: paragonata a quella delle settimane precedenti, la mobilitazione è ridicola, cosa che non può che convincere gli ultimi “recalcitranti” che bisogna riprendere il lavoro. Il giovedì 21 governo, sindacati e padronato privato si ritrovano per un “vertice”: è l’occasione per i sindacati, che denunciano le proposte governative, per continuare a presentarsi come “i difensori degli operai”.
Un attacco politico contro la classe operaia
La borghesia è riuscita a far passare un attacco considerevole, il piano Juppé, e a stancare gli operai al fine di diminuire la loro capacità di risposta agli attacchi futuri.
Ma gli obiettivi della borghesia vanno ben al di là di questo. La maniera in cui essa ha organizzato la sua manovra era destinata a fare in modo che non solo gli operai non possano, in preparazione delle loro lotte future, tirare insegnamenti da questa sconfitta, ma soprattutto per renderli vulnerabili ai messaggi avvelenati che essa vuole far passare.
L’ampiezza che la borghesia ha dato alla mobilitazione, la più importante dopo anni per numero di scioperanti e di manifestanti, e di cui i sindacati sono stati gli artefici riconosciuti, è destinata a dare forza all’idea che è solo con i sindacati che si può fare qualche cosa. Tanto più che durante lo svolgimento del movimento essi non si sono mai trovati nella condizione di essere smascherati, anche solo in parte, come invece accade quando si danno da fare per rompere un movimento spontaneo della classe. I sindacati hanno anche tenuto conto del fatto che gli operai, anche se in maggioranza potevano seguirli, nondimeno non avevano molta fiducia in loro.E’ perciò che hanno avuto cura di far “partecipare”, in maniera ostentata, visibile a tutti, dei “non sindacalizzati” (operai sinceri ingenui, o fiancheggiatori dei sindacati) nelle differenti “istanze della lotta”, come gli autoproclamati “comitati di sciopero”. Così la presa dei sindacati sulla classe operaia potrà rafforzarsi allo stesso tempo in cui la fiducia nella propria forza, cioè nella capacità di entrare in lotta da sola, diminuirà per un lungo momento. Questa ricredibilizzazione dei sindacati costituiva per la borghesia un obiettivo fondamentale, una condizione indispensabile prima di portare avanti i prossimi attacchi che saranno ancora più brutali di quelli di oggi. E’ solo a questa condizione che essa può sperare di sabotare le lotte che non mancheranno di scoppiare al momento di questi attacchi. E’ questo sicuramente uno degli aspetti essenziali della sconfitta politica che la borghesia ha inflitto alla classe operaia.
Un altro beneficiario della manovra della borghesia è la sinistra del capitale. Le elezioni presidenziali del maggio 1995 in Francia hanno piazzato tutte le forze di sinistra all’opposizione. Non essendo di conseguenza direttamente responsabili della decisione sugli attacchi attuali esse hanno avuto le mani libere per denunciarli e tentare di far dimenticare che esse stesse, PS e PC dal 1984, e PS da solo in seguito, hanno portato avanti la stessa politica antioperaia. Si è trattato dunque di una divisione del lavoro, destra al potere, sinistra all’opposizione, che ha permesso questa manovra: la destra era incaricata di assumere la responsabilità degli attacchi antioperai, la sinistra all’opposizione di mistificare il proletariato, di inquadrare e di sabotare le sue lotte, fondamentalmente attraverso le sue cinghia di trasmissione sindacale.
Un altro obiettivo importante che la borghesia si era prefisso era quello di far credere agli operai, sulla base della sconfitta di una lotta che si era estesa a diversi settori, che la estensione non serve a niente. In effetti frazioni importanti della classe operaia credono di aver realizzato l’allargamento della lotta agli altri settori (5), cioè quello verso cui avevano teso le lotte operaie dal 1968 fino al crollo del blocco dell’est. E’ su queste acquisizione delle lotte dal 1968 che la borghesia si è appoggiata per trascinare i lavoratori dei centri di smistamento postale nella manovra, come mostrano gli argomenti utilizzati per farli mobilitare:
“Gli operai delle Poste sono stati vinti nel 1974 perché essi sono rimasti isolati. Lo stesso i ferrovieri nel 1986, perché non sono riusciti ad estendere il loro movimento. Oggi, bisogna cogliere l’occasione che si presenta.” Sono queste acquisizioni che erano nella linea di tiro della manovra, per snaturarle.
E’ ancora troppo presto per valutare l’importanza dell’impatto di questo aspetto della manovra (mentre la ricredibilizzazione dei sindacati è, fin da ora, incontestabile).
Ma è chiaro che la confusione nella classe operaia rischia di essere rafforzata dal fatto che il settore dei ferrovieri, solo quello, ha ottenuto soddisfazione sulla rivendicazione che lo aveva fatto scendere in lotta, il ritiro del “piano di impresa” e degli attacchi sull’accesso alla pensione. Così l’illusione che si può ottenere qualcosa lottando solo nel proprio settore si sviluppa e costituisce un potente stimolo alla diffusione del corporativismo. Senza parlare della divisione che si crea così nelle fila degli operai quando coloro che sono scesi in lotta dietro i ferrovieri, e che non hanno ottenuto nulla, cominciano a provare il sentimento di essere stati mollati.
Da questo punto di vista, sono notevoli le analogie con un’altra manovra, quella che ha diretto la lotta negli ospedali nell’autunno 1988. Allora lo scopo era smorzare il crescere della combattività nell’insieme della classe operaia facendo scoppiare prematuramente la lotta in un settore particolare, quello delle infermiere. Queste, organizzate all’interno del coordinamento omonimo, ultracorporativo, organismo prefabbricato dalla borghesia per rimpiazzare i troppo screditati sindacati, si sono viste al termine della lotta accordare un certo numero di vantaggi sotto forma di aumenti salariali (il miliardo di franchi che il governo aveva previsto a tal fine già prima dell’inizio dello sciopero). Gli altri lavoratori degli ospedali, che erano massicciamente scesi in lotta contemporaneamente alle infermiere, loro non hanno ottenuto niente. Quanto alla combattività negli altri settori, essa è ricaduta, risultato dello sconcerto degli operai di fronte all’atteggiamento elitario e corporativo delle infermiere.
Infine, con il sottolineare così spesso e con tanta insistenza una pretesa somiglianza tra questo movimento e quello del maggio 1968, la borghesia cercava, come già abbiamo detto, di far cadere nella trappola il maggior numero possibile di operai. Ma era anche un modo di attaccare la coscienza degli operai: In effetti, per milioni di operai il maggio 1968 resta un punto di riferimento, anche per coloro che non vi hanno partecipato perché troppo giovani o non ancora nati, o perché di altri paesi ma che sono stati all’epoca entusiasmati da questa prima manifestazione del risorgere del proletariato sul suo terreno di classe, dopo quaranta anni di controrivoluzione. Queste generazioni di operai o frazioni della classe operaia che non hanno direttamente vissuto questi eventi, più vulnerabili all’intossicazione ideologica su questa questione, erano il particolare bersaglio della borghesia, che cercava di far pensare loro che alla fine il maggio 1968 non poteva essere stato troppo diverso dallo sciopero sindacale di oggi. Così, ancora una volta si tratta di un attacco all’identità stessa della classe operaia, non tanto a fondo come quello sulla “morte del comunismo”, ma che costituisce un ulteriore ostacolo sulla via del recupero del riflusso che ha seguito il crollo del blocco dell’Est.
LE VERE LEZIONI DA TIRARE DA QUESTI EVENTI
La prima lezione che la CCI ha tirato dalla manovra della lotta delle infermiere nel 1968 (6), resta ancora tragicamente attuale: “E’ importante sottolineare la capacità della borghesia di agire in modo preventivo ed in particolare di provocare prematuramente lo scoppio di movimenti sociali, quando ancora non esiste nell’insieme del proletariato una maturità sufficiente che permetta di arrivare ad una reale mobilitazione. Questa tattica è già stata spesso impiegata nel passato dalla classe dominante, in particolare nelle situazioni in cui le poste in gioco erano ben più cruciali di quelle del periodo attuale. L’esempio più significativo ci è fornito da ciò che successe a Berlino nel gennaio 1919 quando, a seguito di una provocazione decisa dal governo socialdemocratico, gli operai di questa città si erano sollevati mentre quelli della provincia non erano ancora pronti a lanciarsi nell’insurrezione. Il massacro dei proletari (così come la morte dei due principali dirigenti del Partito comunista tedesco: Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht) derivatone sferrò un colpo fatale alla rivoluzione in questo paese in cui, poi, la classe operaia è stata sconfitta pezzo dopo pezzo.”
Di fronte ad un tale pericolo è importante che la classe operaia possa quanto più ampiamente possibile tirare gli insegnamenti dalle sue esperienze a livello storico, come a livello delle sue lotte dell’ultimo decennio.
Un altro insegnamento importante è che la lotta di classe è una delle maggiori preoccupazioni della borghesia internazionale, e che, su questo piano, come ha già mostrato la sua reazione di fronte alle lotte del 1980 in Polonia, essa sa dimenticare le proprie divisioni. Silenzio totale sui movimenti che si svolgono su di un terreno di classe e rischiano di avere un effetto di trascinamento da un paese all’altro, o almeno di influenzare positivamente gli operai. Al contrario, la massima pubblicità è data, da un paese all’altro, ai risultati delle manovre contro la classe operaia. Non bisogna farsi illusioni, il diffondersi del ciascuno per sé, nella guerra commerciale e le rivalità imperialiste, non va minimamente ad attaccare l’unità internazionale di cui sa dare prova la borghesia contro la lotta di classe.
Ciò che mostrano ancora i recenti scioperi in Francia è che l’estensione delle lotte nelle mani dei sindacati è un’arma della borghesia. E più una tale estensione si fa ampia, più è estesa e profonda la sconfitta inflitta agli operai che essa permette. Ogni volta che i sindacati chiamano all’estensione, o è perché sono costretti a rincorrere un movimento che si sviluppa, per non essere scavalcati, o per spingere nella sconfitta un maggior numero di operai, allorché la dinamica della lotta comincia a invertire la rotta. E’ ciò che essi avevano fatto all’epoca dello sciopero dei ferrovieri in Francia all’inizio del 1987 quando essi hanno chiamato alla “estensione” e all’ “indurimento” del movimento, non al momento dell’inizio della lotta (alla quale si erano apertamente opposti), ma a quello del suo declino, allo scopo di coinvolgere quanti più settori possibili della classe operaia dietro la sconfitta dei ferrovieri. Queste due situazioni mettono in evidenza la necessità imperativa per gli operai di controllare le loro lotte, dall’inizio alla fine. Sono le loro assemblee generali sovrane che devono farsi carico dell’estensione, affinché questa non cada nelle mani dei sindacati. Evidentemente costoro non lasceranno fare, ma bisogna imporre che il confronto con loro si svolga in piena luce, nelle assemblee generali sovrane, che eleggono dei delegati revocabili invece di essere dei semplici assembramenti manipolati a modo loro dai sindacati come è stato nell’attuale ondata di scioperi.
Ma il controllo della loro lotta da parte degli operai passa necessariamente attraverso la centralizzazione di tutte le loro assemblee che inviano i loro delegati ad una assemblea centrale. A sua volta essa elegge un comitato centrale di lotta, E’ questa assemblea che garantisce in permanenza l’unità della classe e che permette un’attuazione coordinata delle modalità della lotta: se in tal giorno è opportuno o no fare sciopero, quali settori devono fare sciopero, ecc. E’ essa egualmente che deve decidere della ripresa generale del lavoro, del ripiego in buon ordine quando il rapporto di forze immediato lo necessita. Ciò non è un’illusione, né un’astrazione, né un sogno. Un tale organismo di lotta, Il Soviet, gli operai russi lo hanno fatto sorgere negli scioperi di massa del 1905, poi nel 1917, durante la rivoluzione. La centralizzazione della lotta da parte del Soviet, è una delle lezioni essenziali di questo primo movimento rivoluzionario del secolo e di cui gli operai nelle loro lotte future si devono riappropriare. Ecco cosa diceva Trotsky nel suo libro 1905: “Cos’era, dunque, il Soviet? Il Consiglio degli deputati operai sorse come risposta ad un bisogno oggettivo, generato dalle contingenze del momento. Occorreva un’organizzazione che godesse di un’indiscussa autorità, fosse immune da qualsiasi tradizione, raccogliesse immediatamente le folle sparse e slegate; questa organizzazione (...) doveva avere iniziativa e insieme autocontrollo automatico. L’essenziale era di poterla far sorgere nelle ventiquattro ore (...) per godere di autorità sulle masse fin dal suo nascere, essa doveva essere costituita sulla piattaforma di una vasta rappresentanza. Con quale criterio? La risposta veniva da sé. Siccome l’unico legame tra le masse proletarie, prive di organizzazione, era il processo di produzione, non rimaneva che dare il diritto di rappresentanza alla fabbriche e alle officine.” (7).
Se il primo esempio di una tale centralizzazione vivente di un movimento della classe ci viene da un periodo rivoluzionario, ciò non significa che sia unicamente in tale periodo che la classe operaie possa centralizzare la sua lotta. Lo sciopero di massa degli operai in Polonia nel 1980, se non ha dato vita a dei soviet, che sono degli organi della presa di potere, ciò nondimeno fornisce un’esemplare illustrazione. Rapidamente, fin dall’inizio dello sciopero, le assemblee generali hanno inviato dei delegati (in generale due per fabbrica) ad un’assemblea centrale, il MKS, per tutta una regione. Questa assemblea si riuniva ogni giorno nei locali della fabbrica faro della lotta, i cantieri navali Lenin di Danzica ed i delegati rendevano poi conto delle sue deliberazioni alle assemblee di base che li avevano eletti e che prendevano posizione su queste decisioni. In un paese in cui le lotte precedenti della classe operaie erano state impietosamente schiacciate nel sangue, la forza del movimento aveva paralizzato il braccio assassino del governo obbligandolo a venire a negoziare con il MKS nei suoi stessi locali. Evidentemente, se di punto in bianco gli operai polacchi nel 1980 erano riuscita a darsi una tale forma di organizzazione, era perché i sindacati ufficiali erano totalmente screditati poiché erano apertamente i poliziotti dello Stato staliniano (ed è la costituzione del sindacato “indipendente” Solidarnosc che ha di per sé permesso lo schiacciamento nel sangue degli operai nel dicembre 1981). E’ la migliore prova che non solo i sindacati non sono un’organizzazione, anche imperfetta, della lotta operaia, ma che essi costituiscono al contrario, finché possono seminare delle illusioni, il maggior ostacolo ad una vera organizzazione di questa lotta. Sono loro che con la loro presenza e la loro azione intralciano il movimento spontaneo della classe verso una auto-organizzazione, che nasce dai bisogni stessa della lotta.
Evidentemente, proprio a causa di tutto il peso del sindacalismo nei paesi centrali del capitalismo, non sarà subito la forma degli MKS, e tanto meno quella dei soviet, che le prossime lotte della classe prenderanno in questi paesi. Nondimeno questa deve loro servire di riferimento e di guida, e gli operai dovranno battersi perché le loro assemblee generali siano realmente sovrane e si pronuncino nel senso dell’estensione, del controllo e della centralizzazione del movimento in maniera autonoma. Le prossime lotte della classe operaia, e per un certo tempo ancora, sentiranno il peso del riflusso, che la borghesia sfrutterà con ogni sorta di manovre. Di fronte a questa situazione difficile della classe operaia, che però non mette in discussione la prospettiva di scontri decisivi tra borghesia e proletariato, l’intervento dei rivoluzionari è insostituibile. E perché esso sia il più efficace possibile, perché non favorisca, senza volerlo, i piani della borghesia, i rivoluzionari non devono farsi prendere, nelle loro analisi e nelle loro parole d’ordine, dalla pressione ideologica ambientale, e devono essere i primi a individuare e denunciare le manovre del nemico di classe.
L’ampiezza della manovra elaborata dalla borghesia in Francia, il fatto, in particolare, che essa si sia permessa di provocare degli scioperi massicci che non potranno che aggravare un po’ di più le sue difficoltà economiche, sono il segno che la classe operaia e la sua lotta non sono scomparse come amavano ripetere, per anni, gli “esperti” universitari al soldo del capitale. Essa dimostra che la classe dominante sa bene che gli attacchi sempre più brutali che dovrà portare provocheranno necessariamente delle lotte di grande ampiezza. Anche se oggi essa ha segnato un punto a suo favore, se ha riportato una vittoria politica, l’esito della battaglia non è ancora stato giocato. La borghesia non potrà, in particolare, impedire che il suo sistema economico affondi sempre più, né che i sindacati tornino a screditarsi, come fu lungo gli anni ottanta, man mano che essi saboteranno le lotte operaie. Ma la classe operaia non potrà vincere la sua battaglia se non sarà capace di comprendere la capacità del suo nemico, anche se appoggiata su un sistema moribondo, di seminare ostacoli, tra i più sottili e sofisticati, sul cammino della sua lotta.
BN, 23 dicembre 1995
NOTE
1. La C.G.T., cinghia di trasmissione del Partito Comunista;
F.O., “socialdemocratica”; la F.E.N., vicina al Partito Socialista, sindacato maggioritario nella scuola; la F.S.U., scissione della FEN, e più vicina al PC e all’estrema sinistra.
2. Dal nome del primo ministro incaricato di applicarlo. Questo piano comprende, tra l’altro, un insieme di attacchi riguardanti la Previdenza Sociale e la Sanità.
3. Bisogna notare che nel 1968 i sindacati facevano una sistematica barriera davanti alle fabbriche per impedire ogni contatto tra operai e studenti. All’epoca era tra questi ultimi che si parlava di più di “rivoluzione”, e soprattutto che si denunciavano di più i partiti di sinistra, PC e PS. Anche se non c’era nessun rischio che l’insieme della classe operaia potesse prendere in conto l’idea della rivoluzione (peraltro abbastanza fumosa nella testa degli studenti, movimento di natura piccolo-borghese), essendo ai primi passi di una ripresa della lotta dopo 4 decenni di controrivoluzione, i sindacati temevano potesse diventare ancora più difficile riprendere il controllo di una lotta operaia scoppiata al di fuori di loro e che aveva sorpreso l’insieme della borghesia.
4. Juppé aveva, a modo suo, contribuito a una partecipazione massiccia alle manifestazioni affermando, al momento della presentazione della sua manovra, che il governo non sarebbe sopravvissuto se fossero scese in campo due milioni di persone: la sera di ogni giornata di manifestazione i sindacati e gli organi di informazione facevano i conti per far vedere che ci si era vicini e che si poteva raggiungere questo risultato.
5. E’ quello che esprimono chiaramente queste idee di un macchinista: “Io mi sono lanciato nella lotta come macchinista. Il giorno dopo mi sentivo innanzitutto un ferroviere. Poi ho indossato l’abito dell’impiegato statale. E ora mi sento semplicemente un salariato, come i dipendenti privati che vorrei si unissero al movimento... Se io mi fermassi domani, non potrei più guardare in faccia un impiegato delle poste” (Le Monde del 12 e 13 dicembre).
6. Vedere il nostro opuscolo sulla lotta delle infermiere.
7. Vedere il nostro articolo “Rivoluzione del 1905: insegnamenti fondamentali per il proletariato” nella Révue Internationale n° 43.
1) Il riconoscimento da parte dei comunisti del carattere storicamente limitato del modo di produzione capitalista, della crisi irreversibile nella quale si trova oggi questo sistema, costituisce la solida base sulla quale si fonda la prospettiva rivoluzionaria della lotta proletaria. In questo senso tutti i tentativi, come quelli attuali, fatti dalla borghesia e dai suoi lacché per far credere che l’economia mondiale “sta uscendo dalla crisi” o che alcune economie nazionali “emergenti” potranno sostituire vecchi settori economici superati, costituiscono un attacco in piena regola contro la coscienza proletaria.
2) I discorsi ufficiali sulla “ripresa” enfatizzano l’evoluzione degli indici della produzione industriale o il raddrizzamento dei profitti delle imprese. Se effettivamente, ed in particolare nei paesi anglosassoni, si è assistito recentemente a tali fenomeni, è importante focalizzare su quali basi essi si fondano:
- la ripresa dei profitti deriva molto spesso, specie per molte grandi imprese, da operazioni speculative; essa ha come rovescio della medaglia un nuovo aumento dei deficit pubblici; deriva infine dall’eliminazione dei “rami secchi”, cioè dei settori meno produttivi;
- il progresso della produzione industriale risulta per buona parte da un aumento notevole della produttività del lavoro basata su di una utilizzazione massiccia della automatizzazione e dell’informatica.
E’ per queste ragioni che una delle caratteristiche maggiori della “ripresa” attuale, è che essa non è stata capace di creare posti di lavoro, di far diminuire in modo significativo la disoccupazione o anche il lavoro precario che, al contrario, non fa che estendersi, perché il capitale sta sempre attento a mantenere le mani libere per poter gettare in strada, in ogni momento, la forza lavoro in eccesso.
3) Se è prima di tutto un attacco contro la classe operaia, un brutale fattore di sviluppo della miseria e dell’emarginazione, la disoccupazione costituisce anche un indice di primaria importanza della debolezza del capitalismo. Il capitale vive dello sfruttamento del lavoro vivo: mettere in disuso interi settori dell’apparato industriale, e ancor più, buttare in strada una notevole proporzione della forza lavoro rappresenta una vera e propria automutilazione per il capitale. E’ il segno del fallimento totale del modo di produzione capitalista la cui funzione storica era proprio di estendere il salariato a livello mondiale. Questo crollo definitivo del capitalismo si manifesta egualmente nell’indebitamento drammatico degli Stati, fenomeno che ha conosciuto nel corso degli ultimi anni una nuova fiammata: tra il 1989 ed il 1994, il debito pubblico è passato dal 53% al 65% del Prodotto Interno Lordo negli Stati Uniti, dal 57% al 73% in Europa fino a raggiungere il 142% nel caso del Belgio. Nei fatti, gli Stati capitalisti sono impossibilitati a pagare. Se fossero sottoposti alle stesse leggi delle imprese private, avrebbero già dovuto dichiarare ufficialmente fallimento. Questa situazione non fa che esprimere il fatto che il capitalismo di Stato costituisce la risposta che il sistema oppone alla sua situazione di stallo, ma una risposta che non è in alcun modo una soluzione e che non può servire in eterno.
4) I tassi di crescita, talvolta a due cifre, delle famose “economie emergenti” non riescono affatto a contraddire la constatazione del crollo generale dell’economia mondiale. Essi sono il risultato dell’arrivo massiccio di capitali attirati dal costo incredibilmente basso della forza lavoro in questi paesi, da uno sfruttamento brutale dei proletari, da ciò che la borghesia pudicamente chiama le “dislocazioni”. Tutto ciò significa che questo sviluppo economico non può che danneggiare la produzione dei paesi più avanzati, i cui Stati sempre più si ergono contro le “pratiche commerciali sleali” di questi paesi “emergenti”. Inoltre, le prestazioni spettacolari che ci si compiace di evidenziare ricoprono molto spesso uno scollamento di interi settori di questi paesi: il “miracolo economico” della Cina significa più di 250 milioni di disoccupati nell’anno 2000. Infine, il recente crollo finanziario di un altro paese “esemplare”, il Messico, la cui moneta ha perso la metà del suo valore dall’oggi al domani, che ha avuto bisogno di una iniezione urgente di quasi 50 miliardi di dollari di credito (di gran lunga la più grande operazione di “salvataggio” della storia del capitalismo) riassume la realtà del miraggio che costituisce “l’emergere” di alcuni paesi del terzo mondo. Le economie “emergenti” non sono la nuova speranza dell’economia mondiale. Esse non sono che delle manifestazioni, tanto fragili quanto aberranti, di un sistema alla pazzia. E questa realtà è confermata dalla situazione dei paesi dell’Europa dell’Est, la cui economia si supponeva si sarebbe espansa al sole del liberalismo. Se alcuni paesi (come la Polonia) riescono per il momento a cavarsela, il caos che regna nell’economia della Russia (caduta di quasi il 30% della produzione in due anni, più del 2000% di aumento dei prezzi nello stesso periodo) mostrano in modo brutale fino a che punto fossero falsi i discorsi che si erano ascoltati nel 1989. Lo stato della economia russa è talmente catastrofico, che la Mafia che ne controlla una buona parte degli ingranaggi, appare non come un parassita, come in alcuni paesi occidentali, ma come un pilastro che le assicura un minimo di stabilità.
5) Infine, lo stato di potenziale fallimento nel quale si trova il capitalismo, il fatto che non può vivere eternamente mettendo a rischio l’avvenire, tentando di aggirare la saturazione generale e definitiva dei mercati con una fuga in avanti nell’indebitamento, fa pesare delle minacce sempre più forti sull’insieme del sistema finanziario mondiale. L’angoscia provocata dal fallimento della banca britannica Barings in seguito alle acrobazie di un “golden boy”, la follia che ha seguito l’annuncio della crisi del peso messicano, non commisurabile al peso dell’economia del Messico nell’economia mondiale, sono degli indici indiscutibili della reale angoscia che stringe la classe dominante di fronte alla prospettiva di una “vera catastrofe mondiale” delle sue finanze, secondo le parole del direttore del FMI. Ma questa catastrofe finanziaria non è altro se non il rivelatore della catastrofe nella quale è sprofondato il modo di produzione capitalista stesso e che precipita il mondo intero nelle più gravi convulsioni della sua storia.
6) Il terreno sul quale si manifestano più crudelmente queste convulsioni è quello degli scontri imperialisti. Sono passati appena cinque anni dal crollo del blocco dell’Est, dalle promesse di un “nuovo ordine mondiale” fatte dai capi dei principali paesi dell’occidente, e mai il disordine delle relazioni tra Stati è stato così eclatante. Anche se era basato sulla minaccia di uno scontro terrificante tra superpotenze nucleari, anche se queste due superpotenze non avevano mai smesso di affrontarsi per paesi interposti, “l’ordine di Yalta” conteneva un certo elemento “di ordine” per l’appunto. Non potendo fare una nuova guerra mondiale per il fatto che il proletariato dei paesi centrali non era imbrigliato, i due gendarmi del mondo facevano attenzione a mantenere in un quadro “accettabile” gli scontri imperialisti. A loro bastava precisamente evitare di seminare il caos e le distruzioni nei paesi avanzati ed in particolare in Europa, il terreno principale delle due guerre mondiali. Questo edificio è volato in pezzi. Con gli scontri sanguinosi nella ex-Yugoslavia, l’Europa ha cessato di essere un “santuario”. Contemporaneamente, questi scontri hanno posto in evidenza quanto era ormai difficile mettere in piedi un nuovo “equilibrio”, una nuova “divisione del mondo” successiva a quella di Yalta.
7) Se il crollo del blocco dell’Est era per buona parte imprevedibile, la scomparsa del suo rivale dell’Ovest non lo era affatto. Bisognava non capire nulla del marxismo (e ammettere la tesi di Kautsky, respinta dai rivoluzionari fin dalla prima guerra mondiale, di un “super-imperialismo”) per pensare che si poteva mantenere un solo blocco. Fondamentalmente tutte le borghesie sono rivali le une delle altre. Ciò si vede chiaramente nel campo commerciale in cui domina “la guerra di tutti contro tutti”. Le alleanze diplomatiche e militari non sono che la concretizzazione del fatto che nessuna borghesia può far prevalere i suoi interessi strategici sola nel suo angolo contro tutte le altre. Il solo cemento di tali alleanze è l’esistenza di un nemico comune, e non una sedicente “amicizia tra i popoli”; d’altronde di esse oggi si può constatare tutta l’elasticità e l’ipocrisia: mentre i nemici di ieri (come la Russia e gli Stati Uniti) si sono scoperti improvvisamente “amici”, le amicizie di vecchia data (come quella tra la Germania e gli Stati Uniti) fanno posto alla litigiosità. In questo senso, se gli eventi del 1989 significavano la fine della divisione del mondo uscita dalla seconda guerra mondiale, visto che la Russia perdeva ogni possibilità di dirigere un blocco imperialista, essi portavano in sé la tendenza alla ricostituzione di nuove costellazioni imperialiste. Tuttavia, se la sua potenza economica e la sua collocazione geografica designavano la Germania come solo paese in grado di succedere alla Russia nel ruolo di leader di un eventuale futuro blocco opposto agli Stati Uniti, la sua situazione militare è troppo debole per permetterle di realizzare fin da oggi una tale ambizione. E in mancanza di una formula di ricambio degli schieramenti imperialisti che succedano a quelli che sono stati spazzati via dai rovesciamenti del 1989, l’arena mondiale è sottomessa come mai prima ad una crisi economica di una gravità senza precedenti che inasprisce le tensioni militari, allo scatenamento del “ciascuno per sé”, di un caos che viene ad aggravare ancora la decomposizione generale del modo di produzione capitalista.
8) Così la situazione che succede alla fine dei due blocchi della “guerra fredda” è dominata da due tendenze contraddittorie - da un lato, il disordine, l’instabilità nelle alleanze tra Stati e, dall’altro, il processo di ricostituzione di due nuovi blocchi -, ma che non sono affatto complementari poiché la seconda non fa che aggravare la prima. La storia di questi ultimi anni lo dimostra in modo chiaro:
- la crisi e la guerra del Golfo del 1990-91, volute dagli Stati Uniti, rientrano nel tentativo del gendarme americano di mantenere la sua tutela sui vecchi alleati della guerra fredda, tutela che questi ultimi sono portati a rimettere in discussione con la fine della minaccia sovietica;
- la guerra in Yugoslavia è il risultato diretto dell’affermazione delle nuove ambizioni della Germania, principale istigatore della secessione slovena e croata che mette fuoco alle polveri nella regione;
- il seguito di questa guerra semina la discordia sia nella coppia franco-tedesca, associata nella leadership della Unione europea (che costituisce una prima pietra dell’edificio di un potenziale nuovo blocco imperialista), che nella coppia anglo-americana, la più antica e la più fedele che il 20° secolo abbia conosciuto.
9) Ancor più delle beccate tra il gallo francese e l’aquila tedesca, l’ampiezza delle infedeltà attuali nel matrimonio vecchio di 80 anni tra l’Algida Albione e lo zio Sam costituisce un indice innegabile dello stato di caos nel quale si trova oggi il sistema delle relazioni internazionali. Se, dopo il 1989, la borghesia britannica si era mostrata in un primo tempo la più fedele alleata della sua consorella americana, in particolare in occasione della guerra del Golfo, i pochi vantaggi che essa aveva tratto da questa fedeltà così come la difesa dei suoi interessi specifici nel Mediterraneo e nei Balcani, che la spingevano ad una politica pro-Serba, l’hanno portata a prendere delle distanze considerevoli dal suo alleato e a sabotare sistematicamente la politica americana di sostegno alla Bosnia. Con questa politica la borghesia britannica è riuscita a mettere in piedi una solida alleanza tattica con la borghesia francese con l’obiettivo di far aumentare la discordia nel tandem franco-tedesco, cosa alla quale questa ultima si è completamente prestata nella misura in cui la crescita in potenza del suo alleato tedesco le crea delle preoccupazioni. Questa nuova situazione si è in particolare concretizzata in una intensificazione della collaborazione militare tra la borghesia britannica e quella francese, per esempio col progetto di creazione di un’unità aerea comune e soprattutto con l’accordo che creava una forza inter-africana “di mantenimento della pace e di prevenzione delle crisi in Africa” che costituisce un mutamento spettacolare dell’atteggiamento britannico dopo il suo sostegno alla politica americana nel Ruanda volta a annullare l’influenza francese in questo paese.
10) Questa evoluzione dell’atteggiamento della Gran Bretagna, il cui disappunto si è espresso in particolare il 17 marzo in occasione dell’accoglienza da parte di Clinton di Jerry Addams, il capo del Sinn Fein irlandese, è uno degli eventi maggiori dell’ultimo periodo sulla scena mondiale. E’ rivelatore dello smacco che rappresenta per gli Stati Uniti l’evolversi della situazione nella ex-Yugoslavia, in cui l’occupazione del terreno direttamente da parte degli eserciti britannico e francese sotto l’uniforme della FORPRONU ha contribuito enormemente a sventare i tentativi americani di prendere posizione solidamente nella regione attraverso il suo alleato bosniaco. E’ significativo del fatto che la prima potenza mondiale trova sempre più difficoltà a giocare il suo ruolo di gendarme del mondo, ruolo sopportato sempre meno dalle altre borghesie che tentano di esorcizzare il passato, quando la minaccia sovietica li obbligava a sottostare ai diktat di Washington. Oggi c’è un indebolimento maggiore, cioè una crisi della leadership americana, che si conferma un po’ dappertutto nel mondo, emblematizzata nella pietosa partenza dei Marines dalla Somalia, 2 anni dopo il loro arrivo spettacolare e propagandistico. Questo indebolimento della leadership degli Stati Uniti permette di spiegare perché alcune potenze si permettono di venire a sfidarli nel loro orticello dell’America latina:
- tentativo delle borghesie francese e spagnola di promuovere una “transizione democratica” a Cuba CON Castro, e non SENZA di lui, come avrebbe voluto zio Sam;
- riavvicinamento della borghesia peruviana al Giappone, confermata con la recente rielezione di Fujimori;
- sostegno della borghesia europea, in particolare per il tramite della Chiesa, alla guerriglia zapatista del Chiapas, nel Messico.
11) In realtà, questo maggiore indebolimento della leadership americana esprime il fatto che la tendenza dominante, al momento attuale, non è tanto quella alla costituzione di un nuovo blocco, quanto piuttosto del “ciascuno per sé”. Per la prima potenza mondiale, dotata di una supremazia militare schiacciante, è molto più difficile dominare una situazione caratterizzata dalla instabilità generalizzata, dalla precarietà delle alleanze in tutti gli angoli del pianeta, piuttosto che dalla rigida disciplina degli Stati sotto la minaccia dei mastodonti imperialisti e dell’apocalisse nucleare. In una tale situazione di instabilità, è più facile per ogni potenza creare delle noie ai suoi avversari, sabotare le alleanze che le mettono in ombra, piuttosto che sviluppare per conto proprio delle alleanze solide e assicurarsi una stabilità sui propri territori. Una tale situazione favorisce evidentemente il gioco delle potenze di secondo piano nella misura in cui è sempre più facile seminare il caos che mantenere l’ordine. E una tale realtà è ulteriormente accentuata dallo sprofondare della società capitalista nella decomposizione generalizzata. E’ perciò che gli stessi Stati Uniti sono chiamati ad usare a iosa questo tipo di politica. E ciò può spiegare, per esempio, il sostegno americano alla recente offensiva turca contro i nazionalisti curdi nel Nord dell’Irak, offensiva che la tradizionale alleata della Turchia, la Germania, ha considerato come una provocazione e condannato. Non si tratta di una specie di “rovesciamento di alleanze” tra la Turchia e la Germania, ma di una pietra (di grosse dimansioni) gettata dagli Stati Uniti nel giardino di questa “alleanza” e che rivela l’importanza della posta che rappresenta per i due boss imperialisti un paese come la Turchia. Ugualmente è significativo della situazione attuale il fatto che gli Stati Uniti siano spinti ad impiegare in un paese come l’Algeria per esempio le stesse armi di un Gheddafi o un Komeini: il sostegno del terrorismo e dell’integralismo islamico. Ciò detto, in questa pratica di reciproca destabilizzazione delle rispettive posizioni tra gli Stati Uniti e gli altri paesi, non vi è uguaglianza: se la diplomazia americana può permettersi di intervenire in un gioco politico interno al paese come l’Italia (sostegno a Berlusconi), la Spagna (scandalo del GAL attizzato da Washington), il Belgio (affare Augusta) o la Gran Bretagna (opposizione degli “euroscettici”) a Major), il contrario non potrebbe accadere. In questo senso, la confusione che può manifestarsi in seno alla borghesia americana di fronte agli smacchi diplomatici o ai dibattiti interni su delle scelte strategiche delicate (per esempio, rispetto all’alleanza con la Russia) non ha niente a che vedere con le convulsioni politiche che possono scuotere gli altri paesi. E’ così per esempio che i dissensi manifestati all’epoca dell’invio dei 30.000 Marines ad Haiti sono segno non di reali divisioni ma essenzialmente di una divisione di compiti tra le cricche borghesi che porta ad accentuare le illusioni democratiche e che ha favorito l’arrivo di una maggioranza repubblicana al Congresso americano sostenuta dai settori dominanti della borghesia.
12) Malgrado la loro enorme superiorità militare ed il fatto che questa non può servire loro allo stesso grado del passato, benché siano obbligati a ridurre un po’ le loro spese di difesa di fronte ai loro bilanci in deficit, gli Stati Uniti nondimeno non rinunciano alla modernizzazione dei loro armamenti, ricorrendo ad armi sempre più sofisticate, in particolare portando avanti il progetto di “guerra stellare”. L’impiego della forza bruta, o la sua minaccia, costituisce il mezzo essenziale per la potenza americana di far rispettare la sua autorità (anche se non si priva di ricorrere ai mezzi della guerra economica: pressione sulle istituzioni internazionali come l’OMC, sanzioni commerciali, etc.). Il fatto che questa carta si riveli impotente, anzi fattore di un caos ancora maggiore, come si è visto all’indomani della guerra del Golfo e come è stato ultimamente illustrato dalla Somalia, non fa che confermare il carattere insuperabile delle contraddizioni che attanagliano il mondo capitalista. L’attuale, considerevole rafforzamento del potenziale militare di potenze come la Cina ed il Giappone, che cercano di concorrere con gli Stati Uniti nell’Asia del sud-est e nel Pacifico, non può evidentemente che spingere questo ultimo paese verso lo sviluppo e l’impiego dei suoi armamenti.
13) Il sanguinoso caos nei rapporti imperialisti che caratterizza la situazione del mondo oggi, trova il suo terreno prediletto nei paesi della periferia, ma l’esempio della ex-Yugoslavia a poche centinaia di chilometri dalle grandi concentrazioni industriali europee prova che questo caos si avvicina ai paesi centrali. Alle decine di migliaia di morti provocati dagli scontri in Algeria in questi ultimi anni, ai milioni di cadaveri dei massacri del Rwanda fanno eco le centinaia di migliaia di uccisi in Croazia ed in Bosnia. Nei fatti sono a decine che si contano le zone di scontri sanguinosi nel mondo in Africa, in Asia, in America latina, in Europa, testimonianza dell’indicibile caos che il capitalismo in decomposizione produce nella società. In questo senso la complicità pressappoco generale che avvolge i massacri perpetuati in Cecenia da parte dell’esercito russo, che tenta di frenare lo scoppio della Russia che seguirebbe alla dislocazione della vecchia URSS, sono rivelatori dell’inquietudine che prende la classe dominante di fronte alla prospettiva dell’intensificarsi di questo caos. Bisogna affermarlo chiaramente: solo il rovesciamento del capitalismo da parte del proletariato può impedire che questo caos crescente porti alla distruzione della umanità.
14) Più che mai la lotta del proletariato rappresenta la sola speranza di futuro per la società umana. Questa lotta che era risorta con energia alla fine degli anni 60, ponendo fine alla più terribile controrivoluzione che abbia conosciuto la classe operaia, ha subito un rinculo considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l’hanno accompagnato e l’insieme degli eventi (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, etc.) che l’hanno seguito. E’ sui due piani della sua combattività e della sua coscienza che la classe operaia ha subito, in modo massiccio, questo rinculo, senza che ciò rimetta in causa tuttavia, come la CCI aveva già affermato a quella data, il corso storico verso gli scontri di classe. Le lotte condotte nel corso degli ultimi anni da parte del proletariato sono venute a confermare quanto precede. Esse hanno testimoniato, particolarmente dopo il 1992, la capacità del proletariato di riprendere il cammino della lotta di classe, confermando così che il corso storico non era stato rovesciato. Sono altrettanto testimonianza delle enorme difficoltà che incontra su questo cammino, della profondità e dell’estensione del suo rinculo. E’ in modo sinuoso, con dei passi avanti e dei passi indietro, in un movimento a denti di sega che si sviluppano le lotte operaie.
15) I massicci movimenti in Italia nell’autunno 1992, quelli in Germania del 1993 e molti altri esempi hanno dato conto del potenziale di combattività che cresceva nelle fila operaie. Poi questa combattività si è espressa lentamente, con dei lunghi momenti di assopimento, ma non si è smentita. Le mobilitazioni di massa nell’autunno 1994 in Italia, la serie di scioperi nel settore pubblico in Francia nella primavera 1995, sono delle manifestazioni, tra l’altro, di questa combattività. Tuttavia, è importante mettere in evidenza che la tendenza verso il superamento dei sindacati che si era espresso nel 1992 in Italia non si è confermato nel 1994 quando la manifestazione “fenomeno” fu un capolavoro di controllo sindacale. Inoltre, la tendenza all’unificazione spontanea, in piazza, che era comparsa (sebbene in maniera embrionale) nell’autunno 1993 nella Ruhr in Germania ha poi lasciato il posto a delle manovre sindacali di grande ampiezza, quali lo “sciopero” dei metallurgici all’inizio del 1995, perfettamente controllato dalla borghesia, Ugualmente, i recenti scioperi in Francia, nei fatti giornate d’azioni dei sindacati, hanno costituito un successo per questi ultimi.
16) Oltre alla profondità del rinculo subito nel 1989, le difficoltà che prova oggi la classe operaia per avanzare sul suo terreno sono il risultato di tutta una serie di ostacoli supplementari promossi o utilizzati dalla classe nemica. E’ nel quadro del peso negativo che esercita la decomposizione generale del capitalismo sulle coscienze operaie, demolendo la fiducia del proletariato in sé stesso e nella prospettiva della sua lotta, che è importante collocare queste difficoltà. Più concretamente, la disoccupazione di massa e permanente che si sviluppa oggi, se è un segno indiscutibile del fallimento del capitalismo, ha per effetto maggiore quello di provocare una forte demoralizzazione, una enorme disperazione in settori importanti della classe operaia di cui alcuni sono caduti nell’emarginazione e nella lumpenizzazione. Questa disoccupazione ha egualmente per effetto quello di servire da strumento di ricatto e di repressione della borghesia verso i settori operai che ancora hanno lavoro. Inoltre, i discorsi sulla “ripresa” ed i pochi risultati positivi (in termini di profitto e di tassi di crescita) che conosce l’economia dei principali paesi, sono ampiamente messi a frutto per consentire i discorsi dei sindacati sul tema : “i padroni possono pagare”: Questi discorsi sono particolarmente pericolosi nel senso che amplificano le illusioni riformiste degli operai, rendendoli molto più vulnerabili all’inquadramento sindacale, nel senso che sottendono l’idea che se i padroni “non possono pagare”, non serve a niente lottare, il che è un fattore supplementare di divisione (oltre alla divisione tra disoccupati e operai al lavoro) tra i vari settori della classe operaia che lavorano in settori toccati in maniera diversa dagli effetti della crisi.
17) Questi ostacoli hanno favorito la ripresa del controllo da parte dei sindacati sulla combattività operaia, canalizzandola in “azioni” che essi controllano completamente. Tuttavia le attuali manovre dei sindacati hanno anche, e soprattutto, uno scopo preventivo: si tratta per loro di rafforzare la loro presa sugli operai prima che si sviluppi molto di più la loro combattività, combattività che deriverà necessariamente dalla loro crescente collera di fronte agli attacchi sempre più brutali della crisi.
Bisogna anche sottolineare il cambiamento recente in un certo numero di discorsi della classe dominante. Mentre i primi anni dopo il crollo del blocco dell’Est sono stati dominati dalle campagne sul tema della “morte del comunismo”, “l’impossibilità della rivoluzione”, si assiste oggi ad un certo ritorno alla moda dei discorsi favorevoli al “marxismo”, alla “rivoluzione”, al “comunismo” da parte dei gauchistes, evidentemente, ma anche da altri settori. Si tratta anche qui di una misura preventiva da parte della borghesia destinata a deviare la riflessione della classe operaia che tenderà a svilupparsi di fronte al fallimento sempre più evidente del modo di produzione capitalista. Tocca ai rivoluzionari, nel loro intervento, denunciare con il massimo vigore possibile sia le manovre ignobili dei sindacati sia questi discorsi presunti “rivoluzionari”: Spetta a loro porre in avanti la vera prospettiva della rivoluzione proletaria e del comunismo come la sola uscita che può salvare l’umanità e come risultato ultimo delle lotte operaie.
CCI
Si è tenuto l'11° Congresso internazionale della CCI. Nella misura in cui le organizzazioni comuniste sono una parte del proletariato, un prodotto storico di questo e allo stesso tempo parte pregnante e fattore attivo della lotta per la sua emancipazione, i congressi di queste, che ne rappresentano le istanze supreme, sono un momento di primaria importanza per la classe operaia. Per questo i comunisti hanno il dovere di render conto di questo momento essenziale della vita della propria organizzazione.
Le delegazioni venute da 12 paesi (1), che rappresentano più di un miliardo e mezzo di abitanti e soprattutto le maggiori concentrazioni proletarie del mondo (Europa occidentale e America del nord), hanno discusso, tirato delle lezioni e tratto degli orientamenti sulle questioni essenziali alle quali è confrontata la nostra organizzazione. L'ordine del giorno di questo congresso comprendeva essenzialmente due punti: le attività ed il funzionamento della nostra organizzazione, la situazione internazionale (2). Ma il primo punto è quello che senza dubbio ha occupato maggiore spazio e suscitato i dibattiti più appassionati. Ciò è dovuto anche al fatto che la CCI è stata confrontata a delle difficoltà di tipo organizzativo molto importanti che necessitavano una mobilitazione di tutte le sezioni e di tutti i militanti.
I problemi organizzativi nella storia del movimento operaio...
L'esperienza storica delle organizzazioni rivoluzionarie del proletariato dimostra che le questioni relative al funzionamento sono questioni politiche a tutti gli effetti e pertanto meritano la più grande attenzione e riflessione.
Sono numerosi nel movimento operaio gli esempi che dimostrano l'importanza della questione organizzativa ma possiamo evocare in particolare quello dell'AIT (Associazione Internazionale dei Lavoratori, chiamata anche più tardi I Internazionale) e quello del 2° Congresso del Partito Operaio Social Democratico Russo (POSDR) tenuto nel 1903.
L'AIT era stata fondata nel settembre del 1864 a Londra per iniziativa di un certo numero di operai inglesi e francesi. Essa si era data fin dall'inizio una struttura di centralizzazione, il Consiglio centrale che, dopo il congresso di Ginevra del 1866, si chiamerà Consiglio generale. All'interno di questo organo Marx giocherà un ruolo di primo piano poiché sarà incaricato di scrivere un gran numero di testi fondamentali, come l'Indirizzo Inaugurale dell'AIT, i suoi statuti e l'Indirizzo sulla Comune di Parigi (La guerra civile in Francia) del maggio 1871. Rapidamente l'AIT ("Internazionale" come la chiamavano allora gli oprerai) è divenuta una "potenza" nei paesi avanzati (soprattutto quelli dell'Europa occidentale). Fino alla Comune di Parigi del 1871, essa ha raggruppato un numero crescente di operai ed ha costituito un fattore di primo piano nello sviluppo delle due armi essenziali del proletariato: la sua organizzazione e la sua coscienza. Per questo motivo essa sarà l'oggetto di attacchi feroci da parte della borghesia: calunnie sulla stampa, infiltrazioni di spie, persecuzioni contro i suoi membri, ecc. Ma ciò che ha fatto correre il maggior pericolo all'AIT sono stati gli attacchi di alcuni dei suoi propri membri contro il modo di organizzazione dell'Internazionale stessa.
Già al momento della fondazione dell'AIT gli statuti provvisori, di cui si era dotata, vengono tradotti dalle sezioni parigine, fortemente influenzate dalle concezioni federaliste di Proudhon, in modo tale da attenuare considerevolmente il carattere centralizzato dell'Internazionale. Ma gli attacchi più pericolosi verranno più tardi con l'entrata nei ranghi dell'AIT dell'"Alleanza della democrazia socialista", fondata da Bakunin e che troverà terreno fertile in alcuni settori importanti dell'Internazionale per le debolezze che pesavano ancora su di essa dovute all'immaturità del proletariato dell'epoca, un proletariato che non si era ancora liberato delle vestigia della tappa precedente del suo sviluppo.
"La prima fase della lotta del proletariato contro la borghesia è marcata dal movimento settario. Esso ha la sua ragione d'essere in una epoca in cui il proletariato non si è ancora sviluppato abbastanza da agire come classe. Dei pensatori individuali fanno la critica degli antagonismi sociali e ne danno soluzioni fantastiche che la massa degli operai non ha che da accettare, propagandare e mettere in pratica. Per la loro stessa natura le sette formate da questi iniziatori sono astensioniste, estranee ad ogni azione reale, alla politica, agli scioperi, alle coalizioni, in una parola, ad ogni movimento di insieme. La massa del proletariato resta sempre indifferente o anche ostile alla loro propaganda... Queste sette sorte dal movimento alle sue origini, gli fanno da ostacolo quando questo le sorpassa; allora esse diventano reazionarie... Infine, esse rappresentano l'infanzia del movimento proletario come l'astrologia e l'alchimia rappresentano l'infanzia della scienza. Perché fosse possibile la fondazione dell'Internazionale era necessario che il proletariato superasse questa fase.
Di fronte alle organizzazioni cervellotiche ed antagoniste delle sette l'Internazionale è l'organizzazione reale e militante della classe dei proletari in tutti i paesi, legati gli uni agli altri, nella loro lotta comune contro i capitalisti, i proprietari fondiari e il loro potere di classe organizzato nello Stato. Per questo gli statuti dell'Internazionale non riconoscono che semplici società "operaie" che perseguono tutte lo stesso scopo e accettano tutte lo stesso programma che si limita a tracciare le grandi linee del movimento proletario e ne lascia l'elaborazione teorica all'impulso dato dalle necessità della lotta pratica ed allo scambio di idee che si fa, nelle sezioni, ammettendo indistintamente tutte le convinzioni socialiste nei loro organi ed i loro congressi.
Così come in ogni nuova fase storica i vecchi errori riappaiono un istante per scomparire subito dopo; allo stesso modo l'Internazionale ha visto rinascere al suo interno delle sezioni settarie..." (Le pretese scissioni nell'Internazionale, capitolo IV, circolare del Consiglio generale del 5 marzo 1872).
Questa debolezza era particolarmente accentuata nei settori più arretrati del proletariato europeo, là dove esso era appena uscito dall'artigianato e dal lavoro nei campi, in particolare nei paesi latini. Sono queste debolezze che Bakunin, entrato nell'Internazionale solo nel 1868, dopo il fallimento della "Lega della Pace e della Libertà" (di cui era uno dei principali animatori e che raggruppava dei repubblicani borghesi), ha utilizzato per tentare di sottometterla alle sue concezioni "anarchiche" e per prenderne il controllo. Lo strumento di questa operazione era l'"Alleanza della democrazia socialista", che lui aveva fondato come minoranza della "Lega della Pace e della Libertà". Questa era una società contemporaneamente pubblica e segreta e che si proponeva in realtà di formare una internazionale nell'Internazionale. La sua struttura segreta e la concertazione che permetteva tra i suoi membri doveva assicurargli la "enucleazione" di un massimo di sezioni dell'AIT, quelle dove le concezioni anarchiche avevano più eco. In sé l'esistenza di più correnti di pensiero all'interno dell'AIT non era un problema (3). Al contrario l'azione dell'Alleanza che tendeva a sostituirsi alla struttura ufficiale dell'Internazionale, ha costituito un grave fattore di disorganizzazione di questa ed un pericolo per la sua sopravvivenza. L'Alleanza aveva tentato di prendere il controllo dell'Internazionale al Congresso di Basilea nel settembre del 1869. E' in vista di questo obiettivo che i suoi membri, in particolare Bakunin e James Guillaume, avevano appoggiato calorosamente una mozione amministrativa che rafforzava il potere del Consiglio generale. Ma l'Alleanza, che per parte sua si era dotata di statuti segreti basati su di una centralizzazione estrema, avendo fallito cominciò a fare campagne contro la "dittatura" del Consiglio generale che essa voleva ridurre al ruolo di "un ufficio di corrispondenza e di statistiche" secondo i termini dell'Alleanza), di una "buca per lettere" (come rispondeva Marx). Contro il principio della centralizzazione come espressione dell'unità internazionale del proletariato, l'Alleanza preconizzava il "federalismo", la completa "autonomia delle sezioni" ed il carattere non obbligatorio delle decisioni dei congressi. Nei fatti essa voleva poter fare il proprio comodo nelle sezioni dove era riuscita a prendere il controllo. Ciò era la porta aperta alla disorganizzazione totale dell'AIT.
Il Congresso dell'Aia del 1872 dovette correre ai ripari contro questo pericolo. Esso dibattè della questione dell'Alleanza sulla base del rapporto di una commissione d'inchiesta e alla fine decise l'esclusione di Bakunin e di James Guillaume, principale responsabile della federazione del Giura dell'AIT che si trovava completamente sotto il controllo dell'Alleanza. Questo congresso fu contemporaneamente motivo d'orgoglio per l'AIT (tanto per capirne l'importanza, è il solo congresso al quale Marx abbia partecipato) e il suo canto del cigno, dato lo schiacciamento della Comune di Parigi e la demoralizzazione che questo provocò nel proletariato. Di questa realtà Marx ed Engels erano coscienti. E' per questo che, oltre alle misure che miravano a sottrarre l'AIT dalla presa dell'Alleanza, proposero lo spostamento del Consiglio generale a New York, lontano dai conflitti che dividevano sempre di più l'Internazionale. Era anche un modo per permettere all'AIT di morire di propria morte (sancita dalla conferenza di Philadelphia del luglio 1876) senza che il suo prestigio fosse recuperato dagli intriganti bakuninisti.
Questi ultimi, insieme agli anarchici, hanno in seguito perpetuato questa leggenda sostenendo che Marx ed il Consiglio generale avevano buttato fuori Bakunin e Guillaume per la loro diversa posizione sulla questione dello Stato (5) (quando non sono arrivati a piegare lo scontro tra Marx e Bakunin sulla base di problemi di personalità). Insomma, Marx avrebbe voluto regolare un disaccordo su di una questione teorica generale attraverso delle misure amministrative. Niente di più falso.
Al congresso dell'Aia non fu richiesta alcuna misura contro i membri della delegazione spagnola che pure condividevano la visione di Bakunin, avevano fatto parte dell'Alleanza ma avevano assicurato di non farvi più parte. Allo stesso modo l'AIT "anti-autoritaria" che si è formata dopo il congresso dell'Aia con le federazioni che avevano rigettato le sue decisioni, non erano costituite da soli anarchici dato che vi si trovavano, affianco a questi, dei lassalliani tedeschi strenui difensori del "socialismo di Stato", secondo i termini usati da Marx. In realtà la vera lotta all'interno dell'AIT era tra quelli che preconizzavano l'unità del movimento operaio (e di conseguenza il carattere obbligatorio delle decisioni dei congressi) e quelli che rivendicavano il diritto di fare quello che meglio gli pareva, ciascuno per proprio conto, considerando i congressi come delle semplici assemblee dove ci si doveva contentare di "scambiare delle opinioni" ma senza prendere decisioni. Con questo tipo di organizzazione informale l'Alleanza poteva assicurarsi, segretamente, la vera centralizzazione tra tutte le federazioni, come del resto era detto esplicitamente in alcune lettere di Bakunin. Spingere per delle concezioni "anti-autoritarie" nell'AIT era il modo migliore per dare spazio all'intrigo, al potere occulto ed incontrollato dell'Alleanza, cioè degli avventurieri che la dirigevano.
Il 2° Congresso del POSDR doveva essere l'occasione di uno scontro simile tra i partigiani di una concezione proletaria dell'organizzazione rivoluzionaria ed i partigiani di una concezione piccolo-borghese.
Ci sono delle similitudini tra la situazione del movimento operaio in Europa occidentale ai tempi dell'AIT e quella del movimento in Russia all'inizio del secolo. Nei due casi ci troviamo ad una tappa "infantile" di questo, il divario di tempo tra i due si spiega con il ritardo dello sviluppo industriale della Russia. L'AIT aveva voluto raggruppare in un'unica organizzazione le differenti associazioni operaie che lo sviluppo del proletariato aveva fatto sorgere. Il 2° congresso del POSDR aveva come obiettivo quello di una unificazione dei differenti comitati, gruppi e circoli, sviluppatisi in Russia ed in esilio, che si richiamavano alla Socialdemocrazia. Tra queste differenti formazioni non esisteva praticamente alcun legame formale dopo la scomparsa del comitato centrale uscito dal 1° congresso del POSDR nel 1897. Nel 2° congresso, come per l'AIT, si scontrarono una concezione dell'organizzazione che rappresentava il passato del movimento operaio, quella dei "menscevichi" (minoritaria), e una concezione che esprimeva le sue nuove esigenze, quella dei "bolscevichi" (maggioritari):
"Sotto il nome di minoranza si sono raggruppati nel Partito degli elementi eterogenei che hanno in comune il desiderio, cosciente o meno, di mantenere i rapporti di circolo, le forme di organizzazione anteriori al Partito. Alcuni compagni eminenti dei vecchi circoli, non essendo abituati a restrizioni in materia di organizzazione, che si impongono in ragione della disciplina di Partito, sono inclini a confondere macchinalmente gli interessi generali del Partito ed i loro interessi di circolo i quali, nel periodo dei circoli, potevano effettivamente coincidere" (Lenin, Un passo avanti e due indietro).
Come è stato confermato anche da esperienze successive (al momento della rivoluzione del 1905 e ancor più durante la rivoluzione del 1917, ad esempio, quando i menscevichi si sono posti al fianco della borghesia), la dinamica dei menscevichi era determinata dalla penetrazione, nella Social-democrazia russa, dell'influenza delle ideologie borghesi e piccolo-borghesi. In particolare, come nota Lenin: "Il grosso dell'opposizione (i menscevichi) è stata formata dagli elementi intellettuali del nostro Partito" che hanno costituito dunque un veicolo per le concezioni piccolo-borghesi in materia di organizzazione. Per questo motivo tali elementi "... alzano lo stendardo della rivolta contro le restrizioni indispensabili che esige l'organizzazione ed ergono il loro anarchismo spontaneo in principio di lotta, chiamando a torto questo anarchismo... rivendicazioni in favore della tolleranza, ecc." (Lenin, Un passi avanti e due indietro). In effetti, esistono molte similitudini tra il comportamento dei menscevichi e quello degli anarchici nell'AIT (a più riprese Lenin parla dell'"anarchismo da gran signori" dei menscevichi).
I menscevichi, come avevano fatto gli anarchici dopo il congresso dell'Aia, si rifiutarono di riconoscere e di applicare le decisioni del 2° congresso affermando che "il congresso non è una divinità" e che "le sue decisioni non sono sacrosante". In particolare, nello stesso modo in cui i seguaci di Bakunin entrarono in guerra contro i principi della centralizzazione e la "dittatura del Consiglio generale" quando i loro tentativi di prenderne il controllo fallirono, così una delle ragioni per cui i menscevichi, dopo il congresso, cominciarono a rigettare la centralizzazione sta nel fatto che alcuni di loro furono estromessi dagli organi centrali nominati a questo congresso. Ci sono delle somiglianze anche nel modo in cui i menscevichi condussero campagne contro la "dittatura personale" di Lenin, il suo "pugno di ferro" che fa eco alle accuse di Bakunin contro la "dittatura" di Marx sul Consiglio generale.
"Quando prendo in considerazione la condotta degli amici di Martov dopo il congresso (...) io posso solo dire che si tratta di un tentativo insensato, indegno dei membri del Partito, di dilaniare il Partito... E perché? Unicamente perché non si è contenti della composizione degli organi centrali, perché obiettivamente è unicamente questa questione che ci ha separati, gli apprezzamenti soggettivi (come offesa, insulto, espulsione, messa da parte, disonore, ecc) non erano altro che il frutto di un amor proprio ferito e di una immaginazione malata. Questa immaginazione malata e questo amor proprio ferito portano di filato al pettegolezzo più vergognoso: senza aver preso conoscenza dell'attività dei nuovi centri, nè averli ancora visti all'opera, si spargono voci sulle loro "carenze", sul "pugno di ferro" di Ivan Ivanovitch, sul "polso" di Ivan Nikiforovitch, ecc. (...). Alla socialdemocrazia russa resta un'ultima e difficile tappa da superare: dallo spirito di circolo allo spirito di partito; dalla mentalità piccolo-borghese alla coscienza del suo divenire rivoluzionario: dal pettegolezzo e dalla pressione dei circoli, considerati strumenti di azione, alla disciplina." ("Relazione del 2° congresso del POSDR").
Con l'esempio dell'AIT e quello del 2° congresso del POSDR, si può vedere tutta l'importanza delle questioni legate al modo di organizzazione delle formazioni rivoluzionarie. In effetti, è proprio intorno a queste questioni che si produceva una decantazione decisiva tra, da una parte la corrente proletaria e, dall'altra, le correnti piccolo-borghesi o borghesi. Questo non è casuale, ma deriva dal fatto che uno dei canali privilegiati per l'infiltrazione all'interno di queste formazioni delle ideologie delle classi estranee al proletariato, borghesia e piccola-borghesia, è proprio quello del loro modo di funzionamento.
La storia del movimento operaio è ricca di esempi di questo tipo. Se abbiamo evocato solo questi è evidentemente per una questione di spazio ma anche perché esistono delle somiglianza importanti, come vedremo, tra le circostanze storiche della costituzione dell'AIT, del POSDR e della CCI stessa.
...e nella storia della CCI
La CCI si è già soffermata più volte con attenzione su questo tipo di questione. Alla conferenza di fondazione, per esempio, nel gennaio 1975, dove fu esaminata la questione della centralizzazione internazionale (vedi il "Rapporto sulla questione dell'organizzazione della nostra corrente", Revue Internationale n.1). Un anno dopo, in occasione del suo primo congresso, la nostra organizzazione ci è ritornata su con l'adozione degli statuti (vedi l'articolo "Gli statuti delle organizzazioni rivoluzionarie del proletariato" Revue Internationale n.5). Infine, la CCI nel gennaio 1982 ha dedicato una conferenza internazionale straordinaria a questa questione in seguito alla crisi che essa aveva attraversato nel 1981 (6). Di fronte alla classe operaia ed all'ambiente politico proletario la CCI non ha nascosto le difficoltà incontrate agli inizi degli anni 80. Così ne parlava la risoluzione adottata al 5° congresso e citata nella Revue Internationale n.35:
"Dopo il 4° congresso (1981) la CCI ha conosciuto la crisi più grave da quando esiste. Una crisi che, al di là delle peripezie particolari dell'"affare Chénier" (7) ha scosso profondamente l'organizzazione, le ha fatto sfiorare l'esplosione, ha provocato direttamente o indirettamente l'uscita di una quarantina di membri, ha ridotto alla metà i militanti della sua seconda sezione territoriale. Una crisi che si è tradotta in un accecamento, un disorientamento che la CCI non aveva mai conosciuto dalla sua creazione. Una crisi che, per essere superata, ha richiesto la mobilitazione di mezzi eccezionali: la tenuta di una Conferenza internazionale straordinaria, la discussione e l'adozione di testi di orientamento di base sulla funzione e sul funzionamento dell'organizzazione rivoluzionaria, l'adozione di nuovi statuti."
Una tale trasparenza rispetto alle difficoltà che incontrava la nostra organizzazione non corrispondeva affatto ad un qualche "esibizionismo" da parte nostra. L'esperienza delle organizzazioni comuniste è parte integrante dell'esperienza della classe operaia. E' per questo che un grande rivoluzionario come Lenin ha potuto consacrare tutto un libro, Un passo avanti e due indietro, alle lezioni politiche tratte dal 2° Congresso del POSDR. E' per questo che noi portiamo a conoscenza dei nostri lettori larghi estratti della risoluzione adottata alla fine del nostro 11° Congresso. Rendendo conto della propria vita organizzativa, la CCI non fa altro che assumersi le sue responsabilità di fronte alla classe operaia.
Evidentemente la messa in piazza da parte delle organizzazioni rivoluzionarie dei propri problemi e discussioni interne può costituire un ottimo terreno per tutti i tentativi di denigrazione da parte degli avversari. Questo è vero anche, ed in particolar modo, per la CCI. Certo non è nella stampa borghese che si trovano le esclamazioni di giubilo quando diamo conto delle difficoltà che la nostra organizzazione può incontrare oggi, siamo ancora troppo modesti come taglia e come influenza tra le masse operaie perché i mezzi di propaganda borghese abbiano interesse a parlare di noi per screditarci. Per la borghesia è meglio innalzare un muro di silenzio intorno alle posizioni e all'esistenza delle organizzazioni rivoluzionarie. E' per questo che il lavoro di denigrazione e di sabotaggio dell'intervento di queste organizzazioni è preso in carica da tutta una serie di gruppi ed elementi parassitari la cui funzione è di allontanare dalle posizioni di classe quegli elementi che si avvicinano a queste, di farli disgustare di ogni partecipazione al difficile lavoro di sviluppo di un campo politico proletario.
L'insieme dei gruppi comunisti è stato confrontato all'azione del parassitismo, ma tocca alla CCI, dato che è oggi l'organizzazione più importante dell'ambiente proletario, essere l'oggetto di una attenzione tutta particolare da parte della marea parassitaria. In questa si trovano dei gruppi ben definiti quali il "Groupe Communiste Internationaliste" (GCI) e le sue scissioni (come "Contre le Courant"), il defunto "Communist Bulletin Group" (CBG) o l'ex-"Frazione Esterna della CCI" (FECCI) che si sono tutti costituiti da scissioni della CCI. Ma il parassitismo non si limita solo a questo tipo di gruppi. Esso è veicolato da elementi non organizzati o che si trovano in certi momenti in circoli di discussione effimeri, la cui preoccupazione principale consiste nel far circolare ogni sorta di pettegolezzo a proposito della nostra organizzazione. Questi elementi sono spesso vecchi militanti che, cedendo alla pressione della piccola-borghesia, non hanno avuto la forza di mantenere un impegno militante nell'organizzazione, che sono stati frustrati dal fatto che questa non ha "riconosciuto i loro meriti" allo stesso livello dell'idea che si erano fatti di loro stessi o che non hanno sopportato le critiche a loro mosse. Si tratta anche di vecchi simpatizzanti che l'organizzazione non ha voluto integrare perché riteneva che non avevano la chiarezza necessaria o non si sono voluti impegnare per paura di perdere la loro "individualità" in un quadro collettivo (è questo il caso, ad esempio, del defunto "collettivo Alptraum" del Messico o del "Kamunist Kranti" in India). In tutti i casi si tratta di elementi la cui frustrazione derivante dalla loro propria mancanza di coraggio, dalla loro ignavia e della loro impotenza si è trasformata in una ostilità sistematica verso l'organizzazione. Evidentemente questi elementi sono assolutamente incapaci di costruire un qualcosa. Al contrario, sono spesso molto efficaci, con le loro piccole agitazioni ed i pettegolezzi da servetta, nello screditare e distruggere quello che l'organizzazione cerca di costruire.
Tuttavia non è il gracidare del parassitismo che impedisce alla CCI di far conoscere all'insieme del campo proletario gli insegnamenti della propria esperienza. Nel 1904 Lenin scriveva, nella prefazione di Un passo avanti due passi indietro:
"Costoro (gli avversari della social-democrazia) si agitano e manifestano una gioia maligna dinanzi alle nostre polemiche; costoro tenderanno naturalmente ad utilizzare ai loro fini singoli passi del mio opuscolo, consacrato ai difetti ed alle lacune del nostro partito. I socialdemocratici russi sono già sufficientemente temprati alle battaglie per non lasciarsi commuovere da queste punture di spillo, per continuare, nonostante ciò, la loro opera di autocritica e di denuncia spietata dei propri difetti, che saranno sicuramente e inevitabilmente superati con lo sviluppo del movimento operaio. Si provino invece i signori avversari a presentarci il quadro della reale situazione esistente nei loro "partiti", un quadro che si avvicini anche solo da lontano a quello offerto dagli atti del nostro secondo congresso!" (Opere scelte)
E' esattamente con lo stesso spirito che noi portiamo qui a conoscenza dei nostri lettori larghi estratti della risoluzione adottata alla fine del nostro 11° Congresso. Questo non è una manifestazione di debolezza della CCI ma, al contrario, una testimonianza della sua forza.
I problemi affrontati dalla CCI nell'ultimo periodo
"L'11° congresso della CCI afferma dunque chiaramente: la CCI si trovava in una situazione di crisi latente, una crisi ben più profonda di quella che ha colpito l'organizzazione agli inizi degli anni 80, una crisi che, se non fosse stata identificata la radice delle debolezze, rischiava di travolgere l'organizzazione" (Risoluzione d'attività. punto 1)
"Le cause della gravità del male che rischiava di inghiottire l'organizzazione sono molteplici, ma se ne possono mettere in evidenza le principali:
In questo senso il solo modo in cui la CCI poteva affrontare efficacemente il pericolo mortale che la minacciava, consisteva:
La lotta per il raddrizzamento della CCI è iniziata nell'autunno del 1993 con la messa in discussione in tutta l'organizzazione di un testo di orientamento che ricordava ed attualizzava gli insegnamenti del 1982, soffermandosi sull'origine storica delle nostre debolezze. Al centro del nostro procedere si trovavano dunque le seguenti preoccupazioni: la riappropriazione delle acquisizioni della nostra propria organizzazione e dell'insieme del movimento operaio, la continuità con le lotte di questo ed in particolare con la sua lotta contro la penetrazione al suo interno delle ideologie estranee, borghesi e piccolo-borghesi.
"Il quadro di comprensione che si è data la CCI per mettere a nudo l'origine delle sue debolezze si inscriveva nella lotta storica condotta dal marxismo contro le influenze delle ideologie piccolo-borghesi che pesano sulle organizzazioni del proletariato. Più precisamente esso si rifaceva alla lotta del Consiglio generale dell'AIT contro l'azione di Bakunin e dei suoi fedeli, come di quella di Lenin e dei bolscevichi contro le concezioni opportuniste e di tipo anarchico dei menscevichi durante e dopo il 2° Congresso del POSDR. In particolare era necessario per l'organizzazione mettere al centro delle sue preoccupazioni, come lo fecero i bolscevichi a partire dal 1903, la lotta contro lo spirito di circolo e per lo spirito di partito. Questa priorità derivava dalla natura stessa delle debolezze che pesavano sulla CCI data la sua origine a partire da circoli apparsi nel solco della ripresa storica del proletariato alla fine degli anni 1960; dei circoli fortemente marcati dal peso delle concezioni affinitarie, contestatarie, individualiste, in una parola dalle concezioni di tipo anarchico, particolarmente marcate dalle rivolte studentesche che hanno accompagnato e inquinato la ripresa proletaria. E' in questo senso che la constatazione del peso particolarmente forte dello spirito di circolo nelle nostre origini era parte integrante dell'analisi generale elaborata da lungo tempo e che vedeva la base delle nostre debolezze nella rottura organica delle organizzazioni comuniste per la contro rivoluzione che si era abbattuta sulla classe operaia a partire dalla fine degli anni 1920. Tuttavia questa constatazione ci permetteva di andare più lontano e di andare più a fondo nell'analisi delle radici delle nostre difficoltà. Ci permetteva in particolare di comprendere il fenomeno, già constatato nel passato ma insufficientemente chiarito, della formazione dei clan all'interno dell'organizzazione. : questi clan erano in realtà il risultato dell'incancrenimento dello spirito di circolo che si era mantenuto anche al di là del periodo in cui i circoli avevano costituito una tappa della riformazione dell'avanguardia comunista. In questo modo i clan divenivano, a loro volta, un fattore attivo e il miglior garante della conservazione dello spirito di circolo nell'organizzazione." (ibidem, punto 4).
Qui la risoluzione fa riferimento ad un punto del testo di orientamento dell'autunno '93 che mette in evidenza la seguente questione:
"In effetti uno dei gravi pericoli che minacciano in permanenza l'organizzazione, che rimette in causa la sua unità e rischia di distruggerla, è la costituzione, anche se non deliberata o cosciente, di "clan". In una dinamica di clan le pratiche comuni non partono da un reale accordo politico ma da legami di amicizia, di fedeltà, dalla convergenza di interessi "personali" specifici o da frustrazioni condivise. Spesso una tale dinamica, nella misura in cui essa non si basa su di una reale convergenza politica, si accompagna all'esistenza di "guru", di "capo banda" garanti dell'unità del clan, il cui potere può derivare o da un carisma particolare, che può anche schiacciare le capacità politiche e di giudizio di altri militanti, o dal fatto che questi sono presentati, o si presentano, come "vittime" di questa o quella politica dell'organizzazione. Quando appare una tale dinamica i membri o i simpatizzanti del clan non agiscono più, nei loro comportamenti o nelle decisioni che prendono, in funzione di una scelta cosciente e ragionata basata sugli interessi generali dell'organizzazione, ma in funzione del punto di vista e degli interessi del clan, i quali tendono a porsi in contraddizione a quelli del resto dell'organizzazione."
Questa analisi era basata su dei precedenti storici nel movimento operaio (per esempio, l'atteggiamento dei vecchi redattori dell'Iskra, raggruppati intorno a Martov e che, scontenti delle decisioni del 2° congresso del POSDR, avevano formato la frazione dei menscevichi), ma anche su dei precedenti nella storia della CCI. Non possiamo qui entrare in dettaglio ma possiamo affermare che le "tendenze" che ha conosciuto la CCI (quella che si scinde nel 1978 per formare il "Groupe Communiste Internationaliste", la "tendenza Chénier" nel 1981, la "tendenza" che ha lasciato l'organizzazione al suo 6° congresso per formare la "Frazione esterna della CCI") corrispondevano molto di più ad una dinamica di clan che a delle reali tendenze basate su un orientamento positivo alternativo. In effetti il motore principale di queste "tendenze" non era costituito dalle divergenze che i loro membri potevano avere con gli orientamenti dell'organizzazione (queste divergenze erano le più eteroclite, come dimostrato dalla traiettoria successiva delle "tendenze") ma da un assemblaggio di malcontenti e di frustrazioni contro gli organi centrali e dalla fedeltà personale verso gli elementi che si considerano "perseguitati" o insufficientemente riconosciuti.
Il raddrizzamento della CCI
Anche se non più tanto spettacolare come nel passato, l'esistenza di clan continuava a minare in sordina ma drammaticamente il tessuto organizzativo. In particolare, l'insieme della CCI (compresi i militanti direttamente implicati) ha messo in evidenza che essa era confrontata ad un clan che occupava un posto di primo piano nell'organizzazione e che, anche se non era un "semplice prodotto organico delle debolezze della CCI" aveva "concentrato e cristallizzato un gran numero di caratteristiche deleterie che infettavano l'organizzazione ed il cui denominatore comune era l'anarchismo (visione dell'organizzazione come somma di individui, approccio di tipo psicologico e affinitario nei rapporti politici tra militanti e nelle questioni di funzionamento, disprezzo o ostilità verso le concezioni politiche marxiste in materia di organizzazione)" (Risoluzione d'attività, punto 5).
E' per questo che:
"... il Congresso constata il successo globale della lotta ingaggiata dalla CCI dall'autunno 1993 (...) il raddrizzamento, talvolta spettacolare, delle sezioni più toccate dalle difficoltà di tipo organizzativo nel '93 (...), gli approfondimenti che sono venuti da numerose parti della CCI (...), tutti questi fatti confermano la piena validità della lotta intrapresa, del suo metodo, delle sue basi teoriche così come dei suoi aspetti concreti (...). Il congresso sottolinea in particolare gli approfondimenti realizzati dall'organizzazione nella comprensione di tutta una serie di questioni alle quali si sono confrontate e si confrontano le organizzazioni della classe: avanzamenti nella conoscenza della lotta di Marx e del Consiglio generale contro l'Alleanza, della lotta di Lenin e dei bolscevichi contro i menscevichi, del fenomeno dell'avventurismo politico nel movimento operaio (rappresentato in particolare dalle figure di Bakunin e di Lassalle), proprio di elementi declassati, che non lavorano a priori al servizio dello Stato capitalista ma finiscono per essere più pericolosi degli agenti infiltrati da questo." (ibidem, punto 10).
"Sulla base di questi elementi l'11° Congresso constata dunque che la CCI è oggi ben più forte di quanto non lo fosse al precedente congresso, che è incomparabilmente meglio armata per affrontare le sue responsabilità di fronte al futuro ritorno della classe sulla scena, anche se, evidentemente, essa è ancora in convalescenza" (ibidem, punto 11).
La constatazione dell'esito positivo della lotta condotta dall'organizzazione non ha tuttavia creato nessun sentimento di euforia nel congresso. La CCI ha imparato a diffidare degli impeti momentanei che sono più che altro il tributo della penetrazione nei ranghi comunisti dell'impazienza piccolo-borghese piuttosto che espressione di una dinamica proletaria. La lotta delle organizzazioni e dei militanti comunisti è una lotta a lungo termine, paziente, spesso oscura ed il vero entusiasmo che sta nei militanti non si misura dalle impennate euforiche ma dalla capacità di tenere, contro venti e maree, di resistere di fronte alla pressione deleteria che l'ideologia della classe nemica fa pesare sulle loro teste. E' per questo che la constatazione del successo che ha coronato la lotta della nostra organizzazione nel corso di questo ultimo periodo non ci ha portato a nessun trionfalismo:
"Questo non significa che la lotta che abbiamo condotto sia finita. (...) La CCI dovrà continuarla attraverso una vigilanza in ogni istante, la determinazione ad identificare ogni debolezza e ad affrontarla senza attendere. (...) In realtà la storia del movimento operaio, ivi compresa quella della CCI, esige, ed il dibattito l'ha ampiamente confermato, che la lotta per la difesa dell'organizzazione sia permanente, senza sosta. In particolare la CCI deve avere in mente che la lotta fatta dai bolscevichi per lo spirito di partito contro lo spirito di circolo è proseguita per lunghi anni. Sarà lo stesso per la nostra organizzazione che dovrà essere vigile per affrontare ed eliminare ogni demoralizzazione, ogni sentimento di impotenza derivante dalla lunghezza della lotta." (ibidem, punto 13)
Prima di concludere questa parte sulle questioni di organizzazione che sono state discusse al congresso è importante precisare che le discussioni fatte dalla CCI per un anno e mezzo non hanno dato luogo ad alcuna scissione (contrariamente a quello che era accaduto, per esempio, al 6° Congresso o nel 1981). Ciò è dovuto anche al fatto che l'organizzazione da subito si è ritrovata d'accordo con il quadro teorico che era stato dato per la comprensione delle difficoltà che aveva. L'assenza di divergenze su questo quadro ha permesso il fatto che non si cristallizzasse una qualche "tendenza" o anche una qualche "minoranza" che teorizzasse le proprie particolarità. In gran parte le discussioni vertevano su come concretizzare questo quadro nel funzionamento quotidiano della CCI, avendo costantemente la preoccupazione di legare queste concretizzazioni all'esperienza storica del movimento operaio. Il fatto che non ci sono state scissioni è una testimonianza della forza della CCI, della sua maggiore maturità, della volontà dimostrata dalla grande maggioranza dei suoi militanti di condurre in modo risoluto la lotta per la sua difesa, per risanare il suo tessuto organizzativo, per superare lo spirito di circolo e tutte le concezioni anarchiche che considerano l'organizzazione come una somma di individui o di piccoli gruppi affini.
Le prospettive della situazione internazionale
Evidentemente l'organizzazione comunista non esiste per sé stessa. Essa non è spettatrice ma protagonista delle lotte della classe operaia e la sua difesa intransigente significa giustamente permetterle di conservare il suo ruolo. E' con questo obiettivo che il Congresso ha consacrato una parte del suo dibattito all'esame della situazione internazionale. Esso ha discusso ed approvato differenti rapporti su questa questione così come una risoluzione che ne fa la sintesi e che è pubblicata in questo stesso numero della Rivista Internazionale. Non ci estenderemo quindi su questo aspetto dei lavori del congresso. Ci contentiamo qui di evocare, brevemente, l'ultimo dei tre aspetti della situazione internazionale (evoluzione della crisi economica, conflitti imperialisti e rapporti di forza tra le classi) che sono stati affrontati al congresso.
Questa risoluzione l'afferma chiaramente:
"Più che mai la lotta del proletariato rappresenta la sola speranza per l’avvenire della società umana." (punto 14)
Tuttavia il Congresso ha confermato ciò che la CCI aveva annunciato nell'autunno del 1989:
"Questa lotta, che era risorta con vigore alla fine degli anni '60 ponendo fine alla peggiore contro-rivoluzione che ha conosciuto la classe operaia, ha subito un riflusso considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l'hanno accompagnato e l'insieme degli avvenimenti che sono seguiti (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, ecc.)" (ibidem)
Ed è principalmente per questa ragione che oggi:
"E' in modo sinuoso, con degli avanzamenti e dei passi indietro, in un movimento a zig-zag che si sviluppano le lotte operaie." (ibidem)
Tuttavia la borghesia sa molto bene che l'aggravamento degli attacchi contro la classe operaia non potrà che dare impulso a nuove lotte sempre più coscienti. E si prepara sviluppando tutta una serie di manovre sindacali e al tempo stesso dando incarico ai suoi agenti di rinnovarsi con discorsi che incensano la "rivoluzione", il "comunismo" o il "marxismo". E' perciò che:
"Tocca ai rivoluzionari, nel loro intervento, denunciare col maggior vigore possibile sia le manovre vergognose dei sindacati che questi presunti discorsi "rivoluzionari". Tocca a loro mettere in avanti la vera prospettiva della rivoluzione proletaria e del comunismo come unica uscita che può salvare l'umanità e come risultato ultimo delle lotte operaie." (punto 17).
Dopo aver ricostituito e riunito le sue forze la CCI è di nuovo pronta, dopo il suo 11° Congresso, ad assumere questa responsabilità.
CCI.
1. Germania, Belgio, Stati Uniti, Spagna, Francia, Gran Bretagna, India, Italia, Messico, Paesi Bassi, Svezia, Venezuela.
2. Era anche previsto un punto sull'esame del campo politico proletario che costituisce una preoccupazione permanente della nostra organizzazione. Per mancanza di tempo abbiamo dovuto sopprimerlo, ma questo non significa affatto un allentamento della nostra attenzione su questa questione. Al contrario, superate le nostre difficoltà organizzative possiamo apportare il nostro migliore contributo allo sviluppo dell'insieme del campo proletario.
3. "Dato che le sezioni della classe operaia nei differenti paesi si trovano in condizioni differenti di sviluppo, necessariamente anche le loro opinioni teoriche, che riflettono il movimento reale, sono divergenti. Tuttavia la comunità d'azione stabilita dall'Associazione Internazionale dei lavoratori, lo scambio di idee facilitate dalla propaganda fatta dagli organi delle differenti sezioni nazionali, infine le discussioni dirette ai congressi generali, non mancheranno di far uscire gradualmente un programma teorico comune." (Risposta del Consiglio generale alla domanda di adesione dell'Alleanza, 9 marzo 1869). Bisogna notare che l'Alleanza aveva fatto una prima domanda di adesione con degli statuti dove era previsto che essa di dotava di una struttura internazionale parallela a quella dell'AIT (con un comitato centrale e la tenuta di congressi separati da quelli dell'AIT). Il Consiglio generale aveva rifiutato questa domanda facendo valere il fatto che gli statuti dell'Alleanza erano in contraddizione con quelli dell'AIT. Essa aveva precisato che era pronta ad ammettere le differenti sezioni dell'Alleanza se questa avesse rinunciato alla sua struttura internazionale. L'Alleanza aveva accettato questa condizione ma aveva mantenuto la sua struttura in conformità ai propri statuti segreti.
4. In un "Appello agli ufficiali dell'esercito russo", Bakunin vanta i meriti dell'organizzazione segreta "che trova la sua forza nella disciplina, nella devozione e l'abnegazione appassionata dei suoi membri e nell'obbedienza cieca ad un Comitato unico che conosce tutto e non è conosciuto da nessuno."
5 Gli anarchici sono per l'abolizione immediata dello Stato sin dall'indomani della rivoluzione. E' una differenza di principio: il marxismo ha messo in evidenza che lo Stato si manterrà, sotto delle forme evidentemente diverse da quelle dello Stato capitalista, fino alla scomparsa completa delle classi sociali.
6. Vedi gli articoli "La crisi del campo proletario", "Rapporto sulla struttura ed il funzionamento dell'organizzazione dei rivoluzionari e "Presentazione del 5° Congresso della CCI" nei numeri 28, 33 e 35 della Révue Internationale.
7. Chénier, sfruttando la mancanza di vigilanza della nostra organizzazione, era divenuto membro della nostra sezione in Francia nel 1978. A partire dal 1980 aveva iniziato tutto un lavoro sotterraneo tendente alla distruzione della nostra organizzazione. Per fare questo aveva sfruttato molto abilmente sia la mancanza di rigore organizzativo della CCI che le tensioni esistenti nella sezione in Gran Bretagna. Questa situazione aveva portato alla formazione di due clan antagonisti in questa sezione, bloccando il suo lavoro e conducendo alla perdita della metà di questa ed anche alla perdita di molti militanti in altre sezioni. Chénier fu escluso dalla CCI nel settembre 1981 e noi abbiamo pubblicato nella stampa un comunicato che metteva in guardia il campo politico proletario contro questo elemento "torbido e losco". Poco dopo Chénier ha iniziato una carriera nel sindacalismo, il Partito Socialista e l'apparato dello Stato per il quale lavorava, molto probabilmente, già da lungo tempo.
Secondo la storia ufficiale nel 1949, in Cina avrebbe trionfato una "rivoluzione popolare". Questa idea, diffusa tanto dalla democrazia occidentale, che dal maoismo, fa parte della mostruosa mistificazione mesa in atto con la controrivoluzione staliniana sulla sedicente creazione degli "stati socialisti". E' vero che la Cina, dal 1919 al 1927 ha conosciuto un imponente movimento della classe operaia, parte integrante dell'ondata rivoluzionaria internazionale che ha scosso il mondo capitalista in quegli anni; questo movimento però si concluse con un massacro della classe operaia. Per contro, ciò che gli ideologi della borghesia presentano come il "trionfo della rivoluzione cinese" non è altro che l'instaurazione di un capitalismo di Stato nella sua variante maoista, il culmine del periodo di conflitti imperialisti in territorio cinese, periodo aperto dal 1928, dopo la disfatta della rivoluzione proletaria.
In questo articolo esporremo le condizioni nelle quali è sorta la rivoluzione proletaria in Cina, traendo alcune delle principali lezioni. Tralasceremo, per il momento, l’analisi del periodo dei conflitti imperialisti, durante i quali è apparso il maoismo, e la denuncia degli aspetti fondamentali di questa forma di ideologia borghese.
La III Internazionale e la rivoluzione in Cina
L'evoluzione dell'Internazionale Comunista e la sua azione in Cina hanno avuto un ruolo cruciale nel corso della rivoluzione in questo paese. L'IC rappresenta il più grande sforzo realizzato fino a quel momento dalla classe operaia per dotarsi di un partito mondiale capace di guidare la sua lotta rivoluzionaria. Però la sua tardiva formazione nel corso stesso dell'ondata rivoluzionaria mondiale, senza avere avuto in anticipo il tempo sufficiente per consolidarsi organicamente e politicamente, l'ha condotta , malgrado la resistenza delle sue frazioni di sinistra (1), verso una deriva opportunista. In effetti di fronte al riflusso della rivoluzione e all'isolamento della Russia sovietica, il Partito bolscevico - il più influente in seno all'Internazionale - ha cominciato ad esitare fra la necessità di sistemare le basi per una nuova crescita rivoluzionaria in futuro, anche a prezzo di sacrificare il trionfo in Russia, e quella di difendere lo Stato russo sorto dalla rivoluzione , a prezzo di accordi e di alleanze concluse con le borghesie nazionali. Questi accordi e queste alleanze hanno rappresentato un'enorme fonte di confusione per il proletariato internazionale e hanno contribuito ad accelerare la sua disfatta in numerosi paesi. La deriva opportunista dell'IC, l'abbandono degli interessi storici della classe operaia a favore di una politica di collaborazione fra le classi l'hanno condotta ad una progressiva degenerazione che nel 1928 è culminata con l'abbandono dell'internazionalismo proletario in nome della pretesa "difesa del socialismo in un solo paese".(2)
La perdita di fiducia nella classe operaia ha condotto progressivamente l'IC, diventata sempre di più uno strumento del governo russo, a voler creare una barriera di protezione contro la penetrazione delle grandi potenze imperialiste con l'appoggio alle borghesie dei "paesi oppressi" dell'Europa Orientale, del Medio ed Estremo Oriente. Questa politica si è dimostrata disastrosa per la classe operaia internazionale: In effetti , per tutto il periodo in cui l'IC ed il governo russo sostenevano politicamente e materialmente le borghesie nazionaliste presunte "rivoluzionarie" della Turchia, della Persia, della Palestina, dell'Afghanistan .. e infine della Cina, queste stesse borghesie, che ipocritamente accettavano l'aiuto sovietico senza rompere i loro legami con le potenze imperialiste né con la nobiltà fondiaria che pretendevano di combattere, schiacciavano le lotte operaie e annientavano le organizzazioni comuniste con le stesse armi che forniva loro la Russia. Ideologicamente, questo abbandono delle posizioni proletarie trovava la sua giustificazione nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del 2° Congresso dell'IC (alla cui redazione Lenin e Roy ebbero un ruolo importante). Queste tesi contengono sicuramente un'ambiguità teorica di principio operando una falsa distinzione fra borghesie "imperialiste" e "antimperialiste", cosa che avrebbe aperto la strada a più grandi errori politici. Di fatto, a quell'epoca, la borghesia cessava di essere rivoluzionaria e aveva assunto in ogni parte un carattere imperialista, compresi i "paesi oppressi": non solo attraverso i numerosi legami con l'una o l'altra delle grandi potenze imperialistiche, ma anche perché a partire dalla presa del potere della classe operaia in Russia, la borghesia internazionale aveva formato un fronte comune contro ogni movimento di massa. Il capitalismo era entrato nella sua fase di decadenza e l'apertura dell'epoca della rivoluzione proletaria aveva definitivamente chiuso l'era delle rivoluzioni borghesi.
Le Tesi, malgrado questo errore, erano state però capaci di impedire certi scivolamenti opportunisti che, sfortunatamente, si sarebbero generalizzati poco tempo dopo. Il rapporto presentato da Lenin riconosceva che, nel nuovo periodo, "un certo avvicinamento si verifica fra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi coloniali, in maniera tale che molto frequentemente la borghesia dei paesi oppressi, pur appoggiando i movimenti nazionali, è al tempo stesso in accordo con la borghesia imperialista, cioè essa lotta con questa contro i movimenti rivoluzionari" (3). E' per questo che le Tesi chiamano ad appoggiarsi essenzialmente sui contadini e insistevano sulla necessità per le organizzazioni comuniste di mantenere la loro indipendenza organica e di principio di fronte alla borghesia: "L'Internazionale Comunista deve sostenere i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati solo a condizione che gli elementi dei più puri partiti comunisti - e comunisti nei fatti - siano raggruppati e istruiti sui loro compiti particolari, cioè del compito di combattere il movimento borghese e democratico (...) conservando sempre il carattere indipendente del movimento proletario anche nella sua forma embrionale" (4). Ma il sostegno incondizionato, ignominioso dell'IC al Kuomintang in Cina avrebbe dimostrato che tutto questo sarebbe stato dimenticato: tanto per il fatto che la borghesia nazionale non era più rivoluzionaria e si trovava strettamente legata alle potenze imperialiste, quanto in rapporto alla necessità di forgiare un partito comunista in grado di lottare contro la democrazia borghese e di mantenere l'indispensabile indipendenza del movimento della classe operaia.
La "Rivoluzione" del 1911 e il Kuomintang
Lo sviluppo della borghesia cinese e il suo movimento politico durante i primi decenni del 20° secolo, lungi dal mostrare presunti aspetti "rivoluzionari", ci dà piuttosto l'illustrazione dell'estinzione del carattere rivoluzionario della borghesia e della trasformazione dell'ideale nazionale e democratico in pura mistificazione, nel momento in cui il capitale entra nella fase di decadenza. L'insieme dei fatti ci mostra non una classe rivoluzionaria ma una classe conservatrice, conciliante, il cui movimento politico non tendeva né a espellere completamente la nobiltà né a rigettare gli "imperialisti", ma piuttosto a crearsi uno spazio al loro fianco.
Gli storici sono soliti sottolineare le differenze di interessi che sarebbero esistite fra le differenti frazioni della borghesia cinese. Così, in genere, è d’uso identificare la frazione speculatrice e commerciale come alleata della nobiltà e degli "imperialisti", mentre la borghesia industriale e l'intelligentsia costituirebbero la frazione "nazionalista", "moderna", "rivoluzionaria". In realtà queste differenze non erano così marcate; non solo perché queste frazioni erano intimamente legate, per questioni d’affari o per legami familiari, ma soprattutto perché gli atteggiamenti, tanto della frazione commerciale che di quella industriale e dell'intelligentsia, non erano molto differenti: tutte cercavano in permanenza l'appoggio dei "signori della guerra", legati alla nobiltà fondiaria, e quello dei governi delle grandi potenze.
Verso il 1911, la dinastia manciù era già completamete in putrefazione e sul punto di cadere. E questo non era il prodotto di una qualunque azione rivoluzionaria della borghesia nazionale, ma la conseguenza della divisione della Cina fra le grandi potenze imperialiste che aveva condotto alla divisione del vecchio impero. La Cina tendeva a restare sempre più divisa in regioni controllate da militaristi in possesso di eserciti mercenari più o meno potenti, sempre pronti a vendersi al migliore offerente e dietro i quali si trovava l'una o l'altra grande potenza. La borghesia, da parte sua, si sentiva chiamata a prendere il posto della dinastia in quanto elemento unificatore del paese, ma non allo scopo di spezzare il modo di produzione nel quale si mescolavano gli interessi dei proprietari fondiari con i suoi propri, ma piuttosto con lo scopo di mantenerli. E' in questo quadro che si sono svolti gli avvenimenti che partono da quella che viene chiamata la "Rivoluzione del 1911" fino al "Movimento del 4 maggio 1919".
La "Rivoluzione del 1911" iniziò con una cospirazione di militari conservatori sostenuti dall'organizzazione borghese nazionalista di Sun Yat-sen, la Tung Meng-hui. I militaristi conservatori rinnegarono l'imperatore e proclamarono un nuovo regime a Wu-Ciang. Sun Yat-sen, che si trovava negli Stati Uniti alla ricerca di un sostegno finanziario per la sua organizzazione, fu chiamato ad occupare la presidenza di un nuovo governo. Iniziarono negoziati fra i due governi e, in capo ad alcune settimane, si decise la rinuncia contemporanea dell'imperatore e di Sun Yat-sen in cambio di un governo unificato con a capo Yuan Che-kai che era il capo delle truppe imperiali, il vero uomo forte della dinastia. Tutto questo significava che la borghesia lasciava da parte le sue pretese "rivoluzionarie" e "antimperialiste" in cambio del mantenimento dell'unità del paese.
Alla fine del 1912 si forma il Kuomintang, nuova organizzazione di Sun Yat-sen, rappresentante di questa borghesia. Nel 1913, il Kuomintang partecipa alle elezioni presidenziali ristrette alle classi sociali possidenti, dalle quali esce vincitore. Il nuovo presidente Sun Ciao-yen viene assassinato e Sun Yan-sen tenta di formare un nuovo governo alleandosi con alcuni militaristi secessionisti del centro sud del paese, ma è sconfitto dalle forze di Pechino.
Come si può vedere, le velleità nazionaliste della borghesia cinese erano sottomesse ai voleri dei signori della guerra e, conseguentemente, a quelli delle grandi potenze. Lo scoppio della prima guerra mondiale assoggettò maggiormente il movimento politico della borghesia cinese al gioco degli interessi imperialisti. Nel 1915 parecchie province divennero "indipendenti", i signori della guerra si suddivisero il paese, sostenuti dall'una o dall'altra grande potenza. Nel nord, il governo di Anfu - sostenuto dal Giappone - disputava il posto a quello di Chili - sostenuto dalla Gran Bretagna e dagli USA -. Da parte sua la Russia zarista tentava di fare della Mongolia un protettorato. Ci si disputava anche il sud. Sun Yat-sen realizzò nuove alleanze con alcuni signori della guerra. La morte dell'uomo forte di Pechino acuì ancora di più le lotte fra i militaristi.
E' in questo contesto, alla fine della guerra in Europa , che nacque in Cina il "Movimento del 4 maggio 1919", tanto vantato dagli ideologi come un “movimento autenticamente antimperialista”. In realtà, questo movimento della piccola borghesia non era diretto contro l'imperialismo in generale, ma piuttosto contro il Giappone in particolare: in effetti, questo, durante la Conferenza di Versailles (quella in cui i paesi democratici vincitori si spartirono il mondo), era riuscito ad ottenere la provincia cinese di Ciang-Tong, cosa a cui gli studenti cinesi si opponevano. Tuttavia occorre notare che l'obiettivo di non cedere dei territori cinesi al Giappone corrispondeva proprio agli interessi di un'altra potenza rivale, gli Stati Uniti che, nel 1922, arrivarono a "liberare" le province di Cian-Tong dalla dominazione esclusivamente giapponese. Indipendentemente dall'ideologia radicale del movimento del 4 maggio, questo resta ugualmente nel quadro dei conflitti imperialisti. Né poteva essere diversamente.
Per contro, occorre sottolineare che durante il movimento del 4 maggio, in un senso differente, la classe operaia fece la sua prima apparizione nelle manifestazioni, scandendo non solo le parole d'ordine nazionaliste del movimento, ma anche proprie rivendicazioni di classe.
La fine della guerra in Europa non aveva messo fine né alle guerre fra i militaristi, né alle contese fra le grandi potenze per la spartizione della Cina. Tuttavia, a poco a poco, prendono forma due governi più o meno instabili: uno nel nord con sede a Pechino, agli ordini del militarista Wu Pei-fu; l'altro nel sud con sede a Canton con Sun Yat-sen e il Kuomintang alla testa. La storia ufficiale presenta il governo del nord come espressione delle forze "reazionarie", della nobiltà e degli imperialisti e il governo del sud come espressione delle forze nazionaliste e "rivoluzionarie", cioè la borghesia, la piccola borghesia e i lavoratori. Si tratta di una scandalosa mistificazione.
In realtà Sun Yat-sen e il Kuomintang sono sempre stati sostenuti dai signori della guerra del sud : nel 1922 Cien Ciung-ming, che aveva occupato Canton, aveva invitato Sun Yat-sen a formare un altro governo. Nel 1922 Sun Yat-sen seguendo la tendenza dei militaristi del sud, tentò, per la prima volta, di avanzare verso il nord; sconfitto fu espulso dal governo ma, nel 1923, ritornò a Canton con l'appoggio dei militaristi. D'altra parte si parla molto dell'alleanza del Kuomintang con l'URSS. In realtà questa intratteneva relazioni e alleanze con tutti i governi proclamati della Cina, compresi quelli del nord. Fu la svolta definitiva del nord verso il Giappone ad obbligare l'URSS a privilegiare le relazioni con il governo di Sun Yat-sen, il quale, d'altra parte, non abbandonò mai il gioco consistente nel chiedere aiuto a diverse potenze imperialiste. Così nel 1925, poco prima della sua morte e mentre andava al nord per negoziare, Sun Yat-sen, passò per il Giappone alla ricerca di un appoggio per il suo governo.
E' questo partito, il Kuomintang, rappresentante della borghesia nazionale (commerciale, industriale e intellettuale), integrato nel gioco delle grandi potenze imperialistiche e dei signori della guerra, che l'Internazionale Comunista arrivò a dichiarare "partito simpatizzante". E' a questo partito che dovranno sottomettersi giorno dopo giorno i comunisti in Cina a nome della "rivoluzione nazionale" e fare, per lui, i "coolies" (5).
Il Partito Comunista di Cina al crocevia
La storia ufficiale presenta la nascita del Partito Comunista in Cina come un sottoprodotto del movimento dell'intellettualità borghese degli inizi del secolo. Il marxismo sarebbe stato importato dall'Europa fra altre "filosofie" occcidentali e la formazione del partito comunista avrebbe fatto parte della nascita di molte altre organizzazioni letterarie, filosofiche e politiche di quell'epoca. Con questo genere di idee gli storici borghesi creano un ponte fra il movimento politico della borghesia e quello della classe operaia per dare, infine, alla formazione del partito comunista un significato specificamente nazionale. In realtà la nascita del Partito Comunista in Cina - come in molti altri paesi all'epoca - non è fondalmentalmente legato allo sviluppo dell'intelligentsia cinese ma all'avanzata del movimento rivoluzionario internazionale della classe operaia.
Il Partito Comunista di Cina (PCC) fu creato nel 1920-21 a partire da piccoli gruppi marxisti, anarchici e socialisti che simpatizzavano per la Russia sovietica. Come tanti altri partiti il PCC nacque direttamente in quanto componente dell'IC e la sua crescita era legata allo sviluppo delle lotte operaie che non mancarono di sorgere secondo l'esempio dei movimenti insurrezionali in Russia e in Europa Occidentale. E' così che da poche decine di militanti nel 1921, il partito si svilupperà in pochi anni per contarne un migliaio; durante l'ondata degli scioperi del 1925, raggiunse 4.000 membri e al culmine del periodo insurrezionale del 1927, ne contava circa 60.000. Questo rapido accrescimento numerico esprime, in una certa maniera, la volontà rivoluzionaria che animava la classe operaia cinese durante il periodo dal 1919 al 1927 (in quel periodo la maggior parte dei militanti erano operai di grandi citta industriali). Occorre, però, dire che l'accrescimento numerico non corrispondeva ad un equivalente rafforzamento del partito. L'ammissione affrettata di militanti contraddiceva la tradizione del partito bolscevico di formare una organizzazione solida, ben temprata dell'avanguardia della classe operaia piuttosto che un'organizzazione di massa. Ma la cosa peggiore fu l'adozione, al 2° congresso, di una politica opportunista della quale non sarebbe più riuscito a disfarsi.
Verso la metà del 1922, su richiesta dell'Esecutivo dell'IC, il PCC lancia la sventurata parola d'ordine del "fronte unico antimperialista con il Kuomintang" e dell'adesione individuale dei comunisti a quest'ultimo. Questa politica di collaborazione di classe (che cominciò ad estendersi in Asia a partire dalla Conferenza dei popoli d'Oriente del gennaio 1922) era il risultato di negoziati, iniziati segretamente, fra l'URSS e il Kuomintang. Nel giugno 1923 (3° Congresso del PCC) viene votata la politica di adesione dei membri del partito al KMT. Il KMT stesso viene ammesso nell'IC nel 1926 come organizzazione simpatizzante e partecipa al 7° Plenum mentre l'Opposizione Unificata (Trotsky, Zinovev, ...) non viene autorizzata a parteciparvi. Nel 1926, mentre il Kuomintang prepara il colpo finale contro la classe operaia, a Mosca si elaborava l'infame teoria secondo la quale il Kuomintang era un "blocco antimperialista comprendente quattro classi" (il proletariato, i contadini, la piccola borghesia e la borghesia).
Questa politica ebbe le più funeste conseguenze sul movimento della classe operaia cinese. Mentre si sviluppava spontaneamente e impetuosamente il movimento di scioperi e di manifestazioni, il PCC, annegato nel KMT, si dimostrava incapace di orientare la classe operaia e di dare prova di una politica di classe indipendente. La classe operaia, a sua volta sprovvista di organizzazioni unitarie finalizzate alla lotta politica come i consigli operai, si mise nelle mani del KMT - su richiesta del PCC stesso - accordando cioè la fiducia alla borghesia.
E' però certo che la politica opportunista di subordinazione al KMT ha incontrato, fin dall'inizio, una costante resistenza in seno al PCC (come fu il caso della corrente rappresentata da Chen Tu-hsiu). Già al 2° Congresso si era alzata una opposizione contro le tesi difese dal delegato dell'IC Sneevliet, secondo le quali il KMT non sarebbe stato un partito borghese ma un fronte di classe al quale il PCC avrebbe dovuto sottomettersi. Durante tutto il periodo di unità col KMT, in seno al PCC non sono mancate voci che denunciavano i preparativi antiproletari di Ciang Kai-scek, domandando ad esempio che le armi fornite dalla Russia fossero destinate all'armamento degli operi e dei contadini piuttosto che andare a rafforzare l'esercito di Ciang Kai-scek come stava accadendo, affermando infine le necessità di uscire dalla trappola che il KMT costituiva per la classe operaia: "La rivoluzione cinese ha due vie possibili: una è quella che può tracciare il proletariato e attraverso la quale noi potremo raggiungere i nostri obiettivi rivoluzionari; l'altra è quella della borghesia e quest'ultima tradirà la rivoluzione nel corso del suo sviluppo". (6)
Tuttavia fu impossibile per un partito giovane e senza esperienza superare le direttive erronee dell'Esecutivo dell'IC ed esso vi ricadde dentro. Il risultato fu che, mentre il proletariato si impegnava in una lotta contro le frazioni delle classi possidenti avversarie al KMT, questo gli stava preparando la pugnalata alla schiena: cosa che la classe operaia non poté impedire in quanto il suo partito non l'aveva prevenuta. E se è vero che in Cina la rivoluzione aveva poche possibilità di trionfare - in effetti a livello internazionale la spina dorsale della rivoluzione mondiale, il proletariato tedesco, era spezzata dopo il 1919 - l'opportunismo della III Internazionale precipitò la disfatta.
La classe operaia si solleva
Il maoismo ha preso a pretesto la debolezza della classe operaia in Cina per giustificare lo spostamento del PCC verso le campagne a partire dal 1927. Certo, la classe operaia in Cina, a partire dall'inizio del secolo era numericamente molto piccola rispetto ai contadini (in proporzione di 2 a 100), ma il suo peso politico non seguiva le stesse proporzioni.
Da una parte c'erano già circa 2 milioni di operai urbani altamente concentrati nel bacino del fiume Yang-Tse - con la città costiera di Shangai e la zona industriale di Wu-Han (con la triplice città di Han-Keu, Wu-Ciang, Han-Yang) -, nel complesso Canton-Hong-Kong e nelle miniere della provincia di Yunnan (senza contare i 10 milioni di artigiani più o meno proletarizzati che popolavano le città). Questa concentrazione dava alla classe operaia una forza straordinaria, in grado di paralizzare e prendere in mano i centri vitali della produzione capitalista. Di più, nelle province del sud (soprattutto a Kuang-Tong) esisteva un contadiname strettamente legato agli operai: in effetti esso era il serbatoio di forza lavoro per le città industriali e poteva costituire una forza d'appoggio per il proletariato urbano.
D'altra parte sarebbe erroneo considerare la forza della classe operaia in Cina basandosi esclusivamente sul suo peso numerico in rapporto alle altre classi del paese. Il proletariato è una classe storica che trae la sua forza nella sua esistenza mondiale e l'esempio della rivoluzione cinese ne è una prova concreta. Il movimento degli scioperi non aveva il suo epicentro in Cina, ma in Europa, era una manifestazione dell'onda di espansione della rivoluzione mondiale. Gli operai cinesi, come quelli di altre parti del mondo, si lanciavano nella lotta di fronte all'eco della rivoluzione trionfante in Russia e ai tentativi insurrezionali in Germania e in altri paesi dell'Europa.
All'inizio, dato che la maggior parte delle fabbriche cinesi erano di origine straniera, gli scioperi avevano una vernice xenofoba e la borghesia nazionale pensava di servirsene come una strumento di pressione. Però il movimento degli scioperi prenderà sempre di più un deciso carattere di classe, contro la borghesia in generale, sia essa nazionale o straniera. Gli scioperi rivendicativi si succedono in maniera crescente a partire dal 1919 malgrado la repressione (non era raro che degli operai fossero decapitati o bruciati nelle caldaie delle locomotive). Verso la metà del 1921, scoppia uno sciopero fra i tessili di Hu-Nan. All'inizio del 1922, uno sciopero di marinai di Hong-Kong prosegue per tre mesi fino al soddisfacimneto delle rivendicazioni. Nei primi mesi del 1923 scoppia un'ondata di centinaia di scioperi ai quali prendono parte più di 300.000 operai; in febbraio il militarista Wu Pei-fu ordina la repressione dello sciopero delle ferrovie nel corso del quale 35 operai vengono assassinati e numerosi altri feriti. Nel giugno 1924 scoppia uno sciopero generale a Canton - Hong-Kong che durerà tre mesi. Nel gennaio 1925 scendono in sciopero gli operai del cotone di Shanghai: è il preludio del gigantesco movimento di scioperi che avrebbero percorso tutta la Cina durante l'estate del 1925.
Il movimento del 30 maggio
Nel 1925, la Russia sosteneva fermamente il governo di Canton del KMT. L'alleanza fra l'URSS e il KMT era già stata dichiarata apertamente dal 1923; una delegazione militare del KMT comandata da Ciang-Kai scek si era recata a Mosca e, nello stesso tempo, una delegazione dell'IC dava al KMT degli statuti e una struttura organizzativa e militare. Nel 1924, il 1° congresso ufficiale del KMT approvò l'alleanza e, in maggio, viene creata l'Accademia Militare di Whampoa con armi e consiglieri militari sovietici diretta da Ciang-Kai scek. Nei fatti, ciò che faceva il governo russo era formare un esercito moderno al servizio della frazione della borghesia raggruppata attorno al KMT, cosa che le era fino ad allora mancato. Nel marzo 1925, Sun Yat-sen va a Pechino (l'URSS contnuava a mantenere relazioni anche col governo di Pechino) per cercare di costruire un'alleanza mirante ad unificare il paese ma muore di malattia prima di avere raggiunto il suo scopo.
E' in questo contesto di alleanza idilliaca che sorge, con tutte le sue forze, il movimento della classe operaia ricordando alla borghesia del KMT e agli opportunisti dell'IC l'esistenza della lotta di classe.
All'inizio del 1925 inizia a lievitare un'ondata di agitazioni e di scioperi. Il 30 maggio la polizia inglese di Shanghai apre il fuoco su una manifestazione di studenti e di operai: 12 morti. Fu il detonatore di uno sciopero generale a Shanghai che iniziò a estendersi rapidamente ai principali porti commerciali del paese. Il 19 giugno scoppia uno sciopero generale a Canton; quattro giorni più tardi le truppe britanniche della concessione britannica di Shameen (nei pressi di Canton) aprirono il fuoco contro un'altra manifestazione. In risposta gli operai di Hong-Kong si misero in sciopero e il movimento si estese arrivando fino alla lontana Pechino dove, il 30 luglio, ebbe luogo una manifestazione di circa 200.000 lavoratori, e rafforzando l'agitazione contadina nella provincia di Kuang-Tong.
A Shanghai gli scioperi durarono tre mesi, a Canton scoppiò uno sciopero con boicottaggio che finì ad ottobre dell'anno seguente. In quel momento cominciarono a crearsi milizie operaie: migliaia di operai raggiusero i ranghi del Partito comunista. La classe operaia cinese si mostrava per la prima volta come forza realmente in grado di minacciare il regime capitalistico nel suo insieme.
Malgrado il fatto che il movimento del 30 maggio ebbe come conseguenza diretta il consolidamento e l'estensione nel Sud del potere del governo di Canton, questo stesso movimento svegliò l'istinto di classe della borghesia nazionalista raggruppata nel KMT e che fino ad allora aveva "lasciato fare" gli scioperanti fintanto essi indirizzavano le loro lotte contro le fabbriche e le concessioni straniere. Gli scioperi dell'estate del 1925 avevano preso un carattere antiborghese senza "rispettare" i capitalisti nazionali. Così la borghesia nazionalista e "rivoluzionaria" con alla testa il KMT (sostenuto dalle grandi potenze e con l'appoggio cieco di Mosca) si lanciò rabbiosamente prima di tutto nella lotta con quello che aveva identificato come il suo nemico mortale: il proletariato.
Il colpo di forza e la spedizione al nord di Ciang Kai-scek
Fra gli ultimi mesi del 1925 e i primi del 1926 si svolge quella che gli storici sono soliti chiamare la "polarizzazione tra la sinistra e la destra del KMT", quella che secondo loro avrebbe comportato il frazionamento della borghesia in due parti: una fedele al nazionalismo, l'altra che si sarebbe voltata verso un'alleanza con l'imperialismo. Abbiamo, però, già visto che anche le frazioni della borghesia più "antimperialiste" non cessarono mai le loro relazioni con gli imperialisti. Ciò che stava accadendo, in realtà, non era il fatto che la borghesia si frazionasse, ma che si preparava ad affrontare la classe operaia sbarazzandosi degli elementi che davano fastidio in seno al KMT (i militanti comunisti, una parte della piccola borghesia e qualche generale fedele all'URSS). Così, dunque, il KMT, sentendosi sufficientemente forte politicamente e militarmente, si toglieva la maschera del "blocco delle classi" e appariva per ciò che era sempre stato: il partito della borghesia.
Alla fine del 1925, il capo della "sinistra", Liao Cing-hai fu assassinato e cominciarono le persecuzioni contro i comunisti. Questo fatto costituì il preludio del colpo di forza di Ciang Kai-scek, divenuto l'uomo forte del KMT, che segnò l'inizio della reazione della borghesia contro il proletariato. Il 20 marzo, Ciang Kai-scek alla testa dei cadetti dell'Accademia di Whampoa, proclama la legge marziale a Canton, chiude i locali delle organizzazioni operaie, disarma i picchetti di sciopero e fa arrestare numerosi militanti comunisti. Nei mesi seguenti, i comunisti saranno espulsi da tutti i posti di responsabilità del Kuomintang..
L'Esecutivo dell'Internazionale, sotto il tallone di Bucharin e di Stalin, rimane "cieco" di fronte alla reazione del KMT e, malgrado l'opposizione insistente di una parte del PCC, dà l'ordine di mantenere l'alleanza, nascondendo gli avvenimenti ai membri dell'Internazionale e dei PC (7). Rassicurato, Ciang Kai-scek esige dall'URSS un sostegno militare nella spedizione verso il nord che comincia nel luglio 1926.
Come tante altre azioni della borghesia, la spedizione nel nord è falsamente presentata dalla storia ufficiale come un "avvenimento rivoluzionario", come un tentativo per estendere il regime “rivoluzionario” e unificare la Cina. Ma le intenzioni del KMT di Ciang Kai-scek erano lungi dall’essere così altruiste. Il suo grande sogno (alla stessa stregua di altri militaristi) consisteva nell’appropriarsi del porto di Shangai e ottenere dalle grandi potenze l’amministrazione della sua ricca dogana. Per fare questo, esso poteva contare su uno strumento di pressione molto potente: la sua capacità di contenere e sottomettere il movimento operaio.
Fin dall’inizio della spedizione militare il Kuomintang decreta la legge marziale nelle zone già sotto il suo controllo. Così, nel momento stesso in cui i lavoratori del nord preparano con entusiasmo l’appoggio alle forze del Kuomintang, questo vietava formalmente gli scioperi operai nel sud.
In settembre una forza della sinistra del KMT prende Han-Keu, ma Ciang Kai-scek rifiuta di sostenerla e si stabilisce a Nanciang. In ottobre, viene dato l’ordine ai comunisti di frenare il movimento contadino nel sud e l’esercito mette fine allo sciopero-boicottaggio a Canton-Hong-Kong. Questo ultimo atto diede alle grandi potenze (in primo luogo alla Gran Bretagna) la prova più tangibile che l’avanzata verso il nord del Kuomintang non aveva nessuna pretesa antimperialista e, poco tempo dopo, cominciarono dei negoziati segreti con Ciang Kai-scek.
Alla fine del 1926, il bacino industriale del fiume Yang-Tzé ribolliva di agitazioni. In ottobre, il militarista Sia-ciao (che si era unito al Kuomintang) avanza verso Shangai, ma si ferma a qualche chilometro dalla città lasciando le truppe “nemiche” del nord (agli ordini di Sun Ciuan-fang) entrare per prime nella città e soffocare così un imminente sollevamento. Nel gennaio 1927, le masse lavoratrici occuparono con azioni spontanee le concessioni britanniche di Han-Keu (nella tripla città di Wu-Han) e di Jiujiang. Allora l’esercito del Kuomintang rallentò la sua avanzata per permettere, nella più pura tradizione degli eserciti reazionari, che i signori della guerra locali potessero reprimere il movimento operaio e contadino. Allo stesso tempo Ciang Kai-scek attacca pubblicamente i comunisti e il movimento contadino del Kuang-Tong (nel sud) è soffocato. Ecco lo scenario all’interno del quale si sviluppò il movimento insurrezionale di Shangai.
L’insurrezione di Shangai
Il movimento insurrezionale di Shangai è il punto culminante di un decennio di lotte costanti e crescenti della classe operaia. Esso costituisce il punto più elevato raggiunto dalla rivoluzione in Cina. Tuttavia le condizioni in cui esso maturava non potevano essere più sfavorevoli per la classe operaia. Il partito comunista si trovava legato mani e piedi, disarticolato, colpito e sottomesso dal Kuominang. La classe operaia, ingannata dalla mistificazione del blocco delle “quattro classi” non si era più dotata di organismi unitari, incaricati di centralizzare effettivamente la sua lotta, come i consigli operai (8). Durante questo periodo, le cannoniere delle potenze imperialiste erano puntate sulla città, e il Kuomintang stesso si avvicinava a Shangai, apparentemente brandendo la bandiera della “rivoluzione antimperialista”, ma con lo scopo vero di schiacciare gli operai. Solo la volontà rivoluzionaria e l’eroismo della classe operaia possono spiegare la sua capacità di impadronirsi in tali condizioni, anche se solo per qualche giorno, della città che rappresenta il cuore del capitalismo in Cina.
Nel febbraio 1927 il Kuomintang riprende la sua avanzata. Il 18 l’esercito nazionalista si trova a Chiaching, a 60 chilometri da Shangai. In questo momento, davanti alla sconfitta imminente di Sun Ciuan-fang, scoppia lo sciopero generale a Shangai:
“...il movimento del proletariato di Shangai, dal 19 al 24 febbraio, costituì oggettivamente un tentativo del proletariato di Shangai di assicurare la sua egemonia. Alle prime notizie della sconfitta di Sun Ciuan-fang, a Zejiang, l’atmosfera di Shangai divenne bollente e per due giorni scoppiò con la potenza di una forza naturale uno sciopero di 300.000 lavoratori che si trasformò irresistibilmente in insurrezione armata per ricadere rapidamente nel niente, per mancanza di direzione...” (9)
Il Partito comunista, preso di sorpresa, esistava a lanciare la parole d’ordine dell’insurrezione mentre questa si sviluppava già per le strade. Il 20 Ciang Kai-scek ordinò di colpo di sospendere l’attacco contro Shangai. Fu il segnale per le forze di Sun Ciuan-fang per scatenare la repressione nella quale decine di operai furono assassinati e che arrivò a contenere momentaneamente il movimento.
Durante le settimane seguenti Ciang Kai-scek manovrò abilmente per evitare di essere sostituito al comando dell’esercito e per far tacere le indiscrezioni su un’alleanza con la destra e le altre potenze, e sui preparativi antioperai.
Infine, il 21 marzo 1927 scoppia il tentativo insurrezionale finale. Quel giorno, viene proclamato uno sciopero generale a cui partecipano praticamente tutti gli operai di Shangai: 800.000 operai. “Tutto il proletariato era in sciopero, come pure la maggior parte della piccola borghesia (piccoli commercianti, artigiani, ecc.) (...) in una decina di minuti tutta la polizia fu disarmata. Alle due gli insorti possedevano già quasi 1.500 fucili. Immediatamente dopo le forze insorte si diressero verso i principali edifici governativi e si misero a disarmare le truppe. Seri combattimenti si svilupparono nel quartier generale di Tchapei... Finalmente, il secondo giorno dell’insurrezione, alle quattro del pomeriggio, il nemico (circa 3.000 soldati) era definitivamente sconfitto. A questo punto tutta Shangai (eccetto le concessioni e il quartiere internazionale) si trovava nelle mani degli insorti.” (10)
Questa azione, dopo la rivoluzione in Russia e i tentativi insurrezionali in Germania e in altri paesi europei, costituì una nuova scossa contro l'ordine capitalista mondiale. Essa mostrò tutto il potenziale rivoluzionario della classe operaia. La macchina repressiva della borghesia, però, era già in marcia ed il proletariato non era in grado di affrontarla.
La borghesia "rivuluzionaria" massacra il proletariato
Gli operai presero la città di Shanghai ... solo per aprirne le porte all'esercito nazionale "rivoluzionario" del KMT che finì per entrare nella città. Si era appena installato a Shanghai quando Ciang Kai-scek cominciò a preparare la repressione in accordo con la borghesia speculatrice e le bande mafiose della città. Iniziò così un ravvicinamento aperto con i rappresentanti delle grandi potenze e con i signori della guerra del nord. Il 6 aprile Cian Tso-lin (in accordo con Ciang Kai-scek) attaccò l'ambasciata russa a Pechino arrestando dei militanti del PCC che furono, in seguito, assassinati.
Il 12 aprile si scatenava a Shanghai la repressione massiccia preparata da Ciang Kai-scek: le bande del sottoproletariato delle società segrete, che avevano sempre avuto un grande ruolo nello spezzare gli scioperi, furono mandate contro gli operai. Le truppe del KMT - i pretesi "alleati" del proletariato - furono direttamente utilizzate per disarmare ed arrestare le milizie proletarie. Il giorno seguente il proletariato tentò di reagire mettendosi in sciopero, ma i contingenti dei manifestanti furono intercettati dalla truppa provocando numerose vittime. Immediatamente fu applicata la legge marziale e tutte le organizzazioni operaie proibite. In pochi giorni furono assassinati 5.000 operai, fra i quali numerosi militanti del PCC. Le retate e gli assassinii continuarono per mesi.
Simultaneamente, con una manovra congiunta, i militari del KMT che erano restati a Canton scatenarono un altro massacro, sterminando ulteriormente migliaia di operai.
La rivoluzione proletaria, annegata nel sangue degli operai di Shanghai e di Canton, resisteva ancora in maniera precaria a Wou-Han; però, ancora una volta, il KMT e in particolare la sua ala sinistra, si toglieva la maschera "rivoluzionaria" e, in luglio, raggiungeva i ranghi di Ciang Kai-scek scatenando anche là la repressione. Le orde militari si lanciarono al massacro e alla distruzione nelle campagne delle province del centro e del sud. I lavoratori furono assassinati a decine di migliaia in tutta la Cina.
L'Esecutivo dell'IC, tentando di mascherare la sua politica nefasta e criminale di collaborazione di classe, scaricò tutte le responsabilità sul PCC ed i suoi organi centrali e, in particolare, sulla corrente che, giustamente si era opposta a questa politica (la corrente di Chen Tu-hsiu). Per completare il lavoro, l' Esecutivo ordina al PCC di impegnarsi in una politica avventurista che termina con la cosiddetta "insurrezione di Canton". Questo assurdo tentativo di un colpo di forza “pianificato” non è seguito dal proletariato di Canton e finì solo col sottomettere definitivamente quest'ultimo alla repressione. Questo fatto segna definitivamente la fine del movimento operaio in Cina, di cui non si vedrà più nessuna espressione significativa durante i successivi quaranta anni.
La politica dell'IC verso la Cina, fu uno degli assi di denuncia dello stalinismo in crescita, che si trova all'origine dell'Opposizione di Sinistra, la corrente incarnata da Trotsky (nella quale lo stesso Chen Tu-hsiu finì per impegnarsi). Questa corrente confusa e tardiva di opposizione alla degenerazione dell'IC, benché si fosse mantenuta su un terreno di classe proletario a proposito della Cina - denunciando la sottomissione del PCC al KMT come causa della disfatta della rivoluzione - non arrivò mai a superare il quadro erroneo delle Tesi del 2° Congresso dell'IC sulla questione nazionale. Sarà questo uno dei fattori che la condurranno - a sua volta - ad una deriva opportunista (per ironia della storia Trotsky sosterrà il nuovo fronte di classe uscito fuori, in Cina, dalle lotte imperialiste a partire dagli anni '30), fino al suo passaggio nel campo della controrivoluzione nel corso della 2a guerra mondiale (11). In una maniera o nell'altra tutto ciò che aveva qualcosa di rivoluzionario e internazionalista in Cina fu chiamato "trotskysmo" (anni successivi, Mao Tse-tung perseguiterà come "agenti trotskysti dell'imperialismo giapponese" i pochi internazionalisti che si opponevano alla sua politica controrivoluzionaria).
Quanto al PCC, esso fu letteralmente annientato, dopo che 25.000 militanti furono assassinati dal KMT e altri imprigionati o perseguitati. Senza dubbio dei rifugiati del partito comunista, così come alcuni distaccamenti del KMT, poterono rifugiarsi in campagna. Ma a questo dislocamento geografico corrispondeva un dislocamento politico sempre più profondo: negli anni successivi il partito adottò un'ideologia borghese, la sua base - diretta dalla piccola borghesia e dalla borghesia - diventò a predominanza contadina e partecipò a campagne e guerre imperialiste. A prezzo del mantenimento delle sue dimensioni, il PCC cessò di essere un partito della classe operaia e si convertì in partito della borghesia; questa, però, è un'altra storia, oggetto di una eventuale seconda parte di questo articolo.
Segnaliamo, in guisa di conclusione, alcuni insegnamenti dal movimento rivoluzionario in Cina:
* La borghesia cinese non cessò di essere rivoluzionaria nel momento in cui essa si lanciò contro il proletariato nel 1927. Già dalla "rivoluzione del 1911", la borghesia nazionalista aveva mostrato il suo atteggiamento a dividersi il potere con la nobiltà, ad allearsi con i militaristi e a sottomettersi alle potenze imperialiste. Le sue aspirazioni democratiche, "antimperialiste" e perfino "rivoluzionarie", erano solo la maschera che nascondeva i suoi interessi reazionari; questi vennero alla luce quando il proletariato cominciò a rappresentare una minaccia. Nel periodo di decadenza, le borghesie dei paesi deboli sono altrettanto reazionarie e imperialiste di quelle delle grandi potenze.
* La lotta di classe del proletariato in Cina dal 1919 al 1927 non può essere analizzata in un contesto puramente nezionale. Essa costituisce un momento dell'ondata rivoluzionaria mondiale che scosse il capitalismo all'inizio del secolo. La forze elementare con la quale si sollevò il movimento operaio in Cina, settore del proletariato modiale considerato allora debole, al punto di essere in grado di prendere spontaneamente in mano le grandi città, mostra il potenziale che la classe operaia possiede per abbattere la borghesia, anche se per fare questo ha bisogno della coscienza e dell'organizzazione rivoluzionarie.
* Il proletariato non può più allearsi con nessuna frazione della borghesia. Per contro, può trascinare nel suo movimento settori della piccola borghesia urbana e contadina (come mostrano l' insurrezione di Shanghai e il movimento contadino di Kuang-Tong). In ogni caso il proletariato non deve fondersi con questi settori in nessun fronte di sorta ma deve mantenere in ogni momento la sua autonomia di classe.
* Il proletariato, per vincere, ha bisogno di un partito politico che lo orienti nei momenti determinanti, così come di un'organizzazione unitaria in consigli operai. Deve, particolarmente, dotarsi in tempo del suo Partito Comunista mondiale, fermo nei principi e temprato nella lotta prima che scoppi la successiva ondata rivoluzionaria internazionale. Questo partito deve essere in grado di combattere in permanenza l'opportunismo che sacrifica l'avvenire della rivoluzione in nome dei "risultati immediati".
Leonardo
NOTE
1. Nel quadro di questo articolo non possiamo dilungarci sulla lotta condotta dalle Frazioni di sinistra dell’Internazionale contro l’opportunismo e la degenerazione di questa, lotta che si sviluppava nello stesso periodo degli avvenimenti cinesi. A nostra conoscenza esse furono le sole a esprimere un manifesto firmato in comune da tutta l’Opposizione, compresa la Sinistra italiana. Si tratta del Manifesto “Ai comunisti cinesi e del mondo intero!” (La Verité, 12 settembre 1930). Su questa questione vedere il nostro libro La Sinistra Comunista d’Italia e, nella edizione francese della Révue Internationale, la serie di articoli sulla Sinistra Olandese.
2. Questa degenerazione procedeva di pari passo con quella dello Stato sorto dalla rivoluzione, che portò alla costituzione dello Stato capitalista nella sua forma stalinista. Vedi il Manifesto del 9° Congresso della CCI.
3. Lenin, Rapporto della Commissione nazionale e coloniale per il II Congresso dell’Internazionale Comunista, 26 luglio 1920. Riportato in “La question chinoise dans l’Internationale communiste”, presentazione e compilazione di Pierre Broué.
4. “Tesi e tesi integrative sulla questione nazionale e coloniale”, in A. Agosti: La Terza Internazionale, Editori Riuniti.
5. Detti anche i portatori d’acqua. Espressione utilizzata da Borodin, delegato dell’I.C. in Cina nel 1926. Vedi E. H. Carr: Il socialismo in un solo paese, Einaudi
6. Chen Tou-hsiou: citato da lui stesso nella sua “Lettera a tutti i membri del PCC”, riportato in La question chinoise, opera citata.
7. Ciang Kai-scek era stato nominato membro onorario qualche settimana prima, e il Kuomintang “partito simpatizzante” dell’Internazionale. Anche dopo il colpo di forza, i consiglieri russi rifiutarono di fornire 5.000 fucili agli operai e contadini del sud, riservandoli all’esercito di Ciang Kai-scek.
8. Si parla molto del ruolo di organizzazione giocato dai sindacati nel movimento in Cina. E’ vero che durante questo periodo i sindacati sorgono e si sviluppano di pari passo con lo sviluppo del movimento di scioperi. Tuttavia, quando essi non cercano di contenere il movimento nel quadro delle rivendicazioni economiche, la loro politica resta sottomessa al Kuomintang (compresa quella dei sindacati influenzati dal PCC). Il movimento di Shangai si darà così come obiettivo di aprire la via all’esercito nazionalista. Nel dicembre del 1927 i sindacati del Kuomintang arriveranno a partecipare alla repressione contro gli operai. Che le sole organizzazioni di massa di cui dispongono gli operai siano i sindacati non costituisce evidentemente un vantaggio, ma traduce la loro debolezza.
9. Lettera da Shangai dei tre membri della missione dell’I.C. in Cina, datata 17 marzo 1927. Riportata in “La question chinoise”, op. cit.
Il BIPR ha risposto, nella International Communist Review n.l3, al nostro articolo di polemica "La concezione del BIPR sulla decadenza del capitalismo", apparso sul n.79 della nostra Revue Internationale.
Nella misura in cui questa risposta espone chiaramente le tesi del BIPR, essa costituisce un contributo al necessario dibattito che deve esistere fra le organizzazioni della Sinistra Comunista, che hanno una responsabilità decisiva nella costruzione del partito comunista del proletariato.
Il dibattito fra il BIPR e la CCI si situa all’interno del quadro della Sinistra Comunista:
· non é un dibattito accademico e astratto, ma una polemica militante, il cui scopo é di arrivare a stabilire posizioni chiare, libere da ogni ambiguità o concessione all'ideologia dominante, in particolare sulle questioni della natura della guerra imperialista e delle condizioni fondamentali per la rivoluzione comunista;
· é un dibattito fra sostenitori dell'analisi della decadenza del capitalismo: dall'inizio del secolo il sistema é entrato in una crisi permanente che minaccia sempre di più la sopravvivenza stessa dell'umanità e del pianeta.
All'interno di questo quadro comune di posizioni, la risposta del BIPR insiste sulla sua visione della guerra imperialista come mezzo di svalorizzazione del capitale e per la ripresa del ciclo di accumulazione, giustificando la sua posizione su una spiegazione della crisi storica del capitalismo basata sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. La nostra risposta verterà pertanto su questi due punti fondamentali[1].
Cosa accomuna noi ed il BIPR
In una polemica fra rivoluzionari, proprio per il suo carattere militante, é giusto cominciare da quello che ci unisce, per affrontare quello che ci divide all’interno di un quadro complessivo. E' il metodo che la CCI ha sempre utilizzato, sull'esempio di Marx, Lenin, Bilan, ecc., e che abbiamo utilizzato nella polemica sullo stesso argomento con il P. C. Internazionale (quello che pubblica Il Comunista in Italia e Le Proletaire in Francia, oltre alla rivista teorica Programme Communiste in lingua francese )[2]. Noi ci teniamo a sottolinearlo in primo luogo perché la polemica fra rivoluzionari ha sempre per scopo la chiarificazione ed il raggruppamento nella prospettiva della costituzione del partito mondiale del proletariato. In secondo luogo perché, fra il BIPR e la CCI, senza negare né relativizzare l’importanza e le conseguenze delle divergenze che abbiamo sulla natura della guerra imperialista, quello che condividiamo é molto più importante:
1. Per il BIPR, le guerre imperialiste non hanno obbiettivi limitati, ma sono guerre totali, di gran lunga più distruttive di qualsiasi guerra del periodo ascendente.
2. Nelle guerre imperialiste i fattori economici e politici sono indissolubilmente intrecciati fra di loro.
3. Il BIPR rigetta l’idea secondo cui il militarismo e la produzione di armi sarebbero una via per “l’accumulazione del capitale”[3].
4. In quanto espressione della decadenza del capitalismo, le guerre imperialiste contengono la minaccia di distruzione dell’umanità.
5. Esistono oggi nel capitalismo importanti tendenze al caos ed alla decomposizione (sebbene, come vedremo, il BIPR non vi dia la stessa importanza che vi diamo noi).
Questi elementi di convergenza spiegano la nostra comune capacità di denunciare e combattere le guerre imperialiste come momenti supremi della crisi storica del capitalismo, chiamando il proletariato a non scegliere fra i differenti lupi imperialisti, ma a schierarsi per la rivoluzione proletaria, unica soluzione all’impasse sanguinosa in cui il capitalismo ha intrappolato l’umanità e combattendo sia l’oppio pacifista sia le menzogne capitaliste sulla sempre prossima “uscita dalla crisi”.
Questi elementi, espressione di una comune tradizione della Sinistra Comunista, rendono necessario e possibile che, di fronte ad eventi dell’importanza della Guerra del Golfo o della ex-Jugoslavia, i gruppi della Sinistra Comunista facciano dei manifesti comuni che esprimano la voce unita dei rivoluzionari di fronte alla loro classe. Per questo, nel quadro delle Conferenze Internazionali del 1977-80, noi proponemmo una dichiarazione comune di fronte all’invasione russa dell’Afghanistan e ci dispiace che né Battaglia Comunista né la Communist Workers Organisation (che hanno successivamente formato il BIPR) abbiano allora dato il loro assenso all’iniziativa. Lungi dall’essere proposte di “unioni opportuniste e di circostanza” simili iniziative costituiscono degli strumenti di lotta per la chiarificazione e la delimitazione delle posizioni all’interno della Sinistra Comunista, perché creano un quadro concreto e militante (si tratta di non venire meno ad un dovere verso la classe che si trova di fronte a passaggi importanti dell’evoluzione storica) in cui dibattere seriamente le divergenze. Questo era il metodo di Marx e di Lenin: a Zimmerwald, malgrado l’esistenza di divergenze di ben altra importanza rispetto a quelle che possono oggi esistere fra la CCI ed il BIPR, Lenin fu d’accordo a firmare il Manifesto di Zimmerwald. Analogamente, quando la III Internazionale fu costituita, fra i suoi fondatori c'erano divergenze importanti, non solo sull'analisi della guerra imperialista, ma anche su questioni tipo l'utilizzazione del parlamento o i sindacati. Ma ciò non impedì loro di unirsi per lottare insieme per la rivoluzione mondiale che era all'ordine del giorno. Questa lotta comune non era una cappa per mettere a tacere le divergenze ma costituiva, al contrario, la piattaforma militante al cui interno le divergenze potevano essere seriamente discusse, evitando sia i dibattiti accademici, sia le fughe settarie in avanti.
La funzione della guerra imperialista
Le divergenze tra il BIPR e la CCI non riguardano le cause generali della guerra imperialista. Aderendo alla comune tradizione della Sinistra Comunista, noi tutti la consideriamo come espressione della crisi storica del capitalismo. Le divergenze si manifestano quando si va a definire il ruolo della guerra nel capitalismo decadente. Il BIPR ritiene che la guerra svolga una funzione economica: permettere la svalutazione del capitale e, di conseguenza, aprire la possibilità di un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica.
Questa ipotesi non sembrerebbe priva di fondamento logico: non c’è stata, prima di una guerra mondiale, una crisi generalizzata come quella del 1929? Quando c'é una crisi di sovrapproduzione di uomini e merci, la guerra non é forse una “soluzione”, visto che permette di distruggere su larga scale operai, macchine e costruzioni? E dopo la guerra non viene forse la ricostruzione e con questa la fine della crisi? Questa visione, per quanto apparenterete coerente, ha però il limite della superficialità. Si fissa su una parte del problema (il fatto che il capitalismo si avvita in un ciclo infernale di crisi - guerra - ricostruzione - nuova crisi...) ma non va alla radice del problema: da una parte, la guerra é molto di più che un semplice mezzo per far ripartire l'accumulazione capitalista, dall'altra questo ciclo é profondamente degenerato e corrotto e di gran lunga diverso dai classici cicli di accumulazione del periodo ascendente.
Questa visione superficiale della guerra imperialista ha delle importanti implicazioni per l'azione militante di cui il BIPR non sembra rendersi conto. Nei fatti, se la guerra permette il ristabilirsi dei meccanismi dell'accumulazione capitalistica, questo significa che il capitalismo sarà sempre capace di uscire dalle sue crisi con il brutale ma fattivo espediente della guerra. Questo é esattamente ciò che ci viene detto dalla propaganda borghese: la guerra é una cosa terribile che tutti vorrebbero evitare, ma é il passaggio inevitabile per una nuova era di pace e di prosperità.
Il BIPR ovviamente denuncia queste menzogne, ma non si rende conto che la sua denuncia é indebolita dalla sua teoria della guerra come “mezzo per la svalutazione del capitale”. Per capire le conseguenze pericolose di questa posizione, conviene esaminare questa dichiarazione di Programme Communiste:
“Le origini della crisi si trovano nell'impossibilità di continuare l'accumulazione, un impossibilità che si manifesta quando la crescita della massa dei prodotti non può più compensare la caduta del saggio di profitto. La massa del pluslavoro totale nel capitalismo avanzato non é più sufficiente ad assicurare un profitto, a ricreare le condizioni di redditività per gli investimenti. Distruggendo del capitale costante (lavoro morto) su scala massiccia, la guerra svolge dunque un ruolo economico fondamentale: grazie alle spaventose distruzioni dell’apparato produttivo essa permette una futura gigantesca espansione della produzione per rimpiazzare quello che è stato distrutto, e quindi una parallela espansione del profitto, del plusvalore totale, in una parola del pluslavoro che è all’origine del capitale. Le condizioni per il rilancio dell’accumulazione capitalista sono ristabilite. Il ciclo economico riparte. (...). Il sistema capitalista mondiale entra in guerra decrepito, ma acquista nuova vita dall’immane bagno di sangue e ne esce con la vitalità di un robusto neonato”[4].
Dire che il capitalismo “acquista nuova vita” ogni volta che passa per una guerra mondiale ha delle chiare implicazioni revisioniste: la guerra mondiale non metterebbe all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria, ma il ringiovanimento del capitalismo che torna alle sue origini. Questo distrugge dalle fondamenta l'analisi della III Internazionale che affermava chiaramente: “Una nuova epoca é nata. L'epoca della disintegrazione del capitalismo, del suo collasso interno. L'epoca della rivoluzione comunista del proletariato”. Si tratta, né più né meno, di rompere con una posizione di base del marxismo secondo cui il capitalismo non é un sistema eterno, ma un modo di produzione i cui limiti storici gli impongono di attraversare una fase di decadenza in cui é all'ordine del giorno la rivoluzione comunista.
Nei numeri 77 e 78 della Revue Internationale, nella nostra polemica con la visione della guerra e della decadenza di Programme Communiste, noi riportavamo e criticavamo la citazione sopra riportata. Questo viene ignorato dal BIPR che nel suo articolo sembra voler difendere Programme quando afferma che “Il dibattito della CCI con i bordighisti è centrato su un punto di vista apparente secondo cui esiste una relazione meccanica tra guerra e ciclo di accumulazione. Diciamo “apparente” perché, come al solito, la CCI non riporta nessuna citazione per provare che i bordighisti abbiano una visione storica così schematica. Quando poi pensiamo al modo in cui la CCI interpreta le nostre posizioni, allora siamo ancor meno inclini ad accettare le loro asserzioni su Programme Communiste”[5].
La citazione che avevamo riportato sulla Revue Internationale n.77 parla da sola e chiarisce che, nella posizione di Programme c’é qualcosa di più che un po’ di “schematismo”. Se il BIPR evita di prendere posizione, nascondendosi dietro nostre presunte “false interpretazioni”, é perché, per quanto non arrivi a ripetere le aberrazioni di Programme, le sue ambiguità lo spingono per la stessa china: “Noi affermiamo che la funzione (sottolineato nell’originale) economica della guerra mondiale (e cioè le sue conseguenze per il capitalismo) é quella di svalutare il capitale come necessario preludio ad un nuovo ciclo di accumulazione”[6].
Questa idea di una “funzione economica della guerra imperialista” proviene da Bukarin, che la avanzò in un libro scritto nel 1915 (“L'imperialismo e l'economia mondiale”). Il libro in questione rappresenta un contributo su argomenti come le lotte di liberazione nazionale o il capitalismo di stato, ma cade in un errore non secondario quando individua la guerra imperialista come uno strumento dello sviluppo capitalista: “la guerra non può bloccare il corso generale dello sviluppo del capitalismo mondiale ma è, al contrario, l’espressione della massima espansione del processo di centralizzazione ... La guerra ricorda, per la sua influenza economica, su molti aspetti, le crisi industriali, differendone solo per la maggior intensità delle convulsioni sociali e delle devastazioni”.
Tuttavia la guerra imperialista non é un mezzo per "svalutare il capitale", ma un'espressione del processo storico di distruzione e sterilizzazione dei mezzi di produzione e della vita stessa, che caratterizza globalmente il capitalismo decadente.
Distruzione e sterilizzazione di capitale non é la stessa cosa che svalutazione di capitale. Era nel periodo ascendente del capitalismo che si scatenavano crisi periodiche che portavano alla periodica svalutazione del capitale. E’ il movimento segnalato da Marx: “Simultaneamente alla caduta del saggio di profitto, la massa del capitale si accresce, e questo si associa alla svalutazione del capitale esistente, che frena questa caduta e dà un’accelerazione all'accumulazione di capitale valore... La svalutazione periodica del capitale esistente, che é un mezzo insito nel modo di produzione capitalistico per rallentare la caduta del saggio di profitto e per accelerare l’accumulazione di capitale valore attraverso la formazione di nuovo capitale, perturba le condizioni date in cui si svolge il processo di circolazione e di riproduzione del capitale, ed é pertanto accompagnata da brusche interruzioni dei processi produttivi”[7].
Il capitalismo, per sua natura, fin dalle sue origini porta inevitabilmente alla sovrapproduzione, sia nella fase ascendente che in quella di decadenza. In questo senso, il capitale è costretto a svenarsi periodicamente per far ripartire con più forza il normale processo di produzione e circolazione di merci. Nel periodo ascendente, ogni fase di svalutazione del capitale portava ad una espansione ad un livello superiore dei rapporti di produzione capitalisti. E questo era possibile perché il capitalismo trovava nuovi territori precapitalisti da integrare e da sottomettere ai suoi rapporti salariali e mercantili. Per questa ragione: “le crisi del 19° secolo descritte da Marx sono ancora crisi di crescita, crisi da cui il capitalismo esce ogni volta rafforzato... Dopo ogni crisi, vi sono ancora nuovi mercati aperti alla conquista dei paesi capitalisti”[8].
Nella decadenza del capitalismo queste crisi di svalutazione del capitale continuano fino al punto di diventare più o meno croniche[9]. Il fatto é che questa caratteristica, insita nel capitalismo stesso, va oggi a sovrapporsi ad un'altra caratteristica sviluppatasi nella fase di decadenza e che è il frutto dell’aggravarsi delle contraddizioni di questa epoca, ovvero la tendenza alla distruzione e alla sterilizzazione di capitale.
Questa tendenza nasce dalla situazione di blocco storico creata dalla decadenza del capitalismo: “Che cosa é una guerra imperialista mondiale? E’ la lotta combattuta con mezzi violenti che i differenti gruppi capitalisti sono obbligati a scatenare non per conquistare nuovi mercati e fonti di materie prime, ma per la ridistribuzione di quelli esistenti, una ripartizione in cui si guadagna qualcosa solo a spese di qualcun'altro. Il corso alla guerra si apre ed ha le sue radici nella crisi economica generale e permanente che é arrivata al punto di esplosione, indicando che il regime capitalista ha raggiunto i limiti delle sue possibilità di espansione”. Ed ancora: “Il capitalismo decadente é la fase in cui la produzione può continuare solo a condizione (sottolineato nell'originale) che i prodotti ed i mezzi di produzione prendano una forma materiale che non servano allo sviluppo ed all'estensione della produzione ma alla sua limitazione e distruzione”[10].
Nella decadenza, la natura del capitalismo non é affatto cambiata. Continua ad essere un sistema di sfruttamento, ad essere caratterizzato (ed in modo più grave) dalla tendenza alla svalutazione del capitale (tendenza divenuta permanente). Tuttavia quello che caratterizza la decadenza é la situazione di blocco storico del sistema da cui nasce una potente tendenza all'autodistruzione ed al caos: “In assenza di una classe rivoluzionaria che abbia la possibilità storica di dare luogo e dirigere la costruzione di un sistema economico corrispondente alle necessità storiche, la società e la civiltà si trovano in un vicolo cieco, in cui il collasso e la disintegrazione interna sono inevitabili. Marx dava come esempi di una simile impasse storica le antiche civiltà greca e romana. Engels applicò questa tesi alla società borghese, arrivando alla conclusione che l'assenza o l'incapacità del proletariato di risolvere le contraddizioni irriducibili della società capitalista, attraverso la sua distruzione, non può avere altro risultato che il ritorno alla barbarie”[11].
La posizione dell'Internazionale Comunista sulla guerra imperialista
Il BIPR ridicolizza la nostra insistenza su questa caratteristica del capitalismo decadente: “Per la CCI tutto si riduce a “caos” e “decomposizione”, dopodiché non c'é bisogno di sforzarsi troppo con analisi dettagliate. E’ questa la chiave della loro posizione”[12]. Ritorneremo in seguito su questo argomento, per il momento ci limitiamo a far notare che questa accusa di eccessiva semplificazione, che per loro rappresenta la negazione del marxismo come metodo di analisi della realtà, potrebbe essere rivolta allo stesso modo al Io Congresso dell’I.C., a Lenin ed a Rosa Luxemburg.
Lo scopo di questo articolo non é quello di analizzare i limiti delle prese di posizione dell'Internazionale Comunista[13], ma di appoggiarci sui quanto c’era di chiaro in esse. Esaminando i documenti di fondazione dell'IC vediamo che contengono un chiaro rifiuto dell’idea che la guerra possa essere una “soluzione” per la crisi capitalista e che il capitalismo possa tornare ad un funzionamento "normale", analogo ai cicli di accumulazione del periodo ascendente.
“La politica di pace dell’Intesa rivela definitivamente agli occhi del proletariato internazionale la vera natura dell'imperialismo dell'Intesa e dell'imperialismo in generale. E rivela anche che i governi imperialisti sono incapaci di concludere una pace “giusta e stabile” e che il capitale finanziario non é capace di risollevare l'economia in pezzi. La continuazione del dominio del capitale finanziario porterà o alla completa distruzione della civiltà o ad un incremento senza precedenti nei livelli di sfruttamento ed asservimento, alla reazione politica, ad una politica di armamenti ed infine a nuove distruttive guerre”[14].
L’IC mette bene in chiaro che il capitalismo non può ristabilire l'economia distrutta, cioè che non può ristabilire, attraverso la guerra, un “normale” ciclo di accumulazione, in poche parole, non può ritrovare una "nuova giovinezza" come dice Programme. In più, piuttosto che provocare un "ristabilimento", questa situazione profondamente viziata ed alterata favorisce lo sviluppo di “armamenti, della reazione politica, dell’accrescimento dello sfruttamento”.
Nel Manifesto del I° Congresso, l’IC dichiarava che: “La distribuzione delle materie prime, I'utilizzazione del petrolio di Baku o della Romania, del carbone del bacino del Don, del grano ucraino, l’utilizzazione delle locomotive, dei camion e delle autovetture tedesche, il razionamento dei soccorsi per l'Europa affamata - tutte queste questioni fondamentali per l'economia mondiale non sono più regolate né dal libero mercato, né da associazioni di trust nazionali o internazionali, ma dall'applicazione diretta della forza militare, per il bene della sua autoconservazione. Se la completa dominazione del potere politico da parte del capitale finanziario ha portato l'umanità al massacro imperialista, questo massacro ha permesso al capitale finanziario non solo di militarizzare fino in fondo lo Stato, ma anche se stesso, tanto che esso non é più capace di svolgere le sue funzioni essenziali se non con ferro ed il sangue”[15].
La prospettiva tracciata dalla Internazionale Comunista é quella di una "militarizzazione dell'economia", che é considerata da tutti i marxisti come un'espressione dell'aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo e non come un loro alleviarsi, fosse anche temporaneo (il BIPR nella sua replica rigetta il militarismo come mezzo di accumulazione del capitale). L’IC insisteva anche sul fatto che l'economia mondiale non poteva tornare né al periodo della libera concorrenza né a quello dei monopoli ed infine esprimeva un’idea molto importante: “il capitalismo non é più capace di svolgere le sue funzioni economiche essenziali se non con il ferro e il sangue”. Questo può essere interpretato in un solo modo: con la guerra mondiale il meccanismo dell'accumulazione non può più funzionare in modo normale, ma per funzionare ha bisogno del “ferro e del sangue”.
Quello che l’Internazionale Comunista prevedeva per il dopoguerra era un periodo in cui si sarebbe aggravata la minaccia di nuove guerre: “Gli opportunisti che prima della guerra invitavano i lavoratori a moderare le loro rivendicazioni in nome della graduale transizione al socialismo e che, durante la guerra, li hanno obbligati a rinunciare alla lotta di classe in nome della Union Sacrée e della difesa nazionale, esigono dal proletariato un nuovo sacrificio, questa volta in nome della necessità di riparare ai guasti della guerra. Se queste prediche fossero accettate dalle masse lavoratrici, Io sviluppo capitalista proseguirebbe, sacrificando nuove generazioni con forme nuove di assoggettamento, ancora più concentrate e mostruose, con la prospettiva di una nuova inevitabile guerra mondiale”[16].
Fu una tragedia storica il fatto che l’IC non fu capace di sviluppare questo chiaro corpo di analisi e che, al contrario, giunse a contraddirlo nel corso della sua degenerazione, con posizioni che insinuavano l'idea che il capitalismo potesse “tornare alla normalità", riducendo l'analisi del suo declino e della prospettiva di barbarie a semplici declamazioni retoriche. Tuttavia, il compito della Sinistra Comunista é quello di approfondire ed articolare le grandi linee sviluppate dall'IC ed é chiaro, dalle citazioni riportate, che queste non vanno nella direzione di un'analisi basata su un ciclo costante e regolare di accumulazione - crisi - guerra con svalutazione - nuova accumulazione..., ma piuttosto verso un'economia mondiale profondamente alterata, incapace di ritrovare le condizioni normali di accumulazione e prossima a nuove convulsioni e distruzioni.
L’irrazionalità della guerra imperialista
Questa sottostima delle analisi di fondo dell'IC (e di Rosa Luxemburg e di Lenin) diventa chiara nel rigetto, da parte del BIPR, della nostra nozione di irrazionalità della guerra: “Ma l'articolo della CCI altera il significato di questa affermazione (della funzione della guerra, ndr) perché il loro successivo commento è che il BIPR sarebbe d’accordo con il fatto che “vi è una razionalità economica al fenomeno della guerra”. Ciò implicherebbe che noi consideriamo la distruzione dei valori come l’obiettivo del capitalismo, cioè che questa sarebbe la causa (sottolineato nell’originale) diretta della guerra. Ma le cause non sono la stessa cosa delle conseguenze. Le classi dominanti degli stati imperialisti non decidono coscientemente di scatenare le guerre per svalutare il capitale”[17].
Anche nel periodo ascendente del capitalismo le crisi cicliche non venivano deliberatamente causate dalle classi dominanti. Ciononostante, le crisi cicliche avevano una loro “razionalità economica”; permettendo al capitale di svalorizzarsi e, di conseguenza, rilanciando ad un nuovo livello l'accumulazione capitalistica. Il BIPR pensa che le guerre mondiali del periodo di decadenza abbiano il ruolo di svalutare il capitale e di rilanciare l'accumulazione. In una parola, gli attribuiscono una razionalità economica simile a quella delle crisi cicliche del periodo ascendente.
Questo é precisamente l'errore di fondo che noi criticammo alla CWO, predecessore del BIPR, sedici anni fa nell'articolo “Teorie economiche e lotta per il socialismo”:
“Possiamo vedere come l'errore di Bukarin si ripeta nelle analisi della CWO: ‘ogni crisi conduce (attraverso la guerra) alla svalutazione del capitale costante, innalzando così il tasso di profitto e permettendo che il ciclo di ricostruzione-boom economico-crisi-guerra sia ripetuto di nuovo’ (Revolutionary Perspectives n.6 ). Dunque, per la CWO, le crisi del capitalismo decadente sono viste in termini economici come le crisi cicliche del capitalismo ascendente, ripetute al più alto livello”[18].
Per il BIPR la differenza fra ascendenza e decadenza del capitalismo sta solo nel livello di grandezza delle periodiche interruzioni del processo di accumulazione: “Le cause della guerra si trovano nella determinazione della borghesia di difendere il valore del suo capitale contro la concorrenza. Nel periodo ascendente tale rivalità si svolgeva essenzialmente sul piano economico e fra imprese concorrenti. Quelle che erano capaci di raggiungere un maggior grado di concentrazione dei capitali (tendenza del capitale alla concentrazione ed al monopolio) si trovavano nella posizione di poter mettere i concorrenti con le spalle al muro. Questa rivalità portava anche ad una sovraccumulazione di capitale che portava a sua volta alle crisi decennali del secolo scorso. In queste crisi le imprese più deboli soccombevano o venivano assorbite dai concorrenti più forti. Ad ogni crisi corrispondeva una svalutazione di capitale, in modo da poter partire con un nuovo giro di accumulazione, ma ogni volta il capitale ne usciva più concentrato e centralizzato.... Nell'era del capitalismo monopolistico, in cui la concentrazione ha raggiunto il livello di Stati nazionali, la politica e l’economia sono diventati inseparabili nella fase imperialista o decadente del capitalismo.... In questa epoca le politiche richieste dalla difesa del valore del capitale coinvolgono gli Stati stessi ed esasperano le rivalità fra le potenze imperialiste”[19]. Di conseguenza “le guerre imperialiste non hanno obiettivi limitati (come nel periodo ascendente, ndr); una volta scatenate c'é solo una lotta a morte, fino a che una nazione o un blocco di nazioni non sia distrutto militarmente ed economicamente. Le conseguenze della guerra non si limitano alla distruzione fisica di capitale, ma anche ad una svalorizzazione massiccia del capitale esistente”[20].
Alla base di questa analisi c'é una forte tendenza economicista che percepisce la guerra solo come un prodotto immediato e meccanico dell'evoluzione economica. Nel nostro articolo sulla Revue Internationale n.79 noi abbiamo dimostrato che la guerra ha una radice economica globale (la crisi storica del capitalismo), ma che questo non implica che ogni guerra abbia una motivazione economica immediata e diretta. Il BIPR, cercando le cause economiche della guerra del Golfo, é finito nell’economicismo più volgare dicendo che era una guerra per i pozzi di petrolio. Allo stesso modo il BIPR spiega la guerra nella ex-Jugoslavia con gli appetiti delle grandi potenze per non si sa quali mercati[21]. E' vero che, sotto la pressione delle nostre critiche e dell'evidenza dei fatti, ha corretto in seguito la sua analisi, ma é anche vero che non è stato capace di rimettere in discussione l’economicismo di fondo che non può concepire una guerra senza una causa “economica” diretta ed immediata[22].
Il BIPR confonde fra di loro rivalità commerciale e rivalità imperialista, che non sono necessariamente la stessa cosa. La rivalità imperialista ha come causa di fondo una situazione economica di saturazione del mercato mondiale, ma questo non significa che abbia come origine diretta la semplice concorrenza commerciale. La sua origine è economica, militare e strategica, coagulando al loro interno fattori politici e storici.
Allo stesso modo, nel periodo ascendente del capitalismo, se le guerre (coloniali o di liberazione nazionale) avevano una ragione economica di fondo (la formazione di nuove nazioni o I'espansione del capitalismo attraverso la formazione di colonie) esse non erano tuttavia motivate in prima istanza dalle rivalità commerciali. Per esempio, la guerra franco-prussiana aveva delle origini dinastiche e strategiche ma non era causata né da una crisi commerciale insolubile per nessuno dei due contendenti né da particolari rivalità commerciali. Il BIPR riesce a comprendere fino ad un certo punto questa realtà quando afferma: “Anche se le guerre post-napoleoniche del 19° secolo non mancavano di atrocità (come la CCI correttamente sottolinea) la differenza essenziale sta nel fatto che queste guerre venivano combattute per scopi specifici che permettevano di raggiungere conclusioni rapide e negoziate. La borghesia del XIX secolo aveva ancora la missione programmatica di sbarazzarsi dei residui del vecchio modo di produzione e di creare delle vere nazioni”[23]. In più, il BIPR individua molto bene la differenza con il periodo decadente: “I costi di un ulteriore sviluppo delle forze produttive non sono inevitabili. In più questi costi hanno raggiunto un livello tale da minacciare l'esistenza stessa della civiltà, sia a breve termine (inquinamento ambientale, carestie, genocidio) che a lungo termine (guerre imperialiste generalizzate)”[24].
Noi non possiamo che sottoscrivere pienamente queste affermazioni del BIPR. Dobbiamo però fargli una domanda molto semplice: che significa il fatto che le guerre della decadenza abbiano degli “obiettivi totali” e che il prezzo del mantenimento del capitalismo può arrivare fino a rischiare la distruzione dell'umanità? Come é possibile che queste situazioni di convulsioni e distruzione, che il BIPR riconosce come qualitativamente differenti rispetto a quelle del periodo di ascendenza, corrispondano ad una situazione economica di rinnovo dei cicli di accumulazione del capitale, che sarebbero identici a quelli della fase ascendente?
La malattia mortale del capitalismo decadente il BIPR la vede solo nei periodi di guerra generalizzata, ma non la vede nei momenti di apparente normalità, nei periodi in cui, secondo loro, si sviluppa il ciclo di accumulazione del capitale. Questo lo conduce ad una pericolosa dicotomia: da una parte vede cicli di normale accumulazione in cui é pos-sibile constatare una crescita reale, dove si producono "rivoluzioni tecnologiche", dove il proletariato cresce. In questi periodi di pieno vigore del ciclo di accumulazione, il capitalismo sembra tornare alle origini, la sua crescita sembra quella della sua gioventù (il BIPR non arriva a fare una simile affermazione, mentre Programme Communiste lo dice apertamente). Dall'altra parte vi sono periodi di guerra generalizzata, in cui la barbarie del capitalismo decadente si manifesta in tutta la sua brutalità e violenza.
Questa dicotomia ricorda fortemente quella che esprimeva Kautsky nella sua Tesi sul “super-imperialismo”: da una parte egli riconosceva che, con la 1a guerra mondiale, il capitalismo era entrato in un'epoca di catastrofi e convulsioni ma dall’altra sosteneva che, contemporaneamente, vi era una tendenza “obiettiva” verso una concentrazione suprema del capitalismo in un grande trust imperialista che gli avrebbe permesso di evitare concorrenze e guerre. Nell'introduzione al libro di Bukharin già citato (L'economia mondiale e l'imperialismo), Lenin denunciò questa contraddizione centrista di Kautsky: “Kautsky ha promesso di comportarsi da marxista nell'epoca dei gravi scontri e delle catastrofi che è stato costretto a prevedere e di definire quando, nel 1909, ha scritto la sua opera su questo tema. Ora che è assolutamente fuori dubbio che quest'epoca é arrivata, Kautsky si contenta di continuare a promettere che farà il marxista nella futura fase del superimperialismo, una fase che lui stesso non sa bene se arriverà mai o no. In altre parole, da Kautsky possiamo avere tutte le promesse che vogliamo sul fatto che farà il marxista in qualche altra epoca, ma mai che lo farà nelle condizioni presenti, mai che lo farà adesso”.
Noi ci guardiamo bene dal dire che succederà la stessa cosa al BIPR. Tuttavia l’analisi marxista della decadenza del capitalismo viene tenuta gelosamente nascosta dal BIPR per il periodo in cui la guerra scoppierà, mentre per il periodo di accumulazione si fa un’analisi che fa delle concessioni alle menzogne borghesi sulla “prosperità” e la “crescita” del sistema.
La sottovalutazione della gravità del processo di decomposizione capitalista
Questa tendenza a difendere l'analisi marxista della decadenza solo per i periodi di guerra aperta spiega le difficoltà che ha il BIPR a comprendere lo stadio attuale della crisi storica del capitalismo: “La CCI é stata coerente a partire dalla sua fondazione venti anni fa nel lasciare da parte ogni tentativo di analizzare come i capitalisti affrontino la crisi attuale. In effetti sembra che per loro ogni tentativo di analizzare le caratteristiche specifiche della crisi attuale equivalga a dire che il capitalismo ha risolto la crisi. Ma le cose non stanno così. Quello che spetta ai marxisti attualmente é proprio di cercare di comprendere perché la crisi attuale superi in lunghezza la “Grande Depressione” del 1873‑96. Ma mentre quest'ultima era una crisi causata dall'ingresso del capitalismo nella sua fase monopolistica ed era pertanto risolvibile con una semplice svalutazione economica, la crisi attuale minaccia l'umanità con una catastrofe di gran lunga più terribile”[25].
I compagni del BIPR sembrano dare per scontato che la CCI abbia rinunciato ad ogni analisi concreta dell'andamento della crisi attuale. Per convincersi del contrario basterebbe loro studiare gli articoli che pubblichiamo regolarmente, in ogni numero della Revue Internationale, analizzando la crisi in tutti i suoi vari aspetti. Per noi la crisi aperta nel 1967 costituisce la riapparizione aperta della crisi cronica e permanente del capitalismo decadente, é la manifestazione di un blocco profondo e sempre più incontrollabile del meccanismo di accumulazione del capitale. Le "carat-teristiche specifiche" della crisi attuale costituiscono i diversi tentativi del capitale, attraverso il rafforzamento dell'intervento statale e la fuga nel debito e nelle acrobazie monetarie e commerciali, per evitare un'esplosione distruttiva della sua crisi di fondo e, allo stesso tempo, la evidenziazione del fallimento di tali rimedi e i loro effetti perversi che aggravano ancora di più il male incurabile del capitalismo.
Il BIPR ritiene che il “compito principale” dei marxisti sia di spiegare l'eccezionale lunghezza della crisi attuale. Non ci sorprende che questi compagni siano tanto colpiti dalla lunghezza della crisi, dato che non capiscono il problema di fondo: noi non siamo alla fine di un normale ciclo di accumulazione, ma ad una situazione storica di blocco prolungato, di alterazione profonda del meccanismo di accumulazione. Una situazione in cui il capitalismo, per dirla con l'Internazionale Comunista, non può più assicurare le sue funzioni economiche essenziali se non con il ferro e il sangue.
Il fatto di non riuscire ad afferrare questo problema fondamentale spinge il BIPR a ridicolizzare ancora una volta la nostra posizione sull’attuale fase storica di caos e di decomposizione del capitalismo: “Anche se si può essere d’accordo sul fatto che esistono tendenze alla decomposizione ed al caos (venti anni dopo la fine del ciclo di accumulazione, sarebbe difficile aspettarsi qualcosa di diverso), questi non possono essere usati come slogan per evitare un’analisi concreta di quello che succede”[26].
Come si può vedere, quello che preoccupa i compagni é il nostro supposto “semplicismo”, una sorta di “pigrizia intellettuale” che si rifugerebbe in drammatiche grida sulla gravità e il caos della situazione del capitalismo, come un tic per evitare il peso di un'analisi concreta della situazione stessa.
La preoccupazione dei compagni é giusta. I marxisti debbono e dovranno sempre preoccuparsi di analizzare il dettaglio degli eventi (é uno dei loro compiti nella lotta proletaria), evitando di cadere in generalizzazioni retoriche nello stile del “marxismo ortodosso” di Longuet in Francia o delle vaghezze anarchiche che possono anche sembrare confortanti ma che, nei momenti decisivi, portano a gravi sbandate opportuniste, se non al tradimento vero e proprio.
Tuttavia per poter fare un’analisi concreta di “quello che accade” bisogna avere una quadro globale chiaro ed é qui che i compagni del BIPR hanno dei problemi. Nella misura in cui non si rendono conto della gravità del livello di degenerazione e delle contraddizioni interne del capitalismo nei "tempi normali" della fase di accumulazione, è l'intero processo di decomposizione e caos del mondo capitalistico mondiale, processo aggravatosi con il collasso del blocco orientale nel 1989, a sfuggire alla loro comprensione.
Il BIPR dovrebbe ricordarsi le incredibili stupidaggini che tirò fuori al momento del crollo dei paesi stalinisti, quando fantasticava sui “favolosi mercati” che questi paesi ridotti in rovine avrebbero offerto ai paesi occidentali, alleviando perciò stesso la crisi economica. Da allora, di fronte all'evidenza dei fatti ed anche grazie alle nostre critiche, i compagni hanno corretto i loro errori ed hanno così dimostrato la loro serietà di fronte al proletariato. Ma il BIPR deve fare di più. Deve chiedersi: come sono possibili simili sbandate? Come é possibile che le posizioni debbano cambiare sotto la pressione degli eventi? Che razza di avanguardia é quella che é a rimorchio degli avvenimenti, invece di essere capace di prevederli? Il BIPR dovrebbe studiare con attenzione i nostri testi sulle caratteristiche generali del processo di decomposizione del capitalismo[27]: scoprirebbe che il problema non é il nostro “semplicismo”, ma il suo ritardo nel comprendere a fondo questo problema.
Il fatto che il problema sia proprio questo é ulteriormente dimostrato da questa citazione del BIPR: “Una prova ulteriore dell’idealismo della CCI è data dall’accusa finale che questa porta contro il BIPR che non avrebbe “una visione unitaria e globale della guerra”, il che lo porterebbe alla “cecità ed irresponsabilità” (sic) di non vedere che una prossima guerra non potrebbe avere “altra conseguenza che la completa distruzione del pianeta”. La CCI potrebbe anche avere ragione, anche se ci farebbe piacere conoscere le basi scientifiche della loro previsione. Noi stessi abbiamo sempre detto che la prossima guerra mette in discussione la sopravvivenza stessa dell'umanità. Ma non c’è la certezza che vada a finire così. La prossima guerra imperialista potrebbe alla fine non portare alla distruzione dell'umanità. Ci sono dei sistemi di distruzione di massa (ad esempio quelli biologici o chimici) che nelle guerre precedenti non sono stati usati, e non é detto che la prossima volta l'olocausto nucleare debba estendersi all'intero pianeta. Nei fatti, gli attuali preparativi di guerra delle grandi potenze prevedono lo smantellamento di ordigni di distruzione di massa, mentre vengono sviluppate armi del tipo cosiddetto convenzionale. Perfino la borghesia comprende che un pianeta distrutto non serve a nessuno (anche se le forze che portano alla guerra e la natura della guerra stessa sono in ultima analisi fuori del suo controllo)”[28].
Il BIPR dovrebbe rileggere i libri di storia: nella II Guerra Mondiale tutti gli eserciti hanno utilizzato qualsiasi mezzo di distruzione, cercando disperatamente di inventarne degli altri. Durante la seconda guerra mondiale, quando la Germania era già stata sconfitta, la città di Dresda fu distrutta con una serie di bombardamenti con bombe incendiarie ed a frammentazione, mentre gli USA lanciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki quando il Giappone era stato esso stesso già sconfitto. Dopo di allora, il potenziale distruttivo delle bombe sganciate su Hanoi in una sola notte del 1971 risultò superiore a quello sganciato su tutta la Germania nel corso di tutti i bombardamenti del 1945. A sua volta il "bombardamento a tappeto" di Baghdad da parte degli "alleati" ha polverizzato il terribile primato di Hanoi. Nella stessa guerra del Golfo il governo USA ha sperimentato nuove armi di tipo chimico e nucleare-convenzionale sui suoi stessi soldati. D'altronde, é stato di recente rivelato che negli anni '50 gli Stati Uniti hanno condotto esperimenti di armi batteriologiche sulla loro stessa popolazione... Di fronte a questa massa di evidenze e notizie che possono essere lette su qualsiasi pubblicazione borghese, il BIPR ha la disonestà e l'ignoranza di fantasticare sul grado di controllo della borghesia, sul suo “interesse” ad evitare una distruzione totale! E' un suicidio politico stare a sognare una borghesia disposta ad usare armi “meno distruttive”, quando gli ultimi 80 anni di storia provano l'esatto contrario.
In queste fantasticherie stupide il BIPR non solo non capisce la teoria, ma disinvoltamente ignora la ripetuta e schiacciante evidenza dei fatti. Questi compagni dovrebbero capire il carattere sbagliato e revisionista di queste illusioni da piccolo-borghesi impotenti, che si afferrano alla pagliuzza dell'idea che “perfino la borghesia comprende che un pianeta distrutto non serve a nessuno”.
Il BIPR deve superare la sua posizione centrista, le oscillazioni tra una coerente posizione sulla guerra e la decadenza del capitalismo e le dubbie teorizzazioni sulla guerra come strumento di svalutazione del capitale e di rilancio dell'accumulazione. Questi errori lo portano a non prendere in considerazione o a non utilizzare seriamente come strumento coerente d’analisi ciò che esso stesso afferma, quando ad esempio dice che: “le forze che portano alla guerra e la natura della guerra sono in ultima analisi al di fuori del suo (della borghesia) controllo”.
Per il BIPR questa frase è una semplice parentesi retorica mentre, se volesse essere pienamente fedele alla Sinistra Comunista e comprendere la realtà storica, dovrebbe prenderla per guida nell'analisi, come asse della sua riflessione per comprendere concretamente sia i singoli fatti che le tendenze storiche del capitalismo oggi.
Adalen
[1] In questa replica il BIPR sviluppa anche altri argomenti, tra cui una particolare concezione del capitalismo di stato, che tuttavia non prenderemo in considerazione qui.
[2] Vedi nei numeri 77 e 78 della Revue Internazionale l’articolo: “Il rigetto della nozione di decadenza conduce alla smobilitazione del proletariato di fronte alla guerra”.
[3] I compagni si dichiarano d’accordo con la nostra posizione ma, invece di riconoscere I'importanza e le conseguenze di questa convergenza di analisi, reagiscono in maniera settaria accusandoci di essere disonesti nel modo in cui prendiamo posizione contro l’errore commesso da Rosa Luxemburg sul “militarismo come campo di accumulazione del capitale”. In realtà, come vedremo poi, la comprensione del fatto che il militarismo non costituisce un mezzo di accumulazione del capitale é un argomento a favore della nostra tesi fondamentale sul freno crescente dell’accumulazione nella fase decadente e non un argomento contro. D’altra parte il BIPR si sbaglia quando afferma che é in seguito alle loro critiche che abbiamo cambiato posizione su questo argomento. Per convincersene non debbono fare altro che leggere i testi dei nostri predecessori (La Sinistra Comunista di Francia) che hanno dato un contributo fondamentale all'analisi dell'economia di guerra a partire da una critica sistematica dell'idea di Vercesi della "guerra come soluzione alla crisi capitalista". Vedi in particolare “Il rinnegato Vercesi” (1944).
[4] Programme Communiste n.90, p.24, citato nella nostra polemica nella Revue Internationale n.77; p.20.
[5] “Le basi materiali della guerra imperialista”, International Communist Review, n°l3, p. 29.
[6] “Le basi materiali della guerra imperialista”, International Communist Review, n°l3, p. 29.
[7] Marx, Il Capitale, 3° libro, sezione 3, Capitolo XV, parte 2.
[8] “Teorie della crisi, da Marx all’Internazionale Comunista”, Revue Internationale n.22.
[9] Vedi in proposito, nell’articolo di polemica con il BIPR della Revue Internationale n.79, il paragrafo “La natura dei cicli di accumulazione nella decadenza del capitalismo”.
[10] “Il rinnegato Vercesi”, maggio 1944, Bollettino Internazionale della Frazione Italiana della Sinistra Comunista n°5, maggio 1944.
[11] “Le basi materiali della guerra imperialista”, p.30.
[12] idem
[13] L’Internazionale Comunista, al suo primo Congresso, considerava come compito urgente e prioritario quello di promuovere gli sforzi rivoluzionari del proletariato mondiale e di raggruppare le forze di avanguardia. In questo senso la sua analisi sulla guerra e il dopoguerra, sull’evoluzione del capitalismo, ecc. non potevano andare al di là della definizione di alcune linee generali. Il corso successivo degli eventi, la sconfitta del proletariato ed il rapido estendersi della gangrena opportunista all'interno stesso dell’I.C., portarono a contraddire queste linee generali mediante elaborazioni teoriche (in particolare la polemica di Bucharin contro R. Luxemburg nel suo libro “L'imperialismo e l'accumulazione del capitale” del 1924) che costituivano brutali passi indietro rispetto alla chiarezza dei primi due Congressi.
[14] “La situazione internazionale e la politica dell’Intesa”, in Tesi, Risoluzioni e Manifesti dei primi quattro Congressi della III Internazionale.
[15] Idem.
[16] Idem.
[17] “Le basi materiali della Guerra Imperialista”, p. 29.
[18] Revue Internationale n°16, p.14-15.
[19] “Le basi materiali della guerra imperialista”, p. 29-30.
[20] Idem.
[21] Vedi l’articolo “Il campo politico proletario di fronte alla Guerra del Golfo” nella Révue Internationale n°64.
[22] Nel Gennaio 1991 Battaglia Comunista annunciò, a proposito della Guerra del Golfo, che “la III Guerra Mondiale é cominciata il 17 Gennaio” (giorno dei primi bombardamenti degli "alleati" su Bagdad). Nel giornale successivo i compagni si resero conto di averla sparata grossa ma, invece di tirarne le giuste lezioni, ribadirono che “in questo senso, affermare che la guerra cominciata il 17 Gennaio segna l'inizio della III Guerra Mondiale non é un volo pindarico ma un riconoscimento del fatto che siamo entrati in una fase in cui i conflitti commerciali, che si sono accentuati a partire dall'inizio degli anni '7O, non possono trovare soluzione diversa dalla prospettiva di una guerra generalizzata”. Vedi il nostro articolo “Come non capire lo sviluppo del caos e dei conflitti imperialisti”, nella Revue Internationale n°72, in cui analizziamo questa ed altre sviste del BIPR.
[23] “Le basi materiali della guerra imperialista”.
[24] Idem.
[25] Idem.
[26] Idem.
[28] “Le basi materiali della Guerra imperialista”, p.36.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/2/30/la-questione-sindacale
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/2/39/organizzazione-rivoluzionaria
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/61/cina
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[8] https://it.internationalism.org/rivistainternazionale/200803/578/tesi-sulla-crisi-economica-e-politica-in-urss-e-nei-paesi-dellest
[9] https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario