Le guerre si susseguono alle guerre. Dopo il Kosovo, Timor Est. Dopo Timor Est, la Cecenia. Tutti rivaleggiano nell’orrore e nei massacri. Il conflitto tra l’esercito russo e le milizie cecene è particolarmente sanguinario e tragico per la popolazione della Cecenia. “L’ultimo bilancio da parte cecena è di 15.000 morti; 38.000 feriti ; 22.000 rifugiati; 124 villaggi completamente distrutti; ai quali si aggiungono 280 villaggi distrutti all’80%. Dicono che 14.500 bambini sono mutilati e 20.000 orfani” (1) (The Guardian, 20/12/99).
Il paese è devastato, raso al suolo, distrutto; la popolazione affamata, esiliata, dispersa, disperata. Per misurare l’ampiezza della catastrofe “umanitaria” in proporzione alla popolazione, queste cifre, per un paese come gli Stati Uniti, equivarrebbero a 2 milioni di morti, 5 milioni di feriti, mutilati e storpiati e 28 milioni di rifugiati! E queste cifre drammatiche sono certamente ancora aumentate.
Ad esse bisogna aggiungere le perdite russe il cui numero, secondo il Comitato delle madri dei soldati russi, arriva come minimo a 1.000 morti e 3.000 feriti (Moscou Times, 24/12/99).
I sopravvissuti della popolazione civile sono o sotterrati nelle cave di Gronzy distrutte dai bombardamenti, senza acqua, senza cibo, senza riscaldamento, vivendo come dei topi terrorizzati; o rifugiati nelle città e nei villaggi devastati sotto il giogo delle varie bande mafiose cecene o della soldatesca russa a sua volta terrorizzata ed ubriaca di alcool, saccheggi e uccisioni; o ancora ammassati in veri e proprio campi di concentramento nelle repubbliche vicine, senza vettovagliamenti, senza cure, senza riscaldamento, sotto le tende dove spesso non c’è neanche il letto. La situazione in questi campi è drammatica. Come nei campi per i rifugiati kosovari dove l’aiuto internazionale arrivava col contagocce - ed era in gran parte deviato dalle mafie albanesi e l’Esercito di Liberazione del Kosovo (l’UCK) - mentre le grandi potenze della Nato (2) sganciavano bombe per miliardi di dollari sulla Serbia ed il Kosovo. Oggi, mentre altre dozzine di miliardi del FMI finanziano a fondo perduto lo Stato russo e la sua guerra, le grandi potenze lasciano crepare la popolazione cecena. “I malati ed i vecchi sono senza assistenza medica. I residenti per nutrirsi scavano nei bidoni della spazzatura sperando di trovare delle patate ormai marce per fare una zuppa. L’acqua presa da un serbatoio antincendio è marrone e piena di insetti, ed anche dopo averla fatta bollire è cattiva” (Moscou Times, 24/12/99). In questi campi i rifugiati subiscono ancora il terrore dei militari russi dopo essere stati taglieggiati, aggrediti, bombardati e mitragliati durante tutto l’esodo. Come titola un articolo di The Guardian (18/12/99), i “rifugiati della guerra in Cecenia non trovano alcun rifugio nei campi (che nessuno) può lasciare senza un’autorizzazione giornaliera che permette di oltrepassare le porte che sono sotto la sorveglianza di guardie armate”.
Da 200 a 300.000 rifugiati sono fuggiti dagli scontri ed i bombardamenti. Nei fatti , la popolazione cecena subisce un vero e proprio omicidio collettivo. I bombardamenti massicci di villaggi e città, il terrore esercitato dalle truppe russe contro la popolazione e le mitragliate dei convogli di rifugiati nei corridoi che l’esercito russo ha aperto, hanno costretto i ceceni alla fuga. Questa epurazione etnica sanguinosa viene dopo quella del 1996 operata dalle forze cecene in seguito alla loro vittoria sull’esercito di Mosca e che vide 400.000 residenti russi lasciare la regione. Così come l’epurazione etnica delle milizie serbe contro i kosovari è stata seguita dall’epurazione delle milizie dell’UCK contro i civili serbi del Kosovo.
Ecco quello che possono dirci oggi televisione e stampa. Si può essere sorpresi dall’ampiezza della campagna fatta nei paesi occidentali che denuncia l’intervento russo, quando essa aveva sostenuto, e con quale fervore, i bombardamenti contro la Serbia ed il Kosovo. Ma questa campagna è particolarmente ipocrita e tenta di mascherare la doppiezza delle grandi potenze occidentali. Perché ciò che non dicono è che le condizioni, i mezzi e le conseguenze di questa guerra, come delle altre, sono sempre più drammatiche, barbare e che queste preparano conflitti ancora più numerosi, vasti e drammatici.
OGGI LE GUERRE IMPERIALISTE SONO UN’ESPRESSIONE DELLA DECOMPOSIZIONE DEL CAPITALISMO
Da che era episodica e limitata ad alcuni paesi particolarmente arretrati, l’epurazione etnica è diventata la norma delle guerre imperialiste lungo tutti gli anni 90, sia in Africa che in Asia e in Europa. Dozzine di milioni di rifugiati nel mondo non rivedranno mai più le loro città, i loro paesi o le loro case. Sono stipati per sempre in dei campi. La situazione dei palestinesi si impone come la norma in tutti i continenti.
Episodica e limitata fino alla fine degli anni 80, si afferma oggi la moltiplicazione di nazionalismi minoritari – quello che la stampa chiama “l’esplosione dei nazionalismi” – che porta a conflitti nazionali ed alla nascita di Stati uno più mafioso e corrotto dell’altro. Il potere e le lotte delle mafie rivali sono ormai la norma. Il traffico di droga, di armi di ogni genere, il banditismo, il kidnapping (3) che sono e continueranno ad essere le principali risorse di queste “nuove nazioni”, sono anch’esse la norma. La situazione afgana – o africana, o colombiana – è generalizzata. La norma? E’ il caos che si estende e si generalizza su tutti i continenti.
Per contro, i bombardamenti massicci che terrorizzano le popolazioni civili non sono un fenomeno nuovo. Questo è caratteristico di tutti i conflitti imperialisti, locali o generalizzati, proprio del periodo di decadenza del capitalismo a partire dalla prima guerra mondiale del 1914. Lo stato di distruzione dell’Europa e del Giappone nel 1945 non aveva niente da invidiare alla Cecenia dell’anno 2000. Ma ciò che è nuovo è che dove passano la guerra e le distruzioni non c’è, e non ci sarà, ricostruzione a differenza di quanto avvenne dopo la seconda guerra mondiale. Né Pristina nel Kosovo, né Kabul in Afganistan, né Brazzaville nel Congo o Grozny dopo il 1996 sono state e saranno mai ricostruite. Le economie distrutte dalla guerra non si riprenderanno. Non ci saranno e non ci possono essere piani Marshall (4). Questa è la situazione della Bosnia, della Serbia, del Kosovo, dell’Afganistan, dell’Iraq, della maggior parte dei paesi africani, di Timor, paesi che hanno vissuto le distruzioni delle guerre degli anni 90, le guerre “moderne”.
La permanenza, l’accumulazione, la moltiplicazione, la coniugazione di tutte queste caratteristiche delle guerre imperialiste proprie al periodo di decadenza del capitalismo nel corso di questo secolo, sono l’espressione del fallimento storico di questo. Sono un’espressione della sua decomposizione.
Abbiamo parlato di ipocrisia e doppiezza per denunciare le campagne attuali sulla guerra in Cecenia. Queste campagne fingono di denunciare l’intervento russo. In realtà, governi, uomini politici, giornalisti, “filosofi” ed altri intellettuali, sono tutti complici nel giustificare la barbarie capitalista ed il terrore dello Stato. Non criticare, non levarsi contro i crimini di massa in Cecenia ha reso tutto l’apparato democratico degli Stati occidentali, in particolare i mass-media, apertamente complice non solo del terrore di Stato russo, ma anche del sostegno delle grandi potenze occidentali ai massacri.
“Che viviate in Africa, in Europa centrale o non importa dove, se qualcuno vuol commettere dei crimini di massa contro una popolazione civile innocente, sappiate che nei limiti delle nostre possibilità, noi l’impediremo” aveva proclamato Clinton alla fine della guerra del Kosovo. Non far finta di denunciare oggi ciò che era servito da pretesto all’intervento militare ieri, avrebbe ridotto a niente le campagne sui diritti d’ingerenza umanitaria e avrebbe limitato le capacità di interventi militari futuri. Fingere di denunciare, invece, permette di continuare la campagna ideologica e rinnovarla.
Qual è la posta in gioco e quali sono gli interessi nella guerra in Cecenia?
Ma c’è solo l’aspetto di propaganda in queste campagne anti-russe? Queste non manifesta delle reali contrapposizioni tra le potenze occidentali e la Russia? Non ci sono conflitti di interessi economici, politici, strategici, cioè imperialisti nel Caucaso in particolare? Gli Stati Uniti non perseguono dei progetti circa gli oleodotti che passando per la Georgia o la Turchia evitano il territorio russo? Non c’è da parte delle diverse potenze la volontà di controllare il petrolio del Caucaso? Cioè di appropriarsi dei guadagni finanziari del suo sfruttamento?
E’ vero che esistono degli interessi antagonisti tra le grandi potenze anche nel Caucaso. E questo è, insieme alla decomposizione dell’URSS e della Russia, l’altro fattore dei conflitti che toccano il Caucaso e l’insieme delle antiche repubbliche sovietiche dell’Asia. E’ questa la ragione della presenza attiva delle diverse potenze locali, soprattutto della Turchia e dell’Iran, e mondiali, europee ed americane, come la Germania e gli Stati Uniti che si contendono l’influenza sulla Turchia. Ma cosa si intende per interessi imperialisti? E’ solo la brama della “rendita petrolifera” e dei benefici che se ne possono trarre?
Per la rendita petrolifera?
Qual è la realtà del petrolio del Caucaso? “La produzione in questa regione non costituisce più un fattore maggiore (…). Questa industria, congiuntamente al mantenimento di una attività di raffineria, rappresenta senza dubbio una risorsa reale di finanziamento per i clan che ne hanno il controllo sul piano locale, ma certamente non una posta a livello federale (cioè a livello della Russia)” (Le Monde Diplomatique, novembre 1999).
Quale è l’interesse vitale direttamente economico per gli Stati Uniti di assicurarsi una produzione così piccola quando controllano senza alcuna difficoltà la gran parte della produzione mondiale di petrolio, sicuramente quella loro, ma anche quella del Medio Oriente e dell’America latina, e le produzioni messicane e venezuelane? Per gli stati Uniti non c’è nessun beneficio finanziario diretto. Allora perché questa attiva presenza americana? Forse per le vie di transito del petrolio? “Se il Caucaso resta l’oggetto di scontri geopolitici importanti è per un altro aspetto: quello delle vie di transito per gli idrocarburi del mar Caspio, anche se il volume reale sembra dover essere rivisto al ribasso. E, a questo riguardo, il vero braccio di ferro che si gioca tra i due versanti della catena (le montagne che separano le repubbliche del Caucaso del nord, appartenenti alla Federazione di Russia, dalle ex-replubbliche sovietiche del Caucaso del sud) si è nettamente inasprito da un anno. La Russia ha sempre difeso l’idea che la maggior parte del petrolio doveva passare sul suo territorio, utilizzando l’oleodotto Baku-Novorissisk (…). Ma, il 17 aprile 1999, è stato aperto ufficialmente un oleodotto che collega Baku a Supsa, un porto georgiano sulla costa del Mar Nero e che si integra praticamente nel sistema di sicurezza dell’Alleanza Atlantica (…). Ora, i presidenti dell’Azerbaijan e della Turchia hanno confermato a metà ottobre, la costruzione di un oleodotto che collega Baku al porto turco mediterraneo di Ceyhan: tutto il petrolio del sud del Mar Caspio eviterebbe così la Russia” (idem).
Si tratta allora di appropriarsi dei benefici economici di tutto il petrolio del Mar Caspio e delle sue vie? Certo i guadagni finanziari di un tale controllo non sono trascurabili per le ex-repubbliche dell’URSS della regione, per la Russia o per la Turchia stessa. E per gli Stati Uniti?
“Ma che il tracciato (del progetto di oleodotto che attraversa la Turchia) adottato la settimana scorsa – che è strategicamente vantaggioso per gli Stati Uniti ma costoso per le compagnie petrolifere – possa essere rapidamente redditizio è ancora un grosso punto interrogativo. Così come la natura e l’estensione delle ricadute politiche con la Russia, il perdente nell’affare” (International Herald Tribune, 22/11/99).
Il vero interesse, il vero obiettivo degli Stati Uniti non è economico ma strategico, ed è lo Stato americano che comanda e dirige in questo caso, malgrado il parere delle compagnie petrolifere, i grandi orientamenti strategici ed economici del capitalismo nord-americano (5). Nel periodo di decadenza del capitalismo, gli interessi ed i conflitti imperialisti sono determinati da questioni geopolitiche e gli interessi direttamente economici, che comunque continuano ad esistere, sono messi al servizio degli orientamenti strategici: “Per l’amministrazione Clinton la prima preoccupazione è strategica: garantire che ogni oleodotto aggiri la Russia e l’Iran e dunque privare queste nazioni del controllo delle nuove riserve di energia per l’Ovest” (idem).
Per interessi strategici
E qui, il vero obiettivo degli Stati Uniti non è tanto assicurarsi la rendita petrolifera, ma piuttosto privare la Russia e l’Iran del controllo delle vie di transito dell’oro nero al fine di assumerne il controllo di fronte… ai grandi rivali europei, in particolare alla Germania. E’ un po' come nel mondo del calcio dove i club più ricchi comprano i grandi giocatori non perchè ne hanno veramente bisogno, ma per toglierli alle squadre rivali. Le vere poste strategiche in questa zona oppongono, in maniera ancora sorda e nascosta ma reale e profonda, le grandi potenze occidentali. Una Russia instabile, pronta a vendersi al migliore offerente, un Iran anti-americano e pro-europeo, cioè pro-tedesco, e che controllerebbe gli oleodotti del petrolio nella regione, costituirebbero un pericolo di indebolimento strategico per gli Stati Uniti. La corte assidua fatta dagli Stati Uniti e dall’Europa alla Turchia, potenza che ha un’influenza imperialista particolarmente estesa in tutta questa regione di lingua turca, gli uni promettendo un oleodotto, gli altri l’entrata nell’Unione Europea, mostra ben la posta in gioco e le vere linee di frattura tra le grandi potenze imperialiste. Per la borghesia americana assicurarsi il petrolio di questa zona significa poter privarne gli europei se necessario e costituirebbe quindi un mezzo di pressione ulteriore e significativo nei rapporti di forza imperialisti. La padronanza sul petrolio della regione non le darebbe vantaggi finanziari - anzi potrebbe anche comportare dei costi - ma un vantaggio strategico particolarmente importante.
LE POTENZE OCCIDENTALI SOSTENGONO LA RUSSIA IN CECENIA
Ipocrite e complici, le campagne della stampa occidentale sulla guerra in Cecenia non si integrano direttamente in questo conflitto geostrategico. Tuttavia la stampa europea è molto più virulenta, rispetto a quella americana, nella denuncia del-l’intervento russo mentre è piuttosto l’avanzata americana che dovrebbe essere presa di mira. Il fatto è che la guerra in Cecenia, benchè legata a questi antagonismi, soprattutto dal punto i vista russo, non ne fa direttamente parte. O più esattamente, essa non è l’oggetto delle brame occidentali come lo è il Caucaso del sud (Georgia, Armenia, Azerbaijan) di cui le potenze imperialiste si disputano il controllo. “Accettiamo il fatto che Mosca protegga il suo territorio” ha affermato Javier Solana, il coordinatore della politica estera dell’Unione europea (Internetional Herald Tribune, 20/12/99), ma aggiungendo “non in questa maniera”, il che è molto delicato da parte dell’ex-segretario generale della Nato, quello stesso che ha dato l’ordine di radere al suolo la Serbia e di farla “ritornare indietro di 50 anni” nel marzo scorso. “Il loro obiettivo (della Russia) è di vincere i ribelli ceceni e di farla finita con il terrorismo in Russia, di porre fine all’invasione delle province vicine come il Daghestan” (Bill Clinton, International Herald Tribune,10/12/99). A queste si aggiungono le dichiarazioni dei principali dirigenti americani ed europei, quali l’ex-pacifista ecologista tedesco, oggi ministro degli affari esteri nel governo di sinistra di Schröder: “Nessuno mette in questione il diritto della Russia di combattere il terrorismo (...) ma le azioni preventive russe sono spesso in contraddizione con la legge internazionale” (J.Fischer, Internationale Herald Tribune, 18/12/99) questo detto da uno dei più ferventi partigiani dell’intervento militare occidentale in Serbia..., intervento ben più illegale dal punto di vista del diritto internazionale e degli organismi come l’ONU di cui si è dotata la borghesia per tentare di regolare le differenze internazionali.
Perchè questa unanimità? Perchè un tale sostegno alla Russia dandole carta bianca per radere al suolo la Cecenia? Non è contraddittorio con la dinamica stessa dei giochi imperialisti presenti nel Caucaso?
La contraddizione delle potenze occidentali: lottare contro il caos in Russia o difendere i loro interessi imperialisti
“Non è solo l’URSS che è in procinto di disgregarsi, ma anche la sua più grande repubblica, la Russia che è ora minacciata di esplodere senza avere i mezzi, se non quello di un bagno di sangue dagli esiti incerti, di far rispettare l’ordine” (Révue Internationale n°68, dicembre 1991). Dal 1991 questa tendenza alla decomposizione dell’ex-URSS e della Russia si è largamente verificata e realizzata. Questa tendenza all’impu-tridimento che tocca l’insieme del mondo capitalista sul piano statale - soprattutto nei paesi più fragili e della periferia -, sul piano politico, sociale, economico, ecologico, si è manifestato con particolare evidenza in Russia.
La situazione catastrofica e caotica della Russia è una fonte di inquietudine per le grandi potenze occidentali (6). Le condizioni dell’intervento militare russo in Cecenia non sono servite a rassicurarle, al contrario. “I generali hanno minacciato di dimettersi in massa ed anche una guerra civile se i politici si immischiavano nella loro campagna, una nuova nota di inquietudine nella disgregazione del potere civile russo allorché esisteva una forte tradizione dei militari a restare al di fuori della politica. La paura che la Russia ispira oggi, dopo un decennio dalla caduta dl muro di Berlino, è quello dello scompiglio e dell’irrazionalità delle sue debolezze (...) Ciò potrebbe essere la grande svolta dell’evoluzione post-comunista della Russia che vedrebbe la sconfitta della lotta per la democrazia e rilancerebbe il caos ed eventualmente un potere militare. E’ per questo che i governi esitano tanto a reagire” (Flora Lewis, “La Russia rischia l’autodistruzione in questa guerra irrazionale”, International Herald Tribune, 13/12/99).
Questa inquietudine e questa esitazione sono condivise dalle principali potenze occidentali nonostante gli antagonismi imperialisti che le dividono. E anche se gli americani stanno dietro la cricca di Eltsin mentre gli europei sostengono attualmente la cricca Primakov, tutti sono d’accordo a non gettare troppo olio sul fuoco e limitare per quanto possibile il peggioramento del caos in questo paese. Da questo punto di vista il successo elettorale del clan di Eltsin alle elezioni legislative di dicembre sono state piuttosto inquietanti per la stabilità politica del paese, con il ritorno di una equipe particolarmente screditata e incapace - se non di riempirsi le tasche - che deve il suo successo solo alle vittorie militari in Cecenia. Le dimissioni di Eltsin e la sua sostituzione con il primo ministro Putin hanno teso chiaramente a far precipitare le elezioni presidenziali ed a garantire alla famiglia corrotta di Eltsin di fruire, senza minacce giudiziarie o altro, delle molteplici sottrazioni di denaro. La ripresa in mano delle redini del potere da parte di un primo ministro, oggi presidente, che si presenta come “l’uomo di polso” può apparire come un colpo di arresto alla delinquenza dello Stato russo, almeno per il momento, e se i primi successi militari in Cecenia si confermano, il che non è detto nonostante l’enorme superiorità dei mezzi russi.
Ma l’aggravamento ineluttabile della situazione economica della Russia e l’espressione delle tendenze centrifughe della Federazione russa che spingono alla sua esplosione, sono cariche di minacce per il paese stesso e per il mondo capitalista. Benché arrugginiti i missili ed i sottomarini nucleari dell’ex-URSS sono ben pericolosi in un paese in piena anarchia ed instabilità politica. E le minacce di Eltsin che affermavano che Clinton criticando, per finta, gli eccessi dell’intervento militare russo, “avevano dimenticato per un minuto che la Russia ha un arsenale completo di armi nucleari” (International Herald Tribune, 10/12/99), non possono essere considerate semplicemente come pagliacciate di un vecchio ubriacone (7). Il semplice fatto che questo buffone corrotto, pieno di vodka, che pizzicava il culo dei suoi segretari davanti alle televisioni del mondo intero, sia potuto restare dieci anni al potere in Russia, la dice lunga sullo stato di decomposizione dell’apparato politico della borghesia russa. Le grandi potenze imperialiste si trovano in una situazione contraddittoria: da una parte, la logica implacabile della concorrenza imperialista li spinge a sfruttare tutte le occasioni per fare le scarpe ai loro rivali ed accentuare così ancora di più il caos e la decomposizione della società, specialmente di paesi come la Russia; dall’altro, esse sono relativamente coscienti di questa dinamica di caos e decomposizione, ne misurano il pericolo e cercano per il momento di porvi un freno, un colpo di arresto. Ma, siamo chiari, sarebbe illusorio credere che il mondo capitalista possa invertire la tendenza alla sua propria decomposizione, così come sarebbe illusorio credere che la logica infernale della competizione imperialista possa interrompersi e non rilanciare ancora di più il caos, le guerre e i massacri. La volontà comune di non infierire sulla Russia non è che temporanea e la logica implacabile degli interessi imperialisti rilancerà di nuovo la tendenza al caos ed alla decomposizione nel Caucaso, come nelle altre regioni del mondo.
Le potenze occidentali sostengono la Russia per limitare il caos
Di fronte alla minaccia di una Russia completamente incontrollabile, esiste tra gli Stati occidentali un accordo tacito per non disputarle il Caucaso del nord che fa parte della Federazione di Russia; ma con l’avvertimento, altrettanto tacito, di non farle riprendere piede nel Caucaso del sud conteso tra le grandi potenze. E questo accordo ha trovato la sua espressione nel sostegno concreto, nella ”autorizzazione” secondo la stampa russa, che le grandi potenze occidentali hanno dato alla Russia per intervenire ed esercitare il suo “diritto legittimo” a nuotare nel sangue della Cecenia. “Nel quadro del trattato sulle armi convenzionali, il summit (dell’OCSE) d’Istanbul (8) ci autorizza a disporre, nel settore militare del Caucaso-Nord, di molti più uomini e di materiali che nel 1995 (600 carri al posto di 350, 2200 veicoli blindati contro 290, 1000 pezzi di artiglieria invece di 640). E’ certo in Cecenia che la Russia concentrerà questa potenza militare” (Obchtchaïa Gazeta, settimanale russo)
Accordiamo alla stampa russa il merito di parlare francamente e di riprodurre fedelmente le intenzioni delle potenze occidentali: “Vi lasciamo il Caucaso-Nord e ci riserviamo il diritto a disputarci il Caucaso-Sud”. Il calvario delle popolazioni del Caucaso non è finito. Questa regione del mondo, come altre, non conoscerà più la pace e non si libererà mai dalle contraddizioni che l’hanno colpita e continueranno a colpirla.
LA DEMOCRAZIA BORGHESE E’ GUERRA E MISERIA
Ipocrite e complici, le campagne mediatiche occidentali non tendono ad attenuare ed ancor meno a lottare contro la barbarie guerriera del capitalismo. Esse si rivolgono principalmente alle popolazioni occidentali e soprattutto alla classe operaia di questi paesi, per nascondere la realtà del legame tra le guerre imperialiste ed il fallimento economico del capitalismo, per nascondere la dinamica infernale e catastrofica nella quale sta strascinando l’umanità. Denunciano la guerra in Cecenia nel nome del “diritto di ingerenza umanitaria” per meglio giustificare la guerra nel Kosovo. Criticano la passività dei governi occidentali per meglio glorificare la democrazia borghese (9) quando tutti i principali protagonisti delle recenti guerre, Kosovo, Timor e ora la Cecenia, sono degli Stati democratici con dei governi democraticamente eletti. “La democrazia non è una garanzia contro le cose disgustose” (International Herald Tribune, 22/12/99) ci dicono per farne un fine, uno scopo di lotta con la quale tutti devono identificarsi: “Abbiamo bisogno di ritrovare un fine negli affari mondiali che sia moralmente, intellettualmente e politicamente irresistibile. La visione democratica conserva una vitalità enorme. Il nostro dovere è aiutare a definire il 21° secolo come il Secolo democratico (…). La democrazia è ora, in modo evidente, un valore universale” (Max M. Kampelman, vecchio diplomatico americano, International Herald Tribune, 18/12/99).
Menzognere, le campagne mediatiche attuali tendono a far credere che è la mancanza di democrazia che provoca le guerre e la miseria. Credere che “la sfida fondamentale alla quale siamo confrontati è il riconoscimento che la lotta politica si pone sempre tra il modo di vita democratico e la negazione della libertà umana e politica” (idem), s’inscrive – come minimo – nella logica della difesa della democrazia borghese per “più democrazia”, come l’hanno ripetuto ossessivamente al momento della grande messa in scena mediatica in occasione delle manifestazioni anti-OMC a Seattle, identificarsi al proprio Stato nazionale, stringersi dietro la propria borghesia nazionale, tutto questo è un impasse ed una trappola. Lungi dal frenare o stoppare questa discesa agli inferi, ogni adesione delle popolazioni, ed in particolare della classe operaia internazionale, agli “ideali” della democrazia borghese, non farà che accelerare ancora di più il corso del mondo verso la barbarie capitalista. Non è forse questa l’esperienza vissuta dal mondo dopo la fine del blocco imperialista dell’Est e l’accesso di questi paesi alla democrazia borghese di tipo occidentale? Non è questo che cercano di nascondere le ripetute campagne mediatiche sui benefici della democrazia? Il caos in Russia e la guerra in Cecenia sono anch’esse il prodotto della democrazia capitalista.
Sostegno agli internazionalisti in Russia
Salvare l’umanità dalla barbarie capitalista passa per un’altra via. Questa via non viene mai evocata dai media della borghesia internazionale, le espressioni di questa non vengono mai menzionate. Eppure esse esistono ed è chiaro che incontrerebbero un seguito significativo se non venissero nascoste, dileguate, perse e rese appena percettibili sotto il fiume di campagne ideologiche della borghesia. La voce del rifiuto dei sacrifici e delle guerre esiste e si esprime. Fedele ai principi internazionalisti del movimento operaio, l’insieme dei gruppi della Sinistra comunista è intervenuto per denunciare la guerra imperialista in Jugoslavia. Questa voce si è espressa anche in Russia. Nel mezzo di una ostilità generalizzata, di una repressione severa, al prezzo di rischi personali particolarmente importanti, nel mezzo dell’isteria nazionalista, noi salutiamo i militanti che hanno saputo levarsi contro l’intervento imperialista russo in Cecenia, che hanno saputo difendere la sola via che possa realmente frenare prima e poi opporsi alla barbarie guerriera.
ABBASSO LA GUERRA!
Non prendeteci per imbecilli!
I vari Eltisin, Maskhadov, Putin, Bassaev….
Sono tutti della stessa risma!
Sono loro che hanno organizzato il terrore a Mosca, a Vogodonsk, nel Daghestan e in Cecenia. E’ il loro affare, la loro guerra. Ne hanno bisogno per rafforzare il loro potere. Ne hanno bisogno per difendere il loro petrolio. Perché i nostri figli dovrebbero morire per i loro interessi? Che i potenti si uccidano tra di loro!
Non date credito ai discorsi stupidi e nazionalisti: non si può accusare un popolo intero di aver commesso dei crimini che sono stati commessi non si sa da chi, ma ai quali non sono interessati che i governi ed i capi di tutte le nazioni.
Non fatevi coinvolgere in questa guerra e non fateci andare i vostri figli! Resistete il più possibile a questa guerra! Fate sciopero contro la guerra ed i suoi istigatori.
Degli internazionalisti di Mosca (10).
Opporsi alla borghesia e rigettare ogni nazionalismo, opporsi allo Stato che sia democratico o no, rifiutare la guerra del capitale e chiamare la classe operaia alla lotta, a difendere le sue condizioni di vita, a levarsi contro il capitalismo, questa è la via. Questa via è quella che deve intraprendere la classe operaia di tutti i paesi, la via della lotta contro lo sfruttamento capitalista, contro la sua miseria ed i suoi sacrifici. Questa via è quella della distruzione del capitalismo, di questo sistema che semina la morte e la miseria ogni giorno di più dappertutto nel mondo. Questa via è quella della rivoluzione comunista.
Le guerre si moltiplicano. La crisi economica provoca disastri. Le catastrofi si succedono alle catastrofi a causa della produzione capitalista sfrenata che distrugge tutto. Il pianeta diventa ogni giorno più invivibile, più irrespirabile, più infernale. A tutti questi mali tragici che porta in sé il capitalismo che non può che accrescerli ed aggravarli, solo la classe operaia internazionale può dare una risposta. Solo il proletariato mondiale può offrire una prospettiva ed una via d’uscita all’umanità.
R.L., 1/1/2000
1. Gli articoli della stampa internazionale sono tradotti da noi.
2. All’epoca abbiamo denunciato i pompieri piromani che avevano provocato deliberatamente la repressione serba e l’esodo dei kosovari (vedi Revue Internationale n.98, la stampa territoriale della CCI ed il volantino internazionale che denunciava la guerra). Le grandi potenze occidentali allora avevano potuto giustificare l’intervento militare agli occhi della propria “pub-blica opinione” utilizzando senza vergogna le centinaia di migliaia di rifugiati provocati dai bombardamenti della Nato. La provocazione, l’intransigenza e la manipolazione delle grandi potenze, particolarmente degli Stati Uniti, per spingere ad ogni costo la guerra contro la Jugoslavia, sacrificando deliberatamente le popolazioni civili kosovare e serbe, sono state confermate in seguito, a più riprese, da giornali specializzati o in articoli discreti, cioè non destinati al “grande pubblico”. Ancora ultimamente l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OCSE) notava in un rapporto del 6 dicembre che “contrariamente a quello che affermavano parecchi paesi al momento della guerra del Kosovo (…) le esecuzioni sommarie ed arbitrarie (ad opera delle forze serbe) sono diventate un fenomeno generalizzato con l’inizio della campagna aerea della Nato contro la Repubblica federale della Jugoslavia nella notte tra il 24 ed il 25 marzo (…). Fino a quella data, l’attenzione delle forze militari e paramilitari jugoslave e serbe era generalmente portata verso delle zone del Kosovo dove transitavano le forze dell’Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) e là dove l’UCK aveva delle basi” (ripreso da Le Monde, 7/12/99).
3. In una lettera ricevuta dalla Russia un lettore ci ha informato dell’esistenza di un vero e proprio traffico di ostaggi nel quale la complicità degli ufficiali russi con i capi delle bande cecene è un dato di fatto. Questo sembra confermato dalla stampa stessa, in particolare la vendita e la liberazione da parte di ufficiali russi a delle gang cecene di loro propri… soldati! Questi diventano poi oggetto di ricatto presso le loro famiglie, alle quali vengono consegnati dietro pagamento di un riscatto che viene diviso tra gli uni e gli altri!
4. A partire dal 1948 il piano Marshall viene messo in opera, al fine di ricostruire l’Europa dell’Ovest, sotto l’egida degli Stati Uniti. Lungi dall’essere disinteressato, questo “aiuto” americano aveva come obiettivo soprattutto quello di assicurare il dominio degli Stati Uniti sull’Europa occidentale contro le mire imperialiste dell’URSS. Il 1947 infatti segna l’inizio della guerra fredda tra i due blocchi imperialisti dell’epoca.
5. La decisione dello Stato americano di imporre la costruzione dell’oleodotto passante per la Turchia non è che uno degli esempi del ruolo mistificatore delle campagne contro il liberismo e l’impotenza degli Stati di fronte alle grandi multinazionali finanziarie ed economiche. Nei fatti, tutta la politica di liberalizzazione sviluppata a partire dagli anni 80 ha rafforzato e reso più efficace, più “flessibile”, e soprattutto ancora più totalitaria l’impresa Stato su tutti gli aspetti della vita sociale. Lungi dall’indebolirsi con il “liberismo” dei Reagan e Thatcher, il capitalismo di Stato non è mai stato tanto sviluppato come oggi. Le campagne internazionali anti OMC – come le manifestazioni alla conferenza di Seattle – che reclamano una vera “democrazia cittadina” hanno un solo scopo: presentare a livello internazionale un’alternativa democratica e di sinistra, una falsa alternativa, al fine di evitare la messa in discussione del capitalismo come tale.
6. La situazione economica, sociale e politica della Russia è una vera catastrofe. La Russia avrà enormi difficoltà ad onorare le prossime scadenze dei suoi debiti internazionali…mentre miliardi vengono inghiottiti dalla guerra. La situazione della popolazione, già in miseria sotto il capitalismo di Stato staliniano, non ha fatto che deteriorarsi dopo l’avvento della democrazia in tutto questo decennio. Le analisi recenti al riguardo sono ancora più drammatiche. Da un articolo del Washington Post ripubblicato in International Herald Tribune del 10/12/99,
“Se la demografia è il destino, il destino della Russia per i prossimi 50 anni è costernante. (…) Circa il 70% delle donne incinte in Russia hanno serie patologie, non solo di anemia (che riflette mancanza di ferro certamente dovuto a malnutrizione) ma anche di aumento di diabete, …. E di malattie che si propagano per via sessuale (a parte l’AIDS): La sterilità aumenta più del 3% all’ anno e più del 15-20% delle coppie sono oggi sterili. La nuova incidenza della sifilide si è moltiplicata per 77 dal 1990 per i due sessi, e per 50 per le ragazze tra i 10 ed i 14 anni (…). I casi di tubercolosi dovrebbero raggiungere un milione nel 2002. E la resistenza dei casi di tubercolosi – già nel numero di 30.000 - alle molteplici medicine ed i 2 milioni di malati di AIDS previsti, andranno a sommergere il sistema della sanità (…). Le cifre riguardanti il cancro ed i casi di morte per infarto cardiaco per i giovani di 15-19 anni sono il doppio rispetto alle cifre americane così come il numero di suicidi rispetto agli Stati Uniti (…). Queste sono delle questioni cruciali da affrontare per un paese che ha una lunga tradizione di espansione. Esso è oggi di fronte ad un futuro che sembra andare nella direzione opposta.” (Murray Feshbach, “Le statistiche della sanità per la Russia sono sinistre”).
E noi abbiamo già menzionato il grado di corruzione e di decomposizione dell’esercito: quando non vendono i loro soldati come schiavi, gli ufficiali vendono le loro armi al maggiore offerente, spesso anche ai ceceni. L’esercito non è che un esempio della realtà della corruzione e della delinquenza di tutta la società russa.
7. Senza dimenticare le minacce e la corsa agli armamenti nucleari tra l’India ed il Pakistan.
8. Questo summit dell’OCSE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) si è tenuto a Istanbul il 17 novembre 1999.
9. Vedi le Tesi sulla democrazia borghese e la dittatura proletaria pubblicate nella Revue Internationale n.100, I° trimestre 2000.
10. Questa presa di posizione è stata affissa alle fermate degli autobus e nelle metropolitane, e non diffusa sotto forma di volantino a causa della repressione e dell’isteria nazionalista che c’è in questo momento in Russia. La causa immediata di questo clima sciovinista e razzista? Gli attentati attribuiti agli islamici ceceni in Russia che sono quasi certamente l’opera, provocatoria, dei servizi segreti russi.
Questo rapporto ha come primo obiettivo quello di combattere le campagne ideologiche della borghesia sulla “fine della lotta di classe” e la “scomparsa della classe operaia”, per sostenere che, malgrado le sue attuali difficoltà, il proletariato non ha perduto il suo potenziale rivoluzionario. Nella prima parte di questo rapporto, non pubblicato qui per ragioni di spazio, abbiamo mostrato che il rigetto della borghesia di questo potenziale si basa su una impostazione immediatista che prende lo stato della lotta di classe in un determinato momento come valido per ogni momento. A questo procedimento superficiale ed empirico, noi opponiamo il metodo marxista che sostiene che “il proletariato non può esistere che in quanto forza storica e mondiale, come il comunismo, azione del proletariato, che non è concepibile se non in quanto realtà storica e mondiale.” (Marx, L’ideologia tedesca).
Qui pubblichiamo solo la parte del rapporto centrata più particolarmente sull’evoluzione del movimento dopo la ripresa della lotta di classe alla fine degli anni ’60. Anche alcuni passaggi che trattano di situazioni recenti e a corto termine sono stati tagliati o sintetizzati.
1968-1989: il risveglio del proletariato
(…) Il significato profondo degli avvenimenti di maggio-giugno 1968 in Francia risiede in questo: l’emergere di una nuova generazione di operai che non era stata schiacciata né demoralizzata dalle miserie e dalle sconfitte dei decenni precedenti, che era stata abituata a un livello di vita relativamente elevato durante gli anni del “boom” del dopoguerra e che non era disposto a sottomettersi alle esigenze di una economia nazionale di nuovo sprofondata nella crisi. Il grande sciopero generale di 10 milioni di operai in Francia – che andava di pari passo con un enorme fermento politico per cui la nozione di rivoluzione, di trasformazione del mondo, tornava ad essere un oggetto di discussioni impegnate – ha marcato il rientro della classe operaia sulla scena della storia, la fine dell’incubo della controrivoluzione che le aveva tolto il fiato per tanto tempo. L’importanza del “maggio strisciante” in Italia e dell’ ”autunno caldo” l’anno successivo sta nel fatto che essi hanno portato la conferma di questa interpretazione, contro tutti quelli che non vedevano nel maggio ’68 in Francia che una rivolta studentesca. L’esplosione della lotta del proletariato italiano, che è il più avanzato al mondo dal punto di vista politico, con la sua potente dinamica antisindacale, ha chiaramente mostrato che il maggio ’68 non era stato un fulmine a ciel sereno, ma l’apertura di tutto un periodo di lotte di classe su scala internazionale. I successivi movimenti di massa (Argentina 1969, Polonia 1970, Spagna ed Inghilterra 1972, ecc.) costituirono una conferma supplementare.
Non tutte le organizzazioni rivoluzionarie esistenti sono state capaci di vederlo: le più vecchie, e in particolare la corrente bordighista, prese da una miopia crescente nel corso degli anni, sono state incapaci di vedere il profondo cambiamento che stava avvenendo nel rapporto di forza globale fra le classi; ma quelle che sono state capaci allo stesso tempo di capire la dinamica di questo nuovo movimento e di riappropriarsi del vecchio metodo della sinistra italiana che costituì un polo di chiarezza nella penombra della controrivoluzione, hanno dichiarato l’apertura di un nuovo corso storico, fondamentalmente diverso da quello che aveva prevalso nell’apogeo della controrivoluzione, dominata dal corso verso la guerra.
La riapertura della crisi economica mondiale avrebbe portato a una esacerbazione degli antagonismi imperialisti che, se avessero seguito la propria dinamica interna, avrebbero condotto l’umanità a una terza e forse ultima guerra mondiale. Ma nella misura in cui il proletariato aveva cominciato a rispondere alla crisi sul suo proprio terreno di classe, esso costituiva un ostacolo fondamentale a questa dinamica. In più, sviluppando le sue lotte di resistenza, il proletariato si mostrava capace di avanzare una sua dinamica verso un secondo assalto rivoluzionario contro il sistema capitalista.
La natura di massa di questa prima ondata di lotte, il fatto che essa aveva di nuovo permesso di parlare di rivoluzione, portò molti elementi sorti con questo movimento a prendere i loro desideri per realtà e a pensare che il mondo fosse sull’orlo di una crisi rivoluzionaria fin dall’inizio degli anni settanta. Questa forma di immediatismo era basata sull’incapacità di capire che:
· la crisi economica che aveva provocato lo scoppio delle lotte non era che alla sua fase iniziale e che, contrariamente agli anni ’30, questa crisi si imponeva a una borghesia armata di esperienza e fornita degli strumenti che la rendevano capace di “gestire” la discesa nell’abisso, e cioè il capitalismo di Stato, l’utilizzazione di organi costituiti a livello di blocco, la capacità di contenere gli effetti più nefasti di questa crisi attraverso il ricorso al credito e spostando il suo impatto verso la periferia del sistema;
· gli effetti politici della controrivoluzione avevano ancora un effetto considerevole sulla classe operaia, a causa della rottura quasi totale della continuità con le organizzazioni politiche del passato, il debole livello di cultura politica nel proletariato nel suo complesso e la sua inveterata diffidenza verso “la politica” risultante dall’esperienza traumatica dello stalinismo e della socialdemocrazia.
Questi fattori apportavano la certezza che il periodo di lotta aperto nel 1968 non poteva che essere lungo. In contrasto con la prima ondata rivoluzionaria che era nata in risposta ad una guerra, e che per questo si era portata subito su un piano politico - troppo in fretta probabilmente, come nota Rosa Luxemburg rispetto alla rivoluzione del novembre 1918 in Germania - , le battaglie rivoluzionarie del futuro non potevano essere che preparate da tutta una serie di lotte di difesa economica che sono forzate a seguire un processo, difficile e diseguale, fatto di avanzate e di riflussi.
La risposta della borghesia francese al Maggio ’68 è stato il segnale della controffensiva della borghesia mondiale: per disperdere la lotta di classe si è fatto ricorso alla trappola elettorale (dopo che i sindacati avevano operato il sabotaggio delle lotte); agli operai è stata agitata la promessa di un governo di sinistra e l’illusione che questo avrebbe risolto tutti i problemi che avevano provocato le lotte, che avrebbe istituito un regno di prosperità e di giustizia, e anche un po’ di “controllo operaio”. Gli anni ’70 possono quindi essere caratterizzati come gli anni delle “illusioni”, nel senso che la borghesia, grazie a uno sviluppo ancora limitato della crisi economica, poteva ancora vendere queste illusioni al proletariato. Fu questa controffensiva a spezzare lo slancio della prima ondata internazionale di lotte.
Ma l’incapacità della borghesia a mantenere le sue promesse significava che la ripresa delle lotte era solo una questione di tempo. Tra il 1978 e il 1980 ci furono lotte importanti: Longwy-Denain in Francia, con una tendenza all’estensione al di là del settore siderurgico e al confronto con l’autorità sindacale; lo sciopero dei portuali di Rotterdam, dove nacque un comitato di sciopero autonomo; in Gran Bretagna, “l’inverno dello scontento” che vide l’esplosione simultanea di lotte in numerosi settori e lo sciopero della siderurgia nel 1980; infine, la Polonia 1980, punto culminante di questa ondata e in qualche modo di tutto il periodo di ripresa.
Alla fine di questo vivace decennio, la CCI aveva annunciato che gli anni ’80 sarebbero stati “gli anni della verità”, non nel senso, come è stato spesso mal interpretato, che esso sarebbe stato il decennio della rivoluzione, ma nel senso che le illusioni degli anni ’70 sarebbero state spazzate via dalla brutale accelerazione della crisi e dai conseguenti drastici attacchi alle condizioni di vita della classe operaia; un decennio nel corso del quale la stessa borghesia avrebbe parlato un linguaggio crudo, quello che promette “lacrime e sangue” o come quello della Tatcher che affermava “non c’è alternativa”. Questo cambiamento di linguaggio corrispondeva anche a un cambiamento nella linea politica della classe dominante, con la messa al potere di una destra dura a condurre gli attacchi contro la classe operaia, e una sinistra falsamente radicalizzata all’opposi-zione, incaricata di sabotare e deviare dall’interno la risposta degli operai. Infine, gli anni ’80 sarebbero stati quelli della verità perché l’alternativa storica che si pone all’umanità – guerra mondiale o rivoluzione mondiale – non solo sarebbe diventata più chiara, ma sarebbe stata in un certo senso determinata dagli avvenimenti che si sarebbero avuti nel decennio che si apriva.
Ed effettivamente gli avvenimenti che inaugurarono il decennio lo mostravano chiaramente: da un lato l’invasione russa dell’Afga-nistan metteva crudelmente in luce la “risposta” della borghesia alla crisi e apriva un periodo di acutizzazione delle tensioni tra i blocchi (illustrata dagli avvertimenti di Reagan contro l’Impero del Male e dalle enormi spese militari legate a programmi tipo “guerre stellari”), dall’altro lo sciopero di massa in Polonia faceva chiaramente intravedere la risposta proletaria.
La CCI ha sempre sostenuto l’importanza cruciale di questo movimento: “ Questa lotta ha dato una risposta a tutta una serie di questioni che le lotte precedenti avevano posto senza trovare una risposta o senza trovarne una chiara:
· la necessità dell’estensione della lotta (sciopero dei portuali di Rotterdam);
· la necessità della sua autorganizzazione (siderurgia in Gran Bretagna);
· l’atteggiamento di fronte alla repressione (lotta dei siderurgici di Longwy-Denain).
Su tutti questi punti, le lotte in Polonia rappresentano un gran passo in avanti della lotta mondiale del proletariato ed è per questo che queste lotte sono le più importanti da mezzo secolo a questa parte.” (“Risoluzione sulla lotta di classe”, 4° congresso della CCI, 1981, su Révue Internationale n. 26).
In pratica il movimento polacco aveva mostrato come il proletariato potesse ergersi a forza sociale unificata capace non solo di resistere agli attacchi del capitale, ma anche di far intravedere la prospettiva del potere operaio, un pericolo ben individuato dalla borghesia che mise da parte le sue rivalità imperialiste per soffocare il movimento, in particolare con la messa in piedi del sindacato Solidarnosc.
Rispondendo alla questione di come estendere e organizzare la lotta al fine di unificarla, lo sciopero di massa in Polonia ha posto un’altra questione: quella della generalizzazione dello sciopero di massa al di là delle frontiere nazionali, come condizione indispensabile per l’apertura di una situazione rivoluzionaria. Ma, come dicemmo anche allora, questa non poteva essere una prospettiva immediata. La questione della generalizzazione era stata posta in Polonia ma toccava al proletariato mondiale, e in particolare a quello dell’Europa occidentale trovare la risposta.
(…) la prospettiva rivoluzionaria richiede un proletariato concentrato e soprattutto sperimentato e “istruito”. Il proletariato dei paesi dell’est ha un passato rivoluzionario glorioso, ma esso è stato completamente annullato dagli orrori dello stalinismo, il che spiega l’enorme fossato tra l’alto livello di auto-organizzazione e di estensione del movimento in Polonia e la sua bassa coscienza politica (predominanza della religione e soprattutto dell’ideologia democratica e sindacale). Il livello politico del proletariato dell’Europa dell’ovest, che per decenni ha fatto l’esperienza delle “delizie” della democrazia, è notevolmente più elevato (cosa dimostrata, tra l’altro, dalla presenza in Europa della maggioranza delle organizzazioni rivoluzionarie internazionali). E’ innanzitutto e soprattutto nell’Europa occidentale che noi dobbiamo cercare la maturazione delle condizioni per il prossimo movimento rivoluzionario della classe operaia.
La profonda controrivoluzione che si è scatenata sulla classe operaia durante gli anni venti ha disarmato il proletariato nel suo insieme. Tuttavia si può dire che il proletariato di oggi ha un vantaggio sulla generazione rivoluzionaria del 1917: oggi non ci sono grandi organizzazioni rivoluzionarie che sono appena passate nel campo della borghesia e che per questo siano capaci di suscitare ancora una fiducia in una classe operaia che non ha avuto il tempo di assimilare le conseguenze storiche del loro tradimento. Questo fatto aveva costituito, con la socialdemocrazia, una causa importante nel fallimento della rivoluzione tedesca nel 1918-19. La distruzione sistematica delle tradizioni rivoluzionarie del proletariato, la sfiducia che la classe ne ha tirato verso ogni organizzazione politica, la sua amnesia verso la sua propria storia (fattore che si è notevolmente accelerato nel corso dell’ultimo decennio) costituiscono una grave debolezza per la classe operaia di tutto il pianeta.
Il proletariato dell’Europa occidentale non era pronto a cogliere la sfida posta dallo sciopero di massa in Polonia. La seconda ondata di lotta era stata smussata con la strategia della sinistra all’opposi-zione; gli operai polacchi si sono trovati isolati nel momento in cui avevano più bisogno che la lotta si allargasse in altri paesi. Questo isolamento (coscientemente imposto dalla borghesia internazionale) ha aperto le porte ai carri armati di Jaruzelski. La repressione del 1981 in Polonia segnò la fine della seconda ondata di lotte.
Avvenimenti storici di tale ampiezza hanno conseguenze a lungo termine. Lo sciopero di massa in Polonia ha provato definitivamente che solo la lotta di classe può costringere la borghesia a mettere da parte le sue rivalità imperialiste. In particolare esso ha mostrato che il blocco russo -– storicamente condannato, a causa della sua debolezza, ad essere “l’aggressore” in ogni guerra – era incapace di rispondere alla crisi economica con una politica di espansione militare. Si era chiarito che gli operai del blocco dell’est (e, molto probabilmente, della stessa Russia) non potevano assolutamente essere arruolati come carne da cannone in una qualunque futura guerra per la gloria del “socialismo”. Così lo sciopero di massa in Polonia è stato un fattore importante della successiva implosione del blocco imperialista russo.
Benché incapace di porre la questione della generalizzazione, la classe operaia occidentale non ha battuto in ritirata per lungo tempo. Con una prima serie di scioperi nel settore pubblico in Belgio nel 1983 essa si è lanciata in una “terza ondata” di lotte molto lunga che anche se non è sfociata nello sciopero di massa, ha mostrato una dinamica globale verso questo sbocco.
Nella nostra risoluzione del 1980 citata prima, facevamo un paragone tra la situazione della classe attuale con quella del 1917. La realtà della guerra faceva sì che ogni resistenza della classe finiva direttamente con il confrontarsi con lo Stato e per questo a porre la questione della rivoluzione. Allo stesso tempo la guerra implicava numerosi inconvenienti (la capacità della borghesia a seminare divisione tra gli operai dei paesi “vincitori” e quelli dei paesi “vinti”; a tagliare l’erba sotto i piedi della rivoluzione ponendo fine alla guerra, e così via). Una crisi economica lunga e internazionale tende viceversa non solo a uniformare le condizioni d’insieme della classe, ma dà anche al proletariato più tempo per sviluppare le sue forze, per sviluppare la sua coscienza attraverso tutta una serie di lotte parziali contro gli attacchi del capitale. L’ondata rivoluzionaria degli anni ’80 aveva chiaramente questa caratteristica: se nessuna lotta aveva il carattere spettacolare del maggio 1968 in Francia o del 1980 in Polonia, ognuna ha però contribuito ad apportare alcune importanti chiarificazioni sul perché e come lottare. Per esempio, il richiamo alla solidarietà per superare i limiti settoriali contenuto nelle lotte in Belgio del 1983 e del 1986 o in Danimarca nel 1985, ha mostrato concretamente come poteva essere risolto il problema dell’estensione; lo sforzo dei lavoratori di prendere in mano le loro lotte (assemblee dei ferrovieri in Francia nel 1986, o dei lavoratori della scuola in Italia nel 1987) hanno mostrato come organizzarsi al di fuori dei sindacati. Ci sono anche stati tentativi maldestri di tirare le lezioni delle sconfitte come in Gran Bretagna per esempio, dopo le lunghe, combattive ma massacranti lotte condotte dai minatori e dai tipografici a metà degli anni ’80; lotte, alla fine del decennio, che hanno mostrato che gli operai non volevano essere trascinati nelle stesse trappole (gli operai di British Telecom che sono scesi in sciopero per poi riprendere il lavoro prima di essere demoralizzati; le lotte simultanee in diversi settori durante l’estate 1988). Allo stesso tempo l’apparizione di comitati di lotta in diversi paesi apportava un inizio di risposta su come gli operai più combattivi possono agire di fronte alla lotta nel suo insieme.
Tutti questi fatti, apparentemente senza legame l’uno con l’altro, convergevano verso un unico punto che, se fosse stato raggiunto, avrebbe rappresentato un approfondimento qualitativo della lotta di classe internazionale.
Tuttavia, a un certo livello, il fattore tempo ha cominciato a giocare di meno in favore del proletariato. Confrontata all’approfondirsi di una crisi di tutto un modo di produzione, di una forma storica di civilizzazione, la lotta di classe, pur continuando ad andare avanti, non è riuscita a tenere il ritmo dell’accelerazione della situazione, non arrivando al livello richiesto perché il proletariato si affermi in quanto forza rivoluzionaria positiva. Malgrado ciò, la lotta della classe continuava a bloccare la marcia verso una guerra mondiale. Così, per la maggior parte dell’umanità e del proletariato stesso, la realtà della terza ondata è rimasta piuttosto dissimulata, a causa certo del black out della borghesia, ma anche per la sua progressione lenta e non spettacolare. La terza ondata era anche “nascosta” per la maggioranza delle organizzazioni politiche del proletariato che tendevano a non vedere che le sue espressioni più aperte, e in più a non vederle che come dei fenomeni separati, senza connessioni.
Questa situazione, in cui nonostante una crisi senza tregua la classe dominante non riusciva neanche essa a imporre la sua “soluzione”, ha dato origine al fenomeno della decomposizione, che è diventato sempre più identificabile, nel corso degli anni ’80, a diversi livelli: a livello sociale (atomizzazione crescente, delinquenza, diffusione dell’uso di droghe, ecc.) , ideologico (sviluppo di ideologie irrazionali e fondamentaliste), ecologico, ecc. Essendo il prodotto di un blocco della situazione, un blocco dovuto al fatto che nessuna delle due classi fondamentali della società arriva a imporre la sua “soluzione”, la decomposizione agisce a sua volta nel senso di minare la capacità del proletariato di ergersi a forza unita; alla fine del decennio, la decomposizione è sempre più al centro della scena, culminando nei giganteschi avvenimenti del 1989 che hanno marcato l’apertura definitiva di una nuova fase nella lunga caduta del capitalismo in fallimento, una fase durante la quale tutto l’edificio sociale ha cominciato a scricchiolare, tremare e crollare.
1989-99: la lotta di classe di fronte alla decomposizione della società borghese
Il crollo del blocco dell’est si è dunque imposto a un proletariato che, per quanto combattivo e sulla strada di sviluppare la sua coscienza di classe, non aveva ancora raggiunto il livello necessario per essere capace di reagire sul suo terreno di classe ad un avvenimento storico di una tale importanza.
Il crollo del blocco dell’est e l’enorme, mistificatoria campagna ideologica sulla “morte del comunismo” che la borghesia ha sviluppato in questa occasione ha bloccato la terza ondata e (ad eccezione di una debole minoranza politicizzata della classe operaia) ha avuto un impatto profondamente negativo sulla coscienza di classe, elemento fondamentale per la capacità della classe di sviluppare una prospettiva, di mettere avanti uno scopo globale alla lotta, in un periodo tra l’altro in cui è sempre più difficile separare le lotte difensive dalla battaglia offensiva e rivoluzionaria del proletariato.
Il crollo del blocco dell’est ha portato un colpo alla classe in due maniere:
· ha permesso alla borghesia di sviluppare tutta una serie di campagne sul tema della “morte del comunismo” e della “fine della lotta di classe” che ha profondamente intaccato la capacità della classe di situare le sue lotte nella prospettiva della costruzione di una nuova società, ergendosi a forza autonoma e antagonista al capitale. La classe operaia, non avendo giocato alcun ruolo specifico negli avvenimenti del 1989-91, è stata toccata profondamente a livello della fiducia in se stessa. Sia la combattività che la coscienza della classe hanno subito un riflusso considerevole, certamente il più profondo dopo la ripresa storica del 1968. I sindacati hanno ricavato il più grande profitto da questa perdita di fiducia, facendo un ritorno trionfale come “solo e vero mezzo che hanno gli operai” per difendersi;
· allo stesso tempo, il crollo del blocco dell’est ha aperto le porte a tutte le forze della decomposizione che stavano alla sua origine, sottoponendo sempre più la classe alla putrida atmosfera del “ciascuno per sé”, alle influenze nefaste del gangsterismo, del fondamentalismo, ecc. In più la borghesia si è mostrata capace di rivolgere contro la classe operaia le manifestazioni della decomposizione del suo sistema. Un esempio tipico di questo è stato l’affare Doutroux in Belgio, dove le sporche pratiche delle cricche borghesi sono state utilizzate come pretesto per trascinare la classe operaia in una vasta campagna democratica per un “governo pulito”. L’utilizzazione della mistificazione democratica è diventata sempre più sistematica, perché essa è allo stesso tempo la “logica conclusione da tirare dalla fine del comunismo” (secondo la borghesia) e costituisce lo strumento ideale oggi per accrescere l’atomizzazione della classe e incatenarla allo Stato capitalista. Le guerre provocate dalla decomposizione – il massacro del Golfo nel 1991, l’ex-Yugoslavia, ecc. – hanno certamente permesso a una minoranza di vedere più chiaramente la natura militarista e barbara del capitalismo, ma hanno anche l’effetto più generale di aumentare il senso di impotenza nel proletariato, il sentimento di vivere in un mondo crudele e irrazionale nel quale non c’è altra soluzione che quella di nascondere la testa sotto la sabbia.
La situazione dei disoccupati mostra con chiarezza i problemi che si pongono oggi alla classe. Fino all’inizio degli anni ottanta la CCI aveva considerato i disoccupati come una fonte potenziale di radicalizzazione per l’insieme del movimento di classe. Ma sotto il peso della decomposizione si è visto che è risultato sempre più difficile per i disoccupati sviluppare le loro proprie forme collettive di lotta e organizzazione, essendo essi particolarmente vulnerabili agli effetti più distruttivi della decomposizione (atomizzazione, delinquenza, ecc.). E questo è vero in particolare per i disoccupati giovani, che non hanno mai fatto l’esperienza della disciplina collettiva e della solidarietà del lavoro. Allo stesso tempo questa influenza negativa è stata aggravata dalla tendenza del capitale a “disindustrializzare” i suoi settori “tradizionali” – miniere, cantieri navali, siderurgia, ecc. – dove gli operai hanno una lunga esperienza di solidarietà di classe. Invece di portare la loro forza collettiva alla loro classe, questi proletari hanno avuto tendenza a diluirsi in una massa inerte, finendo con il togliere all’insieme della classe una sorgente importante di identità e di esperienza.
I pericoli contenuti nel nuovo periodo per la classe operaia e l’avvenire delle sue lotte non possono essere sottostimati. Se la lotta della classe operaia ha chiaramente sbarrato la strada alla tendenza alla guerra mondiale negli anni settanta e ottanta, essa non può né fermare né rallentare il processo di decomposizione. Per scatenare una guerra mondiale, la borghesia avrebbe dovuto infliggere una serie di sconfitte importanti ai battaglioni centrali della classe operaia. Oggi, il proletariato è confrontato a una minaccia, dai tempi lunghi ma non meno pericolosa, di una cottura “a fuoco lento” in cui la classe operaia viene sempre più schiacciata da questo processo di decomposizione, fino a poter perdere la sua capacità di affermarsi in quanto classe, mentre il capitalismo passa di catastrofe in catastrofe (guerre locali, catastrofi ecologiche, carestie, epidemie, ecc.). Tutto questo può arrivare fino al punto che le premesse stesse per una società comunista possono essere distrutte per intere generazioni, per non parlare della possibilità stessa della distruzione totale dell’umanità.
Secondo noi, malgrado i problemi posti dalla decomposizione, malgrado il riflusso della lotta di classe avutosi in questi ultimi anni, la capacità del proletariato di lottare, di reagire al declino del sistema capitalista, non è sparita, e il corso verso scontri di massa resta aperto. Per mostrare questo è necessario esaminare di nuovo la dinamica generale della lotta di classe dall’inizio della fase di decomposizione.
L’evoluzione della lotta di classe dopo il 1989
Come la CCI aveva previsto all’epoca, nel corso dei due o tre anni che hanno seguito il crollo del blocco dell’est il riflusso della classe operaia è stato molto marcato sia a livello della sua coscienza che della combattività La classe operaia subiva in pieno la campagna sulla “morte del comunismo”.
Nel corso del 1992 gli effetti di questa campagna hanno cominciato a diminuire e si sono potuti vedere dei primi segni di una ripresa della combattività, in particolare attraverso la mobilitazione degli operai italiani contro le misure di austerità del governo Amato nel mese di settembre. Queste mobilitazioni sono state seguite in ottobre dalle manifestazioni dei minatori contro la chiusura delle miniere in Inghilterra. Alla fine del 1993 ci sono stati nuovi movimenti di lotta in Italia, in Belgio, in Spagna e soprattutto in Germania con scioperi e manifestazioni in numerosi settori, in particolare nell’edilizia e in quello automobilistico.
Nell’editoriale della nostra Révue Internationale n. 76, opportunamente intitolato “la difficile ripresa della lotta di classe”, dicevamo: “la calma sociale che regnava da quasi quattro anni è definitivamente interrotta”. Pur salutando questa ripresa della combattività nella classe, la CCI sottolineava le difficoltà e gli ostacoli con cui questa ripresa si sarebbe confrontata: la forza ritrovata dei sindacati; la capacità della borghesia di manovrare contro di essa, in particolare la sua capacità di scegliere il momento e i temi su cui provocare movimenti importanti; la capacità della classe dominante di utilizzare a pieno il fenomeno della decomposizione per rafforzare l’ato-mizzazione della classe (all’epoca c’era un grande utilizzo degli scandali, di cui un esempio importante fu la campagna su “mani pulite” in Italia).
Nel dicembre del 1995 tutto l’ambiente politico rivoluzionario ha subito una prova importante. Sull’onda di un conflitto nelle ferrovie e a seguito di una attacco molto provocatorio alla protezione sociale di tutti i lavoratori, tutto concorreva a far sembrare la Francia sull’orlo di un movimento molto importante, con scioperi e assemblee generali, con slogan lanciati dai sindacati e gridati dai lavoratori che mettevano in evidenza come la sola maniera per vincere era quella di “lottare tutti assieme”. Un certo numero di gruppi rivoluzionari, normalmente scettici sulla lotta di classe in generale, si sono particolarmente entusiasmati per questo movimento. La CCI, al contrario, ha messo in guardia gli operai sul fatto che questo “movimento” era innanzitutto il prodotto di una gigantesca manovra della classe dominante che, cosciente del malcontento crescente in seno alla classe operaia, cercava di fare un’opera preventiva prima che la collera sfociasse in una vera lotta spontanea. In particolare, presentando i sindacati come i campioni della lotta, come i migliori difensori dei metodi operai di lotta (assemblee, delegazioni di massa verso gli altri settori, ecc.) la borghesia cercava di rafforzare la credibilità del proprio apparato sindacale, in preparazione di futuri scontri importanti. Benché la CCI sia stata molto criticata per la sua “visione cospiratrice” della lotta di classe, questa analisi è stata confermata in seguito. Le borghesie belga e tedesca, con i loro sindacati, hanno in effetti effettuato delle copie conformi del “movi-mento francese”, mentre in Gran Bretagna (campagna sui portuali di Liverpool) e negli Stati Uniti (sciopero alla UPS) avevano luogo diversi tentativi di rinnovamento dell’immagine dei sindacati.
L’ampiezza di queste manovre non ha rimesso in discussione la tendenza strisciante alla ripresa della lotta di classe. In effetti si potrebbe dire che queste manovre, destinate a provocare lotte in condizioni sfavorevoli e spesso su parole d’ordine sbagliate, costituiscono una misura del pericolo costituito dalla classe operaia.
Il grande sciopero in Danimarca all’inizio dell’estate del 1998 ha portato una importante conferma delle nostre analisi. A prima vista questo movimento sembrerebbe avere molte somiglianze con gli avvenimenti del dicembre 1995 in Francia. Ma, come scrivemmo nel nostro editoriale della Révue Internationale n. 94, non era così: “Nonostante la sconfitta dello sciopero e le manovre della borghesia, questo movimento non ha lo stesso significato di quello del dicembre 1995 in Francia. In particolare, mentre in Francia il ritorno al lavoro si era fatto sotto un sentimento di euforia,con una sensazione di aver vinto che non lasciava spazio a una rimessa in discussione del sindacalismo, la fine dello sciopero in Danimarca era accompagnata da un sentimento di sconfitta e da poche illusioni sui sindacati. Questa volta l’obiettivo della borghesia non è stato quello di lanciare una vasta campagna internazionale di credibilizzazione dei sindacati, ma di bagnare le polveri, di giocare d’anticipo su un malcontento e una combattività crescente che si faceva spazio poco a poco sia in Danimarca che in altri paesi d’Europa e non.”
Questo editoriale mostra anche altri aspetti importanti dello sciopero: il suo essere di massa (un quarto del proletariato danese in sciopero per due settimane) a testimonianza reale del livello montante della collera e della combattività nella classe e l’utilizzo intensivo del sindacalismo di base per assorbire la combattività ed il malcontento operaio verso i sindacati ufficiali.
Al di là di tutto, è il contesto internazionale ad essere mutato: un’atmosfera di combattività crescente che si esprimeva in numerosi paesi ed in maniera continua:
· negli Stati Uniti, durante l’estate 1998, con gli scioperi di quasi 10.000 operai alla General Motors, quello di 70.000 operai della compagnia telefonica Bell Atlantic, quella degli operai del settore sanità a New York, senza parlare dei violenti scontri con la polizia durante una manifestazione di 40.000 edili a New York;
· in Gran Bretagna, con gli scioperi non ufficiali della sanità in Scozia, dei postali a Londra, così come i due scioperi degli elettrici nella capitale che hanno mostrato una chiara volontà di battersi malgrado l’opposizione della direzione sindacale;
· in Grecia, durante l’estate, dove degli scioperi tra gli insegnanti sono arrivati allo scontro con la polizia;
· in Norvegia dove in autunno vi è stato uno sciopero paragonabile in ampiezza a quello della Danimarca;
· in Francia, dove si sono sviluppate tutta una serie di lotte in vari settori, nella scuola, nella sanità, nelle poste e nei trasporti, in particolare lo sciopero degli autista dei bus a Parigi in autunno dove i lavoratori hanno risposto sul loro terreno di classe ad una conseguenza della decomposizione – il numero crescente di aggressioni che subiscono – rivendicando dei posti di lavoro in più piuttosto che la presenza della polizia sugli autobus;
· in Belgio, dove una lenta ma chiara ascesa della combattività, manifestata negli scioperi nell’industria automobilistica, nei trasporti, nelle comunicazioni, è stata contrastata con una gigantesca campagna sul tema del “sindacalismo di lotta”. Ciò si è manifestato esplicitamente con la promozione di un “movimento per il rinnovamento sindacale” che utilizza un linguaggio estremamente radicale e “unitario” e il cui leader, D’Orazio, si è visto dotare di un’aureola di radicalismo, perché perseguito in giudizio per “violenza”;
· nel terzo mondo, con gli scioperi in Corea, delle voci su di un malcontento massiccio e crescente in Cina e, più di recente, in Zimbawe dove uno sciopero generale è stato indetto per canalizzare la collera degli operai non solo contro le misure di austerità del governo ma anche contro i sacrifici imposti dalla guerra nella repubblica democratica del Congo; questo sciopero ha coinciso con diserzioni e proteste in seno alle truppe.
Si potrebbero fare altri esempi, benché sia difficile ottenere informazioni per il fatto che – contrariamente alle grandi manovre sindacali largamente amplificate dai mezzi di informazione nel 1995 e 1996 – la borghesia ha risposto alla maggior parte di questi movimenti con la politica del black-out, della censura, del silenzio, a riprova del fatto che questi movimenti sono l’espressione di una vera e crescente combattività che la borghesia non vuole incoraggiare.
Le risposte della borghesia e le prospettive della lotta di classe
Di fronte alla crescita della combattività, la borghesia non può restare inerte. Essa ha già lanciato o intensificato tutta una serie di campagne sia sul terreno della lotta che sul piano politico più in generale, e ciò per intaccare la combattività della classe ed impedire lo sviluppo della sua coscienza. Si assiste oggi ad un rifiorire dei sindacati “di lotta” (come in Belgio, Grecia o nello sciopero degli elettrici inglesi), e nello stesso tempo si sviluppa la propaganda sulla “democrazia” (la vittoria dei governi di sinistra, l’affare Pinochet, ecc.), le mistificazioni sulla crisi (la “critica” della mondializzazione, gli appelli ad una sedicente “terza via” che utilizzerebbe lo Stato per tenere le redini di una “economia di mercato” ribelle) e che continuano con le calunnie contro la rivoluzione d’Ottobre, il bolscevismo e la Sinistra comunista, ecc.
Oltre a queste campagne, vediamo che la classe dominante si appresta ad utilizzare al massimo tutte le manifestazioni della decomposizione sociale per aggravare le difficoltà alle quali la classe operaia deve far fronte: resta ancora un cammino molto lungo da percorrere tra il genere di movimento che abbiamo visto in Danimarca e lo sviluppo di scontri massicci di classe nei paesi del cuore del capitale, scontri che offriranno di nuovo la prospettiva della rivoluzione a tutti gli sfruttati e oppressi della terra.
Tuttavia, lo sviluppo della lotta durante il recente periodo ha mostrato che, malgrado tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare nell’ultimo decennio, la classe operaia non ne esce sconfitta e conserva anche un enorme potenziale per combattere questo sistema moribondo. In effetti, esistono molti fattori importanti che possono permettere la radicalizzazione degli attuali movimenti della classe e portarli ad un livello superiore:
· Lo sviluppo sempre più aperto della crisi economica mondiale. A dispetto di tutti i tentativi della borghesia per minimizzare il suo significato e mistificarne le cause, la crisi resta “l’alleata del proletariato” nel senso che essa tende a mettere a nudo i reali limiti del modo di produzione capitalistico. L’anno scorso, abbiamo già assistito ad un approfondimento maggiore della crisi economica e sappiamo che il peggio deve ancora venire; sono i grandi centri capitalistici a risentire prima di tutti di questo ultimo tonfo;
· L’accelerazione della crisi corrisponde all’accelerazione degli attacchi capitalistici contro la classe operaia. Ma essa significa anche che la borghesia è sempre meno in grado di diluire nel tempo questi attacchi, di riportarli o di concentrarli su alcuni settori. Sarà sempre più tutta la classe operaia ad essere colpita e tutti gli aspetti della sue condizioni di vita ad essere minacciati. Così la necessità degli attacchi massicci della borghesia metterà sempre più in chiaro la necessità di una risposta di massa della classe operaia;
· Nello stesso tempo, la borghesia dei principali centri capitalistici sarà anche costretta ad impegnarsi sempre più in avventure militari; la società sarà sempre più impregnata da un’atmosfera di guerra. Abbiamo detto che in alcune circostanze (come immediatamente dopo il crollo del blocco dell’Est), lo sviluppo del militarismo può far aumentare il sentimento di impotenza del proletariato. Nello stesso tempo abbiamo notato, come durante la guerra del Golfo, che alcuni eventi possono anche avere un effetto positivo sulla coscienza di classe, in particolare all’interno di una minoranza più politicizzata o più combattiva. Resta vero che la borghesia è incapace di mobilitare in massa il proletariato per le sue avventure militari. Uno dei fattori che spiega la vasta “opposizione” in seno alla classe dominante ai recenti raids sull’Irak è la difficoltà a “vendere” questa politica di guerra alla popolazione in generale e alla classe operaia in particolare. Queste difficoltà vanno crescendo per la classe dominante, perché a livello militare essa sarà sempre più costretta a mostrare i denti.
* * * * *
Il Manifesto Comunista descrive la lotta di classe coma una “guerra civile più o meno velata”. La borghesia, pur tentando di creare l’illusione di un ordine sociale in seno al quale i conflitti di classe apparterrebbero al passato, è tuttavia costretta ad accelerare le condizioni stesse che polarizzano la società intorno a due campi opposti da antagonismi inconciliabili. Più la società borghese sprofonda nella sua mortale agonia, più il velo che nasconde questa “guerra civile” sparirà. Di fronte a contraddizioni economiche, sociali e militari sempre più forti, la borghesia è costretta a rinserrare tutto il suo stato politico totalitario sulla società, per impedire ogni attentato al suo ordine e domandare sempre più sacrifici e dare sempre meno in cambio. Come nel secolo scorso, quando il Manifesto fu scritto, la lotta degli operai tende a ridivenire la lotta di una classe “fuori legge”, una classe che non ha alcun interesse da difendere nell’attuale sistema e le cui ribellioni e proteste sono effettivamente interdette dalla legge. In ciò risiede l’importanza di tre aspetti essenziali della lotta di classe oggi:
· la lotta per costruire un rapporto di forze in favore degli operai, è la chiave perché la classe sia capace di riaffermare la sua identità di classe contro tutte le divisioni imposte dall’ideologia borghese in generale ed i sindacati in particolare e contro l’atomizzazione aggravata dalla decomposizione del capitalismo. E’ soprattutto una chiave nella pratica perché essa si rivela una necessità immediata in ogni lotta: gli operai non possono difendersi che allargando il fronte della loro lotta in maniera più ampia possibile;
· la lotta per uscire dalla prigione sindacale; sono nei fatti i sindacati che mettono avanti dappertutto la “legalità” capitalista e le divisioni corporative nella lotta, che cercano di impedire agli operai di costruire un rapporto di forza a loro favore. La capacità degli operai di affrontare i sindacati e di sviluppare le proprie forme di organizzazione sarà dunque un criterio cruciale della reale maturazione della lotta nel periodo futuro, quali che siano le difficoltà di questo processo;
· lo scontro con i sindacati è nello stesso tempo scontro con lo Stato capitalista; e lo scontro con lo Stato capitalista è la chiave della politicizzazione della lotta di classe. In molti casi è la borghesia che prende l’iniziativa di fare di “ogni lotta di classe una lotta politica” (Il Manifesto) perché essa non può, in fin dei conti, integrare la lotta di classe nel suo sistema. L’inizio del “confronto” è stato e sarà sempre più intrapreso dalla classe dominante. Ma la classe operaia dovrà rispondere, non semplicemente sul terreno della difesa immediata, ma prima di tutto sviluppando una prospettiva generale per le sue lotte, ponendo ogni lotta parziale nel contesto più vasto della lotta contro tutto il sistema. Questa coscienza sarà per ancora molto tempo necessariamente limitata ad una minoranza. Ma questa minoranza aumenterà e questa crescita si manifesterà nell’aumento dell’influenza delle organizzazioni politiche rivoluzionarie su un numero sempre maggiore di operai radicalizzati. Da ciò deriva la necessità vitale per queste organizzazioni di seguire molto da vicino lo sviluppo del movimento della classe e di essere capaci di intervenire al suo interno.
La borghesia può cercare di venderci la menzogna secondo la quale la lotta di classe è morta. Ma essa è già sul punto di prepararsi alla “guerra civile aperta” che è sicuramente contenuta nel futuro di un ordine sociale che è con le spalle al muro. La classe operaia e le sue minoranze rivoluzionarie devono, anche loro, prepararvisi.
28/12/98
TESTO DI ORIENTAMENTO
1) Dei 15 paesi che compongono l'Unione Europea, 13 hanno oggi dei governi diretti da partiti socialdemocratici o a partecipazione socialdemocratica (solo la Spagna e l'Irlanda fanno eccezione). Questa realtà evidentemente è stata oggetto di analisi e di commenti da parte dei giornalisti borghesi così come dei gruppi rivoluzionari. Così, per uno "specialista" di politica internazionale come Alexandre Adler: "le sinistre europee hanno almeno un obiettivo unico: la conservazione dello stato provvidenza, la difesa di una sicurezza comune degli europei" (Courrier International, n°417). Allo stesso modo, Le Proletaire dell'autunno 1998 consacra un articolo a questa questione in cui afferma con ragione che l'attuale predominio della socialdemocrazia alla testa della maggior parte dei paesi europei corrisponde ad un politica deliberata e coordinata a scala internazionale della borghesia contro la classe operaia. Tuttavia, tanto nei commenti borghesi che nell'articolo di Le Proletaire non si capisce la specificità di questa politica rispetto a quella portata avanti dalla classe dominante nei periodi passati a partire dalla fine degli anni '60. Dobbiamo dunque capire le cause del fenomeno politico al quale assistiamo attualmente a livello europeo ed anche a livello mondiale (con la presenza dei democratici alla testa dell'esecutivo degli Stati Uniti). Ciò detto, prima di ricercare queste cause, occorre rispondere ad una domanda: Possiamo interpretare il dato di fatto indiscutibile della presenza quasi egemonica dei partiti socialdemocratici alla guida dei paesi dell'Europa occidentale come l’espressione di un fenomeno generale con delle cause comuni per tutti i paesi oppure dobbiamo pensare che si tratti di una coincidenza casuale di una serie di situazioni particolari e specifiche a ogni paese?
2) Il marxismo si distingue dall’atteggiamento empirico per il fatto che non trae le sue conclusioni a partire dai soli fatti osservati in un dato momento, ma interpreta e integra questi fatti in una visione storica e globale della realtà sociale. Essendo un metodo vivente, esso si preoccupa di esaminare in permanenza questa realtà senza mai esitare a mettere in discussione le analisi elaborate in precedenza:
In ogni caso, il metodo marxista non deve essere considerato come un dogma intangibile di fronte al quale la realtà non avrebbe altra alternativa che piegarsi. Una tale concezione del marxismo è quella dei bordighisti (o del defunto FOR che negava la realtà della crisi perché non corrispondeva ai suoi schemi). Ma non è quella che la CCI ha ereditato da Bilan e dall'insieme della Sinistra Comunista. Se il metodo marxista si guarda bene dal basarsi sui soli fatti immediati e rifiuta di sottomettersi alle "evidenze" celebrate dagli ideologi della borghesia, esso è obbligato tuttavia a tenere conto in permanenza di questi fatti. Di fronte al fenomeno della massiccia presenza della sinistra alla guida dei paesi europei, si può evidentemente cercare di trovare per ogni paese delle ragioni specifiche che spieghino i motivi di una tale disposizione delle forze politiche. Per esempio, noi abbiamo attribuito all'estrema debolezza politica e alle divisioni della destra in Francia il ritorno della sinistra al governo nel 1997. Ugualmente abbiamo visto che hanno giocato un ruolo importante nella costituzione del governo di sinistra delle considerazioni di politica estera, in Italia contro il "polo" di Berlusconi favorevole all'alleanza con gli Stati Uniti, o in Gran Bretagna, dove i conservatori erano profondamente divisi in rapporto all'Unione Europea e agli Stati Uniti. Tuttavia, voler fare scaturire la situazione politica attuale in Europa dalla semplice somma delle situazioni particolari dei singoli paesi che la compongono sarebbe un esercizio vano e contrario allo spirito marxista. Infatti, secondo il metodo marxista, la quantità diviene, in alcune circostanze, una qualità nuova. Quando si constata che mai, da quando hanno raggiunto il campo borghese, tanti partiti socialisti sono stati simultaneamente al governo (anche se tutti lo erano stati in un momento o un altro), quando si vede che anche in paesi importanti come la Gran Bretagna e la Germania (dove la borghesia abitualmente padroneggia molto bene il suo gioco politico) la sinistra è stata installata al governo in modo deliberato dalla borghesia, è necessario considerare che si tratta di una "qualità" nuova che non può ridursi alla semplice sovrapposizione di "casi particolari". (1)
D’altra parte è proprio questa l’impostazione che noi abbiamo seguito quando abbiamo messo in evidenza il fenomeno della "sinistra all'opposizione", alla fine degli anni '70. Così il testo adottato dal 3° congresso della CCI, che dava il quadro della nostra analisi sulla sinistra all'opposizione, cominciava con il tenere conto del fatto che nella maggior parte dei paesi europei, la sinistra era stata estromessa dal potere:
“Basta dare uno sguardo per constatare che .. l'arrivo della sinistra al potere non si è verificato; anzi, la sinistra in questo ultimo anno è stata sistematicamente estromessa dal potere nella maggior parte dei paesi d'Europa. Basti citare il Portogallo, l'Italia, la Spagna, i paesi scandinavi, la Francia, il Belgio, la Gran Bretagna così come Israele per constatarlo. Restano praticamente solo due paesi in Europa dove la sinistra è al potere: la Germania e l'Austria." (“All'opposizione come al governo, la 'sinistra' contro la classe operaia”, Revue Internationale n° 18).
3) Nell'analisi delle cause che motivano la venuta della sinistra al governo in questo o quel paese europeo, occorrerà tenere conto dei fattori specifici (per esempio, nel caso della Francia, l'estrema debolezza della "destra la più stupida al mondo"). Tuttavia, è fondamentale che i rivoluzionari siano capaci di dare all'insieme del fenomeno una risposta globale e la più completa possibile. È’ ciò che la CCI aveva fatto nel 1979, durante il suo 3° congresso, a proposito della sinistra all'opposizione, e il miglior modo di riprendere questo lavoro è ricordare con quale metodo abbiamo analizzato questo fenomeno all'epoca:
“In seguito all'apparizione della crisi e alle prime manifestazioni della lotta operaia, la sinistra al governo era la risposta più adeguata del capitalismo nei primi anni (…), la sinistra, ponendo la sua candidatura al governo, assolveva efficacemente alla sua funzione di inquadramento del proletariato, smobilitandolo e paralizzandolo con le sue mistificazioni sul "cambiamento" e sull'elettoralismo.
La sinistra doveva restare ed è restata in questa posizione finché questa le permetteva di assolvere alla sua funzione. Non si tratta dunque di un errore che avremmo commesso in passato ma di qualcosa di differente e di più sostanziale, d'un cambiamento che è intervenuto nell'allineamento delle forze della borghesia. Sarebbe un grave errore non riconoscere in tempo questo cambiamento e continuare a ripetere nel vuoto frasi sul 'pericolo della sinistra al potere'. Prima di proseguire l'esame del perché di questo cambiamento e del suo significato, occorre insistere in modo particolare sul fatto che non si tratta di un fenomeno circostanziale e limitato a questo o quel paese, ma di un fenomeno generale, valido a breve termine e forse a medio termine, per l'insieme dei paesi occidentali. (…)
Dopo aver efficacemente realizzato il suo compito d'immobilizzazione della classe operaia negli ultimi anni, la sinistra al potere o in marcia verso il potere oggi non può più assumere questa funzione che ponendosi all'opposizione. Le ragioni di questo cambiamento sono molteplici: esse dipendono certamente dalle condizioni particolari specifiche ai diversi paesi, ma questi sono motivi secondari; le principali ragioni risiedono nell'usura subita dalla sinistra e il lento sganciamento rispetto alle mistificazioni della sinistra da parte delle masse operaie. La recente ripresa delle lotte operaie e la loro radicalizzazione ne sono la testimonianza evidente.
Ricordiamo i tre criteri emersi durante le analisi e le discussioni anteriori sulla sinistra al potere:
· migliore integrazione nel blocco occidentale sotto il dominio del capitale degli Stati Uniti;
La sinistra riuniva meglio e con più efficacia queste tre condizioni, e gli Stati Uniti, leader del blocco, appoggiavano volentieri il suo arrivo al potere con delle riserve tuttavia nei confronti dei PC. (…) Ma se gli Stati Uniti restavano quantomeno diffidenti per ciò che concerne i PC, il loro sostegno al permanere o all'arrivo dei socialisti al potere, dovunque fosse possibile, era totale. (…)
Ritorniamo ai criteri per la sinistra al potere. Esaminandoli da vicino vediamo che anche se la sinistra li rappresenta meglio, questi non sono tutti patrimonio esclusivo della sinistra. I primi due, le misure di capitalismo di stato e l'integrazione nel blocco, possono perfettamente essere portati a termine, se la situazione lo esige, da altre forze politiche della borghesia, come i partiti di centro o della destra. (2) (…) Al contrario, il terzo criterio, l'inquadramento della classe operaia, è appannaggio proprio ed esclusivo della sinistra. È’ la sua funzione specifica, la sua ragione d'essere.
Questa funzione, la sinistra non la compie unicamente, e neanche generalmente al potere. (...) In genere, la partecipazione della sinistra al potere è assolutamente necessaria in due situazioni precise:
1) nella Sacra Unione in vista della guerra per trascinare gli operai alla difesa nazionale;
2) in una situazione rivoluzionaria per ostacolare la marcia della rivoluzione.
Al di fuori di queste due situazioni estreme, nelle quali la sinistra non può non esporsi apertamente come difensore incondizionato del regime borghese affrontando apertamente e violentemente la classe operaia, la sinistra deve sempre vegliare a non svelare troppo la sua vera identità e la sua funzione capitalista e a mantenere la mistificazione che la sua politica porta alla difesa degli interessi della classe operaia. (…). Pertanto, anche se la sinistra come ogni partito borghese aspira 'legittimamente' ad accedere al potere statale, si deve tuttavia notare una differenza che distingue questi partiti degli altri partiti della borghesia per ciò che concerne la loro presenza al potere. Questi partiti della sinistra pretendono essere dei partiti 'operai' e come tali sono obbligati a presentarsi davanti agli operai con una maschera, una fraseologia 'anticapitalista ' di lupi con addosso la pelle di montone. Il loro soggiorno al potere li mette in una situazione ambivalente più difficile di ogni altro partito chiaramente borghese. Un partito apertamente borghese esegue al potere ciò che diceva di fare, la difesa del capitale, e non si trova affatto discreditato facendo una politica antioperaia. È esattamente lo stesso sia all'opposizione che al governo. È tutto il contrario per ciò che riguarda i partiti cosiddetti 'operai'. Essi devono avere una fraseologia operaia e una pratica capitalista, un linguaggio nell'opposizione e una pratica assolutamente opposta nel governo. (…) Dopo una prima esplosione di malcontento e di convulsioni sociali che aveva sorpreso la borghesia, neutralizzata solo dalla 'sinistra al potere' , con il continuo aggravamento della crisi, le illusioni della sinistra al potere che si dissipano, la ripresa della lotta che s'annuncia, diviene urgente che la sinistra ritrovi il suo posto nell'opposizione e radicalizzi la sua fraseologia per poter controllare questa ripresa delle lotte che s'avvicina. Evidentemente, questo non può essere un fatto definitivo, ma è attualmente e per il prossimo futuro un fatto generale. (3)” (ibid.)
4) Il testo del 1979, come si vede, ricordava la necessità di esaminare il fenomeno dello spiegamento delle forze politiche alla testa degli Stati borghesi sotto tre angoli differenti:
Esso affermava inoltre che questo ultimo aspetto è, in ultima istanza, il più importante nel periodo storico aperto con la ripresa proletaria alla fine degli anni 1960.
Nella comprensione della presente situazione è un fattore che la CCI ha già preso in conto sin dal gennaio 1990 durante il crollo del blocco dell'est e l'arretramento della coscienza ch'esso aveva provocato nella classe operaia: "È per questa ragione, in particolare, che conviene aggiornare l'analisi sviluppata dalla CCI sulla 'sinistra all'opposizione'. Questa carta era necessaria alla borghesia dalla fine degli anni '70 e per tutti gli anni '80 a causa della dinamica generale della classe operaia verso scontri sempre più determinati e coscienti, per il crescente rigetto delle mistificazioni democratiche, elettorali e sindacali. (…) Invece, il riflusso attuale della classe operaia non impone più alla borghesia, per un certo tempo, l'utilizzazione prioritaria di questa strategia." (Revue Internationale n° 61)
Tuttavia, ciò che all'epoca era concepito come una possibilità s'impone oggi come una regola quasi generale (più generale ancora di quella della sinistra all'opposizione nel corso degli anni '80). Dopo aver visto la possibilità del fenomeno è importante dunque capire le cause della sua apparizione prendendo in conto i tre fattori enunciati sopra.
5) La ricerca delle cause del fenomeno dell'egemonia della sinistra alla testa dei paesi europei deve basarsi sulla presa in conto delle caratteristiche specifiche del periodo attuale. Questo lavoro è presente nei tre rapporti sulla situazione internazionale presentati al congresso e non c'è motivo di ritornarci qui in modo dettagliato. È’ tuttavia importante paragonare la situazione attuale con quella degli anni '70 quando la borghesia giocò la carta della sinistra al governo o in marcia verso il governo.
Sul piano economico, gli anni '70 sono i primi anni della crisi aperta del capitalismo. Infatti, è soprattutto a partire dalla recessione del 1974 che la borghesia prende coscienza della gravità della situazione. Tuttavia, malgrado la violenza delle convulsioni di questo periodo, la classe dominante s'aggrappa alle illusioni che queste potranno essere superate. Attribuendo le sue difficoltà all'aumento dei prezzi del petrolio in seguito alla guerra del Kippur del 1973, essa spera di superarle con una stabilizzazione dei prezzi petroliferi e l'utilizzazione di altre risorse energetiche. Scommette inoltre su di un rilancio basato sui crediti di grande entità (attinti dai "petrodollari") che sono prestati ai paesi del terzo mondo. Infine, essa s'immagina che nuove misure di capitalismo di Stato di tipo neo-keynesiano permetteranno di stabilizzare i meccanismi dell'economia in ogni paese.
Sul piano dei conflitti imperialisti, si assiste al loro aggravamento principalmente per lo sviluppo della crisi economica anche se questo aggravamento è ancora ben al di qua di quello degli inizi degli anni '80. La necessità di una maggiore disciplina all'interno di ciascuno dei due blocchi costituisce un dato importante delle politiche borghesi (è così che in un paese come la Francia, l'arrivo di Giscard d'Estaing nel 1974 mette fine alle velleità "d'indipendenza" che caratterizzano il periodo gaullista).
Sul piano della lotta di classe, questo periodo è caratterizzato dalla forte combattività che si è sviluppata in tutti i paesi del mondo sulla scia del maggio 1968 in Francia e del "maggio rampante" italiano del 1969; una combattività che in un primo tempo sorprese la borghesia.
Su questi tre aspetti, la situazione attuale si distingue in modo notevole da quella degli anni '70.
Sul piano economico, è da molto tempo che la borghesia ha perduto le sue illusioni su di una "uscita" dalla crisi. Malgrado le campagne del periodo passato sui benefici della "mondializzazione", essa non dà per scontato di ritornare ai bei tempi gloriosi anche se spera ancora di limitare i danni. Ma anche questa ultima speranza è stata gravemente intaccata dall'estate 1997 con il crollo dei "draghi" e delle "tigri" seguito dalla quello della Russia e del Brasile nel 1998.
Sul piano dei conflitti imperialisti la situazione si è modificata radicalmente: oggi non esistono più i blocchi imperialisti. Ma gli scontri militari non sono cessati. Si sono invece aggravati, moltiplicati e avvicinati ai paesi centrali, soprattutto alle metropoli dell'Europa occidentale. Essi sono in più caratterizzati dalla tendenza ad una partecipazione sempre più diretta delle grandi potenze, particolarmente della prima tra di esse, allorché gli anni ‘70 conoscevano un certo disimpegno di queste, particolarmente degli Stati Uniti che lasciavano il Vietnam.
Sul piano delle lotte operaie, il periodo attuale è ancora segnato dall'arretramento della combattività e della coscienza provocato dagli avvenimenti della fine degli anni '80 (crollo del blocco dell'est e dei regimi "socialisti"), inizio anni '90 (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, ecc.) anche se delle tendenze ad una ripresa della combattività si fanno sentire e si constata una fermento politico in profondità ancora molto minoritario.
Infine, è importante sottolineare il nuovo fattore che tocca la vita della società d'oggi e che non esisteva nel corso degli anni '70: l'entrata nella fase di decomposizione del periodo di decadenza del capitalismo.
6) Quest'ultimo fattore è da prendere in considerazione per capire il fenomeno attuale dell'arrivo della sinistra al governo. La decomposizione tocca tutta la società e in primo luogo la sua classe dominante: la borghesia. Questo fenomeno è particolarmente spettacolare nei paesi della periferia e costituisce un fattore d'instabilità crescente che spesso alimenta gli scontri imperialisti. Abbiamo messo in evidenza che nei paesi più sviluppati, la classe dominante è molto più capace di controllare gli effetti della decomposizione ma nello stesso tempo si può costatare che non li può prevenire totalmente. Uno degli esempi più spettacolari è certamente la buffonata del "Monicagate" all’interno della prima borghesia mondiale che, se può mirare ad un riorientamento della politica imperialista di questa, provoca nello stesso tempo un danno sensibile alla sua autorità.
Nel ventaglio dei vari partiti borghesi, non tutti i settori sono toccati nello stesso modo dal fenomeno della decomposizione. Tutti i partiti borghesi hanno evidentemente per vocazione la conservazione a breve e lungo termine degli interessi globali del capitale nazionale. Tuttavia, in questo ventaglio, i partiti che hanno una maggiore coscienza della loro responsabilità sono in genere i partiti di sinistra perché questi sono meno legati agli interessi a breve termine di questo o quel settore capitalista e anche perché la borghesia ha già attribuito loro un ruolo di primo piano nei momenti decisivi della vita della società (guerre mondiali e soprattutto periodi rivoluzionari). Evidentemente, i partiti di sinistra sono lo stesso toccati dagli effetti della decomposizione la corruzione, gli scandali, le tendenze alle scissioni, ecc. Tuttavia gli esempi di paesi come l'Italia o la Francia mettono in evidenza ch'essi sono, per le loro caratteristiche, più risparmiati rispetto alla destra da questi effetti. In questo senso, uno degli elementi che permette di spiegare l'arrivo di partiti di sinistra al governo in molti paesi consiste nella maggiore resistenza di questi partiti alla decomposizione, e soprattutto la loro maggiore coesione (il che è valido anche per un paese come la Gran Bretagna dove i conservatori erano molto più divisi che i laburisti). (4)
Un altro fattore legato alla decomposizione che permette di spiegare i "successi" attuali della sinistra è la necessità di ridare tono alla mistificazione democratica ed elettorale. L'affossamento dei regimi stalinisti ha costituito un fattore molto importante di rilancio di queste mistificazioni, e particolarmente presso gli operai che, fintanto che esisteva un sistema presentato come diverso dal capitalismo, poteva nutrire la speranza di un’alternativa al capitalismo (anche se si facevano poche illusioni sulla realtà dei paesi "socialisti"). Tuttavia la guerra del Golfo del 1991 ha dato un colpo alle illusioni democratiche. In più, la disillusione generale verso i valori tradizionali della società che caratterizza la decomposizione, e che si esprime principalmente attraverso l'atomizzazione e il "ciascuno per sé", non poteva non aver effetti sull'impatto ideologico delle istituzioni classiche degli Stati capitalisti, e particolarmente sulla base di questi, i meccanismi democratici ed elettorali. E giustamente, la vittoria elettorale della sinistra nei paesi dove, conformemente alle necessità della borghesia, la destra aveva governato per un lungo periodo (soprattutto in due paesi molto importanti come la Germania e la Gran Bretagna) ha potuto costituire un fattore importante di rianimazione delle mistificazioni elettorali.
7) L'aspetto conflitti imperialisti (che occorre d'altronde collegare alla questione della decomposizione: crollo del blocco dell'Est, "ciascuno per sé" nell'arena internazionale) costituisce un fattore importante dell’arrivo della sinistra al governo in molti paesi. Abbiamo già visto che il necessario riorientamento della diplomazia dell'Italia a scapito dell'alleanza americana aveva costituito un fattore di primo piano della disgregazione e scomparsa della Democrazia Cristiana in questo paese e anche della caduta del "polo" di Berlusconi (più favorevole agli Stati Uniti). Abbiamo visto ugualmente che la maggior omogeneità dei laburisti in Gran Bretagna a favore di una politica più aperta verso l'Unione Europea era uno dei motivi della scelta di Blair per la borghesia britannica. Infine l'arrivo al governo in Germania dei settori politici più lontani dall’hitlerismo che si erano anche confezionati un vestito "pacifista" (socialdemocratici e soprattutto "verdi"), costituisce un miglior paravento all'affermazione delle mire imperialiste di questo paese, principale rivale, sul lungo periodo, degli Stati Uniti. Tuttavia c'è un altro elemento da prendere in considerazione e che si applica anche ai paesi dove (come in Francia) non c'è differenza tra la destra e la sinistra nella politica internazionale. Si tratta della necessità per ogni borghesia dei paesi centrali di una crescente partecipazione ai conflitti militari che sconvolgono il mondo e della natura stessa di questi conflitti. In effetti, questi si presentano come orribili massacri di popolazioni civili di fronte ai quali la "comunità internazionale" deve far valere "il diritto" e organizzare delle missioni "umanitarie". Dal 1990, la quasi totalità degli interventi militari delle grandi potenze (e particolarmente quello in Yugoslavia) si è nascosta dietro questa maschera e non ha addotto il motivo della difesa degli "interessi nazionali". E per condurre le guerre "umanitarie" è chiaro che la sinistra è meglio piazzata della destra (anche se quest'ultima può farlo), perché una delle sue carte più giocate è proprio quella della "difesa dei diritti dell'uomo". (5)
8) Anche sul piano della gestione della crisi economica esistono degli elementi che vanno a favore dell'arrivo della sinistra al governo nella maggioranza dei paesi. È’ evidente lo scacco delle politiche ultra liberali di cui Reagan e Thatcher erano i rappresentanti più in vista. Naturalmente la borghesia non può fare altro che continuare i suoi attacchi economici contro la classe operaia così come certamente non ritornerà sulle privatizzazioni che le hanno permesso:
Detto ciò, il fallimento delle politiche ultra-liberali (che si è espresso particolarmente con la crisi asiatica) porta acqua ai difensori della politica di un maggior intervento dello Stato. Ciò è valido a livello di discorsi ideologici: è necessario che la borghesia faccia finta di correggere ciò che può presentare come derivante da suoi errori, l'aggravamento della crisi, al fine di evitare che questa favorisca la presa di coscienza del proletariato. Ma è lo stesso valido a livello di politiche reali: la borghesia prende coscienza degli "eccessi" della politica "ultra-liberale". Nella misura in cui la destra era fortemente segnata da questa politica del "meno Stato", la sinistra è per il momento la più indicata per mettere in opera un tale cambiamento (anche se è noto che anche la destra può prendere questo tipo di misure, come lo ha fatto negli anni '70 con Giscard d'Estaing in Francia e, anche se oggi è un uomo di destra, Aznar, che in Spagna si richiama alla politica del laburista Blair). La sinistra non può ristabilire il “welfare state” ma fa finta di non tradire completamente il suo programma ristabilendo un maggiore intervento dello Stato nell'economia.
Inoltre, lo scacco della "globalizzazione senza briglie" che si è soprattutto concretizzato nella crisi asiatica costituisce un fattore supplementare che porta acqua al mulino della sinistra. Quando la crisi aperta si è sviluppata, a partire dagli anni '70, la borghesia ha capito che non doveva rifare gli errori che avevano contribuito ad aggravare la crisi degli anni '30. In particolare, malgrado tutte le tendenze che venivano alla luce in questo senso occorreva combattere la tentazione di un ripiegamento su se stessi, del protezionismo e dell’autarchia che rischiavano di portare un colpo fatale al commercio internazionale. Per questo la Comunità Economica Europea ha potuto proseguire il suo cammino fino ad arrivare all'Unione Europea e all'attuazione dell’Euro. Sempre per questo, è stata messa in piazza l'Organizzazione Mondiale del Commercio, per limitare i diritti doganali e favorire gli scambi internazionali. Tuttavia, questa politica di apertura dei mercati ha costituito un fattore importante d'esplosione della speculazione finanziaria (che costituisce lo "sport" favorito dei capitalisti in periodo di crisi quando si spostano dall'investimento nella produzione, che ha scarse prospettive redditizie) Speculazione finanziaria i cui pericoli sono stati messi alla luce dal crollo dei paesi asiatici. Anche se la sinistra non rimetterà, fondamentalmente, in causa la politica della destra in questo campo, essa è più favorevole ad una maggiore regolamentazione dei flussi finanziari internazionali. (regolamentazione di cui la "tassa Tobin" è una delle formule) che permette di limitare gli eccessi della "globalizzazione". Facendo ciò, la sua politica mira a creare una specie di cordone sanitario attorno ai paesi più sviluppati permettendo di limitare l'impatto delle convulsioni che toccano i paesi della periferia.
9) La necessità di far fronte allo sviluppo della lotta di classe costituisce un fattore essenziale dell'arrivo della sinistra al governo nel periodo attuale. Ma prima di determinarne le ragioni occorre notare le differenze tra la situazione attuale e quella del periodo precedente. Negli anni '70, l'arrivo della sinistra al governo veniva presentata alle masse operaie con argomenti del tipo:
In parole povere, si può dire che "l'alternativa di sinistra" aveva la funzione di canalizzare il malcontento e la combattività degli operai nelle urne elettorali.
Oggi i diversi partiti di sinistra che sono andati al governo vincendo le elezioni sono ben lontani dall'usare il linguaggio "operaio" che utilizzavano all'inizio degli anni '70. Gli esempi che colpiscono di più sono quelli di Blair che si fa l'apostolo d'una terza via e di Schröder difensore d'un "nuovo centro". Infatti non si tratta di canalizzare verso le urne una combattività ancora molto debole, ma di darsi i mezzi affinché una volta al governo la sinistra non abbia un linguaggio molto diverso da quello usato durante la campagna elettorale, e ciò al fine di evitare un rapido discredito come era successo negli anni '70 (per esempio, i laburisti inglesi arrivati al governo agli inizi del 1974 sullo slancio dello sciopero dei minatori dovettero uscirne nel 1979 di fronte ad una combattività che raggiunse livelli eccezionali nel corso dello stesso anno). Il fatto che la sinistra oggi abbia un aspetto molto più "borghese" rispetto agli anni '70, è dovuto alla debolezza attuale della combattività operaia. Questo permette alla sinistra di rimpiazzare la destra al governo senza troppi contraccolpi. Tuttavia la presenza generalizzata della sinistra nei governi dei paesi più avanzati non è solo un fenomeno "per difetto", legato alla debolezza della classe operaia. Essa gioca anche un ruolo "positivo" per la borghesia di fronte al suo nemico mortale. E ciò sia a medio che a breve termine.
A medio termine, l'alternanza ha due effetti: da una parte ha dato nuovo credito al processo elettorale; dall’altra permette ai partiti di destra di rinforzarsi all'opposizione (7) al fine di poter meglio giocare il loro ruolo quando riapparirà una situazione che renderà necessaria la sinistra all'opposizione con una destra "dura" al potere. (8)
Nell'immediato, il linguaggio "moderato" della sinistra per far passare i suoi attacchi permette d'evitare le esplosioni di combattività favorite dalle provocazioni del linguaggio duro della destra modello Thatcher. Ed è questo uno degli obiettivi importanti della borghesia. Nella misura in cui, come già messo in evidenza, una delle condizioni essenziali che permette alla classe operaia di riguadagnare il terreno perso con il crollo del blocco dell'est e di riprendere il suo processo di presa di coscienza, è costituito dallo sviluppo delle sue lotte, la borghesia cerca oggi di guadagnare più tempo possibile, anche se sa che non potrà sempre giocare questa carta.
10) Appare così chiaro che, tra i differenti fattori che motivano attualmente l'utilizzazione da parte della borghesia della carta della sinistra al governo, la gestione della crisi, i conflitti imperialisti e la politica di fronte alla minaccia proletaria, è quest'ultimo fattore che assume l’importanza maggiore. Quest’importanza è tanto più grande per il fatto che nel fattore gestione della crisi, uno degli aspetti essenziali della politica della sinistra non è tanto nelle misure concrete che essa è portata a prendere (e che anche la destra può adottare) quanto nella sua capacità di tenere un discorso diverso da quello della destra che si trovava al governo fino a poco tempo prima. In questo senso, è per la sua funzione ideologica che la sinistra è particolarmente preziosa in rapporto alla gestione della crisi, una funzione ideologica che s'indirizza all'insieme della società ma particolarmente alla classe che si contrappone alla borghesia, il proletariato. Lo stesso vale per la questione concernente i conflitti imperialisti Il contributo essenziale che la sinistra può apportare alla politica di guerra della borghesia, è darle una copertura "umanitaria" adeguata, il che è proprio del dominio ideologico e della mistificazione che, anche qui, si rivolge all'insieme della popolazione ma principalmente alla classe operaia, unica forza che può essere di ostacolo alla guerra imperialista.
In fin dei conti, il ruolo essenziale che gioca il fattore difesa contro la classe operaia nella politica attuale della sinistra al governo, costituisce un'ulteriore illustrazione dell'analisi sviluppata dalla CCI da più di 30 anni: il rapporto di forza generale tra le classi, il corso storico, non è a favore della borghesia (controrivoluzione, corso alla guerra mondiale) ma a favore del proletariato (uscita dalla controrivoluzione, corso verso scontri di classe). L'arretramento subito da quest'ultimo con il crollo dei regimi stalinisti e le campagne sulla "morte del comunismo", fondamentalmente, non ha rimesso in causa questo corso storico.
11) La presenza massiccia dei partiti di sinistra nei governi europei costituisce un elemento significativo e molto importante della situazione attuale. Le differenti borghesie nazionali non la giocano questa carta ciascuna nel proprio cantuccio. Già nel corso degli anni '70, quando la carta della sinistra al governo o in marcia verso il governo fu giocata in alcuni paesi europei, la borghesia ebbe il sostegno del presidente democratico degli Stati Uniti Carter. Negli anni 80 la carta della sinistra all'opposizione e di una destra "dura" al potere trovò in Ronald Reagan (come in Margaret Thatcher) il suo più eminente rappresentante. A quest'epoca, la borghesia elaborava la sua politica a livello dell'insieme del blocco occidentale. Oggi i blocchi sono scomparsi e le tensioni imperialiste continuano ad aggravarsi tra gli Stati Uniti e numerosi paesi europei. Tuttavia, di fronte alla crisi e alla lotta di classe, le principali borghesie del mondo hanno a cuore continuare a coordinare la loro politica. Il 21 settembre 1998 si è tenuto a New York un incontro al vertice per un’internazionale di "centrosinistra" dove Tony Blair ha celebrato il "centro radicale" e Romano Prodi "l'Ulivo mondiale", mentre Bill Clinton, si compiaceva nel vedere "la terza via estendersi nel mondo" (9). Ma queste manifestazioni entusiaste dei principali dirigenti della borghesia non devono nascondere la gravità della situazione che costituisce la tela di fondo e la ragione essenziale della strategia attuale della borghesia.
E’ probabile che la borghesia manterrà ancora per un po' questa strategia. In particolare è indispensabile che i partiti di destra recuperino le forze e la coesione che permetterà loro di riprendere il loro posto alla guida dello Stato. D'altronde, il fatto che l’andata della sinistra al governo in un gran numero di paesi (e particolarmente in Gran Bretagna e in Germania) sia stata fatta a "freddo", in un clima di debole combattività operaia (contrariamente, per esempio, a ciò che è successo in Gran Bretagna nel 1974), con un programma elettorale molto vicino a quello che è poi stato effettivamente applicato, significa che la borghesia ha l'intenzione di giocare questa carta ancora per un certo tempo. Infatti, uno degli elementi decisivi che determinerà il momento del ritorno della destra sarà il riemergere sulla scena delle lotte di massa del proletariato. Nell'attesa di questo momento, mentre il malcontento operaio arriva ancora ad esprimersi solo in modo limitato e spesso isolato, tocca "alla sinistra della sinistra" canalizzare questo malcontento. Come abbiamo già visto, la borghesia non può lasciare sguarnito il terreno sociale. Per questo si assiste oggi ad una certa risalita delle forze di estrema sinistra del capitale (soprattutto in Francia) e, in certi paesi, i partiti socialisti al governo hanno cercato di prendere le distanze dalle organizzazioni sindacali, le quali possono così permettersi di avere un linguaggio "un po' contestatario". Tuttavia, il fatto che in Italia un settore di Rifondazione Comunista abbia deciso di continuare a sostenere il governo e che in Francia la CGT abbia deciso durante il suo ultimo congresso di condurre una politica più "moderata" mette in evidenza che non c'è ancora urgenza per la classe dominante.
1. Bisogna notare che in Svezia dove, durante le ultime elezioni la socialdemocrazia ha ottenuto la più bassa percentuale dal 1928, la borghesia ha ugualmente fatto appello a questo partito (con il sostegno del partito stalinista) per dirigere gli affari di Stato.
2. Questa è un’idea che la CCI aveva già sviluppato più volte in precedenza: "così risulta che i partiti di sinistra non sono i rappresentanti esclusivi della tendenza generale verso il capitalismo di Stato, che in periodi di crisi, questa si manifesta con una tale forza, che qualunque sia la tendenza politica al potere, questa non può far altro che prendere misure di statalizzazione, dato che la sola differenza che può sussistere tra destra e sinistra sul metodo per far tacere il proletariato è carota o bastone." (Révolution Internationale n° 9, maggio-giugno 74). Come si vede, l'analisi che abbiamo sviluppato al 3° congresso non cadeva dal cielo ma scaturiva da un quadro che avevamo elaborato cinque anni prima.
3. La possibilità per un partito di sinistra di giocare meglio il suo ruolo restando nell'opposizione piuttosto che andando al potere non era una idea nuova nella CCI. Cinque anni prima scrivevamo a proposito della Spagna: "[il PCE] è sempre di più sopraffatto nelle lotte attuali e ... rischia, oltre che eventuali posti governativi, di non poter controllare la classe come è sua compito; in questo caso, la sua efficacia antioperaia sarebbe ben più grande restando all'opposizione" (Révolution Internationale n° 11, settembre 1974)
4. Tuttavia è importante sottolineare ciò che è detto sopra: la decomposizione tocca in modo molto differente la borghesia secondo che si tratti di paesi sviluppati o di paesi arretrati. Nei paesi con una borghesia vecchia, l'apparato politico di questa, compreso i suoi settori di destra tra i più vulnerabili, è generalmente capace di padroneggiare la situazione e di evitare le convulsioni che invece toccano i paesi del terzo mondo o certi paesi dell'antico impero sovietico.
5. Dopo che questo testo è stato redatto, la guerra in Yugoslavia ha apportato una sorprendente illustrazione di questa idea. Gli attacchi della NATO sono stati presentati unicamente come "umanitari" con l'obiettivo di proteggere le popolazioni albanesi del Kossovo contro i soprusi di Milosevic. Tutti i giorni lo spettacolo televisivo della tragedia dei rifugiati albanesi è venuto a rafforzate la tesi nauseante della "guerra umanitaria". In questa campagna ideologica bellicista, la “sinistra della sinistra” rappresentata dai "verdi" si è particolarmente distinta. E’ stato il leader dei verdi tedeschi, Joshka Fischer a portare avanti l’azione di diplomazia militare tedesca in nome degli ideali "pacifisti" e "umanitari" nei quali si era distinto in passato. Lo stesso, in Francia, dove allorché il partito socialista è esitante sulla questione dell'intervento terrestre, sono i verdi che in nome "dell'urgenza umanitaria" richiedono un intervento. La sinistra di oggi ritrova gli accenti dei suoi antenati degli anni '30 che reclamavano "armi per la Spagna" e non volevano lasciare a nessuno il primo posto nella propaganda bellica in nome dell'antifascismo.
6. Era l'epoca in cui Mitterrand (sì Mitterrand e non un qualsiasi gauchiste!) parlava con fervore nei suoi discorsi elettorali di "rottura con il capitalismo".
7. Di regola "le cure d'opposizione" costituiscono una buona terapia per le forze borghesi logorate da una lunga presenza al potere. Tuttavia questa non è efficace dappertutto. Il ritorno all'opposizione della destra francese, in seguito alla sconfitta elettorale della primavera 1997, ha significato per essa una nuova catastrofe. Questo settore dell'apparato politico borghese non smette di mostrare le sue incoerenze e divisioni, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse rimasto al potere. Ma è vero che abbiamo a che fare con "la destra più stupida del mondo". A questo proposito, è difficile considerare come lascia intendere Le Prolétaire nel suo articolo, che deliberatamente Chirac, per permettere al partito socialista di prendere la direzione del governo, ha provocato le elezioni anticipate nel 1997. Si sa che la borghesia è machiavellica ma ci sono dei limiti. E Chirac, che ha già dei "limiti", non ha certamente desiderato la sconfitta del suo partito che ricopre attualmente un ruolo di secondo piano.
8. Nota posteriore al Congresso della CCI. Le elezioni europee del giugno 1999, che hanno visto nella maggioranza dei paesi (e particolarmente in Germania e Gran Bretagna) una sensibile risalita della destra sono la prova che la cura all'opposizione comincia a dare i suoi effetti a questo settore dell'apparato politico della borghesia. La controprova notevole è evidentemente quella della Francia dove queste elezioni hanno rappresentato per la destra una nuova catastrofe, non tanto sul numero dei voti ma su quello delle sue divisioni che toccano proporzioni grottesche.
9. Bisogna notare che la carta della sinistra al governo giocata oggi dalla borghesia dei paesi più avanzati trova (al di là delle particolarità locali) una certa eco in certi paesi della periferia. La recente elezione in Venezuela – avvenuta con il sostegno della "Sinistra rivoluzionaria" (MIR) e degli stalinisti - dell'ex colonnello golpista Chavez a scapito della destra (COPEI) e di un partito socialdemocratico (Accion Democratica) particolarmente screditato, s'avvicina alla formula della sinistra al governo. Anche in Messico si assiste alla risalita della sinistra PRD di Cardenas (figlio di un vecchio presidente), che ha già tolto la direzione della capitale al PRI (al potere da otto decenni) e che ha beneficiato recentemente del sostegno discreto dello stesso Bill Clinton.
Dopo qualche segno di riconoscimento e di dibattito tra i gruppi della Sinistra Comunista nel corso di questi ultimi anni, compresa una riunione pubblica in comune sulla Rivoluzione russa tra il Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) e la CCI in Gran Bretagna, la guerra nei Balcani ingaggiata dalla Nato, rappresentava un test per valutare la capacità di questi gruppi ad assumere una difesa comune dell’internazionalismo proletario quanto più larga e più forte possibile. Malauguratamente i gruppi hanno rifiutato un appello della CCI per una dichiarazione comune contro la carneficine imperialista nella ex-Jugoslavia. Abbiamo già fatto un primo bilancio delle reazioni seguite a questo appello nella nostra Revue Internationale n. 97.
In questo articolo risponderemo brevemente all’idea avanzata dal BIPR secondo la quale il metodo politico della CCI, supposto essere “idealista”, giustificava un tale rifiuto.
“Quando scrivete nel vostro volantino che “é perché, dallo sciopero massivo del Maggio 68 in Francia, la classe operaia mondiale ha sviluppato le sue lotte rifiutando di sottomettersi alla logica del capitalismo in crisi che essa ha potuto impedire lo scatenamento di una terza guerra mondiale”, dimostrate di rimanere prigionieri dei vostri schemi da noi già caratterizzati come idealisti e che sono oggi particolarmente inadatti ai bisogni di chiarezza e di solidarietà teorico-politica necessari per l’intervento nella classe.” (Lettera del BIPR, 8/4/99, tradotta da noi dall’inglese).
E’ vero che l’idealismo sarebbe una tara profonda per un’organizzazione rivoluzionaria. L’idealismo è un pilastro filosofico dell’ideologia borghese. Cercando la forza motrice ultima della storia nelle idee, le morali e le verità che sono prodotte dalla coscienza umana, l’idealismo è una delle basi fondamentali delle differenti ideologie della classe dominante che cerca di nascondere il suo sfruttamento della classe operaia e di negarle ogni reale capacità per la sua liberazione. La divisione del mondo in classi, così come la possibilità e la necessità della rivoluzione comunista per rovesciare questo mondo, non possono essere comprese che dalla concezione materialista della storia. La storia del pensiero si spiega con la storia dell’essere e non il contrario.
L’idealismo e il corso storico
Ma perché la concezione del “corso storico”, che prende posizione sul rapporto di forza tra le classi in un periodo storico dato e che trae la conclusione che la prospettiva attualmente non è aperta ad una guerra imperialista generalizzata, ma è sempre aperta ad immensi scontri di classe... è “idealista”? La lettera della Communist Workers Organisation (il BIPR in Gran Bretagna) alla CCI, che rifiuta una riunione pubblica comune in Gran Bretagna sulla guerra, tenta di spiegarcelo:
“A voi questo può sembrare un dettaglio, ma per noi evidenzia fino a che punto vi siete allontanati dalla realtà. Noi siamo assolutamente sconvolti da una così scarsa risposta proletaria alla piega presa dagli avvenimenti. ‘Socialismo o barbarie’ è una parola d’ordine che ha un significato assoluto in questa crisi. Ma come potete sostenere che la classe operaia impedisce la guerra quando l’evidenza di tutto quello che è accaduto in Jugoslavia mostra fino a che punto gli imperialisti (grandi e piccoli) hanno le mani libere? (...) La guerra si svolge attualmente a 800 miglia da Londra (in linea d’aria). Deve arrivare fino a Brighton perché voi correggiate la vostra prospettiva? La guerra è un passo serio verso la barbarie generale. Noi non possiamo lottare insieme per un’alternativa comunista se suggerite che la classe operaia è una forza sulla quale bisogna contare nel periodo presente.” (Lettera della CWO, 26/4/99, tradotto da noi dall’inglese).
L’idealismo, il nostro idealismo, non sarebbe dunque “legato alla realtà”, alla “evidenza”, alla realtà come è compresa dal BIPR. Innanzitutto, l’accusa di idealismo, che è un’accusa grave, è difficilmente accettabile per come viene formulata dal BIPR poiché essa riduce una questione storica ad un problema di “buon senso comune”.
Questa rapida esposizione della versione del BIPR della realtà manca seriamente di materialismo storico e dipende troppo da un ragionamento di “buon senso” sommerso da fatti contingenti e locali. Il BIPR ci assicura che “Socialismo o barbarie” s’applica in maniera assoluta alla situazione: che, fondamentalmente, nei Balcani sono in gioco le prospettive storiche alternative delle due principali classi nemiche nella società. E poi si contraddice quando, qualche riga più avanti, afferma che il proletariato e la sua prospettiva storica, il socialismo, non contano più nella situazione attuale. Non resta che il BIPR, solo al mondo, a sventolare la bandiera dell’alternativa comunista. Quest’analisi contraddittoria della realtà, della realtà “immediata”, “evidente”, non è “dialettica”, come pensa il BIPR, perché fallisce proprio nel vedere come le tendenze storiche fondamentali si manifestano in una data situazione.
Mentre la CCI ha perlomeno tentato di comprendere il peso storico del proletariato nella guerra dei Balcani senza minimizzare affatto la serietà della situazione, il BIPR, esprimendosi sul terreno dell’empirismo, valuta piuttosto gli avvenimenti a secondo della loro vicinanza geografica a Londra o Brighton. A quanto pare il proletariato non è “una forza su cui bisogna contare nella situazione presente” perché non ci sono fatti tangibili per provare il contrario, perché ciò non è confermato empiricamente, nella realtà immediata. Il BIPR non arriva a vedere il proletariato nella situazione storica presente, non lo avverte, non lo assapora, non lo sente. Dunque il proletariato non è presente. E chiunque afferma che esso è una forza, per quanto limitata possa essere, che esso è sempre presente, per quanto debole sia questa presenza, è un idealista.
Le contro-tendenze all’assenza apparente del proletariato - in particolare la mancata adesione alla guerra della classe operaia dell’Europa occidentale e del Nord America - sono conseguentemente ignorate come fattori. Le tendenze latenti negli avvenimenti che possono essere solamente prese come un segno in negativo nella situazione, come impronte sulla sabbia, devono tuttavia essere prese in conto allo scopo di essere considerate con la più larga realtà storica.
Il metodo che vede gli avvenimenti solo come semplici fatti senza tutte le loro inter relazioni storiche, è materialista solo in senso metafisico:
“E quando, grazie a Bacon e a Locke, questo modo di vedere passa dalla scienza della natura alla filosofia, esso produce la ristrettezza di spirito specifica degli ultimi secoli, il modo di pensare metafisico. Per il metafisico le cose ed i loro riflessi nel pensiero, i concetti, sono degli oggetti di studio isolati, da considerare l’uno dopo l’altro e l’uno senza l’altro, fissi, rigidi, dati una volta per tutte. Egli non pensa che per antitesi, senza mezzi termini: egli dice si, si, no, no; ciò che va al di là non vale niente. Per lui, una cosa esiste o non esiste; una cosa non può essere nello stesso tempo se stessa ed un’altra. Il positivo ed il negativo si escludono in assoluto; la causa e l’effetto si oppongono con altrettanta rigidità. Se questo modo di pensare ci sembra inizialmente completamente plausibile, questo è quello che viene chiamato buon senso. Ma per quanto rispettabile possa essere questo compagno di strada quando resta confinato nel campo prosaico delle sue quattro mura, il buon senso conosce avventure sorprendenti quando si avventura nel vasto mondo della ricerca, ed il modo di vedere metafisico, per quanto giustificato e necessario in vasti campi la cui ampiezza varia a seconda della natura dell’oggetto, si scontra sempre, prima o poi, con una barriera al di là della quale esso diventa stretto, limitato, astratto e si perde in contraddizioni insolubili: la ragione sta nel fatto che davanti agli oggetti singoli, esso dimentica il loro concatenarsi; davanti al loro essere esso dimentica il loro divenire ed il loro perire; davanti al loro riposo esso dimentica il loro movimento; gli alberi gli impediscono di vedere la foresta” (F. Engels, Socialismo utopico e socialismo scientifico).
L’empirismo - il buon senso comune - assimila il materialismo storico ed il suo metodo dialettico all’idealismo, non comprendendo che il marxismo rifiuta di considerare i fatti sulla base del loro semplice apparire.
Il BIPR si contrappone alla storia del movimento rivoluzionario quando taccia d’idealista lo “schema” del corso storico. Il gruppo della frazione di sinistra del PCd’Italia che pubblicava la rivista Bilan negli anni 30, era colpevole d’idealismo quando sviluppava questo concetto per determinare se la storia andava verso la guerra o la rivoluzione? (1). E’ una domanda alla quale il BIPR dovrebbe rispondere dato che Bilan è parte integrante della storia della Sinistra Italiana alla quale esso si richiama.
Ma se il BIPR pensa di poter utilizzare il materialismo storico in maniera unilaterale mettendo avanti una supposta verità evidente dei fatti, esso è anche colpevole di usare degli schemi meccanici per inventare dei fatti inesistenti. Nel suo volantino internazionalista contro la guerra nella ex-Jugoslavia, difende il fatto che l’obiettivo principale dell’intervento della Nato era quello di “assicurarsi il controllo del petrolio del Caucaso”. Come ha potuto il BIPR arrivare ad una tale fantasia? Applicando lo schema secondo il quale la principale forza motrice oggi dietro l’imperialismo è la ricerca del profitto economico “per assicurarsi il controllo e la gestione del petrolio, della rendita petrolifera e dei mercati finanziari o commerciali”.
Forse e questo uno schema materialista, ma è un materialismo meccanico. In effetti, anche se il fattore principale dell’im-perialismo moderno resta legato alle contraddizioni economiche fondamentali del capitalismo, questo schema ignora i fattori politici e strategici, i quali che divenuti preponderanti nei conflitti tra gli Stati nazione.
Il metodo marxista e l’intervento rivoluzionario sulla guerraSe il BIPR adotta un approccio empirico quando si confronta con la questione del ruolo della classe operaia in tutti gli avvenimenti su scala storica, dimostra che sulle questioni più generali e decisive è invece perfettamente capace di vedere in modo marxista, cosa che il buon senso comune è incapace di fare. Il suo volantino contro la guerra – come i volantini di altri gruppi della Sinistra comunista – ha messo in evidenza che dietro i pretesi scopi umanitari delle grandi potenze unite nel Kosovo, era in atto uno scontro inevitabile e ben più vasto. Ha mostrato che i pacifisti e la sinistra del capitale, malgrado le altisonanti dichiarazioni contro la violenza, alimentano in realtà i fuochi della guerra. Infine, anche se non poteva parlare del proletariato come una forza nella situazione presente, affermava tuttavia che la lotta della classe operaia che porta alla rivoluzione comunista è l’unica via per sfuggire alla crescente barbarie capitalista.
La posizione proletaria internazionalista sulla guerra imperialista, comune ai differenti gruppi della Sinistra comunista e condivisa dalla CCI e dal BIPR, è pienamente marxista e dunque fedele al metodo del materialismo storico.
Quindi, almeno su questo punto, l’accusa di idealismo fatta alla CCI crolla completamente.
Il problema dell’unità nella storia del movimento operaioNella sua lettera a Wilhem Bracke nel 1875, che introduce la Critica al Programma di Gotha del Partito operaio social-democratico di Germania, K. Marx dice che “ogni passo fatto in avanti, ogni progresso reale vale più di una dozzina di programmi” (Marx). E questa frase celebre costituisce un punto di riferimento per l’azione unita dei rivoluzionari. E’ una perfetta applicazione di ciò che mettevano in evidenza celebri Tesi su Feuerbach del 1845 che dimostravano che il materialismo storico non è una nuova filosofia contemplativa, ma un’arma dell’azione proletaria.
“La coincidenza della modifica delle circostanze e dell’attività umana o dell’autotrasformazione non può essere colta o compresa se non come pratica rivoluzionaria” e “i filosofi non fanno altro che interpretare diversamente il mondo, quello che importa è trasformarlo” (Marx, Tesi su Feuerback).
Nella sua lettera introduttiva e nel suo testo, Marx critica severamente il programma di unità del partito social-democratico tedesco per le concessioni fatte ai Lassalliani (2). Egli reputa che un “accordo per l’azione contro il nemico comune” è estremamente importante e suggerisce che sarebbe stato meglio rinviare la redazione del programma fino al “momento in cui tali programmi siano stati preparati da una più lunga attività comune” (Lettera a W. Bracke). Divergenze estreme non erano dunque degli ostacoli all’azione unita, ma la contrario dovevano essere confrontate in questo contesto.
Come abbiamo messo in evidenza nel nostro appello, Lenin e gli altri rappresentati della sinistra marxista applicarono lo stesso metodo alla conferenza di Zimmerwald, nel settembre del 1915, nel corso della quale firmarono il manifesto contro la prima guerra imperialista mondiale. Eppure espressero delle critiche e dei disaccordi circa le lacune gravi di questo testo ed sottomisero a votazione la propria posizione (3) che fu respinta dalla maggioranza della conferenza.
Il BIPR si è già cimentato nel sapiente lavoro di dimostrazione che un tale esempio storico d’unità dei rivoluzionari del passato ebbe luogo in circostanze differenti e quindi non può essere applicato nel periodo presente. In altri termini, il BIPR non vuol vedere i fili che legano il passato di Zimmerwald al presente. Questo è visto solo come un episodio del passato ormai concluso, utile solo alla riflessione degli storici.
La diversità delle circostanze in cui l’unità dei rivoluzionari ha avuto luogo nel passato, lungi dal provare che questa non è applicabile al movimento rivoluzionario attuale, sottolinea invece tutta la sua validità. Il fatto più sorprendente, a proposito della difesa di Marx e di Lenin del lavoro comune tra i rivoluzionari nei due esempi dati, è che le differenze tra Eisenachiani e Lassalliani in un caso, e tra la sinistra marxista (in primo luogo i bolscevichi) ed i socialisti a Zimmerwald nell’altro caso, erano molto più importanti delle differenze tra i gruppi della Sinistra comunista di oggi.
Marx preconizzava il lavoro comune, in uno stesso partito, con una tendenza che difendeva lo “Stato libero”, i “diritti eguali”, la “giusta distribuzione del prodotto del lavoro” e che parlava della “legge ferrea dei salari”, ed altri pregiudizi borghesi. Il Manifesto di Zimmerwald era una opposizione comune alla I Guerra mondiale tra, da una parte, gli internazionalisti intransigenti che chiamavano alla guerra civile contro la guerra imperialista ed alla costituzione di una nuova Internazionale, e dall’altra, i pacifisti, i centristi ed altri esitanti che miravano alla riconciliazione con i social-patrioti e contestavano le parole d’ordine rivoluzionarie della sinistra. Nel campo comunista attuale non ci sono concessioni ad illusioni democratiche ed umaniste. C’è una denuncia comune della natura imperialista della guerra, una denuncia comune del pacifismo e dello sciovinismo della sinistra borghese ed un appello comune per la “guerra civile”, vale a dire opporre alla guerra imperialista la prospettiva e la necessità della rivoluzione proletaria.
Lenin firma il Manifesto di Zimmerwald, con tutte le sue insufficienze, al fine di far avanzare il movimento reale. In un articolo scritto direttamente dopo la prima conferenza di Zimmerwald, egli dice:
“E’ un fatto che quest’ultimo (il Manifesto della conferenza di Zimmerwald) costituisce un passo in avanti verso la lotta effettiva contro l’opportunismo, verso la rottura e la scissione da questo. Sarebbe del settarismo rinunciare a questo passo in avanti con la minoranza dei tedeschi, dei francesi, degli svedesi, dei norvegesi e degli svizzeri, quando noi conserviamo l’intera libertà e l’intera possibilità di criticare l’inconseguenza e di cercare di ottenere di più. Sarebbe una cattiva tattica di guerra quella di rifiutare di marciare con il movimento internazionale in cui cresce la protesta contro il social-sciovinismo, sotto il pretesto che questo movimento è troppo lento, che esso fa “solamente” un passo in avanti, che è pronto e disposto domani a fare un passo indietro ed a ricercare una conciliazione con il vecchio Bureau socialista internazionale” (Lenin, “un primo passo”, ottobre 1915).
Karl Radek arrivò alla stessa conclusione in un altro articolo su questa conferenza:
“…la sinistra ha deciso di votare il manifesto per le seguenti ragioni. Sarebbe dottrinario e settario separarci da forze che hanno cominciato, in una certa misura, a lottare contro il social-patriottismo nel loro proprio paese nel momento in cui devono far fronte a furiosi attacchi da parte dei social-patrioti” (La sinistra di Zimmerwald, tradotto da noi dall’inglese).
Non c’è alcun dubbio che i rivoluzionari attuali devono agire contro lo sviluppo delle guerre imperialiste con lo stesso metodo usato da Lenin e dalla sinistra di Zimmerwald contro la I guerra mondiale. L’avanzata del movimento rivoluzionario come un tutto è la priorità centrale. La differenza principale tra le circostanze di allora e quelle di oggi giorno mette in evidenza la maggiore convergenza tra i gruppi internazionalisti attuali rispetto a quella tra la sinistra ed il centro di Zimmerwald (4), e di conseguenza la maggiore necessità e giustificazione per un’azione comune.
Una dichiarazione internazionalista comune ed altre espressioni di una azione comune contro la guerra della Nato avrebbero, sicuramente, aumentato enormemente la presenza politica della Sinistra comunista rispetto all’impatto dei differenti gruppi presi singolarmente. Ciò sarebbe stato un antidoto materiale, reale, contro le divisioni nazionaliste imposte dalla borghesia. L’intenzione comune di far avanzare il movimento reale avrebbe creato un polo di attrazione più forte per gli elementi alla ricerca di posizioni comuniste che attualmente sono disorientati dalla dispersione sconcertante dei differenti gruppi. E l’unione delle forze avrebbe avuto un impatto più ampio sull’insieme della classe operaia. Oltretutto, ciò avrebbe segnato un punto di riferimento storico per i rivoluzionari nel futuro, come lo fu sicuramente il Manifesto di Zimmerwald che lanciò un messaggio di speranza per i futuri rivoluzionari fin dentro le trincee. Come si può caratterizzare un metodo politico che consiste nel rifiutare una tale azione comune? La risposta ci viene data da Lenin e da Radek: dottrinaria e settaria (5).
Se ci siamo limitati a due esempi storici è per ragioni di spazio, non per mancanza di altri esempi di azione comune tra i rivoluzionari del passato. La I, la II e la III Internazionale sono tutte state formate con la partecipazione di elementi che non accettavano nemmeno le premesse essenziali del marxismo, come gli anarchici nella I, o gli anarco-sindacalisti francesi e spagnoli che difendevano l’internazionalismo e la Rivoluzione Russa e che furono dunque i benvenuti nella IC.
Non dobbiamo dimenticare che lo spartachista Karl Liebknecht, riconosciuto da tutta la sinistra marxista come il più eroico difensore del proletariato nella prima guerra mondiale, era proprio lui un idealista nel vero senso del termine poiché rigettava il metodo del materialismo dialettico in favore del kantismo.
Il metodo di confronto delle posizioni nel movimento rivoluzionarioLa maggior parte dei gruppi di oggi immaginano che unendosi anche per un’attività minima vanno ad ingarbugliare o a diluire le divergenze importanti che essi hanno con gli altri gruppi. Niente di più falso. Dopo la formazione del partito social-democratico tedesco e dopo Zimmerwald, non c’è alcuna diluizione opportunista delle differenze che esistevano tra i differenti partecipanti ma, al contrario, un acuirsi di queste ed, in fin dei conti, una conferma nella pratica delle posizioni più chiare. I marxisti finirono per dominare completamente nel partito tedesco e, dal 1875, sui Lassalliani nella II Internazionale. Dopo Zimmerwald le posizioni intransigenti della sinistra, che era in minoranza, hanno preso completamente il sopravvento, soprattutto quando l’ondata rivoluzionaria, che era cominciata in Russia nel 1917, confermò la loro politica nel corso stesso degli avvenimenti, mentre i centristi ricadevano nelle braccia dei social-patrioti. Se essi non avessero messo le loro posizioni alla prova nel quadro di un’azione comune, se pur limitata, i loro successi futuri non sarebbero stati possibili. L’Internazionale Comunista è in effetti debitrice alla Sinistra di Zimmerwald (6).
Questi esempi della storia del movimento rivoluzionario confermano anche un’altra ben nota tesi su Feuerbach:
“La questione dell’attribuzione al pensiero umano di una verità obiettiva non è un problema di teoria, ma una questione pratica. E’ nella pratica che l’uomo va a fare la prova della verità, vale a dire della realtà e della potenza del suo pensiero, la prova che esso è di questo mondo. Il dibattito sulla realtà o l’irrealtà del pensiero isolato dalla pratica è una questione puramente scolastica”.
I gruppi della Sinistra comunista che rigettano un quadro politico per il loro movimento comune all’interno del quale le loro divergenze potrebbero essere confrontare, tendono a ridurre le loro differenze sulla teoria marxista ad un livello scolastico. Anche se questi gruppi hanno la volontà di provare la validità delle loro posizioni nella pratica all’interno della più ampia lotta di classe, questo obiettivo resterà una speranza vana se non possono “mettere la propria casa in ordine” e verificare le loro posizioni nella pratica con le altre tendenze internazionaliste.
Il riconoscere un minimo di attività comune è la base su cui le divergenze possono essere poste chiaramente, essere confrontate, testate e chiarite per quegli elementi che emergono dalle fila proletarie, in particolare nei paesi in cui la Sinistra comunista non ha ancora una presenza organizzata. Sfortunatamente è questo che i gruppi comunisti di oggi giorno si rifiutano di comprendere. I gruppi della corrente bordighista difendono il settarismo come un principio. Senza arrivare a questo, il BIPR tende a rigettare ogni confronto serio delle posizioni politiche: “Noi critichiamo la CCI (…) perché essa si aspetta che quello che chiama campo politico proletario riprenda e discuta delle sue preoccupazioni politiche sempre più bizzarre” (7) dicono in Internationalist Communist n°17, la rivista del BIPR, che in parte è consacrata alle divergenze con la CCI, in risposta a degli elementi in ricerca in Russia ed altrove; elementi che si interrogano su questa questione della responsabilità degli internazionalisti e della loro azione comune di fronte alla guerra imperialista. E’ particolarmente desolante constatare che il campo internazionalista respinge ogni dibattito serio per paura del confronto di posizioni divergenti. Il movimento rivoluzionario di oggi ha bisogno di ritrovare la fiducia che i marxisti del passato avevano nelle loro idee e nelle loro posizioni politiche.
L’accusa secondo la quale la CCI è idealista non sta in piedi. Siamo in attesa di critiche più solide e sviluppate per sostenere queste affermazioni.
Di fronte alla situazione internazionale dominante e di fronte alle esigenze crescenti davanti alle quali si trova la classe operaia, dovrebbe essere chiaro che il metodo materialista del movimento rivoluzionario marxista esige una risposta comune. La Sinistra comunista non è stata all’altezza di tutte le sue responsabilità al momento della guerra nel Kosovo. Ma gli avvenimenti futuri la costringeranno a metterle al centro delle sue preoccupazioni.
Como
1. In un articolo dal titolo molto esplicito, La corsa verso la guerra, ecco come Bilan nel suo numero 29 del marzo 1936 pone il problema del corso storico: “I sostenitori dei governi attuali (…) hanno diritto alla riconoscenza eterna da parte del regime capitalista per aver condotto fino in fondo l’opera di schiacciamento del proletariato mondiale. Soltanto arrivando a soffocare la sola forza capace di creare una nuova società, hanno aperto la porta all’inevitabilità della guerra, termine estremo delle contraddizioni interne del regime capitalista. (…) A quanto la guerra? Nessuno può dirlo. Ciò che è certo è che tutto è pronto”. Ed in un altro articolo dello stesso numero, ritornando sulla questione e precisando le condizioni del corso alla guerra imperialista, si afferma: “Siamo assolutamente convinti che con la politica di tradimento social-centrista, che ha condotto il proletariato alla sua impotenza di classe nei paesi “democratici”; che con il fascismo, arrivato attraverso il terrore agli stessi risultati, si sono gettate le premesse indispensabili per lo scatenamento di una nuova carneficina mondiale. La traiettoria della degenerazione dell’URSS e dell’IC rappresenta uno dei sintomi più allarmanti del corso verso il precipizio della guerra.” E’ interessante ricordare al BIPR ed ai gruppi bordighisti quale è la prospettiva d’azione che propone Bilan alle differenti forze che sono rimaste comuniste: “La sola risposta che questi comunisti potrebbero opporre agli avvenimenti che andremo a vivere, la sola manifestazione politica che potrebbe rappresentare un punto di riferimento sulla via della vittoria di domani, sarebbe una Conferenza Internazionale che riunisca le povere membrane che restano oggi del cervello della classe operaia mondiale”. La nostra preoccupazione di determinare quale è il corso storico, ed il nostro appello ad una difesa comune dell’internazionalismo, si pongono nella traiettoria della tradizione della Sinistra italiana, e non se ne dispiacciano i nostri ignoranti.
2. Il Partito Social Democratico tedesco si è costituito a partire dall’unificazione di due grandi correnti, una piccolo-borghese, i Lassalliani dal nome del loro dirigente Lassalle, l’altra marxista, gli Eisenachiani dal nome della città in cui si costituirà questa tendenza in Partito Operaio Social Democratico tedesco nel 1869.
3. Abbiamo sottolineato la validità della politica unitaria della Sinistra di Zimmerwald per il campo internazionalista di oggi nella Revue Internationale n. 44 nel 1986.
4. In effetti, si può anche affermare che le differenze all’interno stesso della sinistra di Zimmerwald erano più grandi di quelle che riguardano l’attuale campo internazionalista. In particolare allora c’erano delle importanti divisioni sul fatto se la liberazione nazionale era ancora possibile e, quindi, se la parola d’ordine del “diritto delle nazioni all’autodeterminazione” facesse sempre parte della politica marxista. Le posizioni definite ed opposte tra Lenin da una parte e Trotsky e Radek dall’altra, sul sollevamento di Pasqua 1916 a Dublino, rivelano con chiarezza ed in maniera acuta le divisioni all’interno della sinistra di Zimmerwald. All’interno dello stesso Partito Bolscevico, esistevano differenze significative, in questo periodo, sull’autodeterminazione nazionale con Boukharin e Piatakov che difendevano la sua obsolescenza e sulla parola d’ordine di “disfattismo rivoluzionario” e di “Stati uniti d’Europa”.
5. La politica di Lenin di unità internazionalista non era limitata al movimento di Zimmerwald. Egli l’applicò anche all’interno della social-democrazia russa incoraggiando un lavoro in comune con un gruppo non bolscevico come quello di Trotsky, Naché Slovo. Se questi sforzi non furono coronati da successo – fino alla rivoluzione russa – fu a causa delle esitazioni ed al settarismo di Trotsky in quel tempo.
6. “Le Conferenze di Zimmerwald e di Kienthal ebbero la loro importanza in un’epoca in cui era necessario unire tutti gli elementi proletari disposti sotto una forma o un’altra a protestare contro la carneficina imperialista (…). Il raggruppamento di Zimmerwald autenticamente rivoluzionario passa ed aderisce all’Internazionale Comunista” (Dichiarazione fatta dai partecipanti alla Conferenza di Zimmerwald al congresso dell’IC). Questa dichiarazione è firmata da Rakovsky, Lenin, Zinoviev, Trotsky, Platten.
7. “We criticise the ICC (…) for expecting what they call the “proletarian political milieu” to take up and debate their increasingly outlandish political concerns”.
Pubblichiamo qui di seguito la seconda parte di un articolo apparso sulla versione trimestrale (disponibile in lingua inglese, francese e spagnola) della nostra Révue Internationale nn. 96 e 97. Nella prima parte abbiamo risposto all’accusa che ci è stata rivolta di essere diventati “leninisti” e di aver cambiato posizione sulla questione organizzativa. Dopo aver chiarito la differenza fondamentale che esiste tra Lenin e le sue posizioni politiche da una parte e, dall’altra, il cosiddetto “leninismo”, cioè la deformazione che è stata fatta di queste posizioni, abbiamo dimostrato che il “leninismo” non solo si oppone ai nostri principi e posizioni politiche, ma che esso mira anche alla distruzione dell’unità storica del movimento operaio. In particolare, esso rigetta la lotta delle sinistre marxiste all’interno - e poi al di fuori - della II e III Internazionale, spingendo Lenin contro Rosa Luxemburg, Pannekoek, etc.. Il “leninismo” è la negazione del militante comunista Lenin. Esso è l’espressione della controrivoluzione staliniana all’inizio degli anni 1920.
Abbiamo anche affermato di aver sempre rivendicato la lotta di Lenin per la costruzione del partito contro l’opposizione dell’economicismo e dei menscevichi. Abbiamo anche ricordato che manteniamo il nostro rigetto nei confronti dei suoi errori in materia di organizzazione, particolarmente sul carattere gerarchico e “militare” dell’organizzazione, come a livello teorico sulla questione della coscienza di classe che dovrebbe essere apportata al proletariato dall’esterno, ricollocando questi errori nel loro quadro storico per comprenderne la dimensione ed il loro significato reale.
In questa seconda parte risponderemo invece alle seguenti questioni: qual è la posizione della CCI sul “Che fare?” e su “Un passo avanti, due passi indietro?” Perché affermiamo che queste due opere di Lenin rappresentano delle acquisizioni teoriche, politiche ed organizzative insostituibili? Le nostre critiche, rivolte a dei punti tutt’altro che secondari - come è in particolare la questione della coscienza sviluppata nel “Che fare?”, rimettono per caso in dubbio il nostro accordo fondamentale con Lenin?
LA POSIZIONE DELLA CCI SUL CHE FARE?
“Sarebbe pertanto falso e caricaturale opporre un “Che fare?” sostituzionista di Lenin ad una visione sana e chiara di Rosa Luxemburg e di Trotsky (quest’ultimo d’altra parte si farà, negli anni 1920, l’inflessibile difensore della militarizzazione del lavoro e della dittatura del partito!)” (1)
Come si vede, la nostra posizione sul “Che fare?” parte dal nostro metodo di concepire la storia del movimento operaio, metodo che si basa sull’unità e la continuità di quest’ultimo. Questo metodo non è nuovo ma risale alla fondazione della stessa CCI.
Il “Che fare?”, del 1902, è costituito da due grandi parti. La prima dedicata alla questione della coscienza di classe e del ruolo dei rivoluzionari. La seconda legata direttamente ai problemi organizzativi. L’insieme è una critica implacabile degli “economicisti” secondo i quali non sarebbe possibile uno sviluppo della coscienza nella classe operaia se non a partire dalle sue lotte immediate. Questi tendono infatti a sottovalutare o a negare ogni ruolo politico attivo delle organizzazioni rivoluzionarie il cui compito si limiterebbe ad “aiutare” le lotte economiche. Come conseguenza naturale di questa sottovalutazione del ruolo dei rivoluzionari, l’economicismo si oppone alla costituzione di una organizzazione centralizzata ed unita capace di intervenire largamente e con una sola voce su tutte le questioni, economiche e politiche.
Il testo di Lenin “Un passo avanti, due passi indietro”, del 1903, è un complemento al “Che fare?” sul piano storico e rende conto della rottura tra bolscevichi e menscevichi al II congresso del POSDR.
Come abbiamo detto, la debolezza principale del “Che fare?” è sulla coscienza di classe. Ma qual è la tendenza degli altri rivoluzionari su questa questione? Fino al II congresso, solo “l’economicista” Martinov vi si oppone. E’ solo dopo il congresso che Plekanov e Trotsky criticano la concezione sbagliata di Lenin sulla coscienza apportata alla classe operaia dall’esterno. Essi sono i soli a rigettare esplicitamente la posizione di Kautsky ripresa da Lenin secondo la quale “socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra (…). Il detentore della scienza non è il proletario, ma sono gli intellettuali borghesi”. (2)
La risposta di Trotsky su questo punto della coscienza è molto giusta, benché essa resti molto limitata. Non dimentichiamo che ci troviamo nel 1903 e la risposta di Trotsky, “I nostri compiti politici”, è datata 1904. Il dibattito sullo sciopero di massa è appena iniziato in Germania ma è soltanto con l’esperienza del 1905 in Russia che esso va realmente a svilupparsi. Trotsky respinge chiaramente la posizione di Kautsky e sottolinea il pericolo di sostituzionismo che essa comporta. Ma, nonostante ciò, mentre si mostra molto virulento contro Lenin sulle questioni organizzative, di fatto non se ne stacca completamente su questo aspetto particolare. Egli concepisce e spiega le ragioni di una tale presa di posizione in questi termini:
“Quando Lenin riprese da Kautsky l’assurda idea del rapporto tra l’elemento «spontaneo» e l’elemento «cosciente» nel movimento rivoluzionario del proletariato, non faceva che definire nelle sue grandi linee i compiti della sua epoca”. (3)
A parte la clemenza di Trotsky su questo piano, è opportuno rilevare che nessuno di quelli che si opponevano a Lenin si era scagliato contro la posizione di Kautsky sulla coscienza prima del II congresso del POSDR, quando essi erano uniti nella lotta contro l’economicismo. Anzi al congresso, Martov, leader dei menscevichi, riprende esattamente la stessa posizione di Kautsky e di Lenin: ”Noi siamo l’espressione cosciente di un processo incosciente.” (4) Dopo il congresso questa questione viene giudicata così poco importante che i menscevichi negano ancora ogni divergenza programmatica e attribuiscono la divisione alle “elucubrazioni” di Lenin sull’organizzazione:
“Con la mia debole intelligenza, non sono capace di comprendere ciò che può essere «l’opportunismo sui problemi organizzativi» posto in campo come qualcosa di autonomo, al di fuori di un legame organico con le idee programmatiche e tattiche.” (5)
La critica di Plékhanov, se è giusta, resta ancora molto generale e si limita a ristabilire la posizione marxista sul problema. L’argomento principale è che non è vero che “gli intellettuali (hanno) «elaborato» le loro proprie teorie socialiste «in maniera totalmente indipendente dalla crescita spontanea del movimento operaio», cosa che non è mai accaduta e che mai potrà accadere.” (6)
Plékhanov si limita, a livello teorico, al problema della coscienza. Non affronta i dibattiti del II congresso. Non risponde alla questione centrale di quale partito e quale ruolo per questo partito? Solo Lenin vi risponde.
La questione centrale del Che fare?: elevare la coscienza
Nella sua polemica sul piano teorico contro l’economicismo Lenin ha una preoccupazione centrale, la questione della coscienza di classe e del suo sviluppo nella classe operaia. Si sa che Lenin è ritornato rapidamente sulla posizione di Kautsky, particolarmente in seguito all’esperienza dello sciopero di massa in Russia del 1905 e la comparsa dei primi soviet. Nel gennaio del 1917, cioè prima dell’inizio della rivoluzione in Russia, quando la guerra imperialista infuriava, Lenin ritorna sullo sciopero di massa del 1905. Passaggi interi sullo “intreccio degli scioperi economici e di quelli politici” potrebbero apparire come redatti da Rosa Luxemburg o da Trotsky (7). E sono un’espressione del rigetto di Lenin del suo errore iniziale in gran parte provocato dalle sue “forzature” (8).
“La vera educazione delle masse non può mai essere separata dalla lotta politica indipendente e soprattutto dalla lotta rivoluzionaria delle masse stesse. Soltanto la lotta educa la classe sfruttata; soltanto la lotta le fa scoprire l’entità della sua forza, allarga il suo orizzonte, eleva le sue capacità, illumina la sua intelligenza e tempra la sua volontà.” (9) Si è ben lontano da ciò che dice Kautsky.
Ma già nel Che fare?, ciò che viene detto sulla coscienza è contraddittorio. Accanto alla posizione sbagliata presa da Kautsky Lenin afferma, per esempio: “Questo ci mostra che l’«elemento spontaneo» non è in fondo che la forma embrionale del cosciente”. (10)
Queste contraddizioni sono la manifestazione del fatto che Lenin, come il resto del movimento operaio nel 1902, non ha una posizione molto precisa e chiara sulla questione della coscienza di classe (11). Le contraddizioni del Che fare? e le prese di posizione ulteriori mostrano che egli non è particolarmente legato alla posizione di Kautsky. D’altra parte non vi sono che tre passaggi ben definiti del Che fare? in cui egli scrive che “la coscienza deve essere apportata dall’esterno”. E fra i tre ve n’è uno che non ha niente a che vedere con Kautsky.
Rigettando l’idea che si possa “sviluppare la coscienza politica della classe degli operai dall’interno della loro lotta economica, ovvero partendo unicamente (o almeno principalmente ) da questa lotta, basandosi unicamente (o almeno principalmente) su questa lotta… [Lenin risponde che] …la coscienza politica di classe non può essere apportata all’operaio che dall’esterno, vale a dire dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni” (10). La formula è confusa, ma l’idea è giusta. E non corrisponde a ciò che egli difende nelle altre due utilizzazioni del termine “esterno” quando parla della coscienza. Il suo pensiero è ancora più preciso in un altro passaggio: “La lotta politica della socialdemocrazia è molto più larga e complessa della lotta economica degli operai contro il padronato ed il governo”. (10)
Lenin rigetta con chiarezza la posizione sviluppata dagli economisti sulla coscienza di classe intesa come prodotto immediato, diretto, meccanico ed esclusivo delle lotte economiche.
Noi siamo dalla parte del Che fare? nella lotta contro l’economicismo. Noi siamo anche d’accordo con gli argomenti critici utilizzati contro l’economicismo e riteniamo che essi siano ancora oggi d’attualità per quanto riguarda il loro contenuto teorico e politico.
“L’idea secondo la quale la coscienza di classe non sorge in maniera meccanica dalle lotte economiche è del tutto corretta. Ma l’errore di Lenin consiste nel credere che non si può sviluppare la coscienza di classe a partire dalle lotte economiche e che quest’ultima deve essere introdotta dall’esterno da un partito.” (1)
E’ forse questa una nuova posizione della CCI? Ecco alcune citazioni del Che fare? che noi riprendiamo come nostre riportate in un articolo di polemica (12) del 1989 con il BIPR per sostenere, già da allora, ciò che affermiamo oggi:
“La coscienza socialista delle masse operaie è la sola base che ci può garantire il trionfo (…). Il partito deve avere sempre la possibilità di rivelare alla classe operaia l’antagonismo ostile tra i suoi interessi e quelli della borghesia”. [La coscienza di classe raggiunta dal partito] “deve essere diffusa tra le masse operaie con uno zelo crescente. (…) bisogna sforzarsi il più possibile per elevare il livello di coscienza degli operai in generale”. [Il compito del partito è di] tirare profitto dalle scintille di coscienza politica che la lotta economica ha fatto penetrare nello spirito degli operai per elevare questi al livello della coscienza socialdemocratica” (13).
Per i detrattori di Lenin, le concezioni presentate nel Che fare? annunciano lo stalinismo. Un legame unirebbe dunque Lenin a Stalin anche in materia di organizzazione (14). Noi abbiamo respinto questa menzogna nella prima parte di questo articolo sul piano storico. E noi la respingiamo anche sul piano politico, ivi compresa la questione della coscienza di classe e dell’organizzazione politica.
Vi è un’unità ed una continuità del Che fare? con la rivoluzione russa, ma sicuramente non con la controrivoluzione staliniana. Questa unità e questa continuità esistono in tutto quel processo rivoluzionario che collega gli scioperi di massa del 1905 a quelli del 1917, che va dal febbraio del 1917 all’insurrezione di ottobre 1917. Per noi il Che fare? annuncia Le tesi di aprile del 1917: ”Data l’innegabile buona fede di vasti strati delle masse, che sono per il difensivismo rivoluzionario e accettano la guerra come una necessità e non per spirito di conquista, dato che essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna innanzi tutto mettere in luce i loro errori minutamente, ostinatamente, pazientemente, mostrando il legame indissolubile fra il capitale e la guerra imperialista (…). Spiegare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono la sola forma possibile di governo operaio.” (15). Per noi, il Che fare? annuncia l’insurrezione di ottobre ed il potere dei soviet.
I nostri detrattori attuali “anti-leninisti” passano completamente sotto silenzio questa preoccupazione centrale del Che fare? sulla coscienza, riprendendo così uno degli elementi del metodo stalinista che abbiamo denunciato nella prima parte di questo articolo. Se Stalin faceva cancellare i vecchi militanti bolscevichi dalle foto, essi cancellano l’essenziale di ciò che dice Lenin e ci accusano di essere diventati “leninisti“, ovvero stalinisti.
Per gli adoratori senza critica di Lenin, come la corrente bordighista, noi saremmo degli incorreggibili idealisti per la nostra insistenza sul ruolo e l’importanza de “la coscienza di classe nella classe operaia“ nella lotta storica e rivoluzionaria del proletariato. Per chi va a leggere bene ciò che ha scritto Lenin e per chi vuole ben calarsi nel processo reale delle discussioni e dei confronti politici dell’epoca, entrambe le accuse sono false.
La distinzione del Che fare? tra organizzazione politica e organizzazione unitaria
A livello politico ed organizzativo ci sono altri apporti fondamentali nel Che fare?. Si tratta principalmente della distinzione chiara e precisa che Lenin fa tra le organizzazioni di cui la classe operaia si dota nelle sue lotte quotidiane, le organizzazioni unitarie, e le organizzazioni politiche. Vediamo per prima l’acquisizione sul piano politico.
“Questi circoli, associazioni professionali degli operai e organizzazioni sono necessari dappertutto; bisogna che essi siano quanto più numerosi è possibile e che le loro funzioni siano le più varie; ma è assurdo e nocivo confonderle con l’organizzazione dei rivoluzionari, annullare la linea di demarcazione che esiste tra loro (…) L’organizzazione di un partito socialdemocratico rivoluzionario deve necessariamente essere di un altro genere rispetto all’organizzazione degli operai per la lotta economica” (10).
A tale livello, questa distinzione non è una scoperta per il movimento operaio. La socialdemocrazia internazionale, in particolare quella tedesca, è chiara sulla questione. Ma il Che fare?, nella sua lotta contro la variante russa dell’opportunismo in quest’epoca, l’economicismo, e tenendo conto delle condizioni particolari, concrete, della lotta di classe nella Russia zarista, è portato ad andare più lontano ed ad avanzare una idea nuova.
“L’organizzazione dei rivoluzionari deve inglobare anzitutto e principalmente degli uomini la cui professione è l’azione rivoluzionaria. Di fronte a questa caratteristica comune ai membri di una tale organizzazione, deve essere abolita ogni distinzione tra operai ed intellettuali e, a maggior ragione, tra le diverse professioni degli uni e degli altri. Necessariamente questa organizzazione non deve essere molto estesa, ed è necessario che essa sia quanto più clandestina possibile” (10).
Fermiamoci un momento su questo passaggio: sarebbe sbagliato vedere in esso delle considerazioni legate unicamente alle condizioni storiche in cui i rivoluzionari russi dovevano agire, in particolari condizioni d’illegalità, di clandestinità e di repressione. Lenin avanza tre punti che hanno un valore universale e storico e la cui validità non ha fatto che confermarsi fino ai giorni nostri. Il primo è che la militanza comunista è un atto volontario e serio (egli utilizza il termine “professionale” che è anche ripreso dai menscevichi nei dibattiti al congresso) che coinvolge il militante e determina la sua vita. Noi siamo sempre stati d’accordo con questa concezione della militanza che combatte e rigetta ogni visione o atteggiamento dilettantesco.
In secondo luogo Lenin difende una visione dei rapporti tra militanti comunisti che supera la divisione operaio-intellettuale (16), dirigente-diretto diremmo noi oggi, che supera ogni visione gerarchica o di superiorità individuale, in una comunità che lotta unita all’interno del partito, all’interno dell’organizzazione rivoluzionaria. Ed egli si oppone ad ogni divisione per mestiere o per corporazione tra i militanti. Egli rigetta, in anticipo, le cellule di fabbrica che saranno create durante la bolscevizzazione in nome del leninismo (8).
Infine, egli definisce un’organizzazione che “non deve essere estesa”. E’ il primo a percepire che il periodo dei partiti operai di massa si è concluso (17). Certamente, le condizioni della Russia favorirono sicuramente questa chiarezza. Ma sono le nuove condizioni di vita e di lotta del proletariato, che si manifestano in particolare attraverso “lo sciopero di massa”, che determinano anche le nuove condizioni d’attività dei rivoluzionari, in particolare il carattere "meno esteso", minoritario, delle organizzazioni rivoluzionarie nel periodo di decadenza del capitalismo che si apre all’inizio del secolo.
“Ma sarebbe (…) del “codismo” pensare che sotto il capitalismo quasi tutta la classe o la classe tutta intera sarà un giorno capace di elevarsi al punto di acquisire il grado di coscienza e d’attività del suo distaccamento d’avanguardia, del suo partito socialdemocratico” (18).
Se Rosa Luxemburg, Pannekoek o Trotsky sono tra i primi a tirare le lezioni sul manifestarsi degli scioperi di massa e dei consigli operai nella stessa epoca, essi restano tuttavia prigionieri di una visione del partito come organizzazione politica di massa. Rosa Luxemburg ad esempio critica Lenin dal punto di vista del partito di massa (19), finendo per deragliare essa stessa come quando scrive che “in verità la socialdemocrazia non è legata all’organizzazione della classe operaia, essa è invece proprio il movimento della classe operaia” (20). Vittima, anche lei, del “cambiamento di rotta” nella polemica, vittima del suo posizionarsi al fianco dei menscevichi sulla questione sollevata al 2° congresso del POSDR, essa scivola sfortunatamente a sua volta sul terreno dei menscevichi e degli economisti annegando l’organizzazione dei rivoluzionari nella classe (21). Rosa saprà più tardi riprendersi, e con quale brio! Ma sulla distinzione tra organizzazione dell’insieme della classe operaia ed organizzazione dei rivoluzionari, le formule di Lenin restano le più chiare. Sono queste che vanno più lontano. Chi è membro del partito? Il «Che fare?» e «Un passo avanti, due passi indietro» rappresentano dunque delle conquiste politiche essenziali nella storia del movimento operaio. Le due opere rappresentano più esattamente delle acquisizioni politiche «pratiche» sul piano organizzativo. Come Lenin, la CCI ha sempre considerato la questione organizzativa come una questione politica a pieno titolo. L’organizzazione politica della classe si distingue dalla sua organizzazione unitaria e ciò ha, a suo livello, delle implicazioni pratiche. Tra queste è essenziale la stretta definizione di adesione e di appartenenza al partito, vale a dire la definizione di militante, dei suoi compiti, dei suoi doveri, dei suoi diritti, in breve dei suoi rapporti con l’organizzazione. E’ ben nota la battaglia del II congresso del POSDR intorno all’articolo 1 degli statuti: è il primo scontro, all’interno dello stesso congresso, tra bolsceviche e menscevichi. La differenza tra le formulazioni proposte da Lenin e da Martov può sembrare del tutto insignificante; per Lenin:“è membro del Partito colui che ne riconosce il programma e sostiene il Partito sia con dei mezzi materiali che con la sua partecipazione personale in una delle organizzazioni del Partito.”
Per Martov, “è considerato come appartenente al Partito operaio socialdemocratico di Russia colui che, riconoscendo il suo programma, lavora attivamente per mettere in opera i suoi compiti sotto il controllo e la direzione degli organismi del Partito”.
La divergenza consiste nel riconoscere la qualità di membro o ai soli militanti che appartengono al Partito e che sono riconosciuti come tali da quest’ultimo - ed è la posizione di Lenin - o ai militanti che non appartengono formalmente al Partito e che in questo o quel momento e su una specifica attività offrono un sostegno al Partito, oppure che si dichiarano essi stessi socialdemocratici. La posizione di Martov e dei mensceviche è dunque molto più larga, più “flessibile”, meno restrittiva e meno precisa di quella di Lenin. Dietro questa differenza si nasconde una questione di fondo che è presto comparsa durante il congresso e su cui le organizzazioni rivoluzionarie si scontrano ancora tutt’oggi: chi è membro del partito e chi non lo è?Per Martov è chiaro: “Più sarà generalizzata la definizione di membro del partito, meglio sarà. Noi non possiamo che rallegrarci se ogni scioperante, ogni manifestante, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, può dichiararsi membro del Partito” (22).
La posizione di Martov tende a diluire, a dissolvere l’organizzazione dei rivoluzionari, il partito nella classe. Egli raggiunge così l’economicismo che precedentemente aveva combattuto assieme a Lenin. L’argomentazione che egli fornisce alla sua proposta di Statuto finisce per liquidare l’idea stessa di partito d’avanguardia, unito, centralizzato e disciplinato intorno ad un Programma politico ben definito, ben preciso e con una volontà d’azione militante e collettiva ancora più definita, precisa e rigorosa. Esso apre anche la porta alla politica opportunista di “reclutamento” senza principio di militanti, cosa che pone un’ipoteca sullo sviluppo del partito sul lungo periodo a profitto di risultati immediati. E’ Lenin che ha ragione:
“Al contrario, più forti saranno le nostre organizzazioni di Partito che inglobano dei veri socialdemocratici, meno ci sarà esitazione e instabilità all’interno del partito, e più larga, più varia, più ricca e più feconda sarà l’influenza del partito sugli elementi della massa operaia che l’avvicinano e sono diretti da esso. Non è permesso in effetti confondere il Partito, avanguardia della classe operaia, con tutta la classe” (18).
La grande pericolosità della posizione opportunista di Martov in materia di organizzazione, di reclutamento, di adesione e di appartenenza al partito appariva prontamente durante lo stesso congresso con l’intervento di Axelrod: “Si può essere un membro sincero e devoto del partito socialdemocratico, ma essere completamente inadatto all’organizzazione di lotta rigorosamente centralizzata” (4).
Come si può essere membro del partito, militante comunista, “ed essere inadatto all’organizzazione di lotta centralizzata?” Accettare una tale idea è così assurdo come pensare che un operaio combattivo e rivoluzionario sarebbe “inadatto” ad una qualunque azione collettiva di classe. Ogni organizzazione comunista non può accettare al suo interno che militanti adatti alla sua disciplina ed alla centralizzazione della sua lotta. Come potrebbe essere altrimenti? Il contrario significherebbe accettare che i militanti non siano necessariamente rispettosi dei rapporti d’organizzazione e delle decisioni adottate da quest’ultima e della necessità della lotta, significherebbe ancora ridicolizzare la nozione stessa di organizzazione comunista che deve essere “la frazione più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, la frazione che trascina tutte le altre.” (23) La lotta storica del proletariato è una lotta di classe unita sul piano storico e sul piano internazionale, collettiva e centralizzata. E, all’immagine della loro classe, i comunisti conducono una lotta storica, internazionale, permanente, unitaria, collettiva e centralizzata che si oppone ad ogni visione individualista. “Se la coscienza critica e l’iniziativa volontaria non hanno che un valore molto limitato per gli individui, esse si trovano pienamente realizzate nella collettività del partito” (24) Chi è incapace di iscriversi in questa lotta centralizzata non è adatto all’attività militante e non può essere riconosciuto membro del partito. “Che il partito non ammetta che degli elementi suscettibili almeno di un minimo di organizzazione” (18).
Questa “attitudine” è frutto della convinzione politica e militante dei comunisti. Essa si acquisisce e si sviluppa con la partecipazione alla lotta storica del proletariato, particolarmente all’interno delle sue minoranze politiche organizzate. Per ogni organizzazione comunista conseguente, la convinzione e l’attitudine “pratica”, non platonica, per “l’organizzazione di lotta rigorosamente centralizzata” di ogni nuovo militante sono allo stesso tempo condizioni indispensabili per la sua adesione e manifestazioni concrete del suo accordo politico con il programma comunista.
La definizione del militante, della qualità di membro di un’organizzazione comunista, è ancora oggi una questione essenziale. Il Che fare? e Un passo avanti, due passi indietro forniscono le fondamenta e le risposte a molteplici questioni in materia di organizzazione. E’ per questo che la CCI si è sempre basata sulla lotta dei bolscevichi al 2° congresso per distinguere, con chiarezza, rigore e fermezza un militante, ovvero colui “che partecipa personalmente ad una delle organizzazioni del partito”, come sostiene Lenin, da un simpatizzante, un compagno di strada che “adotta il programma, sostiene il partito attraverso dei mezzi materiali e gli dedica un impegno personale regolare [o irregolare, aggiungeremmo noi] sotto la direzione di una delle sue organizzazioni”, come viene espresso dalla definizione del militante Martov. Allo stesso modo noi abbiamo sempre difeso il fatto che “fin dal momento in cui vuoi essere membro del partito, devi riconoscere anche i rapporti organizzativi e non solo in maniera platonica”. (25)
Tutto ciò non è nuovo per la CCI. E’ la base stessa della sua costituzione come lo prova l’adozione dei suoi statuti fin dal suo primo congresso internazionale nel gennaio 1976.
Sarebbe sbagliato credere che oggi questa questione non pone più alcun problema. Innanzitutto, la corrente consiliarista, anche se le sue ultime espressioni politiche sono silenziose, se non sul punto di sparire (26), resta attualmente in qualche modo l’erede politico dell’economicismo e del menscevismo in materia di organizzazione. In un periodo di maggiore attività della classe operaia non c’è dubbio che le pressioni di ordine consiliarista per “lusingarsi, chiudere gli occhi sull’immensità dei compiti, ridurre questi compiti [dimenticando] la differenza tra il reparto d’avanguardia e le masse che gravitano attorno ad esso” (18) prenderanno un nuovo vigore. Inoltre, anche nell’ambiente che si rivendica esclusivamente alla sinistra Italiana e a Lenin, vale a dire la corrente bordighista e il BIPR, la messa in pratica del metodo di Lenin e del suo pensiero politico in materia d’organizzazione è lontano dal costituire un’acquisizione. Basta ricordarsi delle politiche di reclutamento senza principio del PCI bordighista negli anni 1970. Questa politica di tipo attivista ed immediatista d’altra parte fu l’elemento che provocò l’esplosione di questo gruppo nel 1982. Basta osservare ancora la mancanza di rigore del BIRP (che raggruppa Battaglia Comunista in Italia e la CWO in Gran Bretagna) che talvolta fa fatica a distinguere chi è militante dell’organizzazione e chi è solo un simpatizzante, un contatto vicino; e ciò malgrado tutti i rischi che una tale leggerezza organizzativa comporta (27). L’opportunismo in materia organizzativa è oggi uno dei veleni più pericolosi per il campo politico proletario. E malauguratamente, gli incantesimi nei riguardi di Lenin e la necessità del “Partito compatto e potente” non possono servire da antidoto.
Che dice Rosa Luxemburg, nella sua polemica con Lenin, sulla questione del militante e della sua appartenenza al partito?
“La concezione che viene espressa in questo libro [Un passo avanti, due passi indietro] in maniera penetrante ed esauriente, è quella di un centralismo impietoso; il suo principio vitale esige, da un lato, che le falangi organizzate di rivoluzionari riconosciuti e attivi nascano e si separino risolutamente dall’ambiente che li circonda e che, qualunque individuo non organizzato, non può considerarsi un rivoluzionario; vi si difende, d’altra parte, una rigida disciplina” (20).
Senza pronunciarsi esplicitamente contro la definizione precisa di militante data da Lenin, il tono ironico che lei usa quando parla de “le falangi organizzate che sorgono e si separano dall’ambiente che le circonda” e … il suo silenzio completo sulla battaglia politica combattuta al congresso sull’articolo 1 degli statuti, indicano la visione errata di Rosa Luxemburg in quel momento e il suo collocarsi a fianco dei menscevichi. Lei resta prigioniera della visione del partito di massa esemplificato dalla socialdemocrazia tedesca del tempo. Non riesce a vedere il problema o lo evita, sbagliando il tipo di lotta da combattere. Il fatto che lei non dica niente sul dibattito sull’articolo 1 degli statuti in occasione del congresso dà ragione a Lenin quando questi afferma che la Luxemburg “si limita a rimestare delle frasi vuote senza cercare di dar loro un senso. Agita degli spauracchi senza andare a fondo del dibattito. Lei mi fa dire luoghi comuni, delle idee generali, delle verità assolute e si sforza di rimanere muta su delle verità relative che si basano su dei fatti precisi” (28).Come nel caso di Plékhanov e di molti altri, le considerazioni generali avanzate da Rosa Luxemburg -anche quando queste risultano giuste in sé– non rispondono ai veri problemi politici posti da Lenin. “E’ così che una preoccupazione corretta: l’insistenza sul carattere collettivo del movimento operaio, sul fatto che «l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi», porta a delle false conclusioni pratiche” dicevamo già a tale riguardo nel 1979 (1). Di fatto, la Luxemburg non coglie le acquisizioni politiche della lotta dei bolscevichi.
Ora, senza il dibattito sull’articolo 1, la questione del partito chiaramente definito e chiaramente distinto, organizzativamente e politicamente, dall’insieme della classe operaia, non sarebbe stato definitivamente risolto. Senza la lotta portata da Lenin sull’articolo 1, la questione non sarebbe diventata quella conquista politica di prima importanza in materia di organizzazione su cui i comunisti di oggi devono imperativamente basarsi per costituire la loro organizzazione, non soltanto rispetto all’adesione di nuovi militanti, ma anche e soprattutto per stabilire con chiarezza, precisione e rigore i rapporti dei militanti nei confronti dell’organizzazione rivoluzionaria.
E’ forse nuova questa nostra difesa della posizione di Lenin sull’articolo 1 degli statuti? Abbiamo per caso cambiato posizione? “Per essere membro della CCI, occorre […] integrarsi nell’organizzazione, partecipare attivamente al suo lavoro e adempiere ai compiti richiesti” afferma l’articolo dei nostri statuti che tratta della questione dell’appartenenza militante alla CCI. E’ chiaro che noi riprendiamo, senza alcuna ambiguità, la concezione, lo spirito e finanche le parole dello statuto proposto da Lenin al 2° congresso del POSDR e certamente non quella di Martov e Trotsky. Peccato che gli ex membri della CCI che ci accusano oggi di essere divenuti “leninisti” abbiano dimenticato ciò che essi stessi avevano adottato all’epoca. Senza dubbio essi l’avevano fatto con una colpevole leggerezza ed una grande superficialità nell’entusiasmo studentesco post-sessantottino. In ogni caso, essi sono oggi particolarmente disonesti quando accusano la CCI d’aver cambiato posizione per fare intendere che sarebbero loro i fedeli alla vera CCI, quella delle origini.
LA CCI AL FIANCO DI LENIN SUGLI STATUTI
Abbiamo rapidamente presentato la nostra concezione del militante rivoluzionario e mostrato in che modo essa è l’erede, in gran parte, della lotta e degli apporti di Lenin nel Che fare? e Un passo avanti, due passi indietro. Abbiamo sottolineato l’importanza di tradurre il più fedelmente e rigorosamente possibile nella pratica militante quotidiana, attraverso gli statuti dell’organizzazione, questa definizione di militante. E là ancora noi siamo fedeli da sempre al metodo ed agli insegnamenti di Lenin in materia di organizzazione. La lotta politica per l’instaurazione di regole precise che regolano i rapporti organizzativi, vale a dire gli statuti, è fondamentale analogamente a quella per il loro rispetto. Senza quest’ultima, le grandi dichiarazioni tuonanti sul Partito non restano che delle spacconate.
Nel quadro di questo articolo non possiamo, per mancanza di spazio, presentare la nostra concezione dell’unità della organizzazione politica e mostrare in che modo la lotta di Lenin contro il mantenimento dei circoli, al 2° congresso del POSDR, costituisce un apporto teorico e politico considerevole. Ma vogliamo insistere sull’importanza pratica che c’è a tradurre la necessità di questa unità negli statuti dell’organizzazione: “Il carattere unitario della CCI si esprime ugualmente nei presenti statuti” (statuti della CCI). Lenin ne esprime molto bene la ragione e la necessità.
“L’anarchia da gran signore non capisce che lo statuto formale è necessario proprio per sostituire ai ristretti vincoli di circolo un ampio vincolo di Partito. Il vincolo esistente in seno a un circolo o tra i diversi circoli non doveva né poteva avere una forma ben definita, giacché poggiava sull’amicizia o su una «fiducia» istintiva, immotivata. Il vincolo di Partito non può e non deve reggersi né sull’una né sull’altra, deve basarsi precisamente su uno statuto formale, «burocraticamente» (29) (dal punto di vista dell’intellettuale non soggetto a disciplina) redatto, e soltanto la sua rigida applicazione ci garantisce contro l’arbitrio dei circoli, contro i capricci dei circoli, contro i metodi, propri dei circoli, di quella baruffa che viene chiamata libero «processo» della lotta ideologica.” (18)
E’ lo stesso per quanto riguarda la centralizzazione della organizzazione contro ogni visione federalista, localista, o visione dell’organizzazione come somma delle sue parti, o ancora di individui rivoluzionari, autonomi. “Il congresso internazionale è l’organo sovrano della CCI” (statuti della CCI). Anche su questo piano, noi ci rivendichiamo alla lotta di Lenin e alla sua necessaria traduzione pratica negli statuti dell’organizzazione, tanto per il POSDR all’epoca, che per le organizzazioni attuali.
“Nell’epoca di ricostruzione della vera unità del partito e della dissoluzione, in questa unità, dei circoli che hanno fatto il loro tempo, questo vertice è necessariamente il congresso del Partito, organismo supremo di quest’ultimo.” (18)
E’ la stessa cosa per quanto concerne la vita politica interna: l’apporto di Lenin riguarda anche e particolarmente i dibattiti interni, il dovere - e non solo il diritto- di espressione di ogni divergenza nel quadro organizzativo di fronte all’insieme dell’organizzazione; e una volta portati a termini i dibattiti e prese le decisioni da parte del congresso (che è l’organo sovrano, la vera assemblea generale dell’organizzazione), la subordinazioni delle parti e dei militanti al TUTTO. Contrariamente all’idea, ampiamente propagandata, di un Lenin dittatoriale, che cerca di affossare i dibattiti e la vita politica nell’organizzazione, quest’ultimo in realtà non ha mai cessato di opporsi alla visione menscevica che vede il congresso come “un registratore, un controllore, ma non un creatore.” (30)
Per Lenin e per la CCI, il congresso è “creatore”. In particolare, noi rigettiamo radicalmente ogni idea di mandati imperativi dei delegati da parte dei loro mandanti al congresso, che sarebbe in contraddizione con la possibilità di avere dei dibattiti quanto più ampi, dinamici e fruttuosi possibile e che ridurrebbe i congressi ad essere dei “registratori”, come lo voleva Trotsky nel 1903. Un congresso “registratore” consacrerebbe la supremazia delle parti sul TUTTO, il regno dell’ “ognuno padrone a casa sua”, del localismo e del federalismo. Un congresso “registratore e controllore” è la negazione del carattere sovrano del congresso. Come Lenin, noi siamo per congressi “organi-smo supremo” del partito che hanno potere decisionale e di “creazione”. Il congresso “creatore” implica dei delegati che non siano “imperativamente” limitati, con le mani legate, prigionieri del mandato che gli è conferito dai loro mandanti (31).
Il congresso “organo supremo” implica anche la sua supremazia, in termini programmatici, politici ed organizzativi, su tutte le differenti parti dell’organizzazione comunista.
“‘Il congresso è l’istanza suprema del partito’. Dunque chi, in un modo o in un altro, impedisce ad un delegato di rivolgersi direttamente al congresso su qualunque questione della vita di Partito, trasgredisce alla disciplina del partito ed al regolamento del congresso, senza riserve né eccezioni. La controversia si riconduce di conseguenza al dilemma: spirito di circolo o spirito di partito? Limitazioni dei diritti dei delegati al congresso, in nome di diritti o regolamenti immaginari di ogni tipo di collegio o circolo, o dissoluzione completa, non soltanto verbale, ma effettiva, di fronte al congresso, di tutte le istanze inferiori, dei vecchi piccoli gruppi.” (18)
Ed anche su questi punti non solo ci rivendichiamo alla lotta di Lenin, ma traduciamo in regole organizzative – vale a dire in statuti della nostra organizzazione - queste concezioni di cui noi ci consideriamo come i veri continuatori.
Gli statuti non sono misure eccezionali
Abbiamo visto che Rosa Luxemburg e Trotsky, per non citare altri, non rispondono a Lenin sull’articolo 1 degli statuti. Essi trascurano completamente questa questione come quella degli statuti in generale. Preferiscono rimanere anche su questo su delle generalità astratte. E quando si degnano di evocare la questione degli statuti, è solo per sottovalutarli completamente. Nella migliore delle ipotesi, essi considerano gli statuti delle organizzazioni politiche semplicemente come dei paletti, degli argini che delimitano i lati della strada che non bisogna superare. Nella peggiore, questi non sono che degli strumenti di repressione, misure eccezionali da utilizzare solo con estrema precauzione.
Per Trotsky, la formula di Lenin nell’articolo 1 avrebbe lasciato “la soddisfazione platonica [di avere] scoperto il più sicuro rimedio statutario contro l’opportunismo […]. Nessun dubbio: si tratta di un modo semplicistico, tipicamente amministrativo di risolvere una seria questione pratica.” (30)
E’ la stessa Rosa Luxemburg che, senza saperlo, risponde a Trotsky quando afferma che nel caso di un partito già costituito (come è il caso del partito socialdemocratico di massa in Germania), “un’applicazione più severa dell’idea centralista nello statuto dell’organizzazione ed una formulazione più stretta dei paragrafi della disciplina di partito sono molto appropriati come diga contro le correnti opportuniste.” (20) Lei è dunque d’accordo con Lenin per quanto riguarda la Germania, e cioè in generale. Per il caso russo invece comincia col dire delle “verità astratte” (“Gli smarrimenti opportunisti non possono essere previsti a priori, essi devono essere superati dallo stesso movimento”) che non vogliono dire niente e che, nella realtà, finiscono per giustificare “a priori” ogni rinuncia alla lotta contro l’opportunismo in materia di organizzazione. Cosa che in seguito non mancherà di fare, sempre a proposito del partito russo, deridendo gli statuti come “paragrafi cartacei”, delle “scartoffie scartabellate” e considerandoli come delle misure eccezionali:
“Lo statuto del Partito non dovrebbe essere un’arma contro l’opportunismo, ma solamente un mezzo estremo d’autorità per esercitare l’influenza preponderante della maggioranza rivoluzionaria proletaria realmente esistente nel Partito.” (20)
Noi non siamo mai stati d’accordo con Rosa Luxemburg su questo punto: “Rosa continua a ripetere che spetta allo stesso movimento di massa superare l’opportunismo; i rivoluzionari non devono fare altro che accelerare artificialmente questo movimento. […] Quello che Rosa Luxemburg non riesce a comprendere è che il carattere collettivo dell’azione rivoluzionaria è qualche cosa che si forgia.” (1). Sulla questione degli statuti, è con Lenin che siamo stati d’accordo da sempre.
Gli statuti come regola di vita e come arma di lotta
Per Lenin, gli statuti sono molto più che delle semplici regole formali di funzionamento, regole alle quali si ricorrerebbe solo in caso di situazioni eccezionali. Al contrario di Rosa Luxemburg o dei menscevichi, Lenin definisce gli statuti come delle linee di condotta, come lo spirito che deve animare l’organizzazione ed i suoi militanti quotidianamente.
All’opposto di una interpretazione degli statuti come dei mezzi di repressione o di coercizione, Lenin li intende come armi che impongono le responsabilità alle diverse parti della organizzazione e ai militanti di fronte all’insieme dell’organizzazione politica; armi che costringono al dovere d’espressione aperta, pubblica, davanti a tutta la organizzazione, su tutte le divergenze e difficoltà politiche incontrate.
Lenin non considera le espressioni dei punti di vista, delle sfumature, delle discussioni, delle divergenze come un diritto dei militanti, un diritto dell’individuo di fronte all’organizzazione ma come un dovere ed una responsabilità di fronte all’insieme del partito e dei suoi membri. Il militante comunista è responsabile, di fronte ai suoi compagni di lotta, dell’unità politica ed organizzativa del partito. Gli statuti sono degli strumenti al servizio dell’unità e della centralizzazione dell’organizzazione, dunque delle armi contro il federalismo, contro lo spirito di circolo, contro il cameratismo, contro ogni vita e discussione parallela a quella di organizzazione. Più che dei limiti esterni, più che delle regole, gli statuti –per Lenin- sono un modo di vita politica, organizzativa e militante.
“Le questioni controverse in seno ai circoli venivano decise non secondo lo statuto, «ma con la lotta e la minaccia di andarsene” […]. Quando ero solo membro di un circolo […], avevo il diritto di giustificare, per esempio, il mio rifiuto di lavorare con X, richiamandomi unicamente a una sfiducia istintiva e immotivata. Una volta diventato membro del Partito, non ho più il diritto di richiamarmi unicamente a una vaga sfiducia, perché questo spalancherebbe le porte ad ogni sorta di capricci e arbitri del vecchio sistema dei circoli; ho l’obbligo di motivare la mia «fiducia» o la mia «sfiducia» con un argomento formale, richiamandomi cioè a questa o a quella tesi, formalmente stabilita, del nostro programma, della nostra tattica, del nostro statuto; ho l’obbligo di non limitarmi ad un semplice «ho fiducia» o «non ho fiducia» istintivo, ma di riconoscere che di tutte le decisioni mie e, in generale, di tutte le decisioni di ogni settore del partito si deve rendere conto davanti a tutto il partito; ho l’obbligo, per esprimere la mia «sfiducia», per far accettare le vedute e i desideri che scaturiscono da questa sfiducia, di seguire la via formalmente prescritta. Noi ci siamo già elevati dalla «fiducia» istintiva, propria dei circoli, al partito, che esige l’applicazione di metodi controllabili e formalmente prescritti per esprimere e verificare la fiducia.” (18)
Gli statuti dell’organizzazione rivoluzionaria non sono semplici misure eccezionali, degli argini. Essi sono la concretizzazione dei principi organizzativi propri delle avanguardie politiche del proletariato. Prodotti di questi principi, essi sono allo stesso tempo un’arma di lotta contro l’opportunismo in materia di organizzazione ed i fondamenti sui quali l’organizzazione rivoluzionaria deve elevarsi e costruirsi. Sono l’espressione della sua unità, della sua centralizzazione, della sua vita politica ed organizzativa e del suo carattere di classe. Sono la regola e lo spirito che devono guidare quotidianamente i militanti nel loro rapporto con l’organizzazione, nelle loro relazioni con gli altri militanti, nei compiti che vengono loro affidati, nei loro diritti e doveri, nella loro vita quotidiana personale che non può essere in contraddizione né con l’attività militante né con i principi comunisti.
Per noi, come per Lenin, la questione organizzativa è una questione politica a pieno titolo. Non solo, è anche una questione politica fondamentale. L’adozione degli statuti e la lotta permanente per il loro rispetto e la loro messa in pratica è al centro della comprensione e della battaglia per la costruzione della organizzazione politica. Gli statuti sono, essi stessi, una questione teorica e politica a tutti gli effetti. E’ forse questa una scoperta per la nostra organizzazione? Un cambiamento di posizione?
“Il carattere unitario della CCI si esprime ugualmente nei presenti statuti che sono validi per tutta l’organizzazione [...]. Questi statuti costituiscono un'applicazione concreta della concezione della CCI in materia di organizzazione. Come tali, essi fanno parte integrante della piattaforma della CCI.” (Statuti della CCI)
IL PARTITO COMUNISTA SI COSTRUIRA’ SULLE ACQUISIZIONI POLITICHE ORGANIZZATIVE APPORTATE DA LENIN
Nella lotta del proletariato, questa battaglia di Lenin rappresenta uno dei momenti essenziali per la costituzione del suo organo politico che si è poi concretizzato con la fondazione della Internazionale Comunista (IC) nel marzo del 1919. Prima di Lenin, la Prima Internazionale (AIT) aveva rappresentato un momento altrettanto importante. Dopo Lenin, è la lotta della frazione italiana della Sinistra comunista per la sua propria sopravvivenza organica a segnare un altro momento importante.
Tra queste differenti esperienze, vi è un filo rosso, una continuità di principio, teorica, politica in materia di organizzazione. Gli attuali rivoluzionari non possono agganciare la loro azione se non in questa continuità ed in questa unità storica.
Abbiamo già ampiamente citato i nostri testi che ricordano chiaramente e senza ambiguità la nostra filiazione e la nostra eredità in materia di organizzazione. Il nostro «metodo» di riappropriazione delle acquisizioni politiche e teoriche del movimento operaio non è un’invenzione della CCI. Noi l’abbiamo ereditato dalla frazione italiana della Sinistra comunista e dalla sua pubblicazione Bilan negli anni 1930, come pure dalla Sinistra comunista di Francia e dalla sua rivista Internationalisme degli anni 1940. Questo è il metodo che noi abbiamo sempre rivendicato e senza il quale la CCI non esisterebbe, almeno nella sua forma attuale.
“L’espressione più compiuta della soluzione al problema del ruolo che l’elemento cosciente, il partito, è chiamato a giocare per la vittoria del socialismo, è stata data dal gruppo di marxisti russi della vecchia Iskra, ed in particolare da Lenin che, fin dal 1902, ha dato una definizione di principio al problema del partito nella sua rimarchevole opera Che fare?. La nozione di partito di Lenin servirà da colonna vertebrale al partito bolscevico e sarà uno dei più grandi apporti di questo partito nella lotta internazionale del proletariato.” (32)
Effettivamente, e senza dubbio, il Partito comunista mondiale di domani non potrà costituirsi al di fuori delle principali acquisizioni teoriche, politiche ed organizzative forniteci da Lenin. La riappropriazione reale e non declamatoria di queste acquisizioni e la loro messa in pratica rigorosa e sistematica alle condizioni attuali costituiscono uno dei più importanti compiti che i piccoli gruppi comunisti di oggi devono assumere se vogliono contribuire al processo della costruzione di questo Partito.
RL
1. Brochure della CCI su “Organizzazioni comuniste e coscienza di classe”, 1979, disponibile solo in inglese e francese.
2. Kautsky, citato da Lenin nel “Che fare?”, cap. II.
3. Trotsky, I nostri compiti politici, cap. I, par. In nome del marxismo, La Nuova sinistra Samonà e Savelli, 1972.
4. Processo verbale del 2° congresso del POSDR, edizioni Era, 1977, tradotto da noi dallo spagnolo.
5. P. Axelrod, Sull’origine ed il significato delle nostre divergenze organizzative, lettera a Kautsky, 1904
6. G. Plékhanov, La classe operaia e gli intellettuali socialdemocratici, 1904,
7. Vedi Sciopero di massa, partito e sindacati (Rosa Luxemburg, 1906) e 1905, (Trotsky, 1908-1909).
8. Vedere la prima parte di questo articolo nel n° 96 della Revue Internationale.
9. Lenin, Rapporto sul 1905, gennaio 1917.
10. Lenin, Che fare?.
11. K. Marx è molto più chiaro sulla questione nei suoi lavori. Ma questi sono per la maggior parte sconosciuti ai rivoluzionari dell’epoca perché non disponibili o poco pubblicati. Opera fondamentale sulla questione della coscienza è, per esempio, L’ideologia tedesca, che sarà pubblicata per la prima volta soltanto nel…1932!
12. Questo articolo non è della CCI, ma dei compagni del Grupo Proletario Internacionalista che successivamente hanno costituito la sezione della CCI in Messico. L’obiettivo del-l’articolo: «prima di criticare Lenin [è di] difenderlo, tentare di restituire il suo pensiero, di esprimere chiaramente quali erano le sue preoccupazioni e le sue intenzioni nella lotta contro la corrente «economicista», contro la comprensione particolare e parziale del Che fare? da parte del BIPR. Esso oppone i passaggi citati, «la preoccupazione, le intenzioni» di Lenin alla posizione del BIPR che considera che «ammettere che l’insieme o anche la maggioranza della classe operaia, tenuto conto della dominazione del capitale, possa acquistare una coscienza comunista prima della presa del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato, sia puro e semplice idealismo» (La coscienza della classe nella prospettiva comunista, Révue Communiste n° 2, pubblicata dal BIPR).
13. «Coscienza di classe e partito», Revue Internationale n° 57, 1989.
14. Nell’insieme delle menzogne della borghesia, è opportuno rilevare il piccolo contributo di RV, ex militante della CCI, che dichiara che «vi è una vera continuità e coerenza tra le concezioni del 1903 ed azioni come l’interdizione delle frazioni all’interno del partito bolscevico o lo schiacciamento degli operai insorti a Kronstadt» (RV, «Presa di posizione sull’evoluzione recente della CCI», pubblicata da noi stessi nella nostra brochure su La pretesa paranoia della CCI).
15. Lenin, «Tesi di Aprile», 1917.
16. Non è necessario ricordare qui la debolezza del livello «scolastico» e l’analfabetismo che dominava tra gli operai russi. Ciò non impedisce a Lenin di considerare che essi possono e devono integrarsi nell’attività del partito allo stesso titolo degli «intellettuali».
17. «Lenin opererà una rottura anche con la visione socialdemocratica del partito di massa. Per Lenin, le nuove condizioni della lotta impongono la necessità di un partito minoritario d’avanguardia che deve operare per la trasformazione delle lotte economiche in lotte politiche» (Organizzazioni comuniste e coscienza di classe, CCI 1979).
18. Lenin, Un passo avanti, due passi indietro.
19. «Questa militante che è passata attraverso le scuole del partito socialdemocratico, sviluppa un attaccamento incondizionato al carattere di massa del movimento rivoluzionario» (Organizzazioni comuniste e coscienza di classe, CCI 1979).
20. Rosa Luxemburg, Questioni di organizzazioni nella socialdemocrazia russa.
21. Il lettore potrà notare che questa visione lascia la porta aperta ad una interpretazione sostituzionista del partito - il partito che si sostituisce all’azione della classe operaia … fino ad esercitare il potere statale in suo nome oppure a realizzare delle azioni «putchistes», come faranno gli stalinisti negli anni 1920.
22. Martov, citato da Lenin in «Un passo avanti, due passi indietro».
23. K. Marx, Il Manifesto del partito Comunista.
24. Tesi sulla tattica del Partito Comunista d’Italia, Tesi di Roma, 1922.
25. Il bolscevico Pavlovitch citato da Lenin in Un passo avanti, due passi indietro.
26. Vedi su Rivoluzione Internazionale n. 110 l’articolo sull’arresto delle pubblicazioni di Daad en Gedachte, la rivista del gruppo consiliarista olandese dallo stesso nome.
27. Noi abbiamo già criticato la superficialità e l’opportunismo di BC in Italia su questa questione a proposito dei militanti dei GPL (cfr. I «Gruppi di lotta proletaria» un tentativo incompiuto di raggiungere una coerenza rivoluzionaria, in Rivoluzione Internazionale n° 106, giugno 1998). Questo caso non è isolato: è apparso sul sito Internet del BIPR un articolo intitolato “I rivoluzionari devono lavorare nei sindacati reazionari?”. In questo articolo, non firmato, e dove l’autore può apparire come membro della CWO, c’è la risposta alla domanda posta nel titolo: “i materialisti, non gli idealisti, devono rispondere affermativamente” con due argomenti principali: “Molti lavoratori combattivi si trovano nei sindacati” e “i comunisti non devono disprezzare queste organizzazioni che raggruppano i lavoratori in massa” (sic). Questa posizione è in completa contraddizione con la posizione di BC –e dunque del BIPR noi supponiamo- riaffermata in occasione del suo ultimo congresso che difende la posizione secondo cui: «non vi può essere una reale difesa degli interessi operai, anche i più immediati, se non al di fuori è contro la linea sindacale». Ma soprattutto il problema consiste nel fatto che non si sa chi ha scritto l’articolo: un militante o un simpatizzante del BIPR? E, in qualunque caso, perché non c’è stata nessuna presa di posizione, nessuna critica? Per dimenticanza? Per opportunismo, allo scopo di reclutare un nuovo militante chiaramente male sganciato dal gauscisme? Oppure per semplice sottostima della questione organizzativa? Ancora una volta per i gruppi del BIPR si sente odore di Martov … Per quanto ci risulta, il testo è stato successivamente ritirato, senza alcuna menzione, dal sito Internet.
28. Lenin, risposta a R. Luxemburg, pubblicata in Nos tâches politiques, Trotsky, Edizioni Belfond.
29. Ancora un esempio del metodo polemico di Lenin che riprende le accuse dei suoi avversari per rivolgerle contro di loro (vedi la prima parte di questo articolo).
30. Trotsky, Rapporto della delegazione siberiana.
31. Il delegato del partito comunista tedesco, Eberlein, a quella che all’inizio non era che una conferenza internazionale nel marzo 1919, aveva il mandato di opporsi alla costituzione della III Internazionale, dell’Internazionale Comunista (IC). Era chiaro per tutti i partecipanti, in particolare per Lenin, Trotskij, Zinoviev, i dirigenti bolscevichi, che la fondazione dell’IC non poteva effettuarsi senza l’adesione del PC tedesco. Se Eberlein fosse rimasto “prigioniero” di un mandato imperativo, sordo ai dibattiti ed alla stessa dinamica della conferenza, l’Internazionale come Partito mondiale del proletariato non sarebbe stata fondata. 32. Internationalisme n. 4, 1945.Il periodo 1918-20, fase “eroica” dell’ondata rivoluzionaria iniziata con l’insurrezione di Ottobre in Russia, è anche stato il periodo durante il quale i partiti comunisti dell’epoca hanno formulato il loro programma di rovesciamento del capitalismo e di transizione verso il comunismo.
Nella Revue Internationale n° 93, noi abbiamo esaminato il programma del KPD – il partito comunista tedesco – appena costituitosi. Abbiamo visto che esso consisteva essenzialmente in una serie di misure pratiche destinate a guidare la lotta del proletariato in Germania dallo stadio della rivolta spontanea alla conquista cosciente del potere politico. Nella Revue Internationale n° 94, abbiamo pubblicato la piattaforma dell’Internazionale Comunista – adottata al congresso di fondazione come base del raggruppamento internazionale delle forze comuniste e come primo abbozzo dei compiti rivoluzionari ai quali erano confrontati gli operai di tutti i paesi.
Quasi contemporaneamente, il Partito Comunista di Russia (PCR) – il partito bolscevico – pubblicava il suo nuovo programma. Esso era strettamente legato a quello dell’IC e aveva infatti lo stesso redattore, Nicolas Boukharin. Malgrado ciò, questa separazione tra la piattaforma dell’IC ed i programmi dei partiti nazionali (almeno per quelli che lo avevano) rifletteva il persistere di concezioni federaliste ereditate dall’epoca della socialdemocrazia; e come Bordiga sottolineò più tardi, l’incapacità del “partito mondiale” a sottomettere le sue sezioni nazionali alle priorità della rivoluzione internazionale avrebbe avuto delle serie implicazioni di fronte al riflusso della ondata rivoluzionaria e all’isolamento e degenerazione della rivoluzione in Russia.
E’ istruttivo fare uno studio specifico del programma del PCR e confrontarlo con quelli che si è esaminati prima. Il programma del KPD era il prodotto di un partito confrontato con il compito di condurre le masse alla presa del potere; la piattaforma dell’IC era piuttosto considerata come un punto di riferimento per i partiti che si volevano raggruppare nell’Internazionale che come un dettagliato programma d’azione. E’ nei fatti una delle piccole ironie della storia che l’IC non abbia adottato un programma formale ed unificato che al suo sesto Congresso, nel 1928. Boukharin ne era ancora una volta l’autore, ma , questa volta, il programma era anche il segno del suicidio dell’Internazionale poiché faceva propria l’infame teoria del socialismo in un solo paese e cessava dunque di esistere come organo del proletariato internazionalista.
Il programma del PCR invece è stato redatto dopo il rovesciamento del regime borghese in Russia e costituiva innanzitutto una presentazione dettagliata e puntuale degli scopi e dei metodi del nuovo potere dei soviet. Era dunque un programma per la dittatura del proletariato ed, in questo senso, esso costituisce una indicazione unica del livello di chiarezza programmatica raggiunto dal movimento comunista in quel momento. Se noi non esiteremo ad indicare le parti del programma che l’esperienza pratica doveva mettere in discussione o rigettare in modo definitivo, mostreremo anche che, nella maggior parte delle sue linee essenziali, questo documento resta un punto di riferimento profondamente valido per la rivoluzione proletaria del futuro.
Il programma del PCR è stato adottato all’8° Congresso del partito nel marzo 1919: la necessità di una sostanziale revisione del vecchio programma del 1908 si era manifestata perlomeno dal 1917, quando i bolscevichi avevano abbandonato la prospettiva della “dittatura democratica” per adottare quella della conquista proletaria del potere e della rivoluzione socialista mondiale. All’epoca dell’8° Congresso, vi erano molti disaccordi in seno al partito circa il potere dei soviet ed il suo sviluppo. Così il programma esprime, in un certo senso, un compromesso tra le differenti correnti in seno al partito, da quelle che ritenevano che il processo rivoluzionario non andava troppo veloce in Russia a quelle che si rendevano conto della messa in discussione di alcuni principi fondamentali.
All’adozione del programma subito seguì la pubblicazione di L’ABC del comunismo redatto da Bukarin e Préobrajensky, considerevole opera di spiegazione e divulgazione dello stesso. Questo libro è costruito intorno ai punti di programma ma costituisce più di un suo semplice commento. Nei fatti, è diventato esso stesso un classico, una sintesi della teoria marxista e del suo sviluppo dopo Il manifesto comunista fino alla rivoluzione russa, redatto in uno stile accessibile e vivace che ne ha fatto un manuale di educazione politica sia per i membri del partito che per le larghe masse degli operai che sostenevano e facevano vivere la rivoluzione. Se questo articolo si concentra sul programma del PCR piuttosto che su L’ABC del comunismo, è perché un esame dettagliato di questo ultimo non può essere fatto in un solo articolo e non per minimizzarne l’importanza che resta ancora oggi.
Ciò vale, e forse ancor più, per i numerosi decreti emanati dal potere dei soviet durante le prime fasi della rivoluzione e fino alla costituzione del 1918 che definisce la struttura ed il funzionamento del nuovo potere. Anche questi documenti meritano di essere studiati come parte integrante del “programma della dittatura del proletariato”, tanto più perché, come scrive Trotsky nella sua autobiografia, “durante questa fase, i decreti erano nei fatti più propaganda che vere misure amministrative. Lenin era assillato dal dire al popolo che cosa era il nuovo potere, quello che sarebbe stato dopo e come bisognava procedere per raggiungere i suoi scopi” (La mia vita). Questi decreti non trattavano solo di questioni economiche e politiche cruciali – quali la struttura dello Stato e dell’esercito, la lotta contro la controrivoluzione, l’espropriazione della borghesia ed il controllo operaio sull’industria, la conclusione di una pace separata con la Germania, ecc. -, ma anche di numerose questioni sociali come il matrimonio ed il divorzio, l’educazione, la religione, ecc. Sempre secondo i termini di Trotsky, questi decreti “saranno conservati per sempre nella storia quali proclami di un nuovo mondo. Non solo i sociologi e gli storici, ma i futuri legislatori si ispireranno ad essi molte volte.”
Ma proprio a causa del loro gigantesco obiettivo, noi non possiamo analizzarli in questo articolo che si concentrerà sul programma bolscevico del 1919 per il fatto che esso ci fornisce la posizione più sintetica e più concisa degli scopi generali perseguiti dal nuovo potere e dal partito che li ha fatti propri.
L’epoca della rivoluzione proletariaCome la piattaforma della IC, il programma comincia situandosi nella nuova “era della rivoluzione comunista proletaria mondiale”, caratterizzata da un lato dallo sviluppo dell’imperialismo, la lotta feroce tra le grandi potenze capitaliste per il dominio mondiale e dunque per lo scoppio della guerra imperialista mondiale (espressione concreta del crollo del capitalismo) e dall’altro dal sollevamento internazionale della classe operaia contro gli orrori del capitalismo in declino, un sollevamento che ha preso una forma tangibile nella rivoluzione di Ottobre in Russia e nello sviluppo della rivoluzione in tutti i paesi centrali del capitalismo, in particolare in Germania e nell’ Austria-Ungheria. Il programma stesso non si sofferma sulle contraddizioni economiche del capitalismo che avevano portato al suo crollo; esse sono esaminate in L’ABC del comunismo, anche se questo ultimo non formula una teoria coerente e definitiva sulle origini della decadenza del capitalismo. Inoltre ed in contrasto sorprendente con la piattaforma dell’IC, il programma non utilizza il concetto di capitalismo di Stato per descrivere l’organizzazione interna del regime borghese nel nuovo periodo. Ma anche questo concetto è elaborato in L’ABC del comunismo ed in altri contributi teorici di Boukharin. Per finire, come la piattaforma dell’IC, il programma del PCR è assolutamente chiaro quando insiste sull’impossibilità per la classe operaia di realizzare la rivoluzione “senza ispirarsi al principio della rottura delle relazioni e dello sviluppo di una lotta impietosa contro questa perversione borghese del socialismo che è dominante nei partiti socialdemocratici e socialisti ufficiali.”
Affermando la sua appartenenza alla nuova Internazionale comunista, il programma tratta poi dei compiti pratici della dittatura del proletariato “quali sono applicati in Russia, paese la cui particolarità più notevole è il predominare numerico di strati piccolo borghesi della popolazione.”
I sottotitoli che seguono in questo articolo corrispondono all’ordine ed ai titoli delle parti del programma del PCR.
Politica generaleIl primo compito di ogni rivoluzione proletaria (rivoluzione di una classe che non ha alcun impianto economico nella vecchia società) è di consolidare il suo potere politico; in quest’ottica, la Piattaforma dell’Internazionale comunista e le Tesi sulla democrazia borghese e la dittatura del proletariato che l’accompagnano, così come le parti “pratiche” del programma del PCR cominciano con l’affermare la superiorità del sistema dei soviet sulla democrazia borghese. Contrariamente all’ipocrisia di quest’ultima sulla sedicente partecipazione di tutti alla democrazia, il sistema dei soviet la cui base si colloca soprattutto nei posti di lavoro piuttosto che nelle unità territoriali, afferma apertamente il suo carattere di classe. Contrariamente ai parlamenti borghesi, i soviet, con il loro principio di mobilitazione permanente attraverso delle assemblee di massa e quello della revocabilità immediata di tutti i delegati, forniscono anche i mezzi all’immensa maggioranza della popolazione sfruttata ed oppressa di esercitare un controllo reale sugli organi di potere dello Stato, di partecipare direttamente alla trasformazione economica e sociale, indipendentemente dalla razza, dalla religione e dal sesso. Nello stesso tempo, poiché la gran parte della popolazione russa era composta da contadini – ed il marxismo non riconosceva che una sola classe rivoluzionaria nella società capitalista – il programma afferma anche il ruolo dirigente del “proletariato industriale urbano” e sottolinea che “la nostra costituzione in soviet riflette ciò, assegnando alcuni diritti preferenziali al proletariato industriale, invece che alle masse piccolo-borghesi, disunite al confronto, nelle campagne.” In particolare come spiega Victor Serge nel suo libro L’anno I della rivoluzione russa: “Il congresso panrusso dei soviet consiste nei rappresentanti dei soviet locali: le città sono rappresentate da un deputato ogni 25.000 abitanti e le campagne da un deputato ogni 125.000. Questo articolo formalizza il dominio del proletariato sui contadini.”
Bisogna ricordarsi che il programma è quello di un partito e che un vero partito comunista non può mai essere soddisfatto di una situazione finché lo scopo ultimo del comunismo non sia stato raggiunto, momento nel quale non ci sarà più bisogno che esista un partito come organo politico distinto. E’ perciò che questa parte del programma insiste notevolmente sulla necessità per il partito di lottare per una partecipazione crescente delle masse alla vita dei soviet, per sviluppare il loro livello culturale e politico, per combattere il nazional-sciovinismo ed i pregiudizi contro le donne che ancora esistono nel proletariato e nelle classi oppresse. Vale la pena di notare che, in questo programma, non esiste teorizzazione della dittatura del partito (ciò verrà dopo), anche se la questione di sapere se è il partito che deve o no detenere il potere è sempre restata ambigua per i bolscevichi come per l’insieme del movimento rivoluzionario dell’epoca. Mentre invece il programma esprime una reale coscienza delle condizioni difficili nelle quali si trovava il bastione russo all’epoca (arretratezza culturale, guerra civile) e che avevano già creato un reale pericolo di burocratizzazione nel potere sovietico, per cui vengono messe in atto una serie di misure per combattere questo pericolo:
Poco a poco, l’insieme della popolazione lavoratrice dovrà essere spinta ad entrare nel giro dei compiti amministrativi.”
Nei fatti queste misure erano largamente insufficienti visto che il programma sottovalutava le vere difficoltà poste dall’accerchiamento imperialista e dalla guerra civile: lo stato d’assedio, la fame, la triste realtà della guerra civile condotta con la più estrema ferocia, la dispersione degli strati più avanzati del proletariato sul fronte, i complotti della controrivoluzione e il corrispondente terrore rosso; tutto ciò erodeva la vita dei soviet e degli altri organi della democrazia proletaria che erano sempre più schiacciati sotto il peso crescente di un apparato burocratico. All’epoca in cui il programma è stato scritto, il coinvolgimento degli operai, anche i più avanzati, nei compiti d’amministrazione dello Stato aveva per risultato di allontanarli dalla vita della classe e di trasformarli in burocrati. Al posto della tendenza al deperimento dello Stato difeso da Lenin nello “Stato e rivoluzione”, sono i soviet che cominciavano a deperire, il che isolava il partito alla testa di un apparto di Stato e lo tagliava sempre più dall’autoattività delle masse. In tali circostanze, il partito, lungi dall’agire rigettando radicalmente le situazioni di statu quo, tendeva a fondersi con lo Stato e a diventare così un organo di conservazione sociale. (Per un ulteriore approfondimeto sulle condizioni con le quali si confrontava il bastione proletario, leggere “L’isolamento suona la campana a morte della rivoluzione” in Revue Internationale n° 75)
Questa negazione rapida e tragica della visione radicale che Lenin aveva difeso nel 1917 – una situazione che era già in stadio avanzato al momento in cui fu adottato il programma del PCR – è spesso utilizzata dai nemici della rivoluzione per provare che una tale visione era quantomeno utopica, se non una semplice soperchieria con lo scopo di guadagnare il sostegno delle masse e di spingere i bolscevichi al potere. Per i comunisti, tuttavia, è solo una prova che se il socialismo in un solo paese è impossibile, ciò è altrettanto vero per la democrazia proletaria che costituisce la precondizione politica alla creazione del socialismo. E se esistono delle importanti debolezze in questa parte del programma ed in altre, queste si trovano nei passaggi che sottintendono che sarebbe sufficiente applicare i principi della Comune, della democrazia proletaria, al caso della Russia per arrivare alla scomparsa dello Stato, senza che sia stabilito chiaramente e senza ambiguità che ciò non può essere che il risultato di una rivoluzione internazionale vittoriosa.
Il problema delle nazionalitàMentre su molte questioni, non meno importanti della democrazia proletaria, il programma del PCR era innanzitutto confrontato con le difficoltà di attuazione nelle condizioni di guerra civile, sul problema della nazionalità esso era sbagliato in partenza. Corretto nel suo primo punto “l’importanza primordiale della (…) politica di unire i proletari ed i semiproletari delle diverse nazionalità in una lotta rivoluzionaria comune per il rovesciamento della borghesia” e nel suo riconoscimento della necessità di superare i sentimenti di diffidenza generati da lunghi anni di oppressione nazionale, il programma adotta lo slogan che Lenin aveva difeso fin dall’epoca della II Internazionale: il “diritto delle nazioni a disporre di sé stesse” come il miglior metodo per dissipare questa diffidenza e applicabile anche (ed in particolare) dal potere dei soviet. Su questo punto, l’autore del programma, Boukharin, ha fatto un passo indietro significativo rispetto alla posizione che lui stesso insieme a Piatakov ed altri avevano difeso durante la guerra imperialista: lo slogan di autodeterminazione nazionale è “prima di tutto utopico (non può essere realizzato nei limiti del capitalismo) e nocivo in quanto slogan che diffonde delle illusioni.“ (Lettera al comitato centrale del partito bolscevico, novembre 1915). E come lo ha dimostrato Rosa Luxemburg nel suo opuscolo La rivoluzione russa, la politica dei bolscevichi di permettere alle “nazioni soggette” di separarsi dal potere sovietico non ha fatto che rendere i proletari di queste nuove nazioni borghesi “autodeterminate” sudditi della rapacità delle proprie classi dominanti e tutto ciò in linea con i piani e le manovre delle grandi potenze imperialiste. Gli stessi risultati disastrosi sono stati ottenuti nei paesi “coloniali” come la Turchia, l’Iran o la Cina dove il potere sovietico pensava di poter allearsi con la borghesia “rivoluzionaria”. Nel 19° secolo, Marx ed Engels avevano effettivamente sostenuto alcune lotte per l’indipendenza nazionale, ma solo perché, in quel periodo, il capitalismo aveva un ruolo progressivo da giocare rispetto alle vecchie vestigia feudali o dispotiche del periodo precedente. Mai nella storia, l’”autodeterminazione nazionale” ha significato una cosa diversa dall’autodeterminazione della borghesia. Nell’epoca della rivoluzione proletaria, quando l’insieme della borghesia costituisce un ostacolo reazionario al progredire dell’umanità, l’adottare questa politica doveva rilevarsi estremamente nocivo alle necessità della rivoluzione proletaria (vedere il nostro opuscolo Nazione o classe e l’articolo sulla questione nazionale nella Revue internationale n° 67). Il solo ed unico mezzo di lottare contro le divisioni nazionali che esistevano in seno alla classe operaia, era di lavorare allo sviluppo della lotta di classe internazionale.
Gli affari militariE’ senza dubbio un fattore importante nel programma il fatto che esso è stato scritto in pieno infuriare della guerra civile. Il programma afferma alcuni principi di base: la necessità della distruzione del vecchio esercito borghese e che la nuova Armata rossa sia uno strumento di difesa della dittatura del proletariato. Sono messe in atto alcune misure per assicurarsi che il nuovo esercito serva veramente i bisogni del proletariato: esso deve essere “esclusivamente composto da proletari e da strati semiproletari come i contadini”; l’arruolamento e l’istruzione dell’esercito devono essere “effettuati su una base di solidarietà di classe e di una istruzione socialista”; a tale scopo “vi devono essere dei commissari politici accreditati scelti fra i comunisti di fiducia e totalmente disinteressati per cooperare con lo stato maggiore militare”; nel frattempo una nuova categoria di ufficiali, composta da operai e da contadini con una coscienza di classe, deve essere preparata a giocare un ruolo dirigente nell’esercito; al fine di impedire la separazione tra l’esercito ed il proletariato, bisogna che vi sia “l’associazione più stretta possibile tra le unità militari e le fabbriche, le officine, i sindacati e le organizzazioni dei contadini poveri”, mentre il periodo di leva deve essere ridotto al minimo. L’utilizzo di esperti militari provenienti dal vecchio regime deve essere accettato a condizioni che tali elementi siano strettamente sorvegliati dagli organi della classe operaia. Le prescrizioni di questo tipo esprimono una coscienza più o meno intuitiva del fatto che l’Armata rossa era particolarmente vulnerabile e poteva sfuggire facilmente al controllo politico della classe operaia; ma poiché era la prima Armata rossa ed il primo Stato sovietico della storia, questa coscienza era inevitabilmente limitata sia a livello teorico sia a livello pratico.
L’ultimo paragrafo di questa parte pone alcuni problemi, in particolare quando si dice che “la rivendicazione dell’elezione degli ufficiali che aveva una grande importanza come questione di principio rispetto all’esercito borghese … cessa di avere un significato come questione di principio per l’esercito di classe degli operai e dei contadini. Una combinazione possibile di elezione e di nomina dall’alto può costituire un espediente pratico per l’esercito di classe rivoluzionario.”
Se è vero che l’elezione ed il prendere collettivamente le decisioni possono incontrare dei limiti in ambito militare – in particolare sul campo di battaglia – il paragrafo sembra sottovalutare il livello al quale il nuovo esercito rifletteva esso stesso la burocratizzazione dello Stato riattivando molte delle vecchie norme di subordinazione. Nei fatti, era già sorta nel partito una “Opposizione militare” legata al gruppo Centralismo democratico, ed era stata particolarmente virulenta all’8° Congresso nella sua critica della tendenza a deviare dai “principi della Comune” nell’organizzazione dell’esercito. Questi principi sono importanti non solo sul terreno “pratico” ma soprattutto perché essi creano le migliori condizioni perché la vita politica del proletariato sia infusa nell’esercito. Ma durante il periodo di guerra civile, era proprio l’opposto che tendeva a crearsi: l’imposizione di metodi militari “normali” aiutava a creare un clima favorevole alla militarizzazione dell’insieme del potere sovietico. Il capo dell’Armata rossa, Trotsky, si trovò sempre più associato ad un tale modo di fare nel periodo 1920-21.
Il problema centrale di cui ci occupiamo qui è quello dello Stato nel periodo di transizione. L’Armata rossa – come la forza speciale di sicurezza, la Ceca, che non è affatto menzionata nel programma – è un organo di Stato per eccellenza; così, benché potesse essere utilizzata per salvaguardare le acquisizioni della rivoluzione, tuttavia essa non può essere considerata come un organismo proletario e comunista. Anche se fosse stata quasi esclusivamente composta da proletari, non avrebbe potuto che costituire una retroguardia rispetto alla vita collettiva della classe. Era dunque particolarmente preoccupante che l’Armata rossa come altre istituzioni statali sfuggisse sempre più al controllo politico globale dei consigli operai; mentre nello stesso tempo, la dispersione delle Guardie rosse create nelle fabbriche privava la classe dei mezzi di una autodifesa diretta contro il pericolo della degenerazione interna. Ma sono queste delle lezioni che non potevano essere comprese che alla scuola spesso impietosa dell’esperienza rivoluzionaria.
La giustizia proletariaQuesta parte del programma completa quella sulla politica generale. La distruzione del vecchio Stato borghese implica anche il rimpiazzo dei vecchi tribunali borghesi con un nuovo apparato giudiziario nel quale i giudici siano eletti tra gli operai ed i giurati presi nella massa della popolazione lavoratrice; il nuovo sistema giudiziario doveva essere semplificato e reso più accessibile alla popolazione rispetto al vecchio labirinto delle Corti alte e basse. I metodi penali dovevano essere liberati da ogni atteggiamento di rivalsa e diventare costruttivi ed educativi. Lo scopo a lungo termine era che “il sistema penale dovrà in ultima istanza essere trasformato in un sistema di misure a carattere educativo” in una società senza classe e senza Stato. L’ABC del comunismo sottolinea tuttavia che i bisogni urgenti della guerra civile richiedevano che i nuovi tribunali popolari fossero completati dai tribunali rivoluzionari per trattare non solo dei crimini sociali “ordinari” ma delle attività della controrivoluzione. La giustizia sommaria pronunciata da questi ultimi tribunali era il prodotto di una necessità urgente, benché fossero stati commessi degli abusi e vi era certamente il pericolo che l’introduzione di metodi più umani fosse rimandata indefinitamente. Così la pena di morte, abolita in uno dei primi decreti del potere sovietico nel 1917, fu immediatamente ripristinata nella battaglia contro il terrore bianco.
L’educazioneCome per le proposte di riforma penale, gli sforzi del potere sovietico per riformare il sistema educativo furono molto assoggettati ai bisogni della guerra civile. Inoltre, data l’estrema arretratezza delle condizioni sociali in Russia dove l’analfabetismo era largamente diffuso, molti cambiamenti proposti non andavano più in là dal permettere alla popolazione russa di raggiungere un livello di educazione già raggiunto in alcune delle democrazie borghesi più avanzate. E’ così per l’appello alla scolarizzazione obbligatoria mista e libera per tutti i ragazzi fino ai 17 anni; per la creazione di circoli e giardini di infanzia per liberare le donne dal peso dei compiti domestici; per la soppressione dell’influenza religiosa nelle scuole; per la creazione di vantaggi extrascolastici quali l’educazione per adulti, le biblioteche, i cinema, ecc..
Tuttavia, lo scopo a lungo termine era “la trasformazione della scuola in modo che da organo di mantenimento del dominio di classe della borghesia essa diventi un organo dell’abolizione completa della divisione della società in classi, un organo di rigenerazione comunista della società.”
In questo senso “la scuola unica del lavoro” costituiva un concetto che è più completamente elaborato in L’ABC del comunismo. La sua funzione era vista come l’inizio del superamento della divisione tra le scuole elementari, medie e superiori, tra i sessi, tra le scuole pubbliche e quelle private. Anche qui era riconosciuto che tali scuole erano un ideale per ogni educatore avanzato, ma come scuola unica del lavoro essa era vista come un fattore cruciale dell’abolizione comunista della vecchia divisione del lavoro. Si sperava che fin dai primi momenti della vita di un fanciullo non vi sarebbe stata separazione rigida tra l’educazione mentale ed il lavoro produttivo in modo che “nella società comunista non ci siano corporazioni chiuse, gruppi di specialisti ossificati. Il più brillante uomo di scienza deve essere qualificato anche nel lavoro manuale. (…) Le prime attività di un fanciullo prendono la forma del gioco; il gioco deve gradualmente trasformarsi in lavoro, attraverso passaggi impercettibili, in maniera che il bambino apprenda fin dalla più giovane età a considerare il lavoro non come una necessità sgradevole o una punizione ma come un’espressione naturale e spontanea delle sue facoltà. Il lavoro deve essere un bisogno, come quello di mangiare e bere.”
Questi principi fondamentali resteranno certamente validi in una rivoluzione futura. Contrariamente ad alcune tendenze del pensiero anarchico, la scuola non può essere abolita in una notte, ma la sua caratteristica di strumento di imposizione della disciplina e della ideologia borghese, dovrà certamente essere duramente attaccato, non solo nel contenuto di ciò che viene insegnato (L’ABC insiste molto sulla necessità di instillare nella scuola una visione proletaria in tutti i campi dell’educazione), ma anche nel metodo dell’insegnamento (il principio della democrazia diretta dovrà, finché possibile, rimpiazzare le antiche gerarchie in seno alla scuola). Ugualmente, il divario tra il lavoro manuale ed intellettuale, il lavoro ed il gioco dovranno essere trattati fin dall’inizio. Nella rivoluzione russa vi sono state innumerevoli esperienze in questa direzione; benché oscurate dalla guerra civile, alcune di esse sono continuate per tutti gli anni ‘20. Nei fatti uno dei segni della vittoria della controrivoluzione è stato che le scuole sono divenute nuovamente degli strumenti di imposizione della ideologia e della gerarchia borghesi, anche se questo era dissimulato sotto la copertura del “marxismo” staliniano.
La religioneL’inclusione di un punto particolare sulla religione nel programma del partito era, in un certo senso, l’espressione della arretratezza delle condizioni materiali e culturali della Russia, che obbligava il nuovo potere a “completare” alcuni compiti non realizzati dal vecchio regime, in particolare la separazione tra Chiesa e Stato e la fine delle sovvenzioni statali alle istituzioni religiose. Tuttavia, questa parte spiega ugualmente che il partito non può esser soddisfatto di misure “che la democrazia borghese includeva nel suo programma, ma non ha realizzato per le molteplici alleanze che in realtà esistono tra capitale e propaganda religiosa”. Vi erano dei fini a più lungo termine ispirati dal riconoscimento che solo la realizzazione degli scopi e la piena coscienza in tutte le attività economiche e sociali delle masse possono condurre alla scomparsa completa delle illusioni religiose. In altri termini l’alienazione religiosa non può essere eliminata senza la cancellazione dell’alienazione sociale e ciò non è possibile che in una società completamente comunista. Ciò non voleva dire che i comunisti dovevano adottare un atteggiamento passivo verso le illusioni religiose esistenti nelle masse; essi dovevano combatterle attivamente sulla base di una concezione scientifica del mondo. Ma era prima di tutto un lavoro di propaganda; l’idea di cercare una soppressione con la forza della religione era estranea ai bolscevichi - un’altra caratteristica del regime staliniano che ha potuto osare, nella sua arroganza controrivoluzionaria, di pretendere di aver realizzato il socialismo e di aver dunque estirpato le radici sociali della religione. Al contrario, pur conducendo una propaganda militante ateista, era necessario che i comunisti ed il nuovo potere rivoluzionario “evitino tutto ciò che poteva ferire i sentimenti dei credenti, perché un tale metodo avrebbe solo portato al rafforzamento del fanatismo religioso.” E’ questo un modo di fare ben lontano da quello degli anarchici basato sulla provocazione diretta e gli insulti.
Queste prescrizioni fondamentali non hanno perso il loro valore oggi. La speranza, talvolta espressa dallo stesso Marx nei suoi primi scritti, che la religione sia già morta per il proletariato, non si è ancora concretizzata. Non solo il persistere della arretratezza economica e sociale in molte parti del mondo, ma anche la decadenza e la decomposizione della società borghese, la sua tendenza a regredire verso delle forme estremamente reazionarie di pensiero e di credo, hanno permesso che la religione e le sue diverse espressioni restino una potente forza di controllo sociale. Di conseguenza i comunisti sono sempre confrontati con la necessità di lottare contro i “pregiudizi religiosi delle masse”.
Gli affari economiciLa rivoluzione proletaria comincia necessariamente come una rivoluzione politica perché non avendo dei mezzi di produzione o di proprietà sociale propri, la classe operaia ha bisogno della leva del potere politico per iniziare la trasformazione economica e sociale che condurrà ad una società comunista. I bolscevichi erano estremamente chiari sul fatto che questa trasformazione non poteva essere conclusa se non a livello globale, benché, come l’abbiamo notato, il programma del PCR, compresa questa parte, contenga un certo numero di formulazioni ambigue che parlano della realizzazione del comunismo completo come di una sorta di sviluppo progressivo all’interno del “potere dei soviet”, senza dire chiaramente se ciò si riferisce al potere sovietico esistente in Russia o alla repubblica mondiale dei consigli. Nell’insieme, tuttavia, le misure economiche difese nel programma sono relativamente modeste e realiste. Un potere rivoluzionario non poteva certamente evitare di porsi il problema “economico” fin dall’inizio, perché è proprio il caos economico provocato dalla caduta del capitalismo che costringe il proletariato ad intervenire per assicurare una società con un minimo di sopravvivenza. Era il caso della Russia dove la rivendicazione del “pane” ha costituito uno dei principali fattori di mobilitazione rivoluzionaria. Tuttavia, ogni idea secondo la quale la classe operaia, assumendo il potere, potrebbe riorganizzare con calma e pacificamente la vita economica è stata immediatamente battuta sul nascere dalla velocità e brutalità dell’accerchiamento imperialista e dalla controrivoluzione bianca che, subito dopo la prima guerra mondiale, hanno “lasciato in eredità una situazione completamente caotica” al proletariato vittorioso. In queste condizioni, i primi fini del potere sovietico nella sfera economica erano così definiti:
Queste linee generali restano fondamentalmente valide sia come prime tappe del potere proletario che cerca di produrre ciò che è necessario alla sopravvivenza in una data regione sia come inizi reali di una costruzione socialista attraverso la repubblica mondiale dei consigli. Il problema principale ancora una volta si situa nel conflitto acuto tra gli scopi generali e le condizioni immediate. Il progetto di elevare il potere di consumo delle masse fu immediatamente controbilanciato dai bisogni della guerra civile che trasformò la Russia in una caricatura di economia di guerra. Il caos creato dalla guerra civile era tale che “lo sviluppo delle forze produttive nel paese” non si realizzò. Al contrario, le forze produttive della Russia, notevolmente ridotte dalla guerra mondiale, furono ulteriormente ridotte a causa della guerra civile e dalla necessità di nutrire e vestire l’Armata rossa nella sua lotta contro la controrivoluzione. Il fatto che questa economia di guerra fosse altamente centralizzata e, in condizioni di caos finanziario, avesse nei fatto perso ogni forma monetaria, ha portato a ciò che si definisce “comunismo di guerra” ma in nulla cambia il fatto che le necessità militari avevano il sopravvento sugli scopi ed i metodi reali della rivoluzione proletaria. Al fine di mantenere il suo dominio politico collettivo, la classe operaia ha bisogno di assicurare almeno i bisogni materiali fondamentali della vita ed, in particolare, avere il tempo e l’energia di impegnarsi nella vita politica. Ma, noi l’abbiamo già visto, invece, durante la guerra civile la classe operaia era stata ridotta nella miseria assoluta, i suoi migliori elementi erano stati dispersi sul fronte o ingoiati dalla crescente burocrazia del “soviet”, soggetti ad un vero processo di “declassamento”, mentre altri fuggivano nelle campagne o tentavano di sopravvivere con piccoli traffici o furti; quelli che restavano nelle fabbriche ancora in produzione erano costretti a delle giornate di lavoro sempre più lunghe, spesso sotto l’occhio vigile di truppe dell’Armata rossa. E’ volontariamente che il proletariato russo ha fatto questi sacrifici, ma poiché essi non erano compensati dall’estendersi della rivoluzione dovevano avere degli effetti a lungo termine profondamente deleteri, prima di tutto indebolendo la capacità del proletariato a difendere e mantenere la sua dittatura sulla società.
Il programma del PCR, come abbiamo visto, riconosceva il pericolo della burocratizzazione crescente durante questo periodo e difendeva una serie di misure per combatterla. Ma mentre la parte “politica” del programma è sempre stata legata alla difesa dei soviet come mezzo migliore per mantenere la democrazia proletaria, la parte sui problemi economici insiste sul ruolo dei sindacati, sia nell’organizzazione dell’economia sia nella difesa dei lavoratori contro gli eccessi della burocratizzazione: “La partecipazione dei sindacati alla conduzione della vita economica e il coinvolgimento attraverso loro delle grandi masse della popolazione in questo lavoro sembrano contemporaneamente essere il nostro principale apporto alla campagna contro la burocratizzazione del potere sovietico. Ciò faciliterà anche il realizzarsi di un controllo effettivo sui risultati della produzione.”
Che il proletariato, come classe politica dominate, abbia anche bisogno di esercitare un controllo sul processo di produzione, è un assioma e – senza dimenticare che i compiti politici non possono essere subordinati ai compiti economici, anche nel periodo della guerra civile – ciò resta vero in tutte le fasi del periodo di transizione. Degli operai che non possono “dirigere” le fabbriche, saranno probabilmente incapaci di prendere il controllo politico della società tutta intera. Ma ciò che è falso qui, è l’idea che i sindacati possano essere lo strumento di questo compito. Al contrario, per loro stessa natura i sindacati erano molto più suscettibili al virus della burocratizzazione, e non è per caso che l’apparato sindacale è divenuto l’organo di uno Stato sempre più burocratico in seno alle fabbriche, abolendo o assorbendo i comitati di fabbrica che si erano costituiti durante il grande slancio rivoluzionario del 1917 e che erano dunque un’espressione molto più diretta della vita della classe e una migliore base per resistere alla burocrazia e ridare linfa al sistema sovietico nel suo insieme. Ma i comitati di fabbrica non sono affatto menzionati nel programma. E’ certamente vero che questi comitati hanno spesso sofferto di false concezioni localiste e sindacaliste, secondo le quali ogni fabbrica era vista come la proprietà privata degli operai che vi lavoravano: durante i giorni disperati della guerra civile, tali idee avevano raggiunto il loro apice nella pratica dei lavoratori di scambiare i loro “propri” prodotti con del cibo del carbone. Ma la risposta a questi errori non era l’assorbimento di questi comitati nei sindacati e nello Stato; era assicurare che essi funzionassero come organi della centralizzazione proletaria, legandosi molto più strettamente ai soviet operai – una possibilità evidente dato che la stessa assemblea di fabbrica eleggeva i delegati ai soviet della città e anche il proprio comitato di fabbrica. A queste osservazioni bisogna aggiungere ciò: le difficoltà che avevano i bolscevichi a comprendere che i sindacati erano obsoleti come organi della classe (un fatto confermato dallo stesse emergere della forma sovietica) dovevano anche avere delle gravi conseguenze nell’Internazionale, in particolare dopo il 1920 quando l’influenza dei comunisti russi fu decisiva nell’impedire che l’IC adottasse una posizione chiara e senza ambiguità sui sindacati.
L’agricoltura
L’impostazione fondamentale sulla questione contadina nel programma era già stata sottolineata da Engels per la Germania. Mentre le proprietà terriere capitaliste di grossa estensione potevano essere normalmente socializzate molto rapidamente da parte del potere proletario, non sarebbe stato possibile costringere i piccoli agricoltori ad allacciarsi a questo settore. Era quindi necessario convincerli gradualmente, prima di tutto grazie alla capacità del proletariato a dimostrare nella pratica la superiorità dei metodi socialisti.
In un paese come la Russia dove i rapporti precapitalisti erano ancora dominanti nella maggior parte delle campagne e dove l’espropriazione dei grandi poderi durante la rivoluzione aveva avuto per risultato la loro parcellizzazione da parte dei contadini, ciò è ancora più vero. La politica del partito non poteva dunque essere che, da un lato, incoraggiare la lotta di classe tra i contadini poveri semi-proletari ed i contadini ricchi ed i capitalisti rurali, favorendo la creazione di organismi speciali per i contadini poveri e gli operai agricoli che potevano costituire il principale supporto all’estensione e all’approfondimento della rivoluzione nelle campagne; e, dall’altro lato, stabilire un modus vivendi con i contadini piccoli proprietari, aiutandoli materialmente con semi, fertilizzanti, tecnologia, ecc., in modo da accrescere il loro rendimento e contemporaneamente favorire delle cooperative e delle comuni come tappe transitorie verso la collettivizzazione reale. “Il partito ha il compito di staccare i contadini medi da quelli ricchi, riportarli al fianco della classe operaia avendo un’attenzione particolare ai loro bisogni. Cerca di superare la loro arretratezza culturale con misure di carattere ideologico, evitando accuratamente ogni atteggiamento coercitivo. In tutte le occasioni in cui gli interessi vitali dei contadini sono toccati, il partito cerca di arrivare ad un accordo pratico con loro, facendo delle concessioni che favoriscano la costruzione socialista.” Vista la terribile penuria in Russia subito dopo l’insurrezione, il proletariato non era in grado di offrire gran cosa a questi strati al livello del miglioramento materiale e nei fatti, sotto il comunismo di guerra, furono fatti molti abusi contro i contadini con la requisizione del grano per nutrire l’esercito e le città affamate. Ma si era ancora molto lontani dalla collettivizzazione staliniana forzata degli anni 30 che era basata sull’affermazione mostruosa che l’espropriazione violenta della piccola borghesia significasse la realizzazione del socialismo (mentre rispondeva ai bisogni dell’economia di guerra capitalista).
La distribuzione“Nella sfera della distribuzione il compito del potere sovietico oggi è continuare a rimpiazzare il commercio con una distribuzione orientata dei beni, con un sistema di distribuzione organizzato dallo Stato su scala nazionale. L’obiettivo è realizzare l’organizzazione dell’insieme della popolazione in una rete integrale di comuni di consumatori che saranno capaci, con la più grande rapidità, determinazione, economia e un minimo di lavoro di distribuire tutti i beni necessari, pur centralizzando strettamente l’insieme dell’apparato di distribuzione.” Le associazioni cooperative esistenti, definite come “piccolo borghesi”, dovevano essere il più possibile trasformate in “comuni di consumatori dirette da proletari e da semi-proletari”.
Questo passaggio traduce tutta la grandezza ma anche i limiti della rivoluzione russa. La socializzazione della distribuzione è una parte integrante del programma rivoluzionario e questa parte mostra a che punto essa era presa sul serio dai bolscevichi. Ma il vero progresso che essi avevano compiuto in questo senso è stato ampiamente esagerato durante il – e nei fatti a causa del – periodo di comunismo di guerra. Il comunismo di guerra non era in realtà niente altro che la collettivizzazione della miseria ed è stato ampiamente imposto dall’apparato di Stato che già sfuggiva dalle mani degli operai. La fragilità del suo fondamento doveva essere provata sin dalla fine della guerra civile interna, quando si ebbe un ritorno rapido e generale all’impresa privata ed al commercio (che erano comunque stati floridi sotto la forma di mercato nero durante il comunismo di guerra). E’ certo vero che, appena il proletariato andrà a collettivizzare dei larghi settori dell’apparato produttivo dopo l’insurrezione in una regione del mondo, esso dovrà anche farlo per molti aspetti della distribuzione. Ma mentre queste misure possono avere una certa continuità con le politiche costruttive di una rivoluzione mondiale vittoriosa, esse tuttavia non devono essere identificate con queste ultime. La collettivizzazione reale della distribuzione dipende dalla capacità del nuovo ordine sociale di “produrre dei beni” in modo più efficace del capitalismo (anche se gli stessi beni si differenziano sostanzialmente). La penuria materiale e la povertà fanno da sfondo a nuovi rapporti di tipo mercantile; l’abbondanza materiale è la sola base solida per lo sviluppo della distribuzione collettivizzata e per una società che “scrive sulla sua bandiera: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.” (Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875)
La moneta e le banchePer il danaro non è diverso che per la distribuzione di cui costituisce il veicolo “normale” sotto il capitalismo: data l’impossibilità di installare immediatamente il comunismo integrale, ancor meno nei limiti di un solo paese, il proletariato non può che prendere una serie di misure che tendono verso una società senza denaro. Tuttavia, le illusioni del comunismo di guerra – durante il quale il crollo dell’economia era confuso con la ricostruzione comunista – diedero un tono troppo ottimista a questa parte ed ad altre che vi sono legate. Ugualmente troppo ottimista è la nozione che la semplice nazionalizzazione delle banche e la loro fusione in una banca di Stato unica avrebbero costituito la prima tappa verso la sparizione delle banche e la loro conversione in organo centrale di contabilità della società comunista. E’ dubbio che degli organi così centrali tra quelli con cui opera il capitale possano essere presi in questo modo, anche se la presa fisica delle banche sarà certamente necessaria come uno dei primi colpi rivoluzionari per paralizzare il braccio del capitale.
Le finanze“Durante l’epoca in cui la socializzazione dei mezzi di produzione confiscati ai capitalisti è cominciata, il potere dello Stato cessa di essere un apparato parassitario rispetto al processo produttivo. Comincia allora la sua trasformazione in un’organizzazione avente la funzione di amministrare la vita economica del paese. In questa misura il bilancio dello Stato sarà un bilancio dell’insieme dell’economia nazionale.”
Di nuovo le intenzioni sono lodevoli, ma l’amara esperienza doveva mostrare che nelle condizioni della rivoluzione isolata o stagnante, anche il nuovo Stato-comune diventa sempre più parassitario e si nutre a spese della rivoluzione e della classe operaia; ed anche nelle migliori condizioni non si può più supporre che il semplice fatto di centralizzare le finanze nelle mani dello Stato porti “naturalmente” un’economia che, per il passato, ha funzionato sulla base del profitto, ad diventare un’economia che funzioni sulla base dei bisogni.
La questione degli alloggiQuesta parte sul programma è più radicata alle necessità e possibilità immediate. Un potere proletario vittorioso non può evitare di prendere delle misure rapide per alleviare la mancanza di alloggi e la sovrappopolazione, come ha fatto il potere dei soviet nel 1917, quando ha “completamente espropriato tutte le case appartenenti ai proprietari capitalisti e le ha affidate ai soviet cittadini. Esso ha effettuato dei trasferimenti massicci di operai dalle periferie alle residenze borghesi. Ha affidato le migliori tra queste residenze alle organizzazioni proletarie, occupandosi della manutenzione di queste case pagate dallo Stato; ha dato mobili a famiglie proletarie, ecc.” Ma anche qui, gli scopi più costruttivi del programma – la soppressione delle baracche e la fornitura di alloggi decenti per tutti – sono stati in gran parte non realizzati in un paese devastato dalla guerra. E quando il regime staliniano lanciò più tardi dei piani massicci per l’alloggio, il risultato da incubo di questi piani (gli infami immobili-caserme operaie dell’ex blocco dell’Est) non portò certo una soluzione del “problema degli alloggi”.
Evidentemente la soluzione a lungo termine della questione delle abitazioni risiede in una trasformazione totale del circondario rurale ed urbano – nell’abolizione dell’opposizione tra la città e la campagna, la riduzione del gigantismo urbano e la distribuzione razionale della popolazione mondiale sulla terra. E’ chiaro che tali trasformazioni grandiose non possono essere condotte a termine prima della sconfitta definitiva della borghesia.
La protezione del lavoro e l’assicurazione socialeLe misure immediate realizzate qui, date le condizioni estreme dello sfruttamento che prevalgono in Russia, sono semplicemente l’applicazione delle rivendicazioni minime per le quali il movimento operaio ha lottato da molto tempo: giornata di 8 ore, sussidi di invalidità e di disoccupazione, congedi pagati e congedi maternità, ecc. E come dice lo stesso programma, molte delle conquiste dovettero essere sospese o modificate a causa dei bisogni della guerra civile. Tuttavia, il documento impegna il partito a lottare non solo per queste “rivendicazioni immediate”, ma anche per altre più radicali – in particolare la riduzione della giornata di lavoro a 6 ore in modo che potesse essere dedicato più tempo a corsi di formazione, non solo su tempi legati al lavoro, ma anche e soprattutto nell’amministrazione dello Stato. Ciò era cruciale perché, come abbiamo visto prima, una classe operaia esaurita dal lavoro quotidiano non avrà il tempo o l’energia per l’attività politica ed il funzionamento dello Stato.
L’igiene pubblicaAnche qui si trattava di lottare per delle “riforme” che erano reclamate da molto tempo, date le terribili condizioni di esistenza che conosceva il proletariato russo (malattie legate al fatto di abitare in tuguri, igiene non controllata e mancanza di sicurezza sul lavoro, ecc.). Così, “il Partito comunista considera i seguenti punti come dei compiti immediati:
Molti di questi punti, apparentemente elementari, devono ancora essere realizzati in molte delle regioni della terra. Se si può dire qualcosa, è che la vastità del problema si è considerevolmente sviluppata. Per cominciare, la borghesia, di fronte allo sviluppo della crisi, elimina dappertutto le prestazioni mediche che avevano cominciato ad essere considerate “normali” nei paesi capitalisti avanzati. In secondo luogo, l’aggravarsi della decadenza del capitalismo ha largamente amplificato alcuni problemi, soprattutto con la distruzione “progressiva” dell’ambiente. Mentre il programma del PCR non fa che menzionare brevemente la necessità di “protezione della terra, dell’acqua e dell’aria”, ogni programma futuro dovrà riconoscere quale enorme compito questo rappresenti dopo decenni di sistematico avvelenamento della “terra, dell’acqua e dell’aria”.
CDW
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/93/cecenia
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/4/68/balcani
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale