· che questa situazione metteva all'ordine del giorno, senza che ciò fosse immediatamente realizzabile, la ricostituzione di nuovi blocchi, uno diretto dagli Stati Uniti e l'altro dalla Germania;
· che, nell'immediato, ciò sarebbe sfociato in uno svilupparsi di scontri aperti che “l'ordine di Yalta” era riuscito fino a quel momento a mantenere in un quadro “accettabile” per i due grandi gendarmi del mondo. (…).
In un primo tempo, la tendenza alla costituzione di un nuovo blocco intorno alla Germania, nella dinamica di riunificazione di questo paese, ha compiuto dei passi significativi. Ma molto rapidamente, la tendenza al “ciascuno per sé” ha preso il sopravvento sulla tendenza alla ricostituzione di alleanze stabili fondamento di futuri blocchi imperialisti, il che ha contribuito a moltiplicare ed aggravare gli scontri militari.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, in questo stesso numero)
E' così che la CCI, al momento del suo 12° Congresso, definiva la sua visione della situazione mondiale sul piano imperialista, visione ampiamente confermata in questi ultimi mesi. La crescente instabilità del mondo imperialista è stata espressa in particolare attraverso un moltiplicarsi di conflitti sanguinosi in tutto il pianeta. Questo aggravarsi della barbarie capitalista è soprattutto opera delle grandi potenze che non smettono di prometterci un mondo di “pace e di prosperità”, ma le cui rivalità sempre più acute ed aperte stanno costando all'umanità sempre più caro in termini di morte, povertà e terrore.
Poiché “dalla fine della divisione del mondo in due blocchi, gli USA sono stati confrontati ad una continua contestazione della loro autorità da parte dei loro precedenti alleati” (Ibid.), essi hanno dovuto sviluppare nell'ultimo periodo una “massiccia controffensiva” contro questi ultimi ed i loro interessi imperialisti, in particolare nella ex-Jugoslavia ed in Africa. Malgrado ciò, i vecchi alleati continuano a sfidare gli Stati Uniti fin dentro le sue riserve di caccia, come l'America latina ed il Medio Oriente.
Noi non possiamo trattare qui di tutte le parti del mondo che subiscono gli effetti della tendenza “al ciascuno per sé” e dell'acuirsi delle rivalità imperialiste tra le grandi potenze. Non accenneremo dunque che a poche situazioni che illustrano perfettamente questa analisi e che hanno conosciuto, in questi ultimi tempi, degli sviluppi significativi.
Africa nera: gli interessi francesi sotto il fuoco
Nella risoluzione citata prima abbiamo affermato anche che la prima potenza mondiale “è riuscita ad infliggere al paese che l'aveva sfidata più apertamente, la Francia, un serissimo smacco in quella che costituiva il suo avamposto, l'Africa.” L'evidenza dei fatti in quel momento ci autorizzava a dire che: “Dopo l'eliminazione dell'influenza francese in Ruanda, è ora lo Zaire, principale roccaforte della Francia in questo continente, che è sul punto di sfuggirle di mano con il crollo del regime di Mobutu sotto i colpi della 'ribellione' di Kabila massicciamente sostenuta dal Ruanda e dall'Uganda, cioè dagli Stati Uniti.”
Dopo, le orde di Kabila hanno abbattuto Mobutu e la sua cricca e preso il potere a Kinshasa. In questa vittoria ed in particolare nei mostruosi massacri delle popolazioni civili che essa ha provocato, il ruolo diretto e attivo giocato dallo Stato americano, in particolare attraverso i numerosi “consiglieri” che esso ha messo a disposizione di Kabila, è oggi un segreto di pulcinella. Ieri era l'imperialismo francese che armava e consigliava le bande Hutu, responsabili dei massacri in Ruanda, per destabilizzare il regime pro-USA di Kigali; oggi è Washington che nei fatti fa lo stesso contro gli interessi francesi con i ribelli tutti di Kabila.
Lo Zaire è così passato sotto la protezione esclusiva degli Stati Uniti. La Francia, quanto a lei, ha perso un baluardo essenziale, il che significa la sua esclusione completa dalla “regione dei grandi laghi”.
Inoltre, questa situazione non ha tardato a provocare una destabilizzazione a catena dei paesi vicini che sono ancora sotto l'influenza francese. L'autorità e la credibilità del “padrino francese” hanno nei fatti preso una sonora batosta nella regione e da ciò gli Stati Uniti hanno cercato di tirare il massimo profitto. Così dopo qualche settimana, il Congo-Brazzaville è sconvolto dalla guerra tra i due ultimi presidenti che sono pur tuttavia tutte e due delle "creature" della Francia. Le pressioni ed i numerosi sforzi di mediazione fatti da Parigi non conoscono per il momento alcun successo. Nell'Africa Centrale, paese che è attualmente sottomesso ad una situazione di caos sanguinoso, si manifesta questa stessa impotenza. Così, malgrado i due interventi militari molto duri e la creazione di una “forza africana d'intervento” sotto il suo controllo, l'imperialismo francese non riesce sempre a mantenere l'ordine sul posto. Più grave ancora, il presidente centroafricano Angé Patassé, un'altra “creatura” della Francia, minaccia ora di ricorrere all'aiuto americano mostrando così la sua sfiducia verso il suo padrino attuale. Questa perdita di credito tende ora a generalizzarsi attraverso tutta l'Africa nera fino ad attaccare i più fedeli alleati di Parigi. Più in generale, l'influenza francese si allenta sull'insieme del continente come lo ha chiaramente dimostrato, per esempio, l'ultimo summit della OUA dove le due “iniziative francesi” più significative sono state respinte:
- una riguardava il riconoscimento del nuovo potere di Kinshasa che Parigi voleva ritardare e porre sotto condizione; sotto la pressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati africani, Kabila ha non solo ottenuto un riconoscimento immediato ma anche un sostegno economico “per ricostruire il suo paese”;
- un'altra riguardava la nomina di una nuova direzione alla testa dell'organismo africano; il “candidato” della Francia, abbandonato dai suoi “amici” ha dovuto ritirare la sua candidatura prima del voto.
L'imperialismo francese subisce attualmente sul continente nero una serie di gravi rovesci sotto i colpi dell'imperialismo americano e si tratta per lui di un declino storico, tutto a vantaggio di quest'ultimo, in quello che era, non molto tempo fa, il bastione francese.
“E' una punizione particolarmente severa che questa potenza (gli Stati Uniti) è sul punto di infliggere alla Francia e che si vuole esemplare verso tutti gli altri paesi che vorrebbero imitarla nella sua politica di permanente sfida.” (Ibid.)
Tuttavia, malgrado il suo declino, l'imperialismo francese ha ancora degli argomenti da far valere, delle carte da giocare per difendere i suoi interessi e sostenere l'offensiva, per il momento vittoriosa, degli americani. E' proprio a questo scopo che ha attuato tutto uno spiegamento strategico delle sue forze militari in Africa. Se su questo piano (e su altri) Parigi non può rivaleggiare con Washington, ciò non significa affatto che essa va ad incrociare le braccia; e, per lo meno, è sicuro, fin da ora, che essa va a fare di tutto per mettere in difficoltà la politica e gli interessi americani. Le popolazioni africane non hanno dunque ancora finito di subire sulla propria pelle le rivalità tra i grandi gangster capitalisti.
Dietro i massacri in Algeria, gli stessi sordidi interessi dei "grandi"
L'Algeria è un altro terreno che subisce in pieno gli effetti della decomposizione del capitalismo mondiale e sul quale si esercita l'antagonismo feroce tra i “grandi”. In effetti, sono quasi cinque anni che questo paese è in preda ad un caos sempre più sanguinoso e barbaro. I regolamenti di conti in serie, gli incessanti massacri in massa di popolazioni civili, i molteplici attentati mortali perpetrati fin nel cuore della capitale spingono questo paese nell'orrore e nel terrore quotidiano. Dal 1992, da quella che i media borghesi chiamano ipocritamente “la crisi algerina”, non c'è dubbio che è stata superata la cifra di 100.000 morti. Se vi è una popolazione (e dunque un proletariato) che è preso in ostaggio in una guerra tra frazioni borghesi, è certo quello dell'Algeria. E' chiaro oggi che quelli che compiono massacri quotidianamente, che sono i responsabili diretti della morte di queste migliaia di uomini, di donne e di bambini e di vecchi, sono delle bande armate al soldo dei differenti campi in lotta:
- quello degli islamici la cui frazione più dura e più fanatica, il GIA, recluta le sue forze tra una gioventù decomposta, senza lavoro e senza prospettiva (a causa della situazione economica drammatica attuale dell'Algeria che getta la maggioranza della popolazione nella disoccupazione, la miseria e la fame) se non quella di darsi alla più profonda delinquenza. Al Wasat, il giornale della borghesia saudita che esce a Londra, riconosce che “questa gioventù ha inizialmente costituito un motore di cui il FIS si è servito per contrastare tutti quelli che si mettevano sulla sua strada verso il potere” ma che le è sempre più scappata di mano;
- lo Stato algerino stesso, che appare agli occhi di tutto il mondo come implicato direttamente nei numerosi massacri che esso ha imputato ai “terroristi islamici”. Le testimonianze raccolte in particolare sulla carneficina (tra i 200 ed i 300 morti) che ha avuto luogo nella periferia algerina, a Rais, alla fine dello scorso agosto, provano, se ve ne era bisogno, che il regime di Zeroual è tutt'altro che innocente: “Il tutto è durato dalle 22.30 alle 2.30. Essi (i massacratori) si sono presi tutto il tempo necessario. (…) Non è arrivato alcun soccorso, pur essendo le forze di sicurezza tutte molto vicine. I primi ad arrivare questa mattina sono stati i pompieri.” (testimonianze citate dal giornale Le Monde). E' chiaro oggi che una buona parte delle carneficine perpetrate in Algeria sono opera o dei servizi di sicurezza dello Stato o delle “milizie di autodifesa” armate e controllate da questo stesso Stato. Queste milizie non sono incaricate, come vuole farlo credere il regime, “di vegliare sulla sicurezza dei villaggi”; esse sono per lo Stato un mezzo di controllo sulla popolazione, un'arma formidabile per eliminare i suoi oppositori ed imporre il proprio ordine con il terrore.
Di fronte a questa situazione di terrore, l’opinione mondiale", cioè le grandi potenze occidentali soprattutto, ha cominciato ad esprimere la sua “emozione”. Così, quando il segretario generale dell'ONU Kofi Annan cerca di incoraggiare “la tolleranza ed il dialogo” e chiama ad “una soluzione urgente”, Washington, che si dice “inorridita”, gli apporta immediatamente il suo sostegno. Lo Stato francese, quanto a lui, pur manifestando la sua enorme compassione, si vieta di fare “ingerenza negli affari algerini”. L'ipocrisia di cui danno prova tutti questi “grandi democratici” è assolutamente stupefacente ma essa riesce sempre meno a mascherare le loro responsabilità nell'orrore che questo paese vive. Attraverso frazioni della borghesia algerina contrapposte, sono la Francia e gli Stati Uniti che si contrastano dopo la scomparsa dei grandi blocchi imperialisti. La posta in gioco di questa sporca rivalità è per Parigi di conservare l'Algeria nella sua sfera di influenza e per Washington di recuperarla a suo vantaggio o, per lo meno, di destabilizzare l'influenza della sua rivale.
In questa battaglia, il primo colpo è stato sferrato dall'imperialismo americano che ha sostenuto, sotto banco, lo sviluppo della frazione integralista del FIS a tal punto che questa, nel 1992, è arrivata sul punto di prendere il potere. Ed è un vero e proprio colpo di stato da parte del regime al potere in Algeria, con il sostegno del compare francese, che ha permesso di evitare il pericolo imminente sia per le frazioni borghesi che sono al potere che per gli interessi francesi. Dopo, la politica condotta dallo Stato algerino, in particolare con l'interdizione del FIS, la caccia e la prigionia per i suoi dirigenti e militanti, ha permesso di ridurre l'influenza di quest'ultimo nel paese. Ma se questa politica, su questo piano, è stata nel complesso coronata dal successo, essa è d'altra parte responsabile dell’attuale situazione di caos. E' essa che ha gettato delle frazioni del FIS nell'illegalità, la guerriglia e le azioni terroriste. Oggi, gli islamici sono screditati a causa in particolare delle loro numerose e abominevoli atrocità. Si può dunque affermare che con il sostegno di Parigi il regime di Zeroual ha per il momento raggiunto i suoi scopi ma anche che l'imperialismo francese è riuscito globalmente a resistere all'offensiva della prima grande potenza mondiale ed a preservare i suoi interessi in Algeria. Il prezzo di questo “successo” lo pagano le popolazioni oggi e lo pagheranno ancora domani. In effetti, quando recentemente gli Stati Uniti hanno parlato di apportare tutto il loro sostegno “agli sforzi personali” di Kofi Annan, era per affermare che non sono disposti a lasciare la presa: al che Chirac ha immediatamente risposto denunciando, in anticipo, ogni politica “di ingerenza negli affari algerini”, lasciando intendere che difenderà con le unghie e con i denti il suo bastione.
Medio Oriente: le crescenti difficoltà della politica americana
Se gli imperialismi di secondo rango, come la Francia, riescono male a conservare la loro autorità nelle proprie zone di influenza tradizionali e vi subiscono anche degli arretramenti sotto i colpi degli Stati Uniti, pur tuttavia questi ultimi non sono risparmiati dalle difficoltà nella loro politica, difficoltà che si manifestano fin nei loro terreni di caccia come il Medio Oriente. Questa zona sulla quale essi hanno, dopo la guerra del Golfo, un controllo quasi esclusivo si trova in uno stato di instabilità crescente che rimette in questione la “pax americana” e la loro autorità. Nella nostra risoluzione citata prima, avevamo già sottolineato un certo numero di esempi che illustrano la contestazione crescente del dominio americano da parte di un certo numero di paesi vassalli di questa regione del mondo. In particolare, nell'autunno 1996, “le reazioni quasi unanimi di ostilità verso i bombardamenti dell'Iraq con 44 missili Cruise”, reazioni alle quali si sono aggiunti dei fedelissimi come l'Egitto e l'Arabia saudita. Un altro esempio significativo è stato quello della “ascesa al potere in Israele, contro la volontà manifesta degli Stati Uniti, della destra, che ha fatto di tutto per sabotare il processo di pace con i palestinesi che costituiva uno dei migliori successi della diplomazia USA”. La situazione sviluppatasi dopo ha confermato in modo eclatante questa analisi.
Nello scorso marzo, il “processo di pace” subiva un rinculo significativo con il blocco dei negoziati israelo-palestinesi a causa della cinica politica di colonizzazione dei territori occupati sviluppata dal governo Netanyahu. Dopo, la tensione non ha smesso di crescere nella regione, fino a provocare in particolare durante questa estate numerosi attentati suicidi mortali, attribuiti ad Hamas, in pieno centro di Gerusalemme, il che ha dato l’occasione allo Stato ebreo di accentuare la repressione contro le popolazioni palestinesi e di imporre un “blocco dei territori liberi”. D'altra parte una serie di scorribande di Tsahal, con il suo seguito di distruzione e di morti sono state sferrate contro gli Hezbollah nel sud del Libano. Di fronte a questo rapido deteriorarsi della situazione, la Casa Bianca ha dovuto velocemente spedire sul posto i suoi due principali emissari, Dennis Ross e Madeleine Albright, senza grande successo. Quest'ultima ha anche riconosciuto che non aveva trovato “il modo migliore per rimettere in moto il processo di pace”. Ed in effetti, malgrado le forti pressioni di Washington, Netanyahu resta sordo e prosegue la sua politica aggressiva contro i palestinesi mettendo in pericolo l'autorità di Arafat e dunque la sua capacità a controllare i suoi. Quanto ai paesi arabi, sono sempre più quelli che esprimono il loro cattivo umore rispetto alla politica americana; essi l’accusano di sacrificare i loro interessi a profitto di quelli di Israele. Tra quelli che sfidano l'autorità del padrino americano si trova la Siria che, attualmente, sta sviluppando delle relazioni economiche e militari con Teheran e si è anche permessa di riaprire le sue frontiere con l'Iraq. D'altronde ciò che era inconcepibile fino a poco tempo fa si sta realizzando oggi: l'Arabia Saudita, “la più fedele alleata” degli americani, ma anche il paese che più si era opposto finora al “regime degli Ayatollah”, riannoda i suoi legami con l'Iran. Questi nuovi comportamenti verso l'Iran e l'Iraq, due dei principali bersagli della politica americana in questi ultimi anni, non possono essere visti da Washington che come delle bravate, cioè delle sfide.
In questo contesto di acute difficoltà per la loro rivale di oltre Atlantico, le borghesie europee si fanno forti di gettare dell'olio sul fuoco. D'altronde la nostra risoluzione faceva già notare questo aspetto, sottolineando che la contestazione della leadership americana si conferma “più in generale, (attraverso) la perdita del monopolio del controllo della situazione in Medio Oriente, zona cruciale in assoluto, mostrata in particolare dal ritorno in forza della Francia che si è imposta come copadrino del regolamento del conflitto tra Israele e Libano …”. Così, durante l'estate si è vista l'Unione Europea scavalcare Dennis Ross e creare delle difficoltà alla diplomazia americana; infatti il suo “inviato speciale” proponeva la creazione di un “comitato di sicurezza permanente” per permettere ad Israele e all'OLP di “collaborare in modo permanente e non ad intermittenza”. Più recentemente, il ministro degli affari esteri francese, H. Vedrine, soffiava un po' più sul fuoco tacciando la politica di Netanyahu di “catastrofismo”, denunciando così implicitamente la politica americana. Inoltre, egli affermava a gran voce che “il processo di pace” era “cancellato” e che esso “non ha più prospettiva”. Si tratta qui perlomeno di un incoraggiamento, rivolto ai palestinesi e a tutti i paesi arabi, a voltare le spalle agli Stati Uniti e alla loro “pax americana”.
“E' perciò che i successi della controffensiva attuale degli Stati Uniti non potrebbero essere considerati come definitivi, come un superamento della crisi della loro leadership.” E anche se “la forza bruta, le manovre volte a destabilizzare i loro concorrenti (come oggi lo Zaire), con tutto il loro seguito di conseguenze tragiche non ha smesso di essere usato da questa potenza” (ibid.), questi stessi concorrenti non hanno finito ancora di mettere in piazza tutte le loro capacità di nuocere alla politica egemonica della prima potenza mondiale.
Oggi, nessun imperialismo, anche il più forte, è immune dagli effetti destabilizzanti delle manovre dei suoi concorrenti. Le roccaforti, le riserve di caccia tendono a scomparire. Non vi sono più sul pianeta delle zone “protette”. Più che mai il mondo è sottoposto alla concorrenza sfrenata secondo la regola del “ciascuno per sé”. E tutto ciò contribuisce ad allargare ed accentuare il sanguinoso caos nel quale affonda il capitalismo.
Elfe, 20 settembre 19971) Le menzogne diffuse in abbondanza all’epoca del crollo dei regimi stalinisti, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, a proposito del “fallimento definitivo del marxismo” non sono affatto nuove. Esattamente un secolo fa, la sinistra della II Internazionale, con alla sua testa Rosa Luxemburg, aveva dovuto combattere le tesi revisioniste che affermavano che Marx si era notevolmente sbagliato quando annunciava che il capitalismo andava verso il crollo. I decenni seguenti, con la prima guerra mondiale, poi la grande depressione degli anni 30 che seguiva ad un breve periodo di ricostruzione, hanno lasciato poco margine alla borghesia per continuare a battere su questo chiodo. Di contro i due decenni di “prosperità” del secondo dopoguerra hanno consentito un nuovo fiorire, anche negli ambienti “radicali”, di “teorie” che seppellivano “definitivamente” il marxismo e le sue previsioni di crollo del capitalismo. Questi cori di autosoddisfazione sono stati evidentemente messi in difficoltà dal ritorno della crisi aperta del capitalismo alla fine degli anni 60; ma il ritmo lento di quest’ultima, con periodi di “ripresa” come quella che conosce oggi il capitale americano e britannico, ha permesso alla propaganda borghese di camuffare agli occhi della gran parte dei proletari la realtà e l’ampiezza del vicolo cieco in cui si trova oggi il modo di produzione capitalista. E’ per questa ragione che spetta ai rivoluzionari, ai marxisti, denunciare continuamente le menzogne borghesi sulle pretese possibilità del capitalismo di “uscire dalla crisi” ed, in particolare, di fare giustizia degli “argomenti” che sono di volta in volta utilizzati per tentare di “dimostrare” tali possibilità.
2) Dalla metà degli anni 70, di fronte all’evidenza della crisi, gli “esperti” hanno cominciato a ricercare tutte le spiegazioni possibili che permettessero alla borghesia di rassicurarsi favorevolmente sulle prospettive del suo sistema. Incapace di prendere in considerazione il fallimento definitivo di questo, la classe dominante aveva bisogno, non solo allo scopo di mistificare gli sfruttati, ma anche a suo proprio uso di spiegare le difficoltà crescenti dell’economia mondiale a partire da cause circostanziali che giravano evidentemente le spalle alle cause effettive. Di volta in volta, sono andate di moda le seguenti spiegazioni:
· la “crisi del petrolio” successiva alla guerra del Kippur del 73 (questo significava dimenticare che la crisi aperta risaliva a 6 anni prima, gli aumenti del prezzo del petrolio non avevano fatto altro che accentuare una degradazione che si era già manifestata con le recessioni del 67 e del 71);
· gli eccessi delle politiche neo-keynesiane seguiti alla fine della guerra che ora provocavano un’inflazione galoppante: c’era bisogno di meno intervento statale;
· gli eccessi delle “reaganomics” degli anni 80 che avevano provocato una crescita senza precedenti della disoccupazione nei principali paesi.
Fondamentalmente bisognava aggrapparsi all’idea che esistevano delle vie di uscita; che con una “buona gestione”, l’economia mondiale sarebbe potuta tornare allo splendore dei tempi d’oro. Bisognava ritrovare il segreto perduto della “prosperità”.
3) Per molto tempo le buone prestazioni economiche del Giappone e della Germania, mentre gli altri paesi erano in difficoltà, erano presentate come la dimostrazione della capacità del capitalismo di “superare la sua crisi”: “è necessario che ogni paese sia ‘virtuoso’ quanto i due grandi vinti della seconda guerra mondiale, e tutto il mondo starà bene”: questo era il credo di molti apologeti assoldati dal capitalismo. Oggi il Giappone e la Germania fanno la figura “di uomo malato”. Mentre incontra le più grandi difficoltà a rilanciare una “crescita” che fece la sua gloria passata, il primo viene classificato nella categoria D (al fianco del Brasile e del Messico) nell’indice dei paesi a rischio tanto sono minacciosi i debiti che hanno accumulato lo Stato, le imprese e i privati (in totale più di due anni e mezzo della produzione nazionale). Quanto al secondo paese, esso conosce oggi uno dei tassi di disoccupazione più elevati dell’Unione europea e non riesce nemmeno lui a soddisfare i “criteri di Maastricht” indispensabili per aderire alla “moneta unica”. In fin dei conti, ci si rende conto che la pretesa “virtù” passata di questi paesi non faceva che mascherare la stessa fuga in avanti nell’indebitamento che caratterizza l’insieme del capitalismo da decenni. In realtà, le difficoltà attuali dei due “primi della classe” degli anni 70 e 80 costituiscono una dimostrazione dell’impossibilità per il capitalismo di perseverare indefinitamente nell’inganno sul quale ha basato principalmente la ricostruzione del secondo dopoguerra e che gli ha permesso fino ad oggi di evitare un crollo simile a quello degli anni 30: l’utilizzo sistematico del credito.
4) Già quando denunciava le “teorie” dei revisionisti, Rosa Luxemburg era stata portata a demolire l’idea che a loro era cara secondo cui il credito avrebbe permesso al capitalismo di superare le sue crisi. Se è stato un indiscutibile stimolante dello sviluppo di questo sistema, tanto dal punto di vista della concentrazione del capitale che della sua circolazione, il credito non ha mai potuto sostituirsi al mercato reale stesso come alimento dell’espansione capitalista. Le cambiali permettono di accelerare la produzione e la commercializzazione delle merci ma esse devono essere rimborsate un giorno o l’altro. E questo rimborso è possibile solo se queste merci hanno trovato di che scambiarsi sul mercato, che non deriva automaticamente dalla produzione, come Marx ha sistematicamente dimostrato contro gli economisti borghesi. In fin dei conti, lungi dal permettere di superare le crisi, il credito non fa che estenderne la portata e la gravità, come Rosa Luxemburg dimostra, basandosi sul marxismo. Oggi, restano fondamentalmente valide le tesi della sinistra marxista contro il revisionismo della fine del secolo scorso. Il credito non può oggi, più che allora, allargare i mercati solvibili. Tuttavia, di fronte ad una saturazione definitiva di questi ultimi (mentre nel secolo scorso esisteva la possibilità di conquistarne di nuovi) il credito è diventato la condizione indispensabile allo smercio delle merci prodotte, sostituendosi al mercato reale.
5) Questa realtà è già stata illustrata all’indomani della seconda guerra mondiale quando il piano Marshall, oltre alla sua funzione strategica nella costituzione del blocco americano, ha permesso agli Stati Uniti di creare uno sbocco per la produzione delle loro industrie. La ricostruzione che esso ha permesso delle economie europee e giapponese ha fatto di queste nel corso degli anni 60 dei concorrenti dell’economia americana, il che ha dato il segnale del ritorno della crisi aperta del capitalismo mondiale. Dopo di allora, è principalmente utilizzando il mezzo del credito, di un indebitamento sempre maggiore, che l’economia mondiale è riuscita ad evitare una depressione brutale come quella degli anni 30. E’ così che la recessione del 1974 è stata superata fino all’inizio degli anni 80 grazie al formidabile indebitamento dei paesi del terzo mondo che ha condotto alla crisi del debito dell’inizio degli anni 80 la quale ha coinciso con una nuova recessione ancor più seria di quella del 1974. A sua volta questa nuova recessione mondiale non è stata superata che attraverso dei deficit commerciali straordinari degli Stati Uniti il cui ammontare dell’indebitamento è paragonabile a quello del terzo mondo. Parallelamente i deficit dei bilanci dei paesi avanzati sono esplosi, il che ha permesso di sostenere la domanda ma ha condotto ad una vera situazione di fallimento per gli Stati (il cui indebitamento rappresenta tra il 50% ed il 130% della produzione annuale a seconda dei paesi). E’ d’altronde per questa ragione che la recessione aperta, quella che si esprime con delle cifre negative nei tassi di crescita della produzione di un paese, è lungi dal costituire il solo indicatore della gravità della crisi. In quasi tutti i paesi il solo deficit annuale del bilancio degli Stati (senza contare quello delle amministrazioni locali) è superiore alla crescita della produzione; ciò significa che se questi bilanci fossero equilibrati (il solo mezzo di stabilizzare l’indebitamento accumulato dagli Stati) tutti questi paesi sarebbero in aperta recessione.
La maggior parte di questo indebitamento non è evidentemente rimborsabile, esso si accompagna a dei crac finanziari periodici sempre più gravi che sono dei veri terremoti per l’economia mondiale (1980, 1989) e che restano più che mai all’ordine del giorno.
6) Ricordare questi fatti permette di fare chiarezza sui discorsi sulla “salute” attuale delle economie britannica ed americana che contrasta con l’apatia di quelle dei loro concorrenti. In primo luogo, conviene ridimensionare l’importanza di questi “successi”. Così, la diminuzione molto sensibile del tasso di disoccupazione in Gran Bretagna deve molto, come confessa anche la banca di Inghilterra, alla soppressione nelle statistiche (il cui sistema di calcolo è stato modificato 33 volte dal 1979) dei disoccupati che hanno rinunciato a cercare un lavoro. Detto ciò, questi “successi” si basano in buona parte su un miglioramento della competitività di queste economie sull’arena internazionale (basata proprio sulla debolezza della loro moneta, il mantenere la Sterlina fuori dal serpente monetario si è rivelato fino ad oggi come una buona operazione), cioè su di un maggiore degradarsi delle economie concorrenti. E’ un fatto che era stato un po’ nascosto dalla sincronizzazione mondiale dei periodi di recessione e di quelli di “ripresa” che si era conosciuta fino a questo momento: il relativo miglioramento dell’economia di un paese non passa per il miglioramento di quella dei suoi “partner” ma, fondamentalmente, per un peggioramento di queste poiché i “partner” sono prima di tutto dei concorrenti. Con la scomparsa del blocco americano, seguita a quella del blocco russo, alla fine degli anni 80, il coordinamento che esisteva nel passato fra i principali paesi occidentali (per esempio attraverso il G7) delle loro politiche economiche (il che costituiva un fattore non trascurabile di rallentamento del ritmo della crisi) ha lasciato il posto al “ciascuno per sé” sempre più selvaggio. In una tale situazione, tocca alla prima potenza mondiale il privilegio di imporre i suoi diktat nell’arena commerciale a beneficio della sua propria economia nazionale. E’ ciò che spiega in buona parte i “successi” attuali del capitale americano.
Ciò detto, anche se gli andamenti attuali delle economie anglosassoni non sono affatto significativi di un possibile miglioramento dell’insieme dell’economia mondiale, comunque non sono destinati a durare. Legate al mercato mondiale, che non potrà superare la sua totale saturazione, esse vanno necessariamente a scontrarsi con questa saturazione. Soprattutto nessun paese ha risolto il problema dell’indebitamento generalizzato (anche se i deficit di bilancio degli Stati Uniti si sono un po’ ridotti in questi ultimi anni). La migliore prova di ciò è l’ossessione dei principali responsabili economici (quale il presidente della Banca federale americana) che la “crescita” attuale porti ad un “surriscaldamento” e ad un ritorno dell’inflazione. In realtà dietro questo timore vi è fondamentalmente la constatazione che la “crescita” attuale è basata su di un indebitamento esorbitante che produrrà per forza di cose un ritorno catastrofico. L’estrema fragilità delle basi su cui si poggiano i “successi” attuali dell’economia americana ci è stata ancora una volta confermata dall’inizio di panico di Wall Street come di altre Borse quando la FED (Banca federale americana) ha annunciato a fine marzo 1997 un rialzo minimo dei suoi tassi di interesse.
7) Tra le menzogne abbondantemente diffuse dalla classe dominante per far credere alla vitalità, malgrado tutto, del suo sistema, un posto particolare è comunque riservato all’esempio dei paesi del sud-est asiatico, i “dragoni” (Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) e le “tigri” (Tailandia, Indonesia, Malesia) i cui tassi di crescita attuali (qualche volta a due cifre) fanno rodere di invidia i borghesi occidentali . Questi esempi dovrebbero dimostrare che è possibile per il capitalismo attuale sia far sviluppare i paesi arretrati sia evitare la fatalità della caduta o la stagnazione della crescita. In realtà, il “miracolo economico” della maggior parte di questi paesi (in particolare la Corea e Taiwan) non è affatto fortuito: è la conseguenza dell’equivalente del piano Marshall messo in atto nel corso della guerra fredda dagli Stati Uniti con lo scopo di contenere l’avanzata del blocco russo nella regione (iniezione massiccia di capitali fino al 15 % del PIL, controllo diretto dell’economia nazionale, poggiandosi in particolare sull’apparato militare, al fine di supplire alla borghesia nazionale quasi inesistente e superare le resistenze dei settori feudali, ecc.). Come tali, questi esempi non sono per niente generalizzabili all’insieme del terzo mondo che continua nella gran parte ad affondare in una catastrofe indescrivibile. D’altra parte, l’indebitamento della maggior parte di questi paesi, sia verso l’esterno che al livello dei loro Stati, raggiunge dei livelli notevoli il che li sottomette alle stesse minacce di tutti gli altri paesi. Infine se il prezzo molto basso della loro forza lavoro ha costituito un’attrattiva per numerose imprese occidentali, il fatto che essi diventino dei rivali commerciali per i paesi avanzati li espone al rischio di misure protezionistiche verso le loro esportazioni. In realtà, come già è successo al loro grande vicino giapponese, questi paesi non potranno sfuggire per sempre alle contraddizioni dell'economia mondiale che hanno trasformato in incubo altre “storia fortunate” precedenti alla loro, come quella del Messico. E’ per l’insieme di queste ragioni che, accanto a discorsi incensanti, gli esperti internazionali e le istituzioni finanziarie prendono fin da oggi degli accorgimenti per limitare i rischi finanziari che essi presentano. E le misure destinate a rendere più “flessibile” la forza lavoro che si trovano all’origine dei recenti scioperi in Corea dimostrano che la borghesia locale è cosciente del fatto che i tempi migliori sono passati. Come scrive il Guardian del 16 ottobre 1996: “Il problema è sapere quale sarà la prima delle tigri d‘Asia a cadere.”
8) Il caso della Cina, che alcuni presentano come la futura grande potenza del prossimo secolo, non sfugge alla regola. La borghesia di questo paese è riuscita fino ad oggi ad operare con successo la transizione verso le forme classiche del capitalismo, contrariamente a quelle dei paesi dell’Europa dell’est il cui totale marasma (tranne poche eccezioni) apporta una schiacciante smentita a tutti i discorsi sulle pretese “grandi prospettive” che si offrivano loro con l’abbattimento dei regimi stalinisti. Detto ciò, l’arretratezza di questo paese resta notevole; la maggior parte dell’economia, come in tutti i regimi stalinisti, soffoca sotto il peso della burocrazia e delle spese militari. A detta stessa delle autorità il settore pubblico è completamente deficitario e centinaia di migliaia di operai sono pagati con mesi di ritardo. E anche se il settore privato è più dinamico, esso non può superare le pesantezze del settore statale ed inoltre resta particolarmente legato alle fluttuazioni del mercato mondiale. Infine il “formidabile dinamismo” dell’economia cinese non potrebbe nascondere che, anche nell’ipotesi del mantenimento della sua crescita attuale, sono più di 250 milioni i disoccupati che essa conterà alla fine del secolo.
9) Da qualsiasi parte ci si giri, per poco che si sia capaci di resistere alle sirene dei difensori del modo di produzione capitalista e di poggiarsi sugli insegnamenti del marxismo, la prospettiva dell’economia mondiale non può essere che quella di una catastrofe crescente. I pretesi “successi” attuali di certe economie (paesi anglosassoni o del sud-est asiatico) non rappresentano affatto il futuro dell’insieme del capitalismo: non sono che una mistificazione che non potrà mascherare per molto tempo questa catastrofe. Ancora, i discorsi sulla “mondializzazione”, ipotizzata aprire un’era di libertà e di espansione del commercio, non fanno che mascherare un’intensificazione senza precedenti della guerra commerciale nella quale gli assemblaggi di paesi come l’Unione Europea non hanno altro significato che creare una fortezza contro la concorrenza di altri paesi. Così, una economia mondiale in equilibrio instabile su di una montagna di debiti che non saranno mai rimborsati si scontrerà sempre più con le convulsioni del “ciascuno per sé”. Fenomeno che ha sempre caratterizzato il capitalismo ma che, nel periodo attuale di decomposizione, riveste una nuova qualità. I rivoluzionari, i marxisti non possono prevedere le forme precise né il ritmo dello sprofondamento crescente del modo di produzione capitalista, ma tocca loro di proclamare e di dimostrare il vicolo cieco totale nel quale si trova questo sistema, di denunciare tutte le menzogne su di una sua mitica “uscita dal tunnel”.
10) Più ancora che nel campo economico, il caos proprio del periodo di decomposizione rivela i suoi effetti in quello delle relazioni politiche tra gli Stati. Al momento del crollo del blocco dell’Est che portava alla scomparsa del sistema di alleanze uscito dalla seconda guerra mondiale, la CCI aveva messo in evidenza:
· che questa situazione metteva all’ordine del giorno, senza che questo fosse immediatamente realizzabile, la ricostituzione di nuovi blocchi, uno diretto dagli Stati Uniti e l’altro dalla Germania;
· che, nell’immediato, esso sarebbe sfociato in uno svilupparsi di scontri aperti che “l’ordine di Yalta” era riuscita fino a quel momento a mantenere in un quadro “accettabile” per i due grandi gendarmi del mondo.
In un primo tempo, la tendenza alla costituzione di un nuovo blocco intorno alla Germania, nella dinamica di riunificazione di questo paese, ha compiuto dei passi significativi. Ma molto rapidamente, la tendenza al “ciascuno per sé” ha preso il sopravvento sulla tendenza alla ricostituzione di alleanze stabili fondamento di futuri blocchi imperialisti, il che ha contribuito a moltiplicare ed aggravare gli scontri militari. L’esempio più significativo è quello della Yugoslavia il cui esplodere è stato favorito degli interessi imperialistici antagonisti dei grandi Stati europei, Germania, Gran Bretagna e Francia. Gli scontri nella ex Yugoslavia hanno creato un fossato tra i due grandi alleati della Comunità europea, la Germania e la Francia, provocando un ravvicinamento spettacolare tra quest’ultimo paese e la Gran Bretagna e la fine dell’alleanza di questa con gli Stati Uniti, la più solida e duratura del 20° secolo. Dopo, questa tendenza al “ciascuno per sé”, al caos nelle relazioni tra gli Stati, con il suo seguito di alleanze circostanziali ed effimere, non è stata affatto rimessa in discussione.
11) Così, l’ultimo periodo ha visto un certo numero di sensibili modificazioni nelle alleanze che si erano formate nel periodo precedente:
· importante allentamento dei legami tra la Francia e la Gran Bretagna mostrato in particolare con la mancato sostegno di quest’ultima alle rivendicazioni della prima come la rielezione di Boutros-Ghali alla testa dell’ONU o il comando da parte di un europeo del versante sud del dispositivo della NATO in Europa;
· nuovo riavvicinamento tra la Francia e la Germania che si è concretizzato in particolare con il sostegno di quest’ultima alla stesse rivendicazioni della Francia;
· attenuazione dei conflitti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che si è espressa, tra l’altro, con il sostegno di questa ultima allo Zio Sam su queste stesse questioni.
Nei fatti una delle caratteristiche di questa evoluzione delle alleanze è legata al fatto che solo gli Stati Uniti e la Germania hanno, e possono avere, una politica coerente a lungo termine, il primo di preservazione della sua leadership, la seconda di sviluppo della sua propria leadership su di una parte del mondo, poiché le altre potenze sono confinate a delle politiche più circostanziali volte, in buona parte, ad opporsi a quella delle prime. In particolare, la prima potenza mondiale si trova di fronte, dopo la scomparsa della divisione del mondo in due blocchi, ad una contestazione permanente della sua autorità da parte dei suoi vecchi alleati.
12) La manifestazione più spettacolare di questa crisi dell’autorità del gendarme mondiale è stata la rottura della sua alleanza storica con la Gran Bretagna, su iniziativa di quest’ultima, a partire dal 1994. Essa si è egualmente concretizzata con la lunga impotenza degli Stati Uniti fino all’estate 1995 su uno dei terreni maggiori di scontro imperialista, la ex Yugoslavia. Inoltre si è espressa più recentemente, nel settembre 1996, con le reazioni pressoché unanimi di ostilità verso i bombardamenti dell’Iraq con 44 missili Cruise, mentre nel 1990-91 gli Stati Uniti erano riusciti ad ottenere il sostegno degli stessi paesi con l’operazione “tempesta nel deserto” ; in particolare per quel che riguarda gli Stati della regione, la condanna molto ferma di questi bombardamenti fatta dall’Egitto e dall’Arabia Saudita rompe di netto con il sostegno totale che esse avevano dato allo Zio Sam all’epoca della guerra del Golfo. Tra gli altri esempi della contestazione della leadership americana bisogna ancora ricordare:
· la generale protesta contro la legge Helms-Burton che rafforza l’embargo contro Cuba il cui “lider maximo” è stato in seguito ricevuto in pompa magna, e per la prima volta, dal Vaticano;
· la salita al potere in Israele, contro la manifesta volontà degli Stati Uniti, della destra, che ha fatto di tutto poi per sabotare il processo di pace con i palestinesi che costituiva uno dei migliori successi della diplomazia USA;
· più in generale, la perdita del monopolio del controllo della situazione in Medio Oriente, zona particolarmente cruciale, illustrata dal ritorno in forze della Francia che si è imposta come copadrino nel contenzioso tra Israele e Libano all fine del 1995 e che ha confermato il suo successo nella regione con l’accoglienza calorosa riservata a Chirac dall’Arabia Saudita nell’ottobre 1996;
· il recente invito di numerosi dirigenti europei (tra cui lo stesso Chirac che ha lanciato appelli all’indipendenza dagli Stati Uniti) fatto da un certo numero di Stati dell’America del sud conferma la fine del controllo totale di questa zona da parte degli Stati Uniti.
13) Ciò detto, l’ultimo periodo è stato segnato, come aveva già sottolineato un anno fa il 12° Congresso della sezione in Francia, da una massiccia controffensiva degli Stati Uniti. Questa si è concretizzata in particolare in un ritorno in forze di questa potenza nella ex Yugoslavia a partire dall’estate del 1995 dietro la maschera dell’IFOR, che ha preso il posto della FORPRONU, che aveva costituito per molti anni lo strumento della presenza preponderante del tandem franco-britannico. La migliore prova del successo americano è stata la firma a Dayton, negli Stati Uniti, degli accordi di pace sulla Bosnia. Dopo, la nuova avanzata della potenza USA non si è smentita. In particolare essa è riuscita ad infliggere al paese che l’aveva sfidata più apertamente, la Francia, uno smacco molto serio in quello che costituisce il suo “terreno di conquista”, l’Africa. Dopo l’eliminazione dell’influenza francese in Ruanda, è ora lo Zaire, principale postazione della Francia in questo continente che è sul punto di sfuggirle con il crollo del regime di Mobutu sotto i colpi della “ribellione” di Kabila massicciamente sostenuta dal Ruanda e dall‘Uganda, cioè dagli Stati Uniti. E’ una punizione particolarmente severa che questa potenza è sul punto di infliggere alla Francia e che vuole essere esemplare per tutti gli altri paesi che volessero imitarla nella sua politica di sfida permanente. E’ una punizione che viene a coronare gli altri smacchi inflitti recentemente dagli USA a questo paese sulla questione del successore di Boutros-Ghali e sulla questione del comando del fianco sud della NATO.
14) E’ in gran parte perché aveva ben compreso i rischi che correva imitando la politica avventurista della Francia (che sistematicamente si prefigge degli obiettivi al di là delle sue capacità reali) che la borghesia britannica ha preso ultimamente le distanze dalla sua consorella di oltre Manica. Questo allontanamento è stato notevolmente favorito dall’azione degli Stati Uniti e della Germania che non potevano vedere che male l’alleanza contratta tra la Francia e la Gran Bretagna a partire dalla questione Jugoslava. E’ così che i bombardamenti americani dell’Iraq, nel settembre 1996, avevano come enorme risultato di mettere la diplomazia francese e britannica l’una contro l’altra, visto che la prima sostiene Saddam Hussein, la seconda mira, come gli Stati Uniti, al suo rovesciamento. Anche la Germania si è data da fare per minare la solidarietà franco-britannica sulle questioni che a lei stanno a cuore, come in particolare l’Unione Europea e la moneta unica (3 summit franco-tedeschi in due settimane su questa questione nel dicembre 1996). E’ dunque in questo quadro che si può comprendere la nuova evoluzione delle alleanze nel corso dell’ultimo periodo di cui si parlava prima. Nei fatti l’atteggiamento della Germania, e soprattutto degli Stati Uniti conferma ciò che noi dicevamo al precedente congresso della CCI: “In una tale situazione di instabilità, è più facile per ciascuna potenza creare dei problemi ai suoi avversari, sabotare le alleanze che possano adombrarla, che sviluppare da parte sua delle solide alleanze e assicurarsi una stabilità nei suoi territori.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 11). Tuttavia conviene mettere in evidenza delle differenze importanti sia nei metodi che nei risultati della politica seguita da queste due potenze.
15) Il risultato della politica internazionale della Germania non si limita affatto a separare la Francia dalla Gran Bretagna e ottenere che la prima riallacci la loro passata alleanza, il che si è concretizzato per esempio nel corso dell’ultimo periodo con degli accordi militari di primaria importanza, sia sul terreno, in Bosnia (creazione di una brigata congiunta) che a livello degli accordi di cooperazione militare (firma del 9 dicembre 1996 di un accordo per “una concezione comune in materia di sicurezza e di difesa”). In realtà, si assiste attualmente ad una avanzata molto significativa dell’imperialismo tedesco che si concretizza precisamente in:
· il fatto che all’interno della nuova alleanza tra la Francia e la Germania, quest’ultima si trovi in un rapporto di forze molto più favorevole di quello del periodo 1990-94 (la Francia è stata costretta in buona parte a ritornare ai suoi antichi amori in seguito alla defezione della Gran Bretagna);
· un’estensione della sua zona tradizionale di influenza verso i paesi dell’Est ed, in particolare, attraverso lo sviluppo di un’alleanza con la Polonia;
· un rafforzamento della sua influenza in Turchia (il cui nuovo governo diretto dall’islamista Erbakan è più favorevole del suo predecessore all’alleanza tedesca) che gli serve da postazione in direzione del Caucaso (dove essa sostiene i movimenti nazionalisti che si oppongono alla Russia) e dell’Iran con il quale la Turchia ha firmato degli accordi importanti;
· l’invio, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, di unità combattenti al di fuori delle frontiere, e proprio nella zona particolarmente critica dei Balcani con il corpo di spedizione presente in Bosnia nel quadro dell’IFOR (il che permette al ministro della difesa di dichiarare che “la Germania giocherà un ruolo importante nella nuova società”).
D’altra parte, la Germania, insieme alla Francia, si è impegnata in un forcing diplomatico in direzione della Russia, di cui essa è la prima creditrice, che non ha tratto vantaggi decisivi dalla sua alleanza con gli Stati Uniti.
16) Così, fin da oggi, la Germania è in grado di insediarsi nel suo ruolo di principale rivale imperialista degli Stati Uniti. Tuttavia bisogna notare che essa è riuscita ad avanzare nelle sue posizione senza esporsi a delle rappresaglie del mastodontico avversario americano, in particolare evitando sistematicamente di sfidarlo apertamente come fa la Francia. La politica dell’aquila tedesca (che per il momento riesce a nascondere i suoi artigli) si rivela in fin dei conti molto più efficace di quella del gallo francese. Questo è nello stesso tempo la conseguenza dei limiti che lo statuto di vinto della seconda guerra mondiale continua ad imporgli (benché proprio la sua politica attuale volga a superare questo statuto) e della sua sicurezza come sola potenza in grado eventualmente di prendere, a breve termine, la direzione di un nuovo blocco imperialista. E’ anche il risultato del fatto che, fino ad ora, la Germania ha potuto avanzare le sue posizioni senza fare ricorso diretto alla sua forza militare (anche se, evidentemente, essa ha apportato un sostegno molto grosso al suo alleato Croato nella guerra contro la Serbia). Ma la primizia storica che sostituisce la presenza del suo corpo di spedizione in Bosnia non solo ha infranto un tabù ma indica la direzione nella quale essa dovrà orientarsi sempre più per mantenere il suo rango. Così, a breve termine, non sarà più per delega (come fu il caso in Croazia, ed in minore misura nel Caucaso) che l’imperialismo tedesco apporterà il suo contributo ai sanguinosi conflitti e ai massacri nei quali affonda il mondo attuale, ma in modo molto più diretto.
17) Per quel che riguarda la politica internazionale degli Stati uniti, lo schieramento e l’impiego della forza armata non solo fa parte da molto tempo dei suoi metodi, ma esso costituisce ormai il principale strumento di difesa dei suoi interessi imperialisti, come la CCI ha messo in evidenza dal 1990, prima ancora della guerra del Golfo. Di fronte ad un mondo dominato dal “ciascuno per sé”, in cui proprio gli antichi vassalli del gendarme americano aspirano a staccarsi il più possibile dalla sua pesante tutela che essi avevano dovuto sopportare di fronte alla minaccia del blocco avverso, il solo mezzo decisivo per gli Stati Uniti di imporre la sua autorità è di fondarsi sullo strumento nel quale essi hanno una superiorità schiacciante: la forza militare. Ciò facendo, gli Stati Uniti sono presi in una contraddizione:
· o essi rinunciano a mettere in piazza e a schierare la loro superiorità militare, il che non può che incoraggiare i paesi che contestano la loro autorità ad andare ancora oltre in questa loro contestazione;
· o, se essi fanno uso della forza bruta, anche, e soprattutto, quando questo mezzo riesce momentaneamente a far raffreddare le velleità dei suoi oppositori, ciò non può che spingere questi ultimi a cogliere ogni minima occasione per prendersi la rivincita e tentare di staccarsi dalla presa americana.
Nei fatti, l’affermazione della superiorità militare per la superpotenza agisce in senso contrario a seconda se il mondo è diviso in blocchi, come prima del 1989, o che i blocchi non esistano più. Nel primo caso, l’affermazione di questa superiorità tende a rafforzare la fiducia dei vassalli verso il capo quanto alla sua capacità di difenderli efficacemente e costituisce dunque un fattore di coesione intorno a lui. Nel secondo caso, le dimostrazioni di forza della sola superpotenza superstite hanno al contrario come ultimo risultato di aggravare ancora il “ciascuno per sé” finché non esiste un’altra potenza che possa fargli concorrenza al suo livello. E’ perciò che i successi della controffensiva attuale degli Stati Uniti non possono essere considerati come definitivi, come un superamento della crisi della loro leadership. La forza bruta, le manovre volte a destabilizzare i loro concorrenti (come oggi in Zaire), con tutto il loro seguito di conseguenze tragiche, non hanno finito di essere impiegate da questa potenza, ma al contrario, contribuendo così ad accentuare il caos sanguinoso nel quale affonda il capitalismo.
18) E’ un caos che ha ancora relativamente risparmiato l’estremo Oriente e l’Asia del Sud-Est. Ma è importante sottolineare l’accumularsi in questi paesi di cariche esplosive:
· intensificazione degli sforzi di armamento delle due principali potenze, Cina e Giappone;
· volontà di questo ultimo paese di staccarsi il più possibile dal controllo americano ereditato dalla seconda guerra mondiale;
· politica più apertamente “contestatrice” della Cina (questo paese ha lo stesso ruolo della Francia in Occidente, mentre il Giappone ha una diplomazia molto più simile a quella della Germania);
· minaccia di destabilizzazione politica in Cina (in particolare dopo la morte di Deng);
· esistenza di una moltitudine di “contenziosi” tra Stati (Taiwan e Cina, le due Coree, Vietnam e Cina, India e Pakistan, ecc.).
Oltre al fatto che non potrà sfuggire alla crisi economica, questa regione non potrà sfuggire alle convulsioni imperialiste che assalgono il mondo oggi, contribuendo ad accentuare il caos generale nel quale sprofonda la società capitalista.
19) Questo caos generale, con il suo seguito di conflitti sanguinosi, di massacri, di fame, e più in generale la decomposizione che invade tutti i campi della società e che rischia, alla fine, di annientarla, trova il suo principale alimento nel vicolo cieco totale nel quale si trova l’economia capitalista. Ma, nello stesso tempo, questo impasse, con gli attacchi continui e sempre più brutali che essa provoca necessariamente contro la classe produttrice dell’essenziale della ricchezza sociale, il proletariato, porta con sé la risposta di quest’ultimo e la prospettiva del suo sorgere rivoluzionario. Dalla fine degli anni 60 il proletariato mondiale ha dato prova di non essere disposto a subire passivamente gli attacchi capitalisti e le lotte che ha condotto fin dai primi attacchi della crisi hanno dimostrato che esso era uscito dalla terribile controrivoluzione che si era abbattuta su di lui dopo l’ondata rivoluzionaria del 1917-23. Tuttavia non è in maniera continua che esso ha sviluppato le sue lotte ma in maniera sofferta, con delle avanzate e dei passi indietro. E’ così che tra il 1968 ed il 1989 la lotta di classe ha conosciuto tre ondate di lotta successive (1968-74, 1978-81, 1983-89) nel corso delle quali le masse operaie, malgrado delle sconfitte, delle esitazioni, dei rinculi, hanno acquisito un’esperienza crescente che le ha condotte, in particolare, a rigettare sempre più l’inquadramento sindacale. Tuttavia questa avanzata progressiva della classe operaia verso una presa di coscienza dei fini e dei mezzi della sua lotta è stata brutalmente interrotta alla fine degli anni 80:
“Questa lotta che era risorta con possanza alla fine degli anni 60, ponendo fine alla più terribile controrivoluzione che la classe operaia abbia mai conosciuto, ha subito un rinculo considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l’hanno accompagnati e l’insieme degli eventi (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, ecc.) che li hanno seguiti. E’ sui due piani della sua combattività e della sua coscienza che la classe operaia ha subito, in modo massiccio, questo rinculo, senza che ciò rimetta in causa, tuttavia, come la CCI aveva già affermato in quel momento il corso storico verso gli scontri di classe.” (Risoluzione sulla situazione internazionale del 11° Congresso della CCI, punto 14).
20) A partire dall’autunno 1992, con le grandi mobilitazioni operaie in Italia, il proletariato ha ripreso il cammino delle lotte. Ma è un cammino seminato di buche e di difficoltà. All’epoca del crollo dei regimi stalinisti, nell’autunno 1989, nello stesso momento in cui annunciava l’arretramento della coscienza provocato da questo evento, la CCI aveva precisato che: “l’ideologia riformista peserà notevolmente sulle lotte nel prossimo periodo, favorendo enormemente l’azione dei sindacati” (“Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell‘Est”, Rivista Internazionale n° 13). Ed effettivamente noi abbiamo assistito, nel corso dell’ultimo periodo, ad un ritorno in forze dei sindacati, frutto di una strategia elaborata da parte di tutte le forze della borghesia. Questa strategia aveva come obiettivo primario mettere a profitto il disorientamento provocato nella classe operaia dagli avvenimento del 1989-91 per ricredibilizzare il più possibile ai suoi occhi gli apparati sindacali il cui discredito acquisito in molti paesi durante tutti gli anni 80 continuava a farsi sentire. La dimostrazione più chiara di questa offensiva politica della borghesia ci è stata fornita dalla manovra sviluppata da diversi settori della borghesia nell’autunno 1995 in Francia. Grazie ad un’abile divisione dei compiti tra la destra al potere, che scatenava in maniera particolarmente provocatoria una valanga di attacchi al livello di vita della classe operaia, ed i sindacati che si presentavano come i migliori difensori di questa, mettendo essi stessi in atto i metodi proletari di lotta, l’estensione al di là del singolo settore e la conduzione del movimento tramite le assemblee generali, l’insieme della classe borghese ha ridato agli apparati sindacali una popolarità che essi non conoscevano più da un decennio. Il carattere premeditato, sistematico ed internazionale della manovra si è rivelato con l’immensa pubblicità fatta agli scioperi della fine 1995 in tutti i paesi mentre la maggior parte dei movimenti degli anni 80 era stato oggetto di un black-out totale. Viene ulteriormente confermato con la manovra sviluppata in Belgio, nello stesso periodo, che costituiva una copia conforme della prima. Inoltre il riferimento agli scioperi dell’autunno 1995 in Francia è stato largamente utilizzato all’epoca della grande manovra attuata nella primavera 1996 in Germania e che doveva culminare con l’immensa marcia su Bonn del 10 giugno. Questa manovra era destinata a dare ai sindacati, considerati degli specialisti della negoziazione e della contrattazione con il padronato, un’immagine molto più combattiva così che essi potessero in futuro controllare le lotte sociali che non mancheranno di sorgere di fronte ad un intensificarsi senza precedenti degli attacchi economici contro la classe operaia. Così si confermava chiaramente l’analisi che la CCI aveva avanzato al suo 11° Congresso: “le attuali manovre dei sindacati hanno anche, e soprattutto uno scopo preventivo: si tratta per loro di rafforzare la loro presa sugli operai prima che si sviluppi molto di più la loro combattività, combattività che deriverà necessariamente dallo loro crescente collera di fronte agli attacchi sempre più brutali della crisi.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 17). Ed il risultato di queste manovre, che viene a completare lo sbandamento provocato dagli eventi del 1989-91, ci consentiva di dire, all’epoca del 12° Congresso della nostra sezione in Francia: “ ... nei principali paesi del capitalismo, la classe operai si ritrova ad affrontare una situazione simile a quella degli anni 70 per quel che riguarda i suoi rapporti con i sindacati ed il sindacalismo: una situazione in cui la classe, globalmente, lottava dietro i sindacati, seguiva le loro consegne e le loro parole d’ordine e, in fin dei conti, si affidava a loro. In questo senso, la borghesia è momentaneamente riuscita ad oscurare nelle coscienze operaie le lezioni acquisite nel corso degli anni 80, in seguito alle ripetute esperienze di confronto con i sindacati.” (Risoluzione sulla situazione internazionale, punto 12).
21) L’offensiva politica della borghesia contro la classe operaia non si limita solo alla credibilizzazione degli apparati sindacali. La classe dominante utilizza le diverse manifestazioni della decomposizione della società (aumento della xenofobia, conflitti tra bande borghesi, ecc.) per rivoltarle contro la classe operaia. E’ così che si assiste in vari paesi di Europa a delle campagne di diversione volte cioè la collera e la combattività operaia su di un terreno totalmente estraneo a quello del proletariato:
- utilizzo dei sentimenti xenofobi sfruttati dall’estrema destra (Le Pen in Francia, Heider in Austria) per montare delle campagne sul “pericolo del fascismo”;
- in Spagna, campagne contro il terrorismo dell’ETA nelle quali gli operai sono invitati a solidarizzare con i loro padroni;
- utilizzo dei regolamenti di conti tra gli apparati della polizia e della giustizia per mettere in piedi delle campagne per uno Stato e una giustizia “pulita” nei paesi come l’Italia (operazione “mani pulite”) ed in particolare in Belgio (affare Dutroux).
Quest’ultimo paese ha costituito durante l’ultimo periodo una sorta di “laboratorio” per tutta la gamma di mistificazioni messe in piedi contro la classe operaia da parte della borghesia. Questa ha successivamente:
- realizzato una copia conforme della manovra della borghesia francese dell’autunno 1995;
- poi sviluppato una manovra simile a quella della borghesia tedesca della primavera 1996;
- montato dettagliatamente, a partire dall’estate 1996, l’affare Dutroux che è stato opportunamente “scoperto” al “momento giusto” (laddove tutti i particolari erano già da tempo conosciuti dalla giustizia) allo scopo di creare, grazie ad una campagna giornalistica senza precedenti, una vera psicosi nelle famiglie operaie, proprio mentre piovevano attacchi, e far scemare la collera in un terreno interclassista di una “giustizia al servizio del popolo”, in particolare all’epoca della “marcia bianca” del 20 ottobre;
- rilanciato, con la “marcia multicolore” del 2 febbraio, organizzata in occasione della chiusura delle Fonderie di Clabecq, la mistificazione interclassista di una “giustizia popolare” e di una “economia al servizio del cittadino”, mistificazione rafforzata dal rilancio del sindacalismo “di lotta” e “di base” intorno al molto propagandato D’Orazio;
- aggiunto un nuovo strato di menzogne democratiche dopo l’annuncio all’inizio di marzo della chiusura della fabbrica della Renault di Vilvorde (chiusura che è stata considerata illegittima dai tribunali), contemporaneamente alla campagna promozionale per una “Europa sociale”, in opposizione ad una “Europa dei capitalisti”.
L’enorme risonanza internazionale di tutte queste manovre è stata ancora un’ulteriore riprova che esse non erano destinate ad un utilizzo interno ma facevano parte di un piano elaborato in modo concertato dalla borghesia di tutti i paesi. Si tratta per la classe dominante, pienamente cosciente del fatto che i suoi attacchi crescenti contro la classe operaia prima o poi provocheranno delle reazioni molto energiche da parte di quest’ultima, di prendere il sopravvento in un momento in cui la combattività è ancora a livello embrionale e sulla coscienza pesano ancora fortemente le conseguenze del crollo dei pretesi regimi “socialisti”, allo scopo di rafforzare al massimo il suo arsenale di mistificazioni sindacaliste e democratiche.
22) Il disorientamento nel quale si trova attualmente la classe operaia ha dato alla borghesia un certo margine di manovra per quel che riguarda i suoi giochi politici interni. Come aveva affermato la CCI all’inizio del 1990: “E’ per questo motivo (…) che conviene ora mettere all’ordine del giorno l’analisi sviluppata dalla CCI sulla “sinistra all’opposizione”. Questa carta era necessaria alla borghesia dalla fine degli anni 70 e per tutti gli anni 80 a causa della dinamica generale della classe verso lotte sempre più decise e coscienti, per il suo crescente rigetto delle mistificazioni democratiche, elettorali e sindacali. Le difficoltà incontrate in alcuni paesi (per esempio la Francia) per metterla in atto nelle migliori condizioni non toglievano niente al fatto che essa costituiva l’asse centrale della strategia della borghesia contro la classe operaia, il che è stato illustrato dal permanere di governi di destra in dei paesi molto importanti quali gli Stati Uniti, la Germania e la Gran Bretagna. D’altro canto, il rinculo attuale della classe non impone più alla borghesia, per un certo tempo, il ricorso prioritario a questa strategia. Ciò non vuol dire che in questi ultimi paesi si vedrà necessariamente la sinistra ritornare al governo: noi abbiamo in più occasioni (…) messo in evidenza che una tale formula non è indispensabile che nei periodi rivoluzionari o di guerra imperialista. Per contro non bisogna essere sorpresi se accade ciò, o meglio considerare che si tratta di un “incidente” o l’espressione di una debolezza particolare della borghesia di questo paese.” (Revue Internationale n° 61). E’ per questa ragione che la borghesia italiana ha potuto, in gran parte per delle ragioni di politica internazionale, fare appello nella primavera del 1996 ad una compagine di centro sinistra in cui domina il vecchio partito comunista (PDS), sostenuta dall’estrema sinistra di Rifondazione Comunista. E’ anche per questa ragione che la probabile vittoria dei laburisti in Gran Bretagna, nel maggio 1997, non dovrà essere vista come fonte di difficoltà per la borghesia di questo paese (che ha tra l’altro fatto di tutto per rompere il legame organico tra il partito e l’apparato sindacale, così da permettere a quest’ultimo di opporsi al governo, se necessario). Ciò detto è importante sottolineare il fatto che la classe dominante non torna ai temi degli anni 0 in cui “l’alternativa di sinistra” con il suo programma di misure “sociali”, cioè le nazionalizzazioni, aveva come obiettivo di spezzare lo slancio dell’ondata di lotte iniziate nel 1968 deviando il malcontento e la combattività vero l’impasse elettorale. Se dei partiti di sinistra (il cui programma economico si distingue d’altronde sempre meno da quello di destra) vanno al governo, sarà essenzialmente “per difetto” a causa delle difficoltà della destra, e non come mezzo di mobilitazione degli operai ai quali la crisi ha tolto oggi le illusioni che potevano avere negli anni 70.
23) In questo ordine di idee, conviene così stabilire una differenza molto netta tra le campagne ideologiche che si dispiegano oggi e quelle che sono state impiegate contro la classe operaia nel corso degli anni 30. Tra questi due tipi di campagne esiste un punto comune: esse si sviluppano entrambe sul tema della “difesa della Democrazia”. Tuttavia le campagne degli anni 30:
- si situavano in un contesto di sconfitta storica del proletariato, di vittoria indiscutibile della controrivoluzione;
- avevano come obiettivo di imbrigliare i proletari nella imminente guerra mondiale;
- si potevano basare su fatti ben reali e visibili, il fascismo in Italia, Germania e Spagna.
Al contrario, le campagne attuali:
- si situano in un contesto in cui il proletariato ha superato la controrivoluzione, in cui non ha subito sconfitte decisive che rimettessero in causa il corso storico agli scontri di classe;
- hanno come obiettivo di sabotare un corso ascendente della combattività e della coscienza nella classe operaia;
- non dispongono di un unico e credibile bersaglio, ma sono obbligate a fare appello a dei temi disparati e qualche volta circostanziali (terrorismo, “pericolo fascista”, reti di pedofilia, corruzione della giustizia, ecc.), il che tende a limitarle nella loro portata internazionale e temporale.
E’ per queste ragioni che se le campagne della fine degli anni 30 erano riuscite a mobilitare le masse operaie dietro di loro in modo permanente, quelle di oggi:
- o riescono a coinvolgere massicciamente gli operai (vedi il caso della “Marcia bianca” del 20 ottobre 1996 a Bruxelles), ma non possono farlo che per un tempo limitato (è perciò che la borghesia belga ha messo in atto in seguito nuove manovre);
- o si sviluppano in modo permanente (vedi le campagne anti Fronte Nazionale in Francia), ma non riescono ad imbrigliare gli operai, giocando essenzialmente così solo un ruolo di diversione.
Detto ciò, è importante non sottovalutare il pericolo di questo tipo di campagne nella misura in cui gli effetti della decomposizione generale e crescente della società borghese potranno fornire loro nuovi temi continuamente. Solo un’avanzata significativa della coscienza nella classe operaia permetterà a questa di respingere ogni tipo di mistificazione. E questa avanzata non potrà che essere il risultato di uno sviluppo massiccio delle lotte operaie che rimettano in causa, come avevano cominciato a fare nella metà degli anni 80, gli strumenti più importanti della borghesia nell’ambiente operaio, i sindacati ed il sindacalismo.
24) Questa rimessa in discussione, che si accompagna con la presa nelle proprie mani delle lotte e della loro estensione attraverso le assemblee generali ed i comitati di sciopero eletti e revocabili, passa necessariamente per tutto un processo di confronto con il sabotaggio dei sindacati. E’ un processo che va necessariamente a svilupparsi nel futuro a causa dell’accrescersi della combattività operaia in risposta agli attacchi sempre più brutali che scatenerà il capitalismo. Già oggi la tendenza allo sviluppo della combattività non permette alla borghesia, di fronte alla minaccia di un scavalcamento, di rinnovare le grandi manovre “alla francese” del 1995-96 destinate a ridare credito massiccio ai sindacati. Tuttavia, questi ultimi non hanno ancora avuto l’occasione di smascherarsi completamente anche se, nel corso dell’ultimo periodo, essi hanno cominciato ad impiegare più frequentemente i loro metodi di azione “classici” come la divisione tra settore pubblico e settore privato (manifestazione del 11 dicembre 1996 in Spagna, per esempio) o il rilancio del corporativismo. L’esempio più spettacolare di questa tattica è lo sciopero dichiarato all’annuncio della chiusura della fabbrica della Renault di Vilvorde dove si sono potuti vedere i sindacati dei diversi paesi in cui si trovavano fabbriche di questa ditta promuovere una mobilitazione “europea” delle “Renault”. Ma il fatto che questa ignominiosa manovra dei sindacati sia passata inosservata, che essa abbia loro permesso anche di aumentare un po’ il loro prestigio pur diffondendo la mistificazione di una “Europa sociale”, dà la prova che noi siamo oggi in una situazione cerniera tra quella della ricredibilizzazione dei sindacati e quella in cui essi dovranno venire allo scoperto e perdere sempre più considerazione. Una delle caratteristiche di questo periodo consiste nell’inizio di una messa in avanti dei temi del sindacalismo “di lotta” secondo i quali “la base” sarebbe capace di “spingere” le direzioni sindacali a radicalizzarsi (esempi delle Fonderie di Clabecq o dei minatori nel marzo scorso in Germania) o che possa esistere una “base sindacale” capace di difendere veramente gli interessi operai a dispetto dei tradimenti degli apparati (vedi, in particolare, lo sciopero dei portuali in Gran Bretagna).
25) Così è ancora un lungo cammino che attende la classe operaia sulla via della sua emancipazione, un cammino che la borghesia va sistematicamente a minare con ogni tipo di trappola, come si è visto nel corso dell’ultimo periodo. L’ampiezza delle manovre messe in atto dalla borghesia dimostra che essa è cosciente dei pericoli che cela per essa la situazione attuale del capitalismo mondiale. Se Engels aveva potuto scrivere che la classe operaia porta la sua lotta su tre piani, economico, politico e ideologico, la strategia attuale della borghesia che si sviluppa anche contro le organizzazioni rivoluzionarie (campagna sul preteso “negazionismo” della Sinistra comunista) fornisce la prova che essa lo sa perfettamente. Spetta ai rivoluzionari, non solo far venire allo scoperto e denunciare sistematicamente le trappole sparse dalla classe dominante, e l’insieme dei suoi apparati, in particolare i sindacati, ma anche mettere al primo posto, contro tutte le falsificazioni che si sono sviluppate nel corso dell’ultimo periodo, la vera prospettiva della rivoluzione comunista come scopo ultimo delle lotte attuali del proletariato. Solo se la minoranza comunista gioca pienamente il suo ruolo la classe operaia potrà sviluppare le sue forze e la sua coscienza per raggiungere tale scopo.
Aprile 1997, CCI
Nel n.5 di Revolutionary Perspectives, organo della Communist Workers Organisation (CWO), é apparso un articolo intitolato "Sette, menzogne e la prospettiva perduta della CCI", che vuole essere una risposta all'articolo "Una politica di raggruppamento senza bussola" da noi pubblicato sulla Revue Internationale n.87 e che a sua volta rispondeva ad una lettera della CWO pubblicata sulla stessa Revue. L'articolo della CWO tratta di numerose questioni, ed in particolare del metodo di costruzione delle organizzazioni comuniste, su cui ritorneremo in seguito. Nell'articolo che segue ci limiteremo quindi a trattare un solo aspetto: l'idea della CWO per cui la CCI sarebbe in crisi a causa dei suoi errori di analisi sulla prospettiva storica.
In parecchi testi pubblicati sia nella rivista teorica che nella nostra stampa territoriale (1) abbiamo reso conto della crisi che la nostra organizzazione ha dovuto affrontare nell'ultimo periodo e che si é tradotta, come segnalato dall'articolo della CWO, in un importante numero di dimissioni nella nostra sezione in Francia. La CCI ha identificato le cause delle sue difficoltà organizzative: la persistenza al suo interno del peso dello spirito di circolo, lasciatoci in eredità dalle condizioni storiche che hanno presieduto alla sua costituzione, dopo la più lunga e profonda fase di controrivoluzione conosciuta dal movimento operaio. La persistenza di questo spirito di circolo aveva portato alla formazione di clan all'interno dell'organizzazione, che ne avevano gravemente minato il tessuto organizzativo. Dall'autunno 1993 l'insieme della CCI aveva intrapreso una dura lotta contro queste debolezze ed il suo 11° Congresso, tenuto nella primavera del '95, aveva potuto constatare che esse erano state, per l'essenziale, superate (2).
Da parte sua la CWO avanza una spiegazione differente delle difficoltà organizzative della CCI: " (...) la crisi attuale della CCI... é il risultato... di una demoralizzazione politica. La vera ragione é che le prospettive su cui si basava la CCI sono definitivamente crollate di fronte ad una realtà che la CCI ha tentato per anni di non riconoscere. In effetti, alla crisi attuale si applica molto bene quello che dicevamo a proposito della precedente scissione del 1981: "Le cause della presente crisi sono andate sviluppandosi per anni e possono essere trovate nelle posizioni di base del gruppo. La CCI afferma che la crisi economica ‘é là’ in tutte le sue contraddizioni e che questo é vero da 12 anni. Ritiene inoltre che la coscienza rivoluzionaria sorge direttamente e spontaneamente fra gli operai in lotta contro gli effetti di questa crisi. Non sorprende quindi che, se questa crisi non arriva a provocare il livello di lotta di classe predetto dalla CCI, questo porti a delle scissioni nell'organizzazione." (Workers Voice n.5).
Da allora, le condizioni della classe operaia è peggiorata e questa è stata costretta alla difensiva. Invece di riconoscerlo, la CCI ha proclamato per tutti gli anni 80 che eravamo entrati negli "anni della verità", preludio di confronti di classe ancora più grandi. (...) Le contraddizioni evidenti fra le prospettive della CCI e la realtà capitalista avrebbero portato prima alla crisi attuale, se non fosse intervenuto il crollo dello stalinismo. Questo avvenimento di portata storica é stato sufficiente a mettere da parte il dibattito sul corso storico, nella misura in cui la pausa seguita ad un tale terremoto ha allontanato momentaneamente il corso della borghesia verso la guerra ed ha concesso alla classe operaia un respiro di tempo in più per raggrupparsi prima che gli attacchi del capitale rendano di nuovo necessari dei conflitti sociali di grande portata a livello internazionale. Ugualmente ha permesso alla CCI di sfuggire con qualche contorsione dialettica alle conseguenze della sua prospettive sugli "anni della verità". Per essa il 1968 ha messo fine alla controrivoluzione ed aperto un ciclo in cui la classe operaia potrebbe esercitare il suo ruolo storico. Quasi trent'anni dopo (come a dire, più di una generazione dopo!) cosa ne é stato di questo scontro di classe? Questa é la domanda che abbiamo posto alla CCI nell'81 ed é ancora lì che il dente duole quando la lingua batte.
La CCI lo sa bene, ed é allo scopo di prevenire una nuova ondata di demoralizzazione che si é decisa di ricorrere al vecchio trucco di trovare un capo espiatorio. La CCI si rifiuta di affrontare la crisi attuale in quanto risultato dei suoi errori politici. In alternativa, ha cercato -e non è la prima volta- di rivoltare la realtà e insiste sul fatto che i problemi che incontra sono dovuti ad elementi "parassiti" esterni che la sabotano sul piano organizzativo."
Con tutta evidenza, qualsiasi lettore della nostra stampa ha potuto constatare che la CCI non ha mai attribuito le sue difficoltà organizzative interne all'azione di elementi parassiti. Quindi, o la CWO mente deliberatamente (ed in questo caso le chiediamo a quale scopo) o ha letto molto male quello che abbiamo scritto (ed in questo caso consigliamo ai compagni di comprarsi degli occhiali o far controllare quelli che portano). Quale che sia il caso, questa affermazione mostra una mancanza di serietà che mal si concilia con l'importanza del dibattito politico. Per questo preferiamo non attardarci a questi livelli ed andare invece al fondo dei disaccordi esistenti fra la CCI e la CWO (ed il Bureau International pour le Parti Revolutionnaire, BIPR, di cui la CWO fa parte). In particolare ci occuperemo dell'idea per cui le prospettive sulla lotta di classe difese dalla CCI sarebbero state smentite dagli eventi (3).
Le prospettive della CCI sono fallite?
Per valutare se le nostre prospettive sono o meno fallite, dobbiamo ricordarci di quanto scrivevamo subito prima dell'inizio degli anni 80:
"(...) finché poteva mantenere credibile l'idea che vi fossero vie di uscita alla crisi, (la borghesia) ha inondato gli sfruttati di promesse illusorie: "accettate l'austerità adesso ed andrà meglio domani (...)" Oggi questi discorsi non attaccano più (...) e visto che promettere "domani che cantano" non inganna più nessuno, la borghesia ha cambiato registro. E' tutto il contrario quello che oggi promette, gridando ben chiaro che il peggio é di fronte a noi e che lei non c'entra per niente, che "la colpa é degli altri" e che non ci sono alternative ai sacrifici. Così la borghesia, nel momento in cui perde le sue illusioni, é obbligata a parlare chiaro alla classe operaia sul futuro che le riserva.
(...) Se la borghesia non ha altro da proporre che un avvenire di guerra generalizzata, le lotte che oggi si sviluppano dimostrano che il proletariato non ha nessuna intenzione di lasciarle le mani libere e che LUI ha un altro avvenire da proporre, un avvenire senza guerra e senza sfruttamento: il comunismo. Nel decennio che sta per aprirsi é dunque questa l'alternativa che sarà decisa: o la classe operaia continua nella sua offensiva, continua a paralizzare il braccio assassino del capitalismo agonizzante e raccoglie le sue forze per la sua distruzione, o si lascia ingannare, indebolire, demoralizzare dalla sua demagogia e dalla sua repressione ed in questo caso la via sarebbe aperta per un nuovo olocausto che rischia di annientare l'umanità stessa. Se gli anni 70 furono, sia per la borghesia che per il proletariato, gli anni delle illusioni, gli anni 80 saranno gli anni della verità, perchè la realtà della società attuale apparirà in tutta la sua crudezza e perchè vi si deciderà in buona parte il destino dell'umanità." (4).
Come dice la CWO, noi abbiamo mantenuto quest'analisi per tutti gli anni 80, e ciascuno dei Congressi Internazionali tenuti in quegli anni é stato un'occasione per riaffermarne la validità
"All'inizio degli anni 80 abbiamo analizzato il decennio che cominciava come "gli anni della verità" (...) Dopo tre anni questa analisi si trova ad essere pienamente confermata: mai, dagli anni 30, il vicolo cieco in cui si trova l'economia capitalista si era mostrato con tanta evidenza; mai, dall'ultima guerra mondiale, la borghesia aveva schierato simili arsenali militari, aveva mobilitato simili risorse per la produzione di strumenti di morte; mai, dagli anni 20, il proletariato aveva condotto lotte paragonabili per ampiezza a quelle che hanno scosso la Polonia e l'insieme della classe dominante nel 1980-81 (...)." ( 5).
Cionostante in quello stesso Congresso sottolineavamo il fatto che il proletariato mondiale aveva subito una disfatta molto grave, concretizzatasi con l'instaurazione dello stato di assedio in Polonia:
"Mentre gli anni 1978-80 erano stati marcati da una ripresa mondiale delle lotte operaie (sciopero dei minatori americani, dei portuali di Rotterdam, degli operai della siderurgia in Gran Bretagna, degli operai della metallurgia in Germania ed in Brasile, scontri di Longwy-Denain in Francia, sciopero di massa in Polonia), gli anni 1981 ed 82 hanno visto un riflusso marcato delle lotte. Questo fenomeno é apparso in modo particolarmente chiaro nel paese culla del capitalismo, la Gran Bretagna, dove le ore sciopero sono scese nel 1981 al livello più basso dalla seconda guerra mondiale, mentre nel 1979 erano arrivate al livello più alto mai raggiunto nella storia, con 29 milioni di giornate lavorative perse. Dunque, l'instaurazione dello stato di assedio in Polonia e la violenta repressione abbattutasi sugli operai di quel paese non arrivavano come un fulmine a ciel sereno. Il colpo di stato del dicembre 1983, punto focale della disfatta operaia dopo le grandi lotte del dicembre 1980, era parte di una generale sconfitta dell'insieme del proletariato (...). Quale che sia la gravità della sconfitta subita dalla classe in questi anni, essa non rimette in discussione il corso storico, nella misura in cui:
-non sono i battaglioni decisivi del proletariato che si sono trovati nella prima linea dello scontro;
-la crisi che sta cominciando a colpire frontalmente le metropoli del capitalismo obbligherà il proletariato di queste metropoli ad esprimere le sue riserve di combattività che non sono state finora messe decisamente in campo."
Sono bastati tre mesi perchè questa previsione si avverasse. A partire da settembre 1983 in Belgio e subito dopo in Olanda i lavoratori del settore pubblico entravano massicciamente in lotta (6). Questi movimenti non erano esplosioni isolate. In qualche mese gli scioperi si erano estesi alla maggior parte dei paesi avanzati: Germania, Gran Bretagna, Francia, Stati-Uniti, Svezia, Spagna, Italia, Giappone (7). Raramente si era vista una tale simultaneità internazionale negli scontri di classe, mentre la borghesia dei vari paesi organizzava un black-out pressocché totale su questi movimenti. Ovviamente la borghesia non si é limitata al silenzio, ma ha organizzato tutta una serie di campagne e manovre, principalmente da parte dei sindacati, destinate a scoraggiare i lavoratori, a sparpagliare le loro lotte, a bloccarle nei vicoli ciechi settoriali e corporativi. Questo ha portato nel corso del 1985 ad un certo riflusso nei principali paesi europei, in particolare in quelli che avevano visto le lotte più importanti. Allo stesso tempo queste manovre hanno ulteriormente esposto al discredito i sindacati, costituendo un fattore importante nella presa di coscienza del proletariato, dato che i sindacati sono i suoi nemici più pericolosi, quelli che hanno il compito di sabotare dall'interno le sue lotte.
"E' per queso insieme di ragioni che l'attuale sviluppo della sfiducia nei confronti dei sindacati costituisce un dato essenziale del rapporto di forze tra le classi e dunque di tutta la situazione storica. Ciononostante, questa sfiducia é essa stessa responsabile, nell'immediato, della riduzione del numero delle lotte nei vari paesi ed in particolare in quelli in cui il discredito dei sindacati é particolarmente forte (come in Francia, in seguito all'arrivo non previsto della sinistra al potere nel 1981). Quando per decenni gli operai hanno avuto l'illusione che le lotte si potessero fare solo all'interno dei sindacati e con il loro appoggio, la sfiducia in questi organi si associa nell'immediato ad una perdita di fiducia nella propria forza e li spinge ad opporre la passività a tutti i cosidetti "appelli alla lotta" dei sindacati" (8). Le lotte estremamente importanti che si sarebbero presto sviluppate in due paesi dove la combattività era stata molto bassa nel 1985, la Francia (in particolare lo sciopero dei ferrovieri nel dicembre1986) e l'Italia nel 1987 (in particolare nel settore della scuola, ma anche nei trasporti) dimostravano che l'ondata di lotte nata in Belgio nel 1983 non si era ancora esaurita. Ad ulteriore conferma di questa realtà giungeva, proprio in questo paese, un movimento di scioperi durato sei settimane (aprile-maggio 1986), il più importante dal dopoguerra ad oggi, che, coinvolgendo il settore pubblico, quello privato, ed i disoccupati, arrivava a paralizzare la vita economica del paese, costringendo il governo a rimangiarsi una serie di attacchi già preparati. Nel corso dello stesso periodo (1986-87) si sono sviluppati movimenti importanti nei paesi scandinavi (Finlandia e Norvegia agli inizi dell'86, Svezia in autunno), negli Stati Uniti (estate 86), in Brasile (un milione e mezzo di scioperanti nell'ottobre 86, lotte massiccie nell'aprile-maggio 87), in Grecia (due milioni di scioperanti nel gennaio 87), in Jugoslavia (primavera 87), in Spagna (primavera 87), In Messico, in Africa del Sud, etc. Va ancora ricordato lo sciopero spontaneo, al di fuori dei sindacati, dei 140.000 lavoratori della British Telecom alla fine del gennaio 87.
Ovviamente la borghesia non è stata con le mani in mano, ma cercava di stornare l'attenzione dei lavoratori con gigantesche campagne ideologiche sul "terrorismo islamico", sulla "pace" tra le grandi potenze (firma degli accordi di riduzione degli armamenti nucleari), sull'aspirazione dei popoli alla "libertà" ed alla "democrazia" (riflettori puntati sulla perestroika di Gorbaciov), sull’ecologia, sugli interventi “umanitari” nel terzo mondo, etc. (9). In particolare si cercava di controbilanciare il discredito crescente dei sindacati "classici", mettendo avanti nuove forme di sindacalismo (di "lotta", di "base", etc.). Uno degli aspetti più significativi di queste manovre (spesso animate dai gruppi extraparlamentari, ma a volte anche dai sindacalisti, e dai partiti tradizionali della sinistra, stalinisti e socialdemocratici) è stata la costituzione dei "Coordinamenti" nei due paesi in cui il discredito sindacale era più marcato, l'Italia (in particolare fra i macchinisti delle
ferrovie) e la Francia (in primo luogo nell'importante sciopero degli ospedali nell'autunno 1988) (10). Una delle funzioni di queste organizzazioni, che si presentavano come "emanazione della base" e "contro i sindacati" era di introdurre il veleno corporativo nelle file proletarie, sostenendo che i sindacati non difendevano gli interessi operai perché erano organizzati per aree geografiche, anziché "alla base" per mestieri.
Queste manovre hanno avuto un certo impatto che all'epoca non abbiamo mancato di riconoscere: "Questa capacità di manovra della borghesia è per il momento riuscita a bloccare il processo di estensione ed unificazione di cui l'attuale ondata di lotte è portatrice." (11) Fra le altre difficoltà della classe sottolineavamo: "il peso della decomposizione ideologica circostante, su cui si appoggiano e si appoggeranno sempre di più le manovre borghesi miranti a rafforzare l'atomizzazione, il "ciascuno per se" ed a erodere alla base la crescente fiducia della classe operaia nella propria forza e nell'avvenire insito nelle sue lotte." (ibidem). Mettevamo tuttavia in guardia che se "il fenomeno della decomposizione ha oggi e per tutto un periodo a venire un peso considerevole" e se "costituisce un pericolo reale con cui la classe deve fare i conti (...) questa constatazione non deve costituire in nessun modo un elemento di demoralizzazione o di scetticismo" poiché "per tutti gli anni 80 é stato malgrado il peso della decomposizione, sfruttato sistematicamente dalla borghesia, che il proletariato è stato capace di sviluppare le sue lotte di fronte alle conseguenze dell'aggravarsi della crisi..." (12).
Questa è l'analisi che noi facevamo qualche mese prima di uno degli avvenimenti più importanti del dopoguerra, il crollo dell'URSS e degli altri regimi stalinisti europei.
La CCI non aveva previsto quest'avvenimento (così come non l'avevano previsto le altre organizzazioni proletarie, per non parlare degli "esperti" borghesi), ma è stata fra i primi, nel settembre 89, due mesi prima del crollo del muro di Berlino, a comprendere di cosa si trattava (13). Da quel momento in poi abbiamo definito il crollo del blocco dell'Est come l'episodio finora più significativo della decomposizione del capitalismo. E ne abbiamo tratto la immediata conclusione che quest'avvenimento avrebbe provocato "un aumento delle difficoltà per il proletariato" (14). Così, coerentemente con le nostre precedenti analisi, scrivevamo:
"L'identificazione sistematicamente ribadita tra comunismo e stalinismo, le menzogne ripetute mille volte, ed oggi ancora più martellanti, sul fatto che la rivoluzione proletaria non può che portare alla catastrofe, avranno per tutto un periodo maggiori possibilità di penetrare fra le file operaie, grazie al crollo dello stalinismo. Dobbiamo dunque aspettarci (...) un passo indietro temporaneo della coscienza proletaria. In particolare, l'ideologia riformista peserà con forza sulle prossime lotte, favorendo notevolmente l'azione dei sindacati. Tenuto conto dell'importanza dei fenomeni storici che l'hanno determinato, l'attuale passo indietro del proletariato, pur non rimettendo in causa il corso storico, la prospettiva generale allo scontro di classe, si annuncia ben più grave di quello seguito alla sconfitta operaia nel 1981 in Polonia." (15).
E' dunque con non poca leggerezza che la CWO afferma che il crollo dello stalinismo "ha permesso alla CCI di sfuggire con delle contorsioni alle conseguenze della sua prospettiva sugli 'anni della verità' ". Non è stato per “parare il colpo” e mascherare il fallimento delle nostre prospettive sullo sviluppo delle lotte durante gli anni 80 che abbiamo annunciato che gli avvenimenti dell'89 avrebbero causato un arretramento della classe proletaria. Come abbiamo dimostrato nei paragrafi precedenti questa tesi non è apparsa improvvisamente, come un coniglio estratto a sorpresa da un cappello, ma è in completa coerenza con il nostro quadro di analisi. Se gli anni 80 si sono chiusi con un avvenimento che ha prodotto un arretramento molto pesante per la classe operaia, questo non significava affatto che l'analisi storica della CCI era fallimentare, come sostiene la CWO.
In primo luogo, per fare una simile affermazione non ci si può basare sul presentarsi di avvenimenti storicamente originali, che nessuno era stato in grado di prevedere (anche se il marxismo, una volta verificatisi, è perfettamente in grado di spiegarli). D'altra parte, i rivoluzionari dell'800 avevano forse previsto uno degli avvenimenti chiave del secolo, la Comune di Parigi? Lenin, quando diceva ai giovani operai svizzeri: "Noi, i vecchi, forse non vedremo le lotte decisive della rivoluzione imminente" ("Rapporto sulla rivoluzione del 1905", gennaio 1917), aveva forse previsto quello che sarebbe accaduto qualche settimana più tardi, la rivoluzione di Febbraio 1917 in Russia, preludio all'Ottobre rosso? In ogni caso, quello che i marxisti debbono saper fare è di reagire rapidamente di fronte agli avvenimenti imprevisti e di saperne tirare le conseguenze e le lezioni. E' quello che Marx aveva fatto con la Comune prima ancora che fosse schiacciata dalla repressione ("La guerra civile in Francia"). E' quello che Lenin è stato capace di fare all'annuncio della rivoluzione di Febbraio ("Lettere da lontano" e "Tesi di Aprile"). Per quanto ci riguarda, abbiamo messo in evidenza fin dall'estate dell'89 il terremoto che gli eventi dell'Est avrebbero provocato, tanto dal punto di vista dei rapporti interimperialisti che dello sviluppo della lotta di classe.
Precisato questo, dobbiamo ancora chiarire che questo terremoto non ha rimesso in causa la nostra analisi di fine 1979: "Gli anni 80 ,(...) poiché vi si deciderà per buona parte il futuro dell'umanità, saranno gli anni della verità." In effetti, è stato proprio in questo periodo che si è decisa una parte della prospettiva storica. All'inizio degli anni 80, la borghesia, in particolare quella occidentale, mentre sviluppava in modo massiccio i suoi armamenti, aveva lanciato tutta una serie di campagne miranti a sottomettere la classe operaia allo staffile del capitale, per poterla inquadrare in vista di una nuova guerra mondiale. Per fare ciò, ha tentato di utilizzare la disfatta degli operai polacchi nel 1981, che aveva il doppio pregio di disorientare gli operai e permettere un'accresciuta campagna propagandistica contro "l'impero del male" (Reagan dixit). L'ondata di lotte cominciata nel 1983 ha fatto fallire questo obiettivo, dimostrando che la classe operaia dei paesi centrali non era pronta a lasciarsi inquadrare per il massacro, non più di quanto lo fosse negli anni 70.
Inoltre, il fatto che la borghesia non sia riuscita ad imporre la sua soluzione alla crisi, la guerra imperialista, mentre il proletariato non era ancora pronto a proporre la sua prospettiva rivoluzionaria, ha fatto sprofondare la società capitalista nella sua fase di decomposizione (16), una delle cui principali manifestazioni è stato per l'appunto il crollo dei regimi stalinisti che ha reso momentaneamente impossibile una nuova guerra mondiale. Infine, gli anni 80, con il crollo del blocco dell'Est e tutte le sue conseguenze, si sono conclusi -in modo imprevisto- con la messa a nudo della verità del capitalismo decadente: un caos indescrivibile, una barbarie senza nome che non fa che aggravarsi ogni giorno che passa.
La cecità della C.W.O. e del B.I.P.R.
Come abbiamo potuto vedere, la tesi della CWO sul "fallimento delle prospettive della CCI" non resiste alla prova dei fatti e delle nostre stesse analisi. In effetti, se c'è stata un'organizzazione completamente cieca rispetto a quello che succedeva negli anni 80, non è stata la CCI, ma la CWO (ed il BIPR). Un'organizzazione capace di de-scrivere le lotte di classe di quel periodo in questi termini:
"... a partire dal 1976, la classe dominante, utilizzando principalmente sindacati e socialdemocrazia, è stata nuova-mente capace di restaurare di nuovo la pace sociale. Si è trattato di una pace sociale punteggiata di grandi lotte ope--raie (Polonia 1980-81, portuali belgi nel 1983 e lo sciopero dei minatori britannici nell'84-85). Cionostante, non ci sono state ondate internazionali di scioperi, come nel 1968-74, e questi movimenti si sono chiusi con un arretramento ancora più accentuato di fronte agli attacchi del capitale." (17).
Si rimane stupefatti davanti a simili affermazioni. Tanto per fare un esempio, di tutte le lotte dell'83 in Belgio, la CWO non menziona che quella dei portuali, passando sotto silenzio l'intero settore pubblico. Le lotte della primavera 1986 in questo stesso paese, ancora più importanti (un milione di operai mobilitati per più di un mese in un paese che conta meno di dieci milioni di abitanti) per la CWO non sono proprio esistite. Si potrebbe pensare che questa apparente cecità della CWO derivi dal fatto che, al pari della sua organizzazione sorella, Battaglia Comunista, non è presente in Belgio ed è stata dunque, assieme alla maggioranza del proletariato mondiale, vittima del black-out internazionale organizzato dalla borghesia per nascondere le lotte che vi si sono svolte. Ma, se la scusa è questa, è una scusa fino ad un certo punto: una organizzazione rivoluzionaria non può accontentarsi, per analizzare la situazione della lotta di classe, delle informazioni lasciate filtrare sui giornali borghesi dei paesi dove è presente. Laddove possibile, può utilizzare quello che viene riportato dalla stampa di altre organizzazioni rivoluzionarie, nel caso particolare, la nostra stampa, che ha ampiamente riferito questi avvenimenti. Ma è proprio qui che risiede il problema: non è la CCI che deve fare i conti con "le contraddizioni evidenti fra le sue prospettive e la realtà capitalista", non è la CCI che "ha tentato per anni di ignorare la realtà" per non riconoscere i propri sbagli, ma piuttosto la stessa CWO. La migliore prova di quanto affermiamo sta nel fatto che anche quando parla delle "grandi lotte operaie" che "hanno punteggiato la pace sociale" nel paese dove essa stessa è presente, la Gran Bretagna, la CWO non parla che della lotta dei minatori del 1984-85, passando completamente sotto silenzio le formidabili mobilitazioni del 1979, le più importanti in quel paese da mezzo secolo a questa parte. Analogamente, non parla proprio della lotta estremamente significativa sviluppatasi per tutto l'87 nel settore della scuola in Italia, nonostante la sua organizzazione sorella, Battaglia Comunista, vi avesse partecipato attivamente.
Come si spiega la cecità della CWO, la sua incapacità a vedere, o piuttosto la sua capacità di cercare di non vedere la realtà? E' la stessa CWO a rispondere (attribuendo questo atteggiamento alla CCI): perché questa realtà ha smentito le sue prospettive. In particolare la CWO, e tutto il BIPR, non ha mai compreso la questione del corso storico.
Il BIPR ed il corso storico
La CCI, e la Revue Internationale hanno già dedicato una serie di articoli di dibattito con il BIPR sulla questione del corso storico (18). Non è qui possibile riprendere tutti gli argomenti che abbiamo utilizzato per criticare l'assenza di metodo con cui il BIPR affronta la caratterizzazione della fase storica in cui situare le lotte operaie del nostro tempo. In poche parole possiamo dire che il BIPR rigetta la nozione stessa di corso storico così come è stata elaborata in particolare negli anni '30 dalla Frazione di Sinistra del Partito Comunista d'Italia. E' perché aveva compreso che il corso alla guerra ed il corso allo scontro di classe non sono paralleli, ma si escludono a vicenda, che la Frazione è stata capace di prevedere, in periodo di profonda controrivoluzione, l'ineluttabilità della 2° guerra mondiale, nel momento in cui il capitalismo conosceva un'altra crisi aperta, dopo quella del '29.
Per il BIPR: "il ciclo di accumulazione cominciato dopo la seconda guerra mondiale si avvicina alla sua conclusione. Il boom del dopoguerra ha da molto tempo lasciato il posto ad una generale crisi economica. La questione della guerra imperialista o della rivoluzione proletaria è nuovamente posta all'ordine del giorno della storia." (Piattaforma del BIPR del 1994) Allo stesso tempo, si riconosce oggi (ma non in quegli anni) che c'è stata una "risposta operaia, massiccia ed a scala internazionale, agli attacchi della crisi capitalista, alla fine degli anni '60 ed all'inizio degli anni '70" ("Prospettive della CWO", Revolutionary Perspectives n.5). Cionostante, il BIPR si è sempre rifiutato di ammettere che se il capitalismo non si è buttato in una nuova guerra mondiale a partire dalla fine degli anni '60, questo è stato essenzialmente perché la risposta della classe operaia ha dimostrato che non era pronta, contrariamente agli anni '30, a lasciarsi intruppare per un nuovo massacro. Così, per rispondere alla domanda: "perché la guerra non è ancora scoppiata", mentre "a livello obbiettivo sono presenti tutte le condizioni necessarie per l'esplosione di una nuova guerra generalizzata", la rivista teorica di Battaglia Comunista, Prometeo n.11 (dicembre 1987), comincia con l'affermare che "è chiaro che nessuna guerra potrà mai essere combattuta senza la disponibilità (al combattimento ed alla produzione di guerra) del proletariato e di tutte le classi lavoratrici. E' evidente che, senza un proletariato irregimentato, nessuna guerra sarebbe possibile. E' altrettanto evidente che un proletariato in piena fase di ripresa della lotta di classe sarebbe la dimostrazione del nascere di una controtendenza precisa, quella della marcia verso la rivoluzione socialista." E' esattamente in questo modo che anche la CCI pone il problema, ma è proprio questo metodo che è criticato in un altro articolo pubblicato in Battaglia Comunista n.83 (marzo 1987), ripreso poi in inglese nel n.5 dell'organo del BIPR, Communist Review, ed intitolato "La CCI ed il corso storico: un metodo erroneo". In questo articolo si può leggere, tra le altre cose, "la forma della guerra, i suoi mezzi tecnici, il suo ritmo, le sue caratteristiche rispetto all'insieme della popolazione, sono molto cambiate rispetto al 1939. In particolare, la guerra di oggi richiede meno il consenso o la passività della classe operaia di quanto non lo richiedessero le guerre di ieri (......) ci si può impegnare in azioni di guerra senza l'accordo del proletariato". A questo punto, comprenda chi può. O piuttosto si capisce che il BIPR non capisce bene di cosa sta parlando. Quello che è sicuro è che la coerenza non è la sua principale preoccupazione.
Una conferma ulteriore di questi zig-zag sta nell'atteggiamento tenuto dal BIPR di fronte alla crisi che avrebbe portato alla guerra del Golfo, agli inizi del 1991. Nella versione inglese di un appello adottato dal BIPR in quell'occasione (la versione inglese, perché quella italiana è differente!) si poteva leggere: "Dobbiamo combattere tutti i piani ed i preparativi di guerra (del nostro Stato)... Tutti i tentativi di inviare nuove forze devono essere ostacolati, per esempio con scioperi nei porti e negli aereoporti... chiamiamo gli operai inglesi dell'industria petrolifera del mare del Nord a sviluppare la loro lotta ed a impedire ai padroni di incrementare la produzione. Questo sciopero deve essere esteso per includere tutti gli operai del petrolio e tutti gli altri lavoratori." (Workers Voice n.53) Se è vero che "ci si può impegnare in azioni di guerra senza l'accordo del proletariato", questi appelli che senso hanno? La CWO vuol essere tanto cortese da spiegarcelo?
Per ritornare all'articolo di Prometeo n.11, quello che comincia con il porre la questione negli stessi termini della CCI, possiamo leggervi: "La tendenza alla guerra avanza a passo rapido ma il livello della lotta di classe, invece, è assolutamente al disotto di quello che sarebbe necessario per respingere i pesanti attacchi lanciati contro il proletariato internazionale ". Dunque per il BIPR non è il livello attuale della lotta di classe quello che permette di rispondere alla sua stessa domanda: "perché la guerra non è ancora scoppiata?".
Le risposte che esso avanza sono sostanzialmente due:
-le alleanze militari non si sono ancora sufficientemente costituite e stabilizzate;
-gli armamenti atomici costituiscono un fattore di dissuasione per la borghesia a causa della minaccia che essi rappresentano per la sopravvivenza stessa dell'umanità." (19).
Nella Revue Internationale n. 54 abbiamo lungamente risposto a questi "argomenti". Ci contenteremo qui di ricordare che il secondo argomento costituisce una concessione, inaudita per dei marxisti, alle campagne della borghesia sul tema dell'armamento atomico come garante della pace mondiale. Quanto al primo argomento, è stato refutato dal BIPR stesso, quando scriveva, al momento dell'esplosione della guerra del Golfo: "la terza guerra mondiale è cominciata il 17 gennaio " (Battaglia Comunista del gennaio '91), e questo nel momento stesso in cui si sfasciavano le alleanze che avevano dominato il pianeta per mezzo secolo. Bisogna peraltro segnalare che il BIPR ha successivamente lasciato cadere questa analisi dell'imminenza della guerra. Per esempio, le prospettive della CWO ci dicono oggi che "una guerra su grande scala tra le potenze imperialiste dominanti è stata rinviata nel tempo". Il problema è che il BIPR ha la pessima abitudine di allineare una a fianco all'altra analisi contraddittorie. E' vero che così facendo si mette al sicuro da critiche come quella che fa alla CCI, di aver mantenuto la stessa analisi per tutti gli anni '80. Ma che questo sia un segno di superiorità del metodo o delle prospettive del BIPR è ancora tutto da dimostrare.
La CWO ci accuserà probabilmente di nuovo di ricorrere alle menzogne, come ha già fatto abbondantemente nell'articolo a cui rispondiamo. E forse si rifugerà sotto il grande ombrello della "dialettica" per affermare che tutto quello che essa (o il BIPR) dice, non è assolutamente contraddittorio. Con il BIPR, la "dialettica" ha un significato molto largo: nel metodo marxista, per contro, "dialettica" non ha mai significato che si può affermare una cosa ed il suo esatto contrario.
"Falsificazioni!", già ci pare di sentire le grida dei compagni della CWO. Diamo allora un'altro esempio, non su una questione secondaria ed occasionale (su cui le contraddizioni sono più facilmente scusabili) ma su una questione essenziale: la controrivoluzione abbattutasi sulla classe operaia in seguito alla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra, è finita si o no?
Si potrebbe supporre che il BIPR, se non è capace di dare una risposta chiara e coerente sulla questione del corso storico -visto che la comprensione di questo argomento sembra essere al di là delle sue forze (20)- sia almeno in grado di rispondere a questa semplice domanda. Ma la risposta non la troviamo né nella Piattaforma del BIPR del 1994, né nelle "Prospettive" della CWO del dicembre 1996, dove pure sarebbe essenziale trovarla. Ciò detto, delle risposte possono essere trovate in altri testi:
-nell'articolo di Revolutionary Perspectives n.5 citato prima, la CWO sembra affermare che la controrivoluzione non è ancora terminata, dato che rigetta l'idea della CCI per cui "Maggio '68 ha messo fine alla controrivoluzione";
-questa affermazione sembra essere in continuità con le tesi adottate dal 5° Congresso di Battaglia Comunista del 1982 (vedi Prometeo n.7), anche se le cose non sono dette con la stessa chiarezza: "se oggi il proletariato, confrontato alla gravità della crisi e sotto la pressione dei ripetuti attacchi borghesi, non ha ancora mostrato la capacità di reagire, questo significa semplicemente che il lungo lavoro della controrivoluzione mondiale è ancora attiva nelle coscienze operaie”
Se ci limita a questi due testi potrebbe sembrare che esista una certa costanza nella posizione del BIPR: il proletariato non è ancora uscito dalla controrivoluzione. Il problema è che nel 1987 si poteva leggere in "La CCI ed i corso storico: un metodo sbagliato" (Communist Review n.5): "il periodo controrivoluzionario seguito alla sconfitta della rivoluzione di Ottobre è finito" e "non mancano i segni di una ripresa della lotta di classe e noi non manchiamo di segnalarli."
Così, anche su una questione così semplice, non esiste una posizione del BIPR, ma diverse posizioni. Cercando di riassumere quello che esce dai differenti testi pubblicati dalle organizzazioni che costituiscono il BIPR, potremmo esprimere in questi termini la sua analisi:
-"I movimenti che si sono sviluppati nel 68 in Francia, nel 69 in Italia e poi in molti altri paesi, sono essenzialmente delle rivolte piccolo-borghesi" (posizione di Battaglia a quell'epoca), pur costituendo "una risposta operaia massiccia a scala internazionale agli attacchi della crisi capitalista" (CWO nel dicembre 1996);
-"Il lungo lavoro della controrivoluzione è ancora all'opera nelle coscienze operaie" (BC nel 1982), tuttavia "il periodo controrivoluzionario seguito alla sconfitta della rivoluzione di Ottobre è finito" (BC nel 1987), il che non impedisce che il periodo attuale sia senza dubbio "una continuazione del dominio capitalista che ha regnato, solo con sporadiche contestazioni, dalla fine dell’ondata rivoluzionaria seguita alla prima guerra mondiale" (la CWO, in una lettera inviata nel 1988 al CBG e pubblicata nel n.13 del suo Bulletin);
-"a partire dal 1976 (e fino ad oggi, ndr) la classe dominante ... è stata capace di restaurare un'altra volta la pace sociale" (la CWO, dicembre 1996), anche se "queste lotte (il movimento dei Cobas nel 1987 nel settore scuola in Italia e gli scioperi in Gran Bretagna dello stesso anno, ndr) confermano l’inizio di un periodo caratterizzato dall'accentuazione dei conflitti di classe." (BC n.3, marzo 1988).
Uno sarebbe portato a pensare che queste diverse prese di posizione contraddittorie corrispondano a delle divergenze esistenti tra la CWO e BC. Ma, se c'è una cosa che assolutamente non bisogna dire, è proprio questa, perché si tratta di una “calunnia” della CCI, che è invitata a "farla finita" con questa storia ("Sette, menzogne e la prospettiva perduta della CCI", nota 1). Dato che non esistono disaccordi tra le due organizzazioni, bisogna allora concludere che è nella testa di ogni singolo militante del BIPR che coabitano queste posizioni contraddittorie. A noi sembra un pochino strano, ma la CWO è così gentile da confermarcelo.
Cercando di essere seri, questo intrico di contraddizioni non spinge a riflettere i militanti del BIPR? Si tratta di compagni che hanno dimostrato di essere capaci di analisi coerenti. Come è possibile che quando tentano di sviluppare la loro analisi sul periodo attuale si ritrovano con un tale minestrone? Non è forse l'inadeguatezza del quadro di analisi prescelto a costringerli a prendersi delle libertà con il rigore marxista, in nome della "dialettica", fino a scivolare nell'empirismo e nell'immediatismo, come abbiamo messo in evidenza in altri articoli?
Esiste in effetti una causa supplementare alle difficoltà che il BIPR incontra nel situare in modo chiaro e coerente lo stato attuale della lotta di classe: un'analisi confusa della questione sindacale, che non gli ha permesso di comprendere, tanto per fare un esempio, tutta l'importanza del processo di crescente discredito sindacale nel corso degli anni '80. Su questo aspetto torneremo in un prossimo articolo.
Per il momento, ci limitiamo a rispondere alla CWO: non è a causa delle sue analisi sul periodo storico attuale e sul livello della lotta di classe che la CCI ha conosciuto la crisi di cui abbiamo parlato nella nostra stampa. Per una organizzazione rivoluzionaria possono esistere, contraria-mente a quanto pensa la CWO, che fa sempre la stessa diagnosi dal 1981, altri fattori di crisi, in particolare quelli legati alle questioni organizzative. E' ciò che ci insegna, fra tanti altri esempi, la crisi del Partito Operaio Social-democratico Russo in seguito al 2° Congresso del 1903. Ciononostante, ci permettiamo di mettere fraternamente in guardia la CWO (ed il BIPR): se un'analisi erronea della situazione storica costituisce per essa la sola, o anche la principale causa di crisi organizzativa (può darsi che questo sia il caso nella sua esperienza), allora è il caso che stia molto attenta, perché con la montagna di incoerenze che infesta la sua analisi corre di sicuro un pericolo non lieve.
Non è certamente questo quello che ci auguriamo. Il nostro augurio più sincero è che la CWO ed il BIPR rompano una volta e per sempre con il loro empirismo ed il loro immediatismo e facciano proprie le migliori tradizioni della Sinistra Comunista e del marxismo.
Fabienne
1. Vedi in particolare il nostro articolo sull'11 Congresso della CCI su Rivista Internazionale n. 19
2. Ibidem
3. Va comunque ricordato alla CWO che, volendo affrontare la questione delle nostre difficoltà, sarebbe preferibile cominciare da un'analisi seria della spiegazione avanzata dalla nostra organizzazione piuttosto che dai propri postulati. L'analisi della CCI sulla propria crisi organizzativa è stata pubblicata sulla sua stampa e se la CWO pensa di saperne più di noi su questa crisi deve almeno dimostrare (sempre che le sia possibile) in cosa quest'analisi sia falsa o inadeguata.
4. Révue Internationale n.20, "Anni 80, anni della verità", dicembre 1979.
5. 5° Congresso della CCI, 1983, Révue Internationale n.35
6. Vedi a questo proposito il nostro articolo "Belgio-Olanda, crisi e lotta di classe", Révue Internationale n.38.
7. Per un ricapitolo delle caratteristiche e dell'ampiezza di queste lotte, vedi "Simultaneità degli scioperi operai: quali prospettive?", Révue Internationale n.38.
8. "Risoluzione sulla situazione internazionale" adottata dal 6° Congreso della CCI, Révue Internationale n.44.
9. Vedi a questo proposito il nostro articolo "Le manovre borghesi contro l'unificazione della lotta di classe", Révue Internationale n.58.
10. Vedi in merito il nostro articolo "Francia, i "coordinamenti" all'avanguardia del sabotaggio delle lotte", Révue Internationale n.56.
11. "Risoluzione sulla situazione internazionale" dell'8° Congresso della CCI, Révue Internationale n.59.
12. "Presentazione della risoluzione sulla situazione internazionale", Révue Internationale n.59.
13. Vedi le "tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est", nella Rivista Internazionale n.13.
14. Titolo di un articolo del novembre 1989 nella Révue Internationale n.60.
15. "Tesi", punto 22. Nonostante noi avessimo annunciato già nel novembre 1989 il riflusso che si sarebbe manife-stato nella coscienza di classe, riflusso che è stato am-piamente confermato dagli eventi e che noi abbiamo rego-larmente sottolineato nella nostra stampa, la CWO si per-mette di scrivere, nella risposta ad un lettore, "La CCI conti-nua a credere, contro ogni evidenza, che questo sia un periodo di alta coscienza di classe. Tutto quello che i rivolu-zionari debbono fare è smascherare i sindacati agli occhi degli operai e la via alla rivoluzione sarà aperta." Quando si falsifica la posizione dell'avversario o se ne fa una carica-tura, è ovviamente più facile confutarla, ma tutto questo non fa avanzare di un millimetro il dibattito.
16. Per una presentazione organica della nostra analisi della decomposizione, vedi "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo", Rivista Internazionale n. 14.
17. "Prospettive Generali della CWO" adottate dalla riunione generale di questa organizzazione nel dicembre 1996, Revolutionary Perspectives n.5.
18. Revue Internationale nn.36, 41, 50, 54, 55, 59, 72.
19. Per chiarire il concetto Battaglia arriva a scrivere: "La battuta 'la guerra sarà dichiarata il giorno dopo la firma dell'accordo sul non impiego delle armi nucleari' è ormai un classico fra di noi, ed ha tutto il sapore della verità" (BC n.4, aprile 1986). Come se la borghesia fosse una classe dedita al "fair play" e soprattutto rispettosa dei pezzi di carta che firma!
20. Sembra proprio questa la constatazione fatta nell'articolo "La CCI ed il corso storico: un metodo sbaglia-to", dove si rigetta ogni possibilità di definire il corso storico: "Per quello che riguarda il problema postoci dalla CCI, di improvvisarci profeti infallibili del futuro, la difficoltà è che la soggetività non segue meccanicamente i movimenti ogget-tivi.... Nessuno può pensare che la maturazione della coscienza.... possa essere determinata in modo rigido a partire da dati osservabili e messi in una relazione razio-nale." Ovviamente, noi non pretendiamo che i rivoluzionari siano "profeti infallibili del futuro " o che "determinino la co-scienza in maniera rigida". Ci basta, molto banalmente, che rispondano alla seguente domanda: "le lotte che si sono sviluppate dopo il 1968 erano o no un segno del fatto che il proletariato non era pronto a farsi arruolare in un nuovo massacro mondiale?" Alterando la formulazione della nostra domanda, il BIPR dimostra o di non averla com-presa o di essere incapace di rispondervi.
Nella costante lotta che conducono contro il marxismo, i professori borghesi hanno come argomento favorito l’idea che esso sarebbe una pseudo-scienza, dello stesso tipo della frenologia o altre ciarlatanerie del genere. L’esposizione più elaborata di questa tesi si trova nel libro di Karl Popper, The Open Society and its ennemies (La società liberale e i suoi nemici), che è una giustificazione classica del liberalismo e... della guerra fredda. Secondo Popper il marxismo non è una scienza della società dato che non si possono nè verificare nè confutare le sue affermazioni attraverso l’esperienza pratica, condizione indispensabile per ogni vera investigazione scientifica.
Il marxismo, comunque, non ha la pretesa di essere una “scienza” dello stesso tipo delle scienze naturali. Esso riconosce che i rapporti sociali umani non possono essere sottomessi a un esame preciso e controllato come avviene per i processi fisici, chimici e biologici. Quello che esso afferma è che in quanto visione mondiale di una classe sfruttata che non ha nessun interesse nè a nascondere nè a travestire la realtà sociale, esso è il solo capacce di applicare il metodo scientifico allo studio della società e della evoluzione storica. E’ chiaro che non si può esaminare la storia nelle condizioni ideali di un laboratorio, non si possono verificare le previsioni di una critica sociale rivoluzionaria con degli esperimenti ripetuti e accuratamente controllati. Ma anche tenendo conto di ciò, è sempre possibile fare delle estrapolazioni a partire dal movimento passato e presente dei processi storici, economici e sociali, e disegnare a grandi tratti il movimento futuro. E se c’è qualcosa che colpisce nel gigantesco concatenarsi di eventi storici inaugurati dalla prima guerra mondiale è precisamente il fatto che esso costituisce una verifica delle previsioni del marxismo nel laboratorio vivente dell’azione sociale.
Una premessa fondamentale del materialismo storico è il fatto che, come tutte le precedenti società di classe, anche il capitalismo avrebbe raggiunto una fase in cui i suoi rapporti di produzione, da condizione di sviluppo delle forze produttive, si sarebbero trasformati in ostacolo, sprofondando l’insieme della sovrastruttura giuridica e politica della società nella crisi, aprendo un’epoca di rivoluzione sociale. I fondatori del marxismo hanno quindi analizzato in profondità le contraddizioni della struttura capitalista, le sue basi economiche, che avrebbero trascinato il sistema nella sua crisi storica. Questa analisi era inevitabilmente generale e non poteva arrivare a delle previsioni precise circa la data della crisi rivoluzionaria. Malgrado questo, anche Marx ed Engels sono stati a volte vittime della loro impazienza rivoluzionaria e hanno annunciato in maniera affrettata il declino generale del sistema e quindi l’imminenza della rivoluzione. D’altra parte la forma che avrebbe preso questa crisi storica non era molto chiara. Avrebbe preso la forma di depressioni economiche cicliche come quelle che avevano segnato il periodo ascendente o una forma più vasta e senza possibilità di ritorno? Anche qui non si poteva avanzare che una prospettiva generale. Nondimeno, a partire dal Manifesto dei Comunisti, viene annunciato il dilemma essenziale a cui era confrontata l’umanità: socialismo o ritorno alla barbarie, emergenza di una forma superiore di rapporti umani o scatenamento di tutte le tendenze distruttrici insite nel capitalismo - quello che il Manifesto chiama “la rovina comune delle classi in lotta”.
Tuttavia verso la fine del 19° secolo, con l’entrata del capitalismo nella sua fase imperialista, una fase di militarismo sfrenato e di competizione acuta per la conquista delle zone extra-capitaliste che restavano sul pianeta, il disastro a cui il capitalismo conduceva l’umanità ha cominciato ad apparire chiaramente, non sotto forma di una vasta depressione economica ma sotto quella di una catastrofe militare su grande scala: la guerra globale come competizione economica sotto altra forma, ma sviluppando sempre più la propria folle dinamica, distruggendo tutta la civilizzazione con i suoi congegni mortali. Da qui la rimarchevole “profezia” di Engels nel 1887:
“Per la Prussia tedesca non è più possibile altro tipo di guerra che una guerra mondiale, una guerra di una estensione e di una violenza sconosciute finora. Otto o dieci milioni di soldati si massacreranno reciprocamente, e ciò facendo divoreranno tutta l’Europa fino a che l’avranno spogliata e messa a nudo come uno sciame di cavallette non potrebbe mai fare. Le devastazioni della guerra dei Trenta anni, concentrate in tre o quattro anni ed estese all’intero continente: la fame, la peste, la caduta generale nella barbarie degli eserciti e della massa delle popolazioni; il caos senza speranza del sistema artificiale del commercio, dell’industria e del credito, che porterà alla bancarotta generalizzata; il crollo dei vecchi Stati e della saggezza tradizionale della loro classe dirigente al punto che le corone crolleranno a dozzine e non ci sarà nessuno a raccoglierle; l’impossibilità assoluta di poter prevedere come tutto ciò potrebbe finire e chi uscirebbe vincitore dalla battaglia; un solo risultato è assolutamente certo: la rovina generale e lo stabilirsi delle condizioni della vittoria finale del proletariato.
E’ questa la prospettiva, quando il sistema di moltiplicazione generalizzata degli armamenti, spinto fino all’estremo, finisce per portare i suoi inevitabili frutti. Ecco, miei signori, principi, uomini di Stato, ecco dove, nella vostra saggezza, avete portato la vecchia Europa. E quando non vi resterà altro da fare che ingaggiare l’ultima grande danza guerriera, ciò ci andrà molto bene. La guerra può forse portarci temporaneamente all’indietro, essa può toglierci qualche posizione che abbiamo già conquistato. Ma quando delle forze che voi non potete controllare si saranno liberate, le cose andranno come andranno: alla fine della tragedia, voi sarete rovinati e la vittoria del proletariato avrà avuto luogo o sarà in ogni caso inevitabile”.
Le frazioni rivoluzionarie che nel 1914 hanno tenuto fede ai principi internazionalisti di fronte alla guerra, avevano buone ragioni per ricordarsi di queste parole di Engels. Nella sua Juniusbroshure Rosa luxemburg non fece che aggiornarle:
“Frederik Engels disse un giorno: ‘La società borghese è posta davanti a un dilemma o pasaggio al socialismo o ricaduta nella barbarie’. Ma che significa dunque una ‘ricaduta nella barbarie’ al livello della civilizzazione che noi conosciamo oggi in Europa? Finora noi abbiamo letto queste parole senza rifletterci su e le abbiamo ripetute senza sentirne la terribile gravità. Gettiamo un colpo d’occhio intorno a noi in questo momento e capiremo cosa significa ricaduta della società borghese nella barbarie. Il trionfo dell’imperialismo sbocca nell’annullamento della civilizzazione - sporadicamente durante il tempo di una guerra moderna, definitivamente se il periodo delle gguerre mondiali che comincia ora dovesse proseguire senza ostacoli fino alle sue estreme conseguenze. E’ esattamente quello che aveva predetto Engels quaranta anni fa. Noi siamo posti oggi di fronte a due scelte: o il trionfo dell’imperialismo e la decadenza di ogni civilizzazione,, con la conseguenza, come fu per Roma antica, lo spopolamento, la desolazione, la degenerazione, un grande cimitero; oppure vittoria del socialismo, cioè della lotta cosciente del proletariato internazionale contro l’imperialismo e contro il suo metodo d’azione, la guerra. Si tratta di un dilemma per la storia del mondo, un ‘o l’uno o l’altro’ ancora incerto, i cui piatti sono bilanciati davanti alla decisione del proletariato cosciente (...) L’avvenire dell’umanità è in gioco.”
Rosa Luxemburg aggiunge alle previsioni di Engels che se il proletariato non si sbarazza del capitalismo, la guerra imperialista non sarà che la prima di una serie di conflitti globali sempre più devastanti che finiranno per minacciare la sopravvivenza stessa dell’umanità. E questo è stato infatti il dramma del XX secolo, la prova più evidente di quello che diceva Lenin: “il capitalismo ha smesso di crescere. Esso è diventato il freno più reazionario allo sviluppo umano”.
Ma se la guerra del 1914 ha confermato questo aspetto dell’alternativa storica - la decadenza del sistema capitalista, la sua caduta nella regressione - la rivoluzione russa e l’ondata rivoluzionaria internazionale che la seguì hanno confermato con altrettanta chiarezza l’altro aspetto: secondo i termini del manifesto del I Congresso dell’Internazionale Comunista nel 1919, l’epoca della disintegrazione capitalista è anche l’epoca della rivoluzione comunista; e la classe operaia è la sola forza sociale che possa mettere fine alla barbarie capitalista e inaugurare una nuova società.
Le terribili privazioni della guerra imperialista e la disintegrazione del regime zarista trascinarono tutta la società russa in un turbine sociale. Ma nel seno di una rivolta di una immensa popolazione composta in maggioranza di operai e di contadini in uniforme, fu la classe operaia dei centri urbani che creò i nuovi organi rivoluzionari di lotta - i soviet, i comitati di fabbrica, le guardie rosse - che sono serviti da modello al resto della popolazione, che hanno fatto avanzare il più rapidamente possibile la coscienza politica (a cui corrispose la crescita spettacolare del partito bolscevico) e che, ad ogni tappa del processo rivoluzionario, agirono da elemento determinante nel corso degli avvenimenti: nel rovesciamento del regime zarista in febbraio, smascherando i piani della controrivoluzione in settembre, portando avanti l’insurrezione in ottobre. Ancora, fu la classe operaia in Germania, Ungheria, Italia e sull’intero globo che, attraverso i suoi scioperi e lotte, mise fine alla guerra e minacciò l’esistenza stessa del capitale mondiale.
Se le masse proletarie hanno realizzato questi movimenti rivoluzionari non è perché erano intossicate da qualche visione mistica, o perché erano state manipolate da un pugno di cospiratori machiavellici, ma perché attraverso la loro lotta pratica, i loro dibattiti e le loro discussioni, esse videro che le parole d’ordine e il programma dei marxisti rivoluzionari corrispondevano ai loro interessi e bisogni di classe.
Tre anni dopo l’apertura dell’epoca della rivoluzione proletaria, la classe operaia ha fatto la rivoluzione, ha preso il potere in un paese e ha sfidato l’ordine capitalista nel mondo intero. Lo spettro del “bolscevismo”, del potere sovietico, dell’ammutinamento contro la macchina di guerra imperialista ha fatto cadere corone e ha spaventato dappertutto la classe dominante. Durante tre anni e più sembrava che le previsioni di Engels si stessero confermando in tutti i loro aspetti: la barbarie della guerra assicurava la vittoria del proletariato. Evidentemente, come i professori della borghesia non hanno cessato di ripeterci, “alla fine è fallita”. Ed aggiungono che non poteva che finire così, perché il progetto grandioso di liquidare il capitalismo e di creare una società a misura d’uomo è del tutto contrario alla “natura umana”. Ma la classe dominante dell’epoca non se ne è stata ad aspettare che la “natura umana” facesse il suo corso. Per esorcizzare lo spettro della rivoluzione mondiale essa si è data la mano su tutto il pianeta per mettere assieme le sue forze controrivoluzionarie, attraverso l’intervento militare contro la repubblica sovietica, con la provocazione e il massacro degli operai rivoluzionari, da Berlino a Shangai. E quasi senza alcuna eccezione sono stati i difensori del liberalismo e della socialdemocrazia, i Kerensky, i Noske e i Wodroow Wilson, quelli che la maggioranza dei professori presentano come i portatori di una alternativa più razionale e realizzabile di fronte ai sogni impossibili del marxismo, ad essere i dirigenti e gli organizzatori delle forze della controrivoluzione.
La fisica quantistica del XX secolo ha riconosciuto come una necessità una premessa fondamentale della dialettica: non si può osservare la realtà dall’esterno. L’osservatore influenza il processo che egli osserva. Il marxismo non ha mai preteso di essere una “scienza” neutra “della società”, perché esso prende parte al processo sociale e, ciò facendo, si definisce come una forza che accelera e trasforma il processo. Gli accademici borghesi si dicono imparziali e neutrali, ma quando essi commentano la realtà sociale il loro punto di vista partigiano si rivela pienamente. La differenza con i marxisti è che questi ultimi fanno parte del movimento verso una società libera, mentre i professori che criticano il marxismo finiscono sempre per fare l’apologia delle forze più feroci della reazione sociale e politica.
Il proletariato e la questione del potere
Da storico e generale com’era nel 19° secolo, il programma comunista è diventato molto preciso. Nel 1917 la questione bruciante era quella del potere politico, della dittatura del proletariato. Ed è il proletariato russo che ha risolto il problema, sia dal punto di vista pratico che teorico, con “ Stato e rivoluzione – La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione” scritto da Lenin nell’agosto-settembre 1917.
Come abbiamo mostrato in un articolo precedente (vedi Révue Internationale n. 90), l’esperienza diretta della classe operaia e l’analisi di questa esperienza da parte delle minoranze marxiste avevano già, prima della guerra e dell’ondata rivoluzionaria, gettato le basi essenziali per risolvere il problema dello Stato nella rivoluzione proletaria. La Comune di Parigi del 1871 aveva già condotto Marx ed Engels alla conclusione che il proletariato non poteva semplicemente “impadronirsi” del vecchio Stato borghese, ma doveva distruggerlo e sostituirlo con nuovi organi del potere. Gli scioperi di massa del 1905 avevano dimostrato che i soviet dei deputati operai costituivano la forma del potere rivoluzionario più appropriata alla nuova epoca storica che si apriva. Pannekoek nella sua polemica con Kautsky aveva riaffermato che la rivoluzione non poteva che essere il risultato di un movimento di massa che paralizzi e disintegri il potere dello Stato della borghesia.
Ma il peso dell’opportunismo nel movimento operaio prima della guerra era troppo grande per essere spazzato via, anche con le polemiche più violente. Quello che la Comune aveva insegnato era stato già dimenticato nei decenni di parlamentarismo e di legalismo, del riformismo crescente nel partito e nei sindacati. In più l’abbandono della visione rivoluzionaria di Marx ed Engels non colpiva solo i revisionisti aperti tipo Bernstein. Attraverso il lavoro di correnti tipo quella intorno a Kautsky il feticismo parlamentare e la teorizzazione di una via pacifica, "democratica" al socialismo erano presentati come l’interpretazione più intelligente del “marxismo ortodosso”. In questa situazione solo quando le posizioni della sinistra della II Internazionale hanno potuto fondersi con il vasto movimento delle masse l’amnesia proletaria sulla sua propria storia ha potuto essere superata. Questo non sminuisce affatto l’intervento “teorico” dei rivoluzionari su questa questione, al contrario. Quando la teoria rivoluzionaria si impadronisce delle masse e diventa una forza materiale, la sua chiarificazione e la sua diffusione diventano più urgenti e decisive che mai.
In un articolo sulla Révue Internationale n. 89 la CCI ha ricordato l’importanza vitale dell’intervento teorico e politico delle Tesi di aprile di Lenin che mostravano al partito e all’insieme della classe operaia come uscire dalle nebbie della confusione creata da menscevichi, socialisti rivoluzionari e tutte le forze del compromesso e del tradimento. Al centro della posizione di Lenin, nell’aprile, si trova l’insistenza sul fatto che la rivoluzione russa non poteva concepirsi che come parte della rivoluzione socialista mondiale. Di conseguenza, il proletariato doveva proseguire la sua lotta contro la repubblica parlamentare – presentata dagli opportunisti e dalla sinistra borghese come la più grande acquisizione delle rivoluzione – e che il proletariato non doveva limitarsi a lottare per una repubblica parlamentare, ma per il trasferimento del potere ai soviet, per la dittatura del proletariato in alleanza con i contadini poveri.
Da parte loro gli oppositori politici di Lenin, soprattutto quelli che si nascondevano sotto la coperta dell’ortodossia marxista, hanno immediatamente accusato Lenin di anarchismo, di cercare di occupare il trono vacante di Bakunin. Questa offensiva ideologica dell’opportunismo richiedeva una risposta, una riaffermazione dell’ABC del marxismo, ma anche un approfondimento alla luce dell’esperienza storica recente. Stato e rivoluzione ha risposto a questa esigenza, fornendo allo stesso tempo una delle più notevoli dimostrazioni del metodo marxista, della profonda interazione tra la teoria e la pratica. Lenin aveva già scritto, dieci anni prima, che “non c’è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria”. Costretto a rientrare nella clandestinità e a nascondersi nel territorio finlandese a causa della repressione seguita alle giornate di luglio, Lenin ha visto la necessità di tuffarsi a fondo nei classici del marxismo, nella storia del movimento operaio al fine di chiarificare i fini immediati di un movimento di massa immensamente pratico.
Stato e rivoluzione costituisce una continuazione e una chiarificazione della teoria marxista. Ma ciò non ha impedito alla borghesia (a cui gli anarchici, come d’abitudine, fanno spesso eco) di dire che questo libro che insiste sul potere dei soviet e della distruzione di ogni burocrazia era il prodotto di una conversione temporanea di Lenin all’anarchia. E lo hanno detto da diversi angoli. Uno storico di estrema sinistra “simpatico” come Liebman per esempio (Leninism under Lenin, Londra 1975) parla di Stato e rivoluzione come del lavoro di un Lenin “libertario”, cercando di far credere che quel libro esprime un entusiasmo di breve durata di Lenin per il potenziale creativo delle masse nel 1917-18, in opposizione al Lenin “più autoritario” del 1902-1903, che avrebbe rigettato la spontaneità delle masse e difeso l’idea di un partito di stile giacobino agente come stato maggiore di queste. Ma la capacità di Lenin di rispondere al movimento spontaneo, alla creatività delle masse, anche correggendo alla luce dell’esperienza le sue proprie esagerazioni, non si limita al 1917. Essa si era già chiaramente manifestata nel 1905 (vedere l’articolo in merito sulla Révue Internationale n. 90). Nel 1917 Lenin era convinto che la rivoluzione proletaria era all’ordine del giorno e perciò non si fece legare le mani dalla teoria della “rivoluzione democratica” in Russia. E’ questo che lo ha condotto a contare ancora di più sulla lotta autonoma della classe operaia; ma si trattava di uno sviluppo delle sue posizioni precedenti e non di una improvvisa conversione all’anarchia.
Altre interpretazioni, più apertamente ostili, del libro Stato e rivoluzione lo considerano come facente parte di un trucco machiavellico per far si che le masse si allineassero ai progetti dei bolscevichi di fare un colpo di stato e di stabilire la dittatura del partito. Gli anarchici e i consiliaristi sono pieni di argomenti di questo tipo. Non ci interessa qui confutarli nei dettagli. Questo rientra più nella nostra difesa d’insieme della rivoluzione russa e dell’insurrezione di Ottobre. Quello che si può dire è che la difesa intransigente da parte di Lenin dei principi marxisti sulla questione dello Stato, a partire dal suo ritorno dall’esilio in aprile, lo mise in estrema minoranza. E non c’era nessuna garanzia che la sua posizione avrebbe conquistato le masse. In questa visione il machiavellismo di Lenin avrebbe avuto qualcosa di sovrumano, il che significa abbandonare il mondo della realtà per divagare sulle teorie cospirative.
Un altro punto di vista, disgraziatamente contenuta in un articolo pubblicato su Internationalism, la nostra pubblicazione negli Stati Uniti, più di venti anni fa, quando l’ideologia consiliarista aveva un peso considerevole sui nuovi gruppi rivoluzionari che sorgevano, consiste nel passare al setaccio Stato e rivoluzione per cercare la “prova” che il libro di Lenin, a differenza degli scritti di Marx sulla dittatura del proletariato, continua a costituire il punto di vista di un autoritario che non può concepire che gli operai si liberino essi stessi con le loro forze (vedi in Internationalism n. 3: “La dittatura del proletariato: Marx contro Lenin”).
Noi non cercheremo di evitare di parlare delle debolezze che esistono realmente in Stato e rivoluzione. Ma non arriveremo a creare una falsa opposizione tra Marx e Lenin, nè considereremo Stato e rivoluzione come un punto di contatto tra Lenin e Bakunin. Il libro di Lenin è in perfetta continuità con Marx ed Engels e tutta la tradizione marxista prima di lui; e la tradizione marxista che lo ha seguito ha, a sua volta, tirato molta forza e chiarezza da questo lavoro indispensabile.
Lo Stato, strumento del dominio di classe
Il primo obiettivo di Stato e rivoluzione è stato quello di confutare le concezioni degli opportunisti sulla natura fondamentale dello Stato. La tendenza opportunista nel movimento operaio, in particolare l’ala lassalliana della socialdemocrazia tedesca, si era basata per lungo tempo sull’idea che lo Stato è essenzialmente un organismo neutro che può essere usato altrettanto bene a beneficio della classe sfruttata come per difendere i privilegi degli sfruttatori. Molte delle battaglie teoriche condotte da Marx ed Engels rispetto al partito tedesco avevano per scopo di demolire l’idea di uno “Stato popolare”, mostrando come lo Stato, in quanto prodotto specifico della società di classe, è per essenza uno strumento della dominazione di una classe sulla società, e sulla classe sfruttata in particolare. Ma nel 1917 l’ideologia della Stato come uno strumento neutro di cui gli operai potevano appropriarsi aveva preso un abito “marxista”, in particolare nelle mani dei seguaci di Kautsky. E’ perciò che Stato e rivoluzione comincia e finisce con un attacco contro la distorsione opportunista del marxismo; all’inizio, con un passaggio giustamente celebre:
“La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale ‘trattamento’. Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, Si mette in primo piano e si esalta tutto ciò che è o pare accettabile alla borghesia. (...) Così stando le cose, e dato che le deformazioni del marxismo si sono diffuse in modo inaudito, compito nostro è, innanzitutto, ristabilire la vera dottrina di Marx sullo Stato.” (Stato e rivoluzione, cap. 1, Editori Riuniti)
A questo fine, Lenin procede ricordando il lavoro dei fondatori del marxismo, in particolare di Engels, sulle origini storiche dello Stato. Ma benché Lenin parli del suo lavoro come di uno scavo sotto le macerie dell’opportunismo, la sua ricerca è ben più di un interesse archeologico. Da Engels (L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato) apprendiamo che lo Stato sorge come prodotto degli antagonismi di classe inconciliabili e serve ad impedire che questi antagonismi facciano esplodere l’edificio sociale. Ma, per paura che si possa concludere che lo Stato sia una specie di arbitro sociale, Lenin, sulla scia di Engels, aggiunge subito che quando lo Stato mantiene la coesione sociale, lo fa nell’interesse della classe economicamente dominante. Esso appare dunque come un organo della repressione e dello sfruttamento per eccellenza.
Nel fuoco della rivoluzione russa questa questione “teorica” era di una importanza gigantesca. I menscevichi e i socialisti rivoluzionari, che agivano sempre più come ala sinistra della borghesia, presentavano lo Stato che si era formato dopo la caduta dello zar nel febbraio 1917 come una specie di “Stato popolare”, come una espressione della “democrazia rivoluzionaria”. Gli operai avrebbero quindi dovuto subordinare i loro “egoistici” interessi di classe alla difesa di questo Stato che, con un po’ di lavoro di persuasione, avrebbe potuto sicuramente adattarsi ai bisogni di tutti gli oppressi. Demolendo le basi dell’idea di uno Stato “neutro”, Lenin preparava il terreno per il rovesciamento di questo Stato. Per sviluppare i suoi argomenti contro i sedicenti “democratici rivoluzionari”, Lenin ricorda le parole dense di significato di Engels sui limiti del suffragio universale:
“Bisogna ancora rilevare che Engels definisce in modo categorico il suffragio universale come uno strumento di dominio della borghesia. Il suffragio universale, egli dice, tenendo evidentemente conto della lunga esperienza della socialdemocrazia tedesca, è ‘la misura della maturità della classe operaia. Più non può nè potrà mai essere nello Stato odierno’”. I democratici piccolo-borghesi sul tipo dei nostri socialisti rivoluzionari e dei nostri menscevichi, come i loro fratelli, (...)aspettano dal suffragio universale proprio qualche cosa ‘di più’. Essi condividono e inculcano nel popolo la falsa concezione che il suffragio universale possa ‘nello Stato odierno’ esprimere realmente la volontà della maggioranza dei lavoratori e assicurarne la realizzazione”. (Ibidem)
Questo richiamo della natura borghese della versione più democratica dello “Stato odierno” era vitale nel 1917, nel momento in cui Lenin chiama a una forma di potere rivoluzionario che possa realmente esprimere i bisogni della classe operaia. Ma nel corso di questo secolo i rivoluzionari hanno dovuto ripetere lo stesso richiamo. Gli eredi più diretti dei riformisti socialdemocratici, i partiti laburisti e socialisti di oggi, hanno costruito l’insieme del loro programma (in difesa del capitale) sull’idea di uno Stato neutro, benevolo, che, impadronendosi delle principali industrie e dei servizi sociali, prenderebbe un carattere “pubblico” o addirittura “socialista”. Ma questa impostura è portata avanti anche da quelli che si dicono gli eredi di Lenin, gli stalinisti e i trotskysti, che non hanno mai smesso di difendere l’idea che le nazionalizzazioni e i servizi dello Stato sociale sarebbero delle conquiste operaie e costituirebbero altrettante tappe verso il socialismo, anche nello “Stato odierno”. Questi sedicenti “leninisti” sono tra gli avversari più accaniti della sostanza rivoluzionaria del lavoro di Lenin.
L’evoluzione della teoria marxista dello Stato
Poiché lo stato è uno strumento della dominazione di classe, un organo di violenza diretto contro la classe sfruttata, il proletariato non può contare su di esso per difendere i suoi interessi immediati, né utilizzarlo come strumento di costruzione del socialismo. Lenin mostra come il concetto marxista di estinzione dello Stato sia stato distorto dall’opportunismo per giustificare l’idea che la nuova società potesse nascere gradualmente, armoniosamente, tramite lo Stato esistente che si democratizzerebbe e si approprierebbe dei mezzi di produzione, “estinguendosi” man mano che si sarebbero stabilite le basi materiali del comunismo. Tornando di nuovo ad Engels, Lenin dimostra che quello che si estingue non è lo Stato borghese esistente, ma lo Stato che sorge dalla rivoluzione proletaria che è necessariamente una rivoluzione violenta avente per compito la “distruzione” del vecchio Stato borghese.
Evidentemente, sia Engels che Lenin rigettano l’idea anarchica secondo cui lo Stato può essere semplicemente abolito in una notte: in quanto prodotto di una società di classe, la sparizione finale di ogni forma di Stato non può aver luogo che dopo un periodo più o meno lungo di transizione. Ma lo Stato del periodo di transizione non è il vecchio Stato borghese. Questo è stato distrutto e rimpiazzato da una nuova forma di Stato, un semi-Stato che permette al proletariato di esercitare il suo dominio sulla società, ma che è già in un processo di “estinzione”. Per rafforzare ed approfondire questa posizione fondamentale del marxismo, Lenin continua esaminando l’esperienza storica reale dello “Stato e la rivoluzione” e lo sviluppo della teoria marxista in connessione con questa esperienza. E’ quello che Pannekoek, malgrado le sue capacità, ha trascurato di fare, trovandosi così più vulnerabile all’accusa opportunista di “anarchismo”.
Il punto di partenza di Lenin è quello degli inizi del movimento operaio, cioè il periodo che precede le rivoluzioni del 1848. Avendo riletto Il Manifesto Comunista e Miseria della filosofia, Lenin mette in evidenza i punti chiave di questi testi sulla questione dello Stato:
- la necessità per il proletariato di prendere il potere politico, di costituirsi in classe dominante, atto che è generalmente descritto come il risultato di una “guerra civile più o meno larvata” e del “rovesciamento violento della borghesia” (Manifesto);
- lo stato formato nella rivoluzione aprirà la strada a una società senza classi in cui non ci sarà bisogno di potere politico.
Riguardo la natura di questo “rovesciamento violento”, del rapporto esatto tra il proletariato rivoluzionario e lo Stato borghese esistente, non era evidentemente possibile essere precisi data l’assenza di esperienza storica concreta. Tuttavia Lenin sottolinea che “se il proletariato ha bisogno dello Stato in quanto organizzazione particolare della violenza contro la borghesia, ne scaturisce spontaneamente la conclusione: la creazione di una tale organizzazione è concepibile senza che sia prima annientata, distrutta la macchina dello Stato che la borghesia ha creato per sé? Il Manifesto comunista conduce direttamente a questa conclusione, ed è di questa conclusione che Marx parla quando fa il bilancio dell’esperienza della rivoluzione del 1848-51”. (Ibidem, cap. 2).
Lenin prosegue citando un passaggio chiave del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in cui Marx denuncia lo Stato come un “spaventoso corpo parassitario” e in cui sottolinea che prima della rivoluzione proletaria “tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla” (ibidem)
Come abbiamo ricordato nel nostro articolo sulla Révue Internationale n. 73, le rivoluzioni del 1848, pur ponendo per la prima volta la questione della “distruzione” dello Stato, hanno permesso ugualmente a Marx di avere qualche squarcio sulla maniera in cui, nel corso della lotta, il proletariato forma i suoi propri comitati indipendenti, i nuovi organi dell’autorità rivoluzionaria. Ma il contenuto proletario dei movimenti del 1848 era troppo debole, troppo immaturo per rispondere alla questione: “Cosa rimpiazzerà il vecchio apparato di Stato borghese?”. Lenin quindi prosegue sulla sola esperienza precedente di presa del potere da parte del proletariato, la Comune del 1871. Egli traccia in dettaglio le principali lezioni che Marx ed Engels hanno tirato dalla Comune:
- Innanzitutto, come dicono Marx ed Engels nella loro introduzione del 1872 al Manifesto Comunista: “La Comune ha in particolare dimostrato che la classe operaia non può contentarsi di prendere la macchina dello Stato così com’è e farla funzionare a suo proprio conto”. Il movimento rivoluzionario deve distruggere lo Stato borghese esistente e rimpiazzarlo con nuovi organi di potere. Nel bilancio della rivoluzione del 1848, questo punto di vista si rivela come un lampo luminoso di comprensione. Nella loro analisi della Comune di Parigi, esso era diventato già un punto programmatico. Per Marx ed Engels nel 1872 una tale lezione era tanto significativa da meritare una correzione del Manifesto Comunista.
- La Comune era la forma specifica di questo semi-Stato rivoluzionario, una nuova forma di potere politico che era già in un processo di estinzione.
Le sue caratteristiche più importanti erano:
a) l’abolizione dell’esercito permanente e l’armamento del popolo. La sua soppressione era necessaria, ma doveva essere fatta dalla maggioranza contro la vecchia minoranza sfruttatrice.
b) Impedire la nascita di una nuova burocrazia, i funzionari devono essere eletti e revocabili in ogni momento. Nessun funzionario dello Stato poteva essere pagato con un salario superiore alla media dei salari operai. Le masse dovevano supervisionare le funzioni statali e parteciparvi in maniera costante attraverso la democrazia diretta.
c) Superare il parlamentarismo borghese, da una parte rimpiazzando i rappresentanti (deputati eletti per quattro o cinque anni in circoscrizioni elettorali amorfe) con dei delegati (i deputati alla Comune potevano essere revocati in ogni momento da assemblee convocate in permanenza) e dall’altra con la fusione dell’esecutivo e del legislativo in un solo corpo. Anche qui Lenin ha applicato le lezioni del passato alle lotte presenti: la critica del parlamentarismo borghese, la difesa di una forma superiore di democrazia diretta costituivano anche un punto di polemica aspra contro i “parlamentari socialisti” della sua epoca, contro gli opportunisti che volevano tenere gli operai legati alla difesa dello Stato esistente.
d) La Comune è una forma di organizzazione centralizzata. Contrariamente alla visione anarchica che guarda all’indietro e rivendica il modello della Comune, questa non difendeva la dispersione dell’autorità in unità federali o locali. Pur permettendo la più grande iniziativa locale possibile, la Comune era la forma che cementava l’unità del proletariato a livello nazionale e internazionale.
Lenin non ha potuto prolungare il suo giro sull’orizzonte storico al di là della Comune. In origine aveva intenzione di scrivere un settimo capitolo di Stato e rivoluzione:
“Vedremo più avanti che le rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 continuano, in una situazione differente, in altre condizioni, l’opera della Comune e confermano la geniale analisi storica di Marx” (Ibidem, cap. 3)
Ma l’accelerazione della storia gli ha tolto questa opportunità:
“Non ho avuto tempo di scrivere una sola riga di questo capitolo; ne fui ‘impedito’ dalla crisi politica, vigilia della rivoluzione d’ottobre 1917. Non c’è che da rallegrarsi di un tale impedimento. Ma la seconda parte di questo opuscolo (L’esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917) dovrà certamente essere rinviata a molto più tardi; è più piacevole e più utile fare ‘l’esperienza di una rivoluzione’ che non scrivere su di essa).” (post-scriptum alla prima edizione di Stato e rivoluzione)
Nei fatti questa seconda parte non fu mai redatta. E’ sicuro che questo settimo capitolo avrebbe avuto un valore immenso. Ma Lenin aveva acquisito l’essenziale. La riaffermazione degli insegnamenti di Marx ed Engels sulla questione dello Stato costituivano una base sufficiente per un programma rivoluzionario nella misura in cui la questione primordiale era la necessità della distruzione dello stato borghese e l’instaurazione della dittatura del proletariato. Ma il lavoro di Lenin, come abbiamo già detto, non fu mai una semplice ripetizione. Ritornando sul passato, e con un fine militante, i marxisti fanno anche avanzare la loro visione teorica. In questo senso Stato e rivoluzione ha permesso due importanti chiarificazioni per il programma comunista. Innanzitutto esso ha identificato i soviet come i successori naturali della Comune, anche se questi organismi non sono citati che di passaggio. Lenin non ha potuto analizzare in profondità perché i soviet costituivano una forma di organizzazione superiore rispetto alla Comune. Forse avrebbe potuto farlo sviluppando il punto di vista di Trotsky che, nei suoi scritti del 1905, sottolinea in particolare che i soviet dei deputati operai, essendo basati sulle assemblee dei posti di lavoro, sono una forma di organizzazione più adatta ad assicurare l’autonomia di classe del proletariato (la Comune era basata su unità territoriale e non di lavoro, come riflesso di una situazione di minor sviluppo della concentrazione proletaria).
In effetti, alcuni scritti successivi di Lenin dimostrano che questa era la comprensione a cui era arrivato (1). Ma anche se Lenin non ha potuto esaminare più nei dettagli i soviet nel suo testo, non c’è dubbio che egli li considerava come gli organismi più appropriati per distruggere lo Stato borghese e formare la dittatura del proletariato. A partire dalle Tesi di aprile lo slogan “Tutto il potere ai soviet” era innanzitutto quello di Lenin e del partito bolscevico riformato.
In secondo luogo, Lenin è stato capace di fare delle chiare generalizzazioni sul problema dello Stato e della sua distruzione rivoluzionaria. Nella parte del suo testo in cui tratta delle rivoluzioni del 1848 Lenin poneva la questione:
“ci si chiederà forse se è giusto generalizzare l’esperienza, le osservazioni e le conclusioni di Marx e se le si può applicare al di là dei limiti della storia di Francia di questi tre anni 1848-51” (ibidem, cap. 2)
La formula “concentrazione di tutte le forze” della rivoluzione proletaria sulla “distruzione” dell’apparato di Stato era valida per tutti i paesi? La questione aveva sempre una importanza estrema nel 1917 perché, malgrado le lezioni che Marx ed Engels avevano tirato dalla Comune, essi avevano per lo meno lasciato molto spazio alla ambiguità circa la possibilità che il proletariato vinca pacificamente attraverso il processo elettorale in certi paesi, quelli che avevano le istituzioni parlamentari più sviluppate e un apparato militare poco importante. Come sottolinea Lenin, Marx citava la Gran Bretagna ma anche gli Stati Uniti e l’Olanda. Tuttavia, su questo, Lenin non ha avuto paura di correggere Marx e di andare fino in fondo nella sua posizione. Egli l’ha fatto utilizzando il metodo di Marx, ponendo la questione nel contesto storico giusto:
“L’imperialismo – epoca del capitale bancario e dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato – mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della macchina statale. L’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi monarchici che nei più liberi paesi repubblicani.” (Ibidem cap. 2)
E il risultato è che:
“Attualmente, nel 1917, nell’epoca della prima grande guerra imperialista, questa riserva di Marx cade: l’Inghilterra e l’America, che erano, in tutto il mondo, le maggiori e le ultime rappresentanti della ‘libertà’ anglosassone per quanto riguarda l’assenza di militarismo e di burocrazia, sono precipitate nel lurido, sanguinoso pantano, comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono. Oggi, in Inghilterra e in America, la ‘condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare’ è la rottura, la distruzione della ‘macchina statale già pronta’.” (Ibidem, cap. 3)
Per questo non ci potevano essere più eccezioni.
L’obiettivo principale di Stato e rivoluzione era l’oppor-tunismo che, come abbiamo visto, non ha esitato ad accusare Lenin di anarchismo, quando questo si è messo a insistere sulla necessità di distruggere l’apparato statale. Ma, come Lenin ha risposto:
“Per i socialdemocratici contemporanei la critica dell’anarchismo si riduce abitualmente a questa pura banalità piccolo-borghese: ‘noi ammettiamo lo Stato, gli anarchici no!’” (ibidem, cap. 4)
Dopo aver demolito questa stupidità, Lenin ricorda la vera critica marxista all’anarchismo, basandosi in particolare su quello che Engels diceva per rispondere alle assurdità degli “antiautoritari”: una rivoluzione è giustamente la cosa più autoritaria che possa esistere. Rigettare ogni autorità, ogni potere politico, significa rinunciare alla rivoluzione. Lenin fa con cura la distinzione tra la posizione marxista che offre una soluzione storica realizzabile al problema della subordinazione, delle divisioni tra dirigenti e diretti, tra Stato e società, e quella dell’anarchismo che non propone che dei sogni apocalittici di una sparizione immediata di tutti questi problemi, sogni che hanno, alla fine dei conti, il risultato più conservatore:
“Noi non siamo degli utopisti. Non ‘sogniamo’ di fare a meno, dall’oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni subordinazione, questi sono sogni anarchici, fondati sulla incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato, sogni che nulla hanno a che vedere con il marxismo e che di fatto servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista fino al giorno in cui gli uomini saranno cambiati. No, noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né di ‘sorveglianti’, né di ‘contabili’.
Ma bisogna subordinarsi all’avanguardia armata di tutti gli sfruttati e di tutti i lavoratori, al proletariato.” (Ibidem, cap. 3)
Contrariamente agli anarchici che pretendevano che l’estinzione dello Stato fosse il risultato di un atto di volontà rivoluzionario, il marxismo riconosce che una società senza Stato non può emergere che quando le radici economiche e sociali delle divisioni in classi siano state erose e sia stata aperta la via verso la costruzione di una società di abbondanza materiale. Sottolineando la base economica dell’estinzione Lenin torna ancora una volta ai classici, in particolare alla Critica del programma di Gotha di Marx, da cui prende i seguenti punti:
- la necessità di un periodo di transizione durante il quale il proletariato esercita la sua dittatura pur attirando, allo stesso tempo, la maggioranza della popolazione alla direzione politica ed economica della società;
- economicamente parlando, questa fase di transizione può essere descritta come la fase inferiore del comunismo. E’ la società comunista quale emerge dal capitalismo, ancora pesantemente marcata da molti dei difetti della vecchia società. Le forze produttive sono diventate proprietà comune, ma le condizioni dell’abbondanza ancora non esistono. Di conseguenza ci sono ancora diseguaglianze nella distribuzione. Il sistema dei buoni di lavoro impedisce l’accumulazione del capitale, ma esso riflette una situazione di disuguaglianza, perché alcuni possono lavorare più di altri, alcuni hanno bambini mentre altri no, e così via. Insomma, persiste quello che Marx chiama il “diritto borghese” in materia di distribuzione; e per poter proteggere il diritto borghese, deve ancora esistere qualche resto della “legge borghese”;
- lo sviluppo delle forze produttive permette di superare la divisione del lavoro e di instaurare un sistema di libera distribuzione: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. E’ la fase superiore del comunismo, una società di vera libertà. Lo Stato non ha più motivo di esistere e si estingue; l’estensione radicale della democrazia porta alla estinzione della democrazia reale, poiché la democrazia è essa stessa una forma di Stato. L’amministrazione delle persone è sostituita dall’amministrazione delle cose. Non si tratta di una utopia. Anche a un tale stadio, per un periodo indeterminato, gli eccessi individuali possono continuare, e dovranno essere impediti. “Ma, innanzitutto, per questo non c’è bisogno di una macchina speciale, di uno speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con cui una folla di persone civili, anche nella società attuale, separa delle persone in rissa o non permette che venga usata della violenza contro una donna.” (Ibidem, cap. 5)
In breve, “…la necessità di osservare le regole semplici e fondamentali di ogni società umana diventerà ben presto un costume”. (Ibidem)
Quando Lenin scriveva Stato e rivoluzione, il mondo era sull’orlo di una rivoluzione comunista. La difesa delle posizioni di Marx sulle trasformazioni economiche non era una cosa astratta. La classe operaia era spinta allo scontro rivoluzionario da bisogni immediati e brucianti: il bisogno di pane e quello di finirla con il massacro imperialista. Ma l’avanguardia comunista non dubitava che la rivoluzione non si sarebbe fermata alla soluzione di queste questioni immediate. Essa doveva andare fino alla sua conclusione storica ultima: l’inaugurazione di una nuova fase della storia dell’umanità.
Abbiamo già segnalato che Stato e rivoluzione era un lavoro incompleto. Lenin non ha potuto fare degli sviluppi sul ruolo dei soviet come “forma infine trovata della dittatura del proletariato”. Ma anche se la sua opera non fosse stata interrotta dall’insurrezione di ottobre, essa non avrebbe potuto rappresentare che il punto più alto di chiarezza raggiunto prima della esperienza della rivoluzione.
La rivoluzione russa (e soprattutto la sua sconfitta) avrebbe portato molte lezioni sui problemi del periodo di transizione; perciò non possiamo rimproverare a Lenin di non aver risolto queste questioni prima che l’esperienza reale del proletariato non le ponesse concretamente. Torneremo su queste questioni in altri articoli; qui ci sembra utile accennare ai tre campi principali in cui l’esperienza successiva a Lenin ha rivelato le inevitabili lacune di Stato e rivoluzione.
Benchè Lenin abbia chiaramente difeso l’idea di una trasformazione comunista della economia – nozione sviluppata da Marx in opposizione alle tendenze “socialiste di Stato” presenti nel movimento operaio (2) – il suo lavoro soffre ancora di ambiguità circa il ruolo dello Stato durante la transizione economica. Abbiamo visto come queste ambiguità esistevano anche nel lavoro di Marx ed Engels. Ma durante il periodo della II Internazionale si pensava sempre più che la prima tappa sulla via del comunismo fosse la statizzazione della economia nazionale, che una economia completamente nazionalizzata non potesse essere una economia capitalista. In parecchi dei suoi scritti dell’epoca, pur denunciando i “trust capitalisti di Stato” che erano diventati la forma dell’organizzazione capitalista nella guerra imperialista, Lenin aveva la tendenza a considerare questi trust come degli strumenti neutri, come una sorta di trampolino verso il socialismo, come una forma di centralizzazione economica di cui il proletariato vittorioso potesse semplicemente impadronirsi in blocco. In un testo redatto nel settembre 1917, “I bolscevichi conserveranno il potere?”, Lenin è più esplicito:
“Il capitalismo ha creato degli apparati di controllo sotto forma di banche, di cartelli, servizio postale, cooperative di consumo, associazioni di impiegati. Senza le grandi banche il socialismo sarebbe irrealizzabile.
Le grandi banche costituiscono ‘l’apparato di Stato’ di cui abbiamo bisogno per realizzare il socialismo e che noi prenderemo già fatto al capitalismo …”
In Stato e rivoluzione Lenin esprime una idea simile quando scrive:
“Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai di un solo cartello di tutto il popolo, dello Stato.”
Evidentemente è giusto dire che la trasformazione comunista non comincia da zero – il suo punto di partenza inevitabile è costituito dalle forze produttive esistenti, dalle reti di trasporto, di distribuzione esistenti, ecc. Ma la storia ci ha insegnato che bisogna essere estremamente prudenti di fronte all’idea che ci si possa semplicemente impadronire degli organismi e delle istituzioni economiche creati dal capitale per i suoi bisogni, soprattutto quando si tratta di istituzioni fondamentali come le grandi banche. Più importante ancora, la rivoluzione russa e, in particolare la controrivoluzione staliniana, hanno mostrato che la semplice trasformazione dell’apparato produttivo in una proprietà dello Stato non elimina lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Questo è un errore che è presente in Stato e rivoluzione quando Lenin dice che nella prima fase del comunismo, "non sarà più possibile lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, perché non sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc.” (ibidem, cap. 5)
Questa debolezza è aggravata dall’insistenza di Lenin sul fatto che c’è una “distinzione scientifica” da fare tra il socialismo e il comunismo (il primo essendo la fase inferiore del comunismo). In effetti Marx ed Engels non hanno mai veramente teorizzato una tale distinzione, e non è un caso se, nella Critica del programma di Gotha, Marx parla delle fasi inferiore e superiore del comunismo, perché egli voleva trasmettere l’idea di un movimento dinamico tra il capitalismo e il comunismo, non quella di un “terzo” modo di produzione fisso caratterizzato dalla “proprietà pubblica”. Infine, quando Lenin parla della transizione economica egli non è esplicito sul fatto che la dinamica verso il comunismo non può svilupparsi che a scala internazionale; questo apre la porta all’idea che almeno certe tappe della “costruzione socialista” possano essere realizzate in un solo paese.
La tragedia della rivoluzione russa costituisce una perfetta testimonianza del fatto che anche se si statalizza l’insieme dell’economia, anche se si ha il monopolio del commercio estero, le leggi del capitale globale continuano ad imporsi su un bastione proletario isolato. In assenza di estensione della rivoluzione mondiale, queste leggi sfideranno ogni tentativo di gettare le basi di una qualsiasi “costruzione socialista”, trasformando anche il vecchio bastione del proletariato in un nuovo e mostruoso “trust capitalista di Stato” in competizione sul mercato mondiale. Una tale mutazione non può non accompagnarsi ad una controrivoluzione politica che non lascerà nessuna traccia della dittatura del proletariato.
E’ stato notato che Lenin non dice granchè sul ruolo del partito nel suo libro. E’ forse questa una prova supplementare della sua temporanea conversione all’anarchismo nel 1917? Questione idiota! La chiarificazione teorica contenuta in Stato e rivoluzione costituisce essa stessa una preparazione del partito bolscevico al suo ruolo di dirigente diretto nella insurrezione di ottobre. Mediante la sua aspra polemica contro quelli che iniettano l’ideologia borghese nel proletariato esso è innanzitutto un documento politico “di partito” avente per scopo di allontanare gli operai da questa influenza e guadagnarli alle posizioni del partito rivoluzionario.
Tuttavia la questione esiste: alla vigilia dell’ondata rivoluzionaria mondiale, i rivoluzionari (e non solo i bolscevichi) come vedevano il rapporto tra il partito e la dittatura del proletariato? L’unico riferimento al partito nel testo di Lenin non ci dà una risposta chiara, perché la formulazione è ambigua:
“ Educando il partito operaio, il marxismo educa una avanguardia del proletariato, capace di prendere il potere e di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e di organizzare il nuovo regime, d’essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell’organizzazione della loro vita sociale senza la borghesia e contro la borghesia.” (ibidem, cap. 2)
E’ una ambiguità perché non si sa se è il partito in quanto tale che assume il potere o se è il proletariato, che Lenin definisce spesso come l’avanguardia di tutta la popolazione oppressa. Il testo I bolscevichi conserveranno il potere? è una guida migliore per capire quale è il livello di comprensione della questione. Già dal titolo si vede la confusione principale: i rivoluzionari dell’epoca, malgrado il loro impegno verso il sistema di rappresentanza dei soviet che aveva reso obsoleto il vecchio sistema parlamentare, erano ancora influenzati dall’ideologia parlamentare, al punto che pensavano che era il partito che, avendo la maggioranza nei soviet centrali, doveva formare il governo a amministrare lo Stato. In articoli successivi esamineremo più in dettaglio come questa concezione abbia implicato una identificazione fatale del partito con lo Stato e creato una situazione insopportabile che ha svuotato i soviet della loro vita proletaria, indirizzato il partito contro la classe, e soprattutto trasformato il partito, frazione più radicale della classe rivoluzionaria, in uno strumento della conservazione sociale.
Ma questa evoluzione non ha avuto luogo in maniera autonoma. Essa è innanzitutto il risultato dell’isolamento della rivoluzione e dello sviluppo materiale di una controrivoluzione interna. Nel 1917, l’insistenza di Lenin, in tutti i suoi scritti, non è sull’esercizio della dittatura da parte del partito, ma da parte dell’insieme del proletariato (e progressivamente da parte dell’insieme della popolazione) che prende in carico i suoi affari economici e politici, attraverso la sua esperienza pratica, i suoi dibattiti, le sue proprie organizzazioni di massa. Così, quando egli risponde positivamente alla questione: i bolscevichi conserveranno il potere?, è perché ha in mente l’idea che qualche centinaia di migliaia di bolscevichi faranno parte di uno sforzo ben più grande, lo sforzo di milioni di operai e contadini poveri che, dal primo giorno, impareranno a dirigere lo Stato per proprio conto. Dunque il vero potere non è nelle mani del partito, ma delle masse. Se le speranze originarie della rivoluzione fossero state realizzate, se la Russia non fosse caduta nella guerra civile, carestia ed embargo internazionale, le contraddizioni evidenti di questa posizione avrebbero potuto essere risolte, dimostrando che in un sistema autentico di delegati eletti e revocabili non ha nessun senso parlare di un partito che detiene il potere.
Nella Critica del programma di Gotha Marx descrive lo Stato di transizione come “nient’altro che la dittatura del proletariato”. Lenin riprende questa identificazione tra il potere della classe operaia e lo Stato di transizione in Stato e rivoluzione quando parla di uno “Stato proletario” o di uno “Stato degli operai in armi” ed egli sostiene teoricamente queste formulazioni definendo lo Stato come essendo formato essenzialmente di “corpi di uomini armati”. In breve, nel periodo di transizione lo Stato non rappresenta altro che gli operai in armi che spodestano la borghesia.
Come si vedrà in prossimi articoli, questa formulazione si è rivelata presto inadeguata. Lenin stesso ha detto che il proletariato aveva bisogno dello Stato non solo per sopprimere la resistenza degli sfruttatori, ma anche per condurre il resto della popolazione non sfruttatrice nella direzione socialista. E quest’ultima funzione, la necessità di integrare la popolazione essenzialmente contadina nel processo rivoluzionario, diede nascita a uno Stato che non era costituito solo da delegati operai dei soviet, ma anche da soviet di soldati e di contadini. Con l’apertura della guerra civile le milizie operaie armate, le Guardie rosse, non erano una forza adeguata per combattere la potenza della controrivoluzione. La principale forza armata dello Stato sovietico era ormai l’Armata rossa, formata nella sua maggioranza da contadini. Allo stesso tempo la necessità di combattere la sovversione e il sabotaggio interni diede nascita alla Ceca, forza di polizia speciale che progressivamente sfuggì al controllo dei soviet. Nelle settimane dell’insurrezione di ottobre lo Stato-Comune era diventato qualcosa di più che “gli operai in armi”. E soprattutto, con l’isolamento crescente della rivoluzione, il nuovo Stato era sempre più infestato dalla cancrena della burocrazia, che rispondeva sempre meno agli organi eletti dal proletariato e dai contadini poveri. Lungi dal cominciare ad estinguersi, il nuovo Stato cominciava ad invadere tutta la società. Lungi dal piegarsi alla volontà della classe rivoluzionaria, esso era diventato il punto centrale di una sorta di degenerazione e di controrivoluzione interne che non si erano mai viste prima.
Nel suo bilancio della controrivoluzione, la Sinistra comunista italiana doveva portare una attenzione particolare al problema dello Stato di transizione; una delle conclusioni a cui sono arrivati Bilan e Internationalisme in seguito alla rivoluzione russa è che non era più possibile identificare la dittatura del proletariato con lo Stato di transizione. Va comunque detto che anche se le formulazioni del movimento marxista prima della rivoluzione russa soffrivano di serie debolezze su questa questione, allo stesso tempo questa idea della non identificazione tra proletariato e Stato di transizione non è caduta dal cielo. Lenin era perfettamente cosciente della definizione di Engels sullo Stato di transizione come un “male necessario”. E nel suo libro c’è una forte insistenza sulla necessità che gli operai sottomettano tutti i funzionari dello Stato a una supervisione e a un controllo costante, in particolare gli elementi dello Stato che incarnano una certa continuità con il vecchio regime, tipo gli “esperti” tecnici e militari che i soviet erano costretti ad utilizzare.
Lenin sviluppa anche un fondamento teorico per questo atteggiamento di sana diffidenza del proletariato verso il nuovo Stato. Nella parte sulla trasformazione economica, egli spiega che, siccome il suo ruolo sarà di salvaguardare la situazione di “diritto borghese”, si può definire lo Stato di transizione come “lo Stato borghese senza la borghesia!” Anche se questa formulazione è più una provocazione e un appello alla riflessione piuttosto che una chiara definizione della natura di classe dello Stato di transizione, Lenin ha colto l’essenziale: poichè il compito dello Stato è quello di salvaguardare uno stato di cose che non è ancora comunista, lo Stato-Comune rivela la sua natura fondamentalmente conservatrice, che è quello che lo rende particolarmente vulnerabile alla dinamica della controrivoluzione. Queste percezioni sulla natura dello Stato dovevano permettere a Lenin di sviluppare certi punti di vista importanti sulla natura del processo di degenerazione. Per esempio, la sua posizione sui sindacati nel dibattito del 1921, quando egli riconosce la necessità per gli operai di mantenere degli organi di difesa anche contro lo Stato di transizione, o gli avvertimenti sulla crescita della burocrazia di Stato verso la fine della sua vita.
Il partito bolscevico ha dovuto soccombere a una morte insidiosa, ma le frazioni comuniste di sinistra avrebbero ripreso la bandiera della chiarificazione. Tuttavia non c’è alcun dubbio che gli sviluppi teorici più importanti che queste ultime hanno effettuato, hanno potuto essere realizzate prendendo come punto di partenza l’immenso contributo di Lenin in Stato e rivoluzione.
CDW
1. Vedere in particolare le “Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e la dittatura del proletariato”, scritte da Lenin e adottate dalla Internazionale Comunista al suo congresso di fondazione nel 1919. Tra gli altri punti, questo testo afferma che: “il potere dei soviet, cioè la dittatura del proletariato, è invece strutturato in modo da avvicinare le masse lavoratrici all’apparato amministrativo. A questo scopo tende anche l’unificazione del potere legislativo e del potere esecutivo nell’organizzazione sovietica dello Stato, e la sostituzione delle circoscrizioni elettorali territoriali con le unità elettorali fondate sui luoghi di produzione: fabbrica, officina, ecc.” (Tesi 16)
2. Vedere “Il comunismo contro il capitalismo di Stato” in Révue Internationale n. 79.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/55/africa
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/7/113/communist-workers-organisation
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/44/corso-storico
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/2/24/marxismo-la-teoria-della-rivoluzione