Il “non ci sono governi amici e governi nemici“ gridato da un operaio della FIAT di Mirafiori al segretario della CGIL, Guglielmo Epifani, coglie una questione che gira nella testa di molti lavoratori, soprattutto di quelli che hanno votato per l’attuale maggioranza. La domanda è “perché li abbiamo votati, se devono fare una politica uguale a quella di Berlusconi?” Ed è una domanda giusta, perché effettivamente la legge finanziaria che l’attuale maggioranza si appresta a votare chiede ancora una volta sacrifici a quelli che già ne fanno da anni e che fanno sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese (1). Quello che c’è di ingenuo nella maniera di porre la questione è che quello di Prodi potesse essere un governo amico dei lavoratori. Non lo è, e non potrebbe esserlo, perché nel capitalismo “ogni governo costituisce il comitato d’affari della borghesia”, come diceva il vecchio Marx, verità che è stata più e più volte confermata in Italia come nel resto del mondo dai vari Blair, Schroeder, e Prodi vari. Del resto sono stati i vari governi di centrosinistra succedutisi dal 1992 (primo governo Amato) al 2001 (con la breve parentesi del primo governo Berlusconi durato meno di un anno) a portare avanti il più massiccio attacco alle condizioni di vita dei lavoratori che l’Italia ricordi. E se ogni governo non può che fare gli interessi della propria borghesia, oggi questo significa che l’unica politica possibile è quella dei sacrifici, vista la situazione di crisi che vive il sistema capitalista nel suo complesso (2).
Una questione però resta, e ci è stata posta da alcuni compagni: se, nell’attuale fase di capitalismo decadente, la differenza fra destra e sinistra sta solo nel diverso ruolo che i diversi apparati politici della borghesia svolgono nei confronti dei lavoratori (con la destra che deve principalmente portare avanti le ideologie liberiste, e la sinistra che deve invece mistificare gli operai per impedire che essi prendano coscienza del futuro che il capitalismo riserva all’umanità), perché la borghesia italiana ha voluto far vincere la sinistra, visto che la politica che doveva per forza di cose portare avanti ne avrebbe indebolito l’immagine nei confronti dei lavoratori stessi? La questione è legittima e impone una risposta.
La prima risposta sta nel fatto che la “alternanza” al governo tra destra e sinistra è il principale puntello della mistificazione democratica: se la borghesia lasciasse governare sempre la destra, su cosa potrebbe basarsi l’illusione, di cui è principale portatrice proprio la sinistra, che con lo strumento democratico, con le elezioni, i lavoratori possono cambiare i loro destini? Il secondo argomento è più legato alle vicende italiane e in particolare alle conseguenze che qui si sono avute con il crollo del blocco sovietico (e la conseguente disgregazione del blocco occidentale). Il crollo dell’URSS provocò abbastanza velocemente il disfacimento del suo blocco imperialista e, venendo meno questo, anche il blocco avversario, quello costruito intorno agli USA, non aveva più senso di esistere, per cui anche nel campo occidentale si aprì una fase di allontanamento dal leader di blocco (diventata in poco tempo contestazione di questa leadership e tendenza, da parte di ogni paese occidentale, a portare avanti i propri interessi nel mondo anche in contrasto con l’antico capo). Questo venir meno dell’interesse da parte dell’Italia per l’alleanza con gli USA ebbe anche delle conseguenze sul piano degli equilibri politici interni: l’Italia infatti, per la sua posizione geografica strategicamente importante e per la presenza di un forte partito “comunista” filosovietico, era sempre stata sotto un controllo particolare da parte degli USA, che si esercitava centralmente attraverso la Democrazia Cristiana, partito che impersonava l’alleanza con gli Stati Uniti. Venuta meno le necessità di questa alleanza, anche i partiti ad essa legati furono messi in crisi e abbandonati dalla stessa borghesia italiana (o per meglio dire da una parte di essa): è questa la motivazione di “tangentopoli” (altrimenti conosciuta come operazione “Mani Pulite”), una delle più grosse operazioni di “pulizia” politica (e non morale, come si è cercato di far credere!!) che un paese occidentale abbia conosciuto. Con la messa in evidenza delle ruberie che i partiti al governo avevano portato avanti (e la DC era stata al governo ininterrottamente dal dopoguerra), questi partiti furono spazzati via, e con essi fu messa in crisi l’alleanza con gli USA. Ma questa operazione, che aveva una sua logica, ebbe come conseguenza la distruzione, o la disgregazione, di tutti i partiti che avevano occupato il centro e la destra della politica (3). Questo ha significato che la sinistra rischiava di dover reggere le sorti di governo per chissà quanto tempo. A questo ha supplito la “discesa in campo” di Berlusconi, un uomo che, mettendo a disposizione la sua azienda e i suoi mezzi economici, è stato capace di costruire un partito in grado di ereditare (almeno in parte) la forza elettorale della DC e di creare così un polo di centrodestra) che, grazie anche alla svolta democratica dell’MSI di Fini, potesse proporsi come alternativo alla sinistra così da ricreare il gioco dell’alternanza senza il quale la mistificazione della democrazia non sta in piedi. Ma la discesa in campo di Berlusconi non è avvenuta solo per volontà di una parte della borghesia italiana di ricostruire un partito di centrodestra, è stata anche l’espressione degli interessi USA di mantenere un’influenza sul suolo italiano. E Berlusconi si era e si è dimostrato ampiamente amico degli USA. Nei fatti Berlusconi si è dimostrato troppo appiattito sulle scelte americane, come dimostrato in particolare dalla infelice e poco redditizia missione in Iraq, e in più di essere troppo impegnato a difendere i propri interessi personali (vedi le varie leggi ad personam varate dal suo governo) per badare a quelli più generali del capitale nazionale. Così, durante il governo Berlusconi, il capitalismo italiano si è trovato diviso dalla maggior parte degli altri paesi europei, sul piano imperialista, e sul piano economico ha perso diverse posizioni sullo scacchiere mondiale, mentre è tornato a salire il deficit pubblico (senza che migliorassero le prestazioni sociali). E’ toccato quindi alla coalizione di centrosinistra provare a mettere riparo ai danni provocati da Berlusconi. Dopo aver messo mano alla politica estera (missione in Libano in accordo con gli altri paesi europei e con una forza mistificatoria ben superiore a quella della missione in Iraq), adesso il governo Prodi prova a rimettere in ordine i conti del proprio capitale e per farlo non può che ricorrere ad altri sacrifici per i lavoratori E’ solo riducendo la parte di ricchezza che ritorna alla classe operaia (cioè il salario diretto ed indiretto) che lo Stato italiano può sperare di riuscire a mantenere la sua competitività sul mercato mondiale ed a finanziare le spese militari che gli consentono di avere un posto sullo scacchiere imperialista. Naturalmente il fatto che sia un governo di sinistra ad attaccare i lavoratori non è senza rischi. E’ ben difficile, ad esempio, per una forza come Rifondazione Comunista stare con due piedi in una scarpa: essere una “forza di governo responsabile” (cioè che lavora per le esigenze dello Stato), ed al tempo stesso mantenere l’immagine di chi sta “dalla parte dei lavoratori” e che è “contro la guerra”. Questa schizofrenia a cui è costretta RC rischia effettivamente di suscitare una riflessione tra i proletari e delle reazioni esplicite di sfiducia e rabbia come quelle a Mirafiori. Non esistono quindi governi amici della classe operaia, viceversa esiste uno scontro di classe che vede la borghesia attaccare sempre di più i livelli di vita della classe operaia. Non è che riconoscendo questo stato di fatto che i proletari potranno cominciare a difendersi veramente, sviluppando le loro armi per contrapporsi agli attacchi della borghesia. E le armi dei lavoratori sono le loro lotte, condotte in maniera autonoma e senza il controllo dei sindacati, primi alleati della borghesia (e non solo dei governi di sinistra). E’ questa la strada che in molti paesi i lavoratori stanno intraprendendo, è questa la sola strada che anche i lavoratori italiani hanno per potersi difendere veramente, lasciando da parte ogni illusione su “governi amici” o “sindacati rappresentativi”.
10/12/2006 Helios
1. Per i dettagli vedi Rivoluzione Internazionale n. 147
2. Il che non vuol dire che qualche paese capitalista non possa “avanzare” a scapito di altri. Anzi, è proprio il detto “mors tua vita mea” che caratterizza la vita del capitalismo dell’ultimo secolo, un secolo di guerre, di scontri e di concorrenza spietata, in un mondo diventato ormai troppo piccolo per consentire un qualsivoglia sviluppo del mercato, come era stato nei secoli precedenti. Le cifre che esibiscono paesi come la Cina o anche l’India in questi ultimi tempi sono essenzialmente l’espressione di una politica di sottrazione di mercati ad altri paesi capitalisti (il nord Africa all’Europa, ad esempio) e a condizioni di vita e di lavoro sempre più miserevoli in cui è stata ridotta la classe operaia cinese e indiana che non può che esprimere la prospettiva verso cui ci spinge questo barbaro sistema a livello mondiale. 3. In effetti fu scompaginato anche il PSI, partito storicamente di sinistra, ma che aveva governato per diversi anni con tutte le compagini di centro e di destra (DC, PRI, PSDI, PLI). Comunque il vero vuoto venne a costituirsi al centro e alla destra dello schieramento politico borghese.
Riceviamo da un nostro simpatizzante un interessante commento sulla finanziaria del governo Prodi e sul reale significato delle elezioni nella società attuale. Il testo non ha bisogno di commenti e riceve da parte nostra un pieno sostegno su quanto sviluppa sul reale significato delle elezioni e sul ruolo privilegiato svolto dalla sinistra del capitale nel mistificare la classe operaia. Cari Compagni, la denuncia fatta da Deaglio a proposito dei brogli telematici elettorali è molto pesante. Adesso ho potuto vedere riconosciuta la giustezza della posizione di non lasciarsi truffare dall'elettoralismo, da parte di molte persone che avevano disprezzato ed irriso questa scelta. Ma bisogna ancora chiarire che non si tratta di un'eccezione, dato che, a quanto pare, anche l'attuale presidente degli Stati Uniti d'America è stato eletto grazie a meccanismi analoghi. Dunque nella democrazia borghese il responso elettorale è predeterminato, a seconda se alla borghesia conviene affidare a questa o quell'altra parte del suo schieramento politico l'amministrazione dello Stato (mai il potere, che rimane solo e sempre alla classe borghese). E quindi, una finanziaria da macelleria sociale, non certo dissimile da quella che avrebbe varato Berlusconi: l'importo dichiarato è di 40 milioni di euro, in realtà più di 60, cioè 120 000 miliardi delle vecchie lire di cui circa il 67% andrà direttamente a sostenere la crisi capitalistica ed il rimanente a pagare gli interessi sui debiti di Stato. Però...in cambio i cosiddetti “comunisti” hanno ottenuto un elegante campanellino di Presidente della Camera, con il quale possono accompagnare la messa funebre delle speranze dei proletari precari. E questa violenza, questa ignobile mutilazione di ogni diritto per i precari e per i proletari, poggia su una truffa da baraccone, su un volgare trucco. Le elezioni, in regime borghese possono essere solo questo, l'organizzazione cinica e depravata di inganni a cui concorrono tutti i partiti borghesi, ma principalmente quelli che dichiarano di stare dalla parte dei proletari. Fa più ribrezzo un Bertinotti o un Diliberto che non un Berlusconi, perché deve necessariamente essere maggiore il loro grado di cinismo. Alla storia occorrerà un secchio della spazzatura molto capiente per farceli entrare tutti. P., 23/11/06
La repressione che lo Stato ha scatenato contro la popolazione di Oaxaca mette a nudo la ferocia sanguinaria della democrazia. Oaxaca si è trasformato da cinque mesi in una vera polveriera, nel quale i corpi paramilitari e polizieschi sono stati il braccio armato del terrore statale. Le perquisizioni, i sequestri e la tortura sono utilizzati ogni giorno dallo Stato per ristabilire “l'ordine e la pace”. Il risultato dei soprusi polizieschi non è un “risultato nullo”, come pretende il governo. In effetti questo si conclude con decine di “dispersi”, di prigionieri e almeno tre morti (senza contare la ventina di persone uccise tra maggio e ottobre di quest'anno dalle guardie bianche). Sei anni fa la classe dominante proclamò che l'arrivo al potere di Fox augurava un “periodo di cambiamenti”, ma la realtà ha messo in evidenza che indipendentemente dalle parti o le persone che arrivano al governo, il capitalismo non può offrire alcun miglioramento... ed è più evidente che mai che il sistema attuale può offrire soltanto più sfruttamento, più miseria e più repressione. L’insieme della classe operaia deve trarre tutte le lezioni da ciò che avviene a Oaxaca, deve capire che la situazione di violenza e di repressione che si sviluppa qui non è dovuta ad un governo in particolare o ad un uomo politico particolare, ma deriva dalla natura del capitalismo stesso, e deve anche criticare le debolezze e difficoltà nelle quali i lavoratori si trovano intrappolati. È necessario fare un bilancio generale sul significato delle mobilitazioni attuali per trarne gli insegnamenti e permettere così che le prossime lotte siano preparate al meglio.
La borghesia utilizza il malcontento a proprio beneficio
Le manifestazioni attuali a Oaxaca sono senza alcun dubbio le espressioni del malcontento dei lavoratori contro lo sfruttamento e le ignominie del capitalismo. Le mobilitazioni in questa regione esprimono il malcontento di fronte al deterioramento persistente delle condizioni di vita, sono il frutto di una rabbia profonda e rivelano un vero coraggio e una reale determinazione alla lotta; tuttavia esse sono state manipolate dalla borghesia, che è riuscita a far si che gli obiettivi, i metodi e l'organizzazione delle azioni di protesta non fossero sotto il controllo dei lavoratori. I conflitti che si sviluppano nell'ambito della borghesia hanno potuto deviare il malcontento sociale ed utilizzarlo a proprio beneficio, trasformando una lotta per delle rivendicazioni salariali in un movimento senza prospettive, nella misura in cui questo è stato sviato da una delle frazioni della borghesia, quella “democratica”, contro un'altra composta dai vecchi “papaveri”. Esigere la destituzione di Ulises Ruiz (1) è soltanto un appoggio esplicito alla frazione che pretende di prendere il suo posto. In questa falsa alternativa, i lavoratori in ogni caso ci perdono e la loro potenza di classe si ritrova ridotta ad essere un sostegno ad una frazione della borghesia. Ben prima delle manifestazioni di maggio, una frazione della classe dominante ha tentato di utilizzare la massa degli sfruttati come “forza di pressione” per indebolire la frazione avversaria. L'intervento diretto di Esther Gordillo, di Murat, di Ulises Ruiz stesso e di altri, attraverso il sindacato degli insegnanti (SNTE-CNTE, compresi i settori “critici” come la CCL), mostra chiaramente che la borghesia, in particolare la frazione dei “papaveri” della regione meridionale, ha approfittato del malcontento per i propri interessi. Così una lotta che trovava le sue origini nella rivolta contro la miseria e che criticava lo sfruttamento capitalista è stato trasformato in una mobilitazione contro la “cattiva gestione” della canaglia di turno al governo, limitandone le aspirazioni originarie alla ricerca della democratizzazione del sistema. Di fronte a queste mobilitazioni, il sistema ha mostrato tutta la sua natura sanguinaria, ma l’uso da parte dello Stato del terrore va oltre la repressione contro i dimostranti di Oaxaca. L’obiettivo principale dell'incursione delle forze militari e poliziesche non è lo sterminio dell'Assemblea popolare del popolo di Oaxaca (APPO), ma quello di estendere il terrore in quanto arma di avvertimento e di minaccia all'insieme dei lavoratori. Il terrore statale è stato scatenato combinando le forze di repressione dello Stato e quelle del governo federale, mettendo in evidenza che anche quando ci sono lotte interne fra le varie bande della borghesia, queste riescono a ben intendersi quando si tratta di portare a buon fine il loro compito repressivo; supporre che è possibile “dialogare” con un settore del governo, significa alimentare la speranza illusoria che può esistere un settore della borghesia che sia “progressista” o “illuminato”. Dare come obiettivo principale al movimento di mobilitazioni il ritiro di Ulises Ruiz dal governo di Oaxaca, significa dare l'illusione che il sistema capitalista potrebbe migliorare diventando più democratico o cambiando gli uomini alla sua testa. Limitare la riflessione alla contestazione di Ulises Ruiz, sacrificare la mobilitazione verso quest'obiettivo, non partecipa affatto allo sviluppo della coscienza ma al contrario alimenta la confusione e dà la falsa speranza che gli sfruttati potrebbero avere un “governo migliore”. La parola d'ordine dell’APPO di unire le forze contro Ulises Ruiz non è affatto un rafforzamento della riflessione collettiva e dell'azione cosciente, è al contrario l'estensione della confusione e la sottomissione della forza sociale agli interessi di una delle frazioni della borghesia contro un'altra. La dimostrazione più evidente di ciò è il fatto che la questione salariale, che era alla base del movimento, viene messa in secondo piano per lasciare il posto alla rivendicazione della destituzione del governatore della regione. Questa manovra ha permesso al sindacato ed al governo federale di ridurre la questione salariale ad un semplice problema tecnico di apporto adeguato di risorse ad una regione sulla base di una pianificazione delle finanze pubbliche, permettendo così di isolare il problema e presentarlo come una questione “locale”, senza alcun legame con gli altri salariati del paese. Nello stesso senso, i metodi di lotta messi in atto, i picchetti, i blocchi, le marce estenuanti ed gli scontri disperati, non hanno affatto permesso di alimentare la solidarietà; al contrario, hanno isolato il movimento riducendolo pertanto ad un facile obiettivo per la repressione.
Nello stesso senso, le “bombe propagandistiche” della guerriglia non hanno affatto aiutato lo sviluppo della coscienza, così come non hanno affatto indebolito il sistema, al contrario: questi atti sono piuttosto l'espressione disperata di declassati, se non si tratta semplicemente di un ignobile simulacro dello Stato per avere un “pretesto” per scatenare la repressione.
APPO: un corpo estraneo al proletariato
La composizione sociale dell’APPO (costituita da organizzazioni “sociali” e sindacati) mostra che quest'organizzazione, e dunque le decisioni che prende, sfugge alle mani del proletariato. La sua natura non proletaria è dimostrata dal fatto che essa è fondamentalmente dominata da settori non salariati (e questo è già una manifestazione della sua debolezza) e soprattutto dal fatto che lascia la discussione e la riflessione ai sindacati ed ai gruppi dell'apparato di sinistra della borghesia (cioè legati direttamente o indirettamente agli interessi di alcune frazioni della classe dominante). È questo che permette che venga diluita la forza potenziale dei lavoratori nell'azione, questa forza che non può esprimersi in una struttura che, benché presentandosi sotto forma di cosiddette assemblee aperte, esprime nella pratica la sua vera essenza, quella di un fronte interclassista condotto dalla confusione e la disperazione degli strati medi. L'appello del 9 novembre 2006 per la trasformazione dell’APPO in struttura permanente (l'Assemblea statale dei popoli di Oaxaca) lo dimostra bene. Questo definisce la Costituzione del 1917 della borghesia messicana un “documento storico che ratifica la tradizione emancipatrice del nostro popolo...” e chiama a difenderlo, così come chiama a difendere “il territorio e le sue risorse naturali”. Il suo radicalismo si riduce alla difesa dell'ideologia nazionalistica, vero veleno per i lavoratori. L'appello contiene inoltre una vera e propria falsificazione dell’internazionalismo proletario, quando proclama la necessità “di stabilire legami di cooperazione, di solidarietà e di classe con tutti i popoli della terra per la costruzione di una società giusta, libera e democratica, una società veramente umana” attraverso la lotta per …”la democratizzazione dell'ONU”! La creazione dell’APPO non è stato un avanzamento per il movimento dei lavoratori. La sua formazione è al contrario legata allo schiacciamento del loro malcontento di classe. L’APPO è apparsa come una “camicia di forza” per contenere la combattività proletaria. I gruppi stalinisti, maoisti, trotskysti ed i sindacati che la compongono hanno saputo snaturare il coraggio e le espressioni di solidarietà della classe operaia imponendo un orientamento ed un'azione lontana mille miglia dai suoi interessi e da quelli del resto degli sfruttati. I raffronti che osa fare l’APPO tra la sua struttura e quella dei Soviet, la sua pretesa ad essere un “embrione del potere operaio”, sono i veri attacchi lanciati contro le autentiche tradizioni del movimento operaio. L'organizzazione autenticamente proletaria si distingue per il fatto che gli obiettivi che si dà sono direttamente legati ai suoi interessi di classe, cioè alla difesa delle sue condizioni di vita. Il suo fine non è la difesa “dell'economia nazionale”, dell'economia dello Stato ed ancora meno la democratizzazione del sistema che la sfrutta. Essa cerca soprattutto di difendere la sua indipendenza politica rispetto alla classe dominante, indipendenza che le permette di assumere la lotta contro il capitalismo. È in questo senso che le lotte rivendicative dei lavoratori contengono la preparazione alla critica radicale dello sfruttamento: esprimono la resistenza alle leggi economiche del capitalismo e la loro radicalizzazione apre la via alla rivoluzione. Queste lotte sono momenti che fanno parte della preparazione alle lotte rivoluzionarie che dovrà fare il proletariato, in questo senso sono il germe della lotta rivoluzionaria.
La coscienza e l'organizzazione sono le armi dei lavoratori per affrontare il capitalismo
In quanto classe internazionale ed internazionalista, il proletariato deve assimilare e far propria, in tutti i paesi, l’esperienze delle sue lotte passate. Gli è dunque indispensabile, per dar impulso allo sviluppo della sua coscienza, far riferimento ad esempio alle lezioni della mobilitazione sviluppata dagli studenti e dai lavoratori in Francia nella primavera del 2006 contro il contratto di primo impiego (CPE). La lezione essenziale di questo movimento è stata la sua capacità di organizzazione, che gli ha permesso di mantenere un tale controllo della lotta da impedire ai gauchistes ed ai sindacati di deviare il movimento dal suo obiettivo centrale, il ritiro del CPE. Le lotte dei lavoratori di Vigo in Spagna, nello stesso periodo, sono andate nello stesso senso, difendendo le proprie rivendicazioni salariali e l'estensione della lotta mediante il controllo delle assemblee contro il sabotaggio sindacale. La difesa delle condizioni di vita, l'autonomia organizzativa e la riflessione di massa raggiunte da questi movimenti sono lezioni per tutto il proletariato, lezioni che deve mettere davanti per sferrare le sue lotte.
18 novembre 2006.
1. Governatore dello Stato di Oaxaca, che appartiene al vecchio partito dirigente del Messico, il PRI, corrotto e clientelare.
(da Révolution Internationale n° 374, dicembre 2006).
Dovunque nel mondo, la classe operaia subisce pesanti colpi da parte dei suoi sfruttatori, sia da parte dei padroni privati che dello Stato, sia nei paesi evoluti che in quelli più poveri. Attacchi sui salari, aggravamento della disoccupazione, riduzione di sovvenzioni di qualsiasi natura, attacchi alle condizioni di lavoro, riduzione alla miseria di frazioni sempre più ampie della classe operaia a livello internazionale, questo è il compenso per un proletariato che paga ad un prezzo ogni giorno più caro la crisi del capitalismo. Ma questi attacchi non colpiscono un proletariato sconfitto, pronto ad accettare passivamente tutti i sacrifici che gli vengono chiesti. Al contrario, vediamo manifestarsi nell'insieme dei paesi del mondo reazioni operaie sempre più forti per resistere e rispondere a tali attacchi. Malgrado l'enorme blackout operato dai mezzi di comunicazione nei paesi evoluti, vediamo in particolare nel continente latino-americano le reazioni di una classe operaia che non è disposta ad accettare la miseria senza battersi. Queste non sono azioni isolate, ma un momento della combattività crescente che da tre anni sta sviluppandosi a livello internazionale.
Contro la violenza degli attacchi, si sviluppa la combattività operaia
In Honduras, in settembre, ci sono stati scioperi molto importanti del settore del trasporto urbano della capitale del paese, Tegucigalpa, che si è fermato completamente per due giorni dopo che i tassisti ed i conduttori di autobus si sono messo in sciopero per protestare contro l'imposizione da parte del governo di un aumento del prezzo dei carburanti del 19,7%.
Nel Nicaragua, dopo le violente proteste che hanno avuto luogo all'inizio dell'anno a Managua in seguito all'aumento delle tariffe dei trasporti, dopo gli scioperi massicci del personale della sanità in aprile, la capitale è stata bloccata dagli scioperanti del settore dei trasporti.
In Cile, in un contesto di perquisizioni, di arresti e di repressione brutale da parte del governo socialdemocratico di Michelle Bachelet, nel settore dell'educazione è scoppiato a fine settembre uno sciopero contro le penose condizioni d'insegnamento, sciopero che ha unito professori, studenti e liceali (quest’ultimi dal mese di agosto conducono una lotta molto radicale). Uno dei temi del movimento era il rifiuto degli scioperi parziali per una lotta della massima ampiezza. Quest’estate gli operai della miniera di rame di Escondida si sono messi in sciopero (per la prima volta dall'apertura della miniera nel 1991) per tre settimane per richiedere il 13% di aumento dei salari ed un’indennità di 30.000 euro. Alla fine hanno ottenuto un aumento del 5% ed un’indennità straordinaria di 13.000 euro. Inoltre il nuovo contratto avrà una durata di 40 mesi invece di due anni, il che è una truffa perché gli stipendi non saranno più rinegoziabili prima di questi 40 mesi.
In Bolivia, gli operai che lavorano nelle miniere di stagno sono entrati in lotta per parecchie settimane per rivendicazioni salariali e contro dei licenziamenti in corso, subendo la feroce repressione del governo di sinistra di Evo Morales, grande amico di Fidel Castro.
In Brasile, dopo gli scioperi del mese di maggio nelle fabbriche Volkswagen contro i 5000 licenziamenti previsti dal gruppo auto, gli impiegati di banca entrano in sciopero in settembre per adeguamenti salariali.
In Messico in primavera, parecchie migliaia di operai della siderurgia hanno fermato il lavoro per cinque mesi nelle fabbriche di Sicartsa ed Atenco, sulla costa Pacifica del paese, con scioperi colpiti da una violenta repressione poliziesca. Gli scioperi degli insegnanti della città di Oaxaca, uno dei tre Stati più poveri del Messico, scioperi che hanno dato nascita ad un movimento di occupazione della città da parte di tutta la popolazione, da metà giugno ad oggi, confermano quest’aumentata resistenza della classe operaia contro gli attacchi capitalisti.
Le trappole elettorali e populiste
Le espressioni di questa forte combattività nella classe operaia dell'America latina vengono ostacolate dalle numerose trappole che la borghesia sviluppa a livello ideologico. Queste lotte si svolgono in un clima generale di propaganda elettorale e populista di sinistra i cui sostenitori più conosciuti sono Lula e soprattutto Chavez. Le recenti elezioni di Morales in Bolivia e di Bachelet in Cile, sono state salutate da tutta la stampa, in particolare quella della sinistra borghese, come avanzamenti della democrazia e vengono al momento giusto per snaturare e deviare questo sviluppo della lotta della classe operaia. La stessa cosa si verifica con le elezioni presidenziali in Brasile e il battage sul mantenimento di Lula al potere. In Messico, lo sciopero dei 70.000 insegnanti di metà giugno ad Oaxaca, malgrado la forte volontà militante dei lavoratori ed il fatto che tutta la popolazione si sia riconosciuta in esso e l’abbia sostenuto, è stato sviato e imprigionato ponendo come rivendicazione principale la richiesta di dimissioni del governatore Ruiz, in un ambito interclassista dove tutte le frazioni di sinistra e di estrema sinistra, sindacali e politiche, hanno snaturato il sentimento di solidarietà reale presente tra la popolazione, portandolo sul terreno localista e nazionalista con il pretesto di volere dare il loro sostegno agli insegnanti. Migliaia di manifestanti hanno bloccato la città, occupando parecchie stazioni radio, difendendo con bastoni e machete le loro barricate contro gli attacchi armati dei “convogli della morte” (poliziotti in borghese con i passamontagna agli ordini del governatore). E’ stata anche creata un’Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca (APPO) nella quale l'ideologia “indianista indigena”, particolarmente forte, ha mirato ad annacquare ancora di più le rivendicazioni degli insegnanti in una vasta “rivendicazione popolare” informe. Dal mese di agosto l’SNTE (sindacato nazionale degli insegnanti) ed i partiti di sinistra si sono accaniti a focalizzare l’iniziale movimento di sciopero, sui salari e le condizioni della scuola, sulla persona di Ulises Ruiz. che aveva usato il denaro destinato alle scuole, in particolare quello destinato a pagare la merenda dei bambini, per la sua campagna elettorale e che aveva fatto sparare sugli insegnanti che occupavano il centro della città il 14 giugno, dando vita ad una radicalizzazione estrema del movimento. Da settembre questo movimento, grazie ai sindacati ed all’APPO, con la fine dello sciopero degli insegnanti è diventato una sinistra farsa con manifestazioni “di sostegno” al Messico, scioperi della fame, sostegno di Amnesty International, ecc., il tutto in un'atmosfera gauchiste pseudo-radicale destinata a frenare ogni presa di coscienza su quella che era stata la posta in gioco all'inizio dello sciopero e delle possibilità di estensione reale che essa offriva. Così, un milione di persone hanno bloccato il centro di Messico per due mesi per denunciare la falsificazione delle elezioni da cui era uscito sconfitto il candidato “dei poveri”, Andres Manuel Lopez Obrador (AMLO) e per esigere una riconta dei voti. Quest’ultimo si è fatto anche eleggere “per acclamazione” capo del governo, proclamando che “è la strada che governa”. In Bolivia, i minatori si sono fatti intrappolare dai sindacati (sostenitori del governo “indianista” di sinistra di Morales la cui elezione era stata salutata come “una speranza per il popolo”, nella difesa della “loro” miniera per finire poi in un bagno di sangue. Oggi si può constatare, in particolare a partire dal 2003, una tendenza alla ripresa delle lotte del proletariato veramente a livello internazionale. Sia nei paesi centrali e più sviluppati del pianeta che nei paesi della periferia e più poveri, la classe operaia prova ad opporre la lotta e la solidarietà di classe agli attacchi incessanti e sempre più brutali di un sistema capitalista in crisi. E le armi utilizzate dalla borghesia per fare passare questi attacchi sono sempre dello stesso tipo: la violenza e la mistificazione.
La violenza e la repressione sono evidentemente più spettacolari nei paesi della periferia, particolarmente in America latina. Ma è anche presente in quelli più evoluti dove, quando non si esercita a forza di manganello ed attraverso i gas lacrimogeni, continua a pesare quotidianamente sotto forma di ricatto alla disoccupazione ed ai licenziamenti. Quanto alle mistificazioni che mirano a sabotare le lotte, a distruggere la solidarietà e la coscienza di classe, a disperdere e deviare la combattività, esse non conoscono frontiere. Ovunque, i sindacati, i partiti di sinistra e le organizzazioni gauchiste ne sono i principali artefici. Le tematiche sono sempre le stesse e si possono riassumere nella difesa della democrazia borghese e nella difesa del capitale nazionale. Dovunque, la mistificazione elettorale è usata a iosa: bisogna “ben votare”, e se non si possono eleggere i “migliori per i lavoratori” (è così che si presentano i partiti di estrema sinistra) allora bisogna impedire che i “peggiori” (i partiti della destra tradizionale) avanzino votando per i “meno peggio” (la sinistra classica). Secondo questi signori gli operai si dovrebbero mobilitare, non contro il capitalismo come un tutto, quali che siano le sue forme, ma contro il “capitalismo liberale e mondializzato”. In questo senso, le menzogne usate contro le lotte operaie in America latina non sono molto diverse da quelle che vengono servite qui da noi dai partiti della “sinistra anti-liberale”. Vi si aggiungono solo alcuni ingredienti locali, come l'indigenismo (la difesa dei diritti degli indi), o il populismo alla Chavez o alla Morales. I discorsi “anti-imperialisti” radicali di questi due personaggi, che sono i nuovi eroi per una buona parte dell'estrema sinistra dei paesi sviluppati, non ne fanno i difensori degli operai il cui sfruttamento è lo stesso, che sia organizzato da “stranieri”, da “compatrioti” o dallo Stato nazionale stesso. Proprio al contrario, lo sciovinismo che queste persone provano ad incrostare nelle coscienze operaie è sempre stato il peggior nemico del proletariato. Perché le lotte operaie che attualmente si sviluppano su scala internazionale non siano soffocate dalla classe dominante, perché possano costituire una nuova tappa del proletariato verso la sua emancipazione, è necessario che si sviluppi in seno a quest’ultimo una coscienza crescente tanto sulla posta in gioco che sulle trappole tese dai difensori dell'ordine borghese. per sconfiggerli: la coscienza che non c'è alcuna salvezza per gli operai se loro stessi non prendono in mano le proprie lotte e le estendono il più possibile in modo solidale; la coscienza che queste lotte fanno parte di una lotta internazionale degli sfruttati contro tutti i settori della borghesia.
Mulan, 25 ottobre 2006
(da Révolution Internazionale n. 373)
Cinquant’anni dopo la rivolta operaia che scosse l’Ungheria nel 1956, gli avvoltoi della borghesia ne “celebrano” l’anniversario nel loro stile abituale. La stampa borghese tradizionale versa una lacrima sulla resistenza eroica del “popolo ungherese” “per l'indipendenza nazionale” e contro gli “orrori del comunismo”. Tutte queste celebrazioni non descrivono che l'apparenza della rivolta, e dunque mascherano e distorcono il suo significato reale. La rivolta operaia del 1956 in Ungheria non è l’espressione della volontà del “popolo” di riformare il “comunismo” alla stalinista o conquistare “l’indipendenza della nazione”. È il risultato diretto delle contraddizioni insolubili del capitalismo in Europa dell’Est e nel mondo intero.
Lo sfruttamento stalinista della forza lavoro nei paesi dell’est
Appena finita la seconda Guerra mondiale, la pressione delle rivalità imperialiste tra Mosca e Washington spinge il Cremlino ad intraprendere una fase di produzione frenetica d’armamenti. Industria pesante e produzione militare saranno allora sviluppate a detrimento dei beni di consumo e delle condizioni di vita della classe operaia. L’Unione sovietica, che in seguito alla vittoria occupa Europa orientale, esige dai nuovi paesi satelliti la completa sottomissione dei loro apparati produttivi agli interessi economici e militari dell’URSS.
Un vero sistema da vampiri si mette in moto fin dal 1945-1946 con, per esempio, lo smantellamento di certe fabbriche ed il loro trasferimento, operai compresi, sul suolo russo. In Russia e nei suoi paesi satelliti gli operai subiscono un regime di super sfruttamento della loro forza lavoro simile all’inferno descritto da Dante. Così, in Ungheria, grazie alla ricetta stalinista dello stakanovismo, il piano del 1950 farà quintuplicare la produzione di armamenti. La borghesia sovietica doveva mantenere gli stipendi bassi e sviluppare l’industria pesante nel più breve tempo possibile. Nel periodo 1948-53, le condizioni di vita degli operai in tutto il blocco dell’Est cadono al di sotto del livello d’anteguerra, ma la Russia uscirà da questo periodo con la sua bomba H ed i suoi Sputnik.
In queste condizioni, la collera in seno al proletariato non tardò a farsi sentire. Lo sfruttamento furibondo era sempre meno sopportabile; l’insurrezione covava. Gli operai cecoslovacchi come quelli di Berlino-Est nel 1953 si erano già rivoltati rendendo necessario l’intervento dei carri armati russi per ristabilire l’ordine. Il vento di rivolta contro lo stalinismo che soffiava all’est doveva trovare il suo coronamento nell’insurrezione ungherese d’ottobre 1956. L’insurrezione di Budapest del 23 ottobre approfitta, in un primo tempo, di una manifestazione organizzata all’origine dagli studenti “in solidarietà con il popolo della Polonia” che intanto aveva tentato di sollevarsi poco prima contro la cappa di piombo dei regimi stalinisti.
La risposta intransigente delle autorità che trattarono i manifestanti come “fascisti” e “controrivoluzionari”, la repressione sanguinosa condotta dall’AVO (la polizia segreta) e soprattutto, il fatto che la manifestazione “studentesca” fosse stata rafforzata da migliaia di operai, trasformarono in insurrezione armata la protesta pacifica che esigeva riforme democratiche ed il ritorno al potere del leader “riformista” Imre Nagy.
Non è qui che possiamo esaminare in tutti i dettagli gli avvenimenti che vanno dall’insurrezione del 23 ottobre fino all’intervento della Russia che è costato la vita a migliaia di persone, in maggioranza giovani operai. Vorremmo ritornare solamente sul carattere generale della rivolta con lo scopo di portarla fuori dalle terribili confusioni che la circondano. L'opposizione alla “vecchia guardia” stalinista si esprimeva in due modi. La prima proveniva dalla stessa borghesia, condotta dai burocrati liberali e sostenuta dagli studenti, dagli intellettuali e da artisti un poco più radicali. Essi difendevano una forma più democratica e più proficua del capitalismo di Stato in Ungheria. Ma “l’altra opposizione” era la resistenza spontanea della classe operaia allo sfruttamento mostruoso che le era imposto. In Ungheria, questi due movimenti sono coesistiti nell’insurrezione. Ma è l’intervento determinante della classe operaia che ha fatto trascendere questo movimento di protesta in insurrezione, ed è poi la contaminazione dell’insurrezione operaia con tutta l’ideologia nazionalista e democratica degli intellettuali che ha ostacolato il movimento proletario. Questa permeabilità della classe operaia al veleno nazionalista non è altro che il prodotto del corso storico di allora, quello della controrivoluzione iniziata negli anni 1920. Il proletariato si ritrova, su scala mondiale, al minimo delle forze, annientato ideologicamente dalla sconfitta della sua prima ondata rivoluzionaria del 1917-1923, schiacciato fisicamente dalla guerra mondiale ed inquadrato dai sindacati da una parte e dalle forze dell’ordine dall’altra. Gli era di conseguenza impossibile, senza una prospettiva chiara, superare lo stadio della rivolta per andare verso quello della rivoluzione, come gli era difficile in Ungheria premunirsi contro la propaganda nazionalista di una frazione della borghesia e del suo esercito.
Gli operai hanno scatenato il movimento di protesta a causa delle condizioni intollerabili in cui erano costretti a vivere e a lavorare. Una volta gettato il loro peso nel movimento, questo prese un carattere violento ed intransigente che nessuno aveva predetto. Sebbene differenti elementi abbiano preso parte alla lotta (studenti, soldati, contadini, ecc.), sono essenzialmente giovani lavoratori che, nei primi giorni dell’insurrezione, distrussero il primo contingente di carri armati russi mandati a Budapest per restaurare l’ordine. Fu principalmente la classe operaia a prendere le armi per combattere contro la polizia segreta e l’esercito russo. Quando la seconda ondata di carri russi arrivò per schiacciare l’insurrezione, furono i quartieri operai ad essere attaccati e mandati in rovina perché erano questi i principali centri di resistenza. Ed anche dopo la restaurazione de “l’ordine”, l’instaurazione del governo Kadar e il massacro di migliaia di operai, il proletariato ha continuato a resistere conducendo lotte aspre e numerose. La più chiara espressione del carattere proletario della rivolta è stata l’apparizione di consigli operai in tutto il paese. Sorti a livello di fabbrica, questi consigli determinarono contatti tra intere regioni industriali, tra le varie città, e rappresentarono senza alcun dubbio il centro organizzativo di tutta l’insurrezione. Questi presero in carica l’organizzazione della distribuzione di armi e cibo, la direzione dello sciopero generale e diressero la lotta armata. In certe città detenevano il comando totale ed incontestato. L’apparizione di questi soviet seminò inquietudine e spavento in seno alla classe capitalista sia all’Est che all’Ovest.
Ma cantare le lodi delle lotte degli operai ungheresi senza analizzare le loro debolezze estreme e le loro confusioni sarebbe un tradimento dei nostri compiti come rivoluzionari, che non si riducono ad applaudire passivamente alla lotta del proletariato, ma criticare i suoi limiti e sottolineare gli scopi generali del movimento della classe. Nonostante che gli operai avessero di fatto il potere in grandi zone dell’Ungheria durante il periodo insurrezionale, la ribellione del 1956 non era un tentativo cosciente da parte del proletariato di prendere il potere politico né di costruire una nuova società. Era una rivolta spontanea che è fallita nel divenire una rivoluzione perché mancava alla classe operaia una comprensione politica chiara degli scopi storici della sua lotta, anche perché subiva ancora tutto il peso ideologico legato alla controrivoluzione. La prima difficoltà degli operai ungheresi era resistere all’enorme peso dell’ideologia nazionalista e democratica. Gli studenti e gli intellettuali erano i propagatori più attivi di quest’ideologia, ma gli stessi operai soffrivano inevitabilmente di tutte queste illusioni. E dunque, piuttosto che affermare gli interessi autonomi del proletariato contro lo Stato capitalista e tutte le altre classi, i consigli tendevano ad identificare la lotta degli operai con la lotta “popolare” per riformare la macchina statale in vista de “l’indipendenza nazionale”, pura utopia reazionaria nell’epoca della decadenza capitalista e dell’imperialismo. Al posto di chiamare, come avevano fatto i Soviet della Russia nel 1917, alla distruzione dello Stato borghese ed all’estensione internazionale della rivoluzione, i consigli si limitarono ad esigere il ritiro delle truppe russe, una “Ungheria socialista indipendente” sotto la direzione di Imre Nagy, la libertà d’espressione, l’autogestione delle fabbriche, ecc. I metodi di lotta utilizzati dai consigli erano implicitamente rivoluzionari, esprimendo la natura intrinsecamente rivoluzionaria del proletariato. Ma gli scopi che hanno adottato restavano tutti nel quadro politico ed economico del capitalismo. La contraddizione nella quale i consigli si ritrovarono può essere riassunta nella seguente rivendicazione, avanzata dal consiglio operaio di Miskolc: “Il governo deve proporre la formazione di un Consiglio Nazionale Rivoluzionario, basato sui consigli operai dei differenti dipartimenti e di Budapest, e composto da delegati eletti democraticamente da questi. Nello stesso tempo, il vecchio Parlamento deve essere sciolto” (Citato in Burocrazia e Rivoluzione in Europa dell’Est di Chris Hermann, p.161). Piuttosto che spingere avanti la dinamica della loro lotta, i consigli hanno indirizzato le loro rivendicazioni di scioglimento del parlamento e la realizzazione di un consiglio centrale degli operai al governo provvisorio di Imre Nagy, cioè alla stessa forza che avrebbero dovuto sopprimere! Tali illusioni non potevano che condurre allo schiacciamento dei consigli o alla loro integrazione nello loro Stato borghese.
Bisogna comunque riconoscere alla maggioranza dei consigli operai che essi o sono stati distrutti nella lotta o si sono sciolti quando hanno visto che non vi erano più speranze nella lotta e che erano condannati a diventare degli organi strumentalizzati del governo Kadar. L’incapacità degli operai ungheresi a sviluppare una comprensione rivoluzionaria della loro situazione è apparsa anche nel fatto che, a nostra conoscenza, nessun raggruppamento politico rivoluzionario è stato generato in Ungheria da questa enorme convulsione. Come scriveva Bilan, (la pubblicazione della Sinistra italiana), a proposito della Spagna degli anni 1930, l’insuccesso del proletariato spagnolo a creare un partito di classe malgrado la natura radicale della sua lotta era fondamentalmente l’espressione del profondo vuoto in cui il movimento proletario internazionale si trovava in quel momento. Da un certo punto di vista, la situazione del 1956 era anche peggiore: l’ultima delle frazioni comuniste di sinistra era sparita, e non solamente in Ungheria, ma ovunque nel mondo; il proletariato si ritrovava quasi senza nessuna propria espressione politica. Le deboli voci rivoluzionarie che potevano esistere erano sommerse facilmente dal clamore di queste forze della controrivoluzione il cui ruolo è di parlare “a nome” della classe operaia. Gli stalinisti di tutti i paesi mostravano la loro natura brutalmente reazionaria calunniando il sollevamento operaio di “cospirazione” al servizio del clan del vecchio dittatore Horthy o della CIA. In quest’epoca molti individui hanno lasciato i “Partiti Comunisti” per disgusto, ma tutti i PC senza eccezione hanno sostenuto la repressione selvaggia degli operai ungheresi. Inoltre alcuni di loro, guidati dal “grande timoniere”, il Presidente Mao a Pechino, criticarono Krusciov per non avere represso gli operai ungheresi abbastanza severamente! I trotskisti potevano apparire a fianco degli operai per aver espresso il loro “sostegno” al sollevamento. Ma caratterizzando la rivolta come una “rivoluzione politica” per la “democrazia operaia” e “l’indipendenza nazionale”, hanno contribuito a rafforzare la mistificazione insidiosa secondo la quale lo Stato in Ungheria aveva già un carattere operaio e doveva essere epurato solamente dalle sue deformazioni burocratiche per ritrovarsi interamente nelle mani degli operai. Non solo le organizzazioni trotskiste hanno diffuso un peso ideologico che serviva a mantenere la lotta degli operai dentro il quadro dello Stato borghese, ma hanno sostenuto apertamente l’ala burocratica più “liberale” dei regimi stalinisti. La presa di posizione di Ernest Mandel, grande prete della IV Internazionale nel 1956, a proposito della vittoria della cricca Gomulka in Polonia è priva di ogni ambiguità: “La democrazia socialista avrà ancora molte battaglie da portare avanti in Polonia, (ma) la battaglia principale, quella che ha permesso a milioni di operai di identificarsi di nuovo con lo Stato operaio, è già vinta" (citata da Harman, p. 108). Dal 1956, sono state pubblicate alcune analisi anche più “radicali” sugli avvenimenti in Ungheria, ma che rompono veramente poco con il quadro del trotskismo. Per esempio, i libertari di Solidarity, nel loro opuscolo Ungheria 56, vedono la rivendicazione dell’autogestione operaia (elaborata dai sindacati ungheresi!) come il vero fattore rivoluzionario del sollevamento. Ma questa rivendicazione, come l’appello all’indipendenza nazionale ed alla democrazia, era solamente un ulteriore diversivo al compito centrale degli operai: la distruzione dello Stato capitalista, l’impadronirsi da parte dei consigli non semplicemente della produzione, ma del potere politico. Molte frazioni della borghesia ricordano oggi con nostalgia gli anni 1950 perché questo era un periodo dove l’ideologia borghese sembrava avere conquistato il controllo assoluto della classe operaia. Gli operai dell’Europa dell’est si sono dunque ritrovati isolati e sottomessi a tutte le illusioni generate da una situazione in apparenza “particolare”. Con un capitalismo occidentale che sembrava tanto prospero e libero, non era difficile per gli operai del blocco dell’est vedere il loro nemico nella Russia o nello stalinismo, e non nel capitalismo mondiale. Ciò spiega le terribili illusioni che avevano spesso gli insorti sui regimi “democratici” dei paesi occidentali. Molti speravano che l’occidente “venisse in loro aiuto” contro i Russi. Ma l’occidente aveva già riconosciuto a Yalta il “diritto” della Russia di sfruttare e di opprimere i lavoratori dei paesi dell’est, e non aveva nessuno interesse a venire in aiuto di qualcosa del tutto incontrollabile come era il sollevamento di massa degli operai.
Il mondo capitalista non è più quello degli anni ‘50. Dalla fine degli anni ‘60 l’insieme del sistema è caduto ancora più profondamente in una crisi economica insolubile, espressione della decadenza storica del capitalismo da circa un secolo. In risposta a questa crisi, una nuova generazione di lavoratori ha aperto un nuovo periodo di lotta di classe a scala internazionale. Se si paragonano gli scioperi della Polonia negli anni 1970 al sollevamento in Ungheria, si può vedere che molte illusioni degli anni ‘50 hanno cominciato a perdere la loro presa. Gli operai della Polonia non si sono battuti come “polacchi” ma come operai; il loro nemico immediato non erano “i Russi” ma la propria borghesia; il loro obiettivo immediato non era la difesa del “proprio” paese ma la difesa del livello di vita. È questa riapparizione del proletariato internazionale sul suo terreno di classe che ha rimesso la rivoluzione comunista mondiale all’ordine del giorno della storia. Ma, sebbene il sollevamento ungherese appartenga ad un periodo superato della classe operaia, esso contiene molti insegnamenti per la lotta del proletariato di oggi sul piano della presa di coscienza del suo ruolo rivoluzionario. Attraverso gli errori e le confusioni, il sollevamento sottolineava numerose lezioni cruciali a proposito dei nemici della classe operaia: il nazionalismo, l’autogestione, lo stalinismo sotto tutte le sue forme, la “democrazia” occidentale, ecc. Ma allo stesso tempo, nella misura in cui essa ha ossessionato la borghesia dell’est e dell’ovest con lo spettro dei consigli operai armati, l’insurrezione è stata un eroico segnale premonitore del futuro che attende il proletariato in tutto il mondo.
Da World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna
Nello scorso numero di questo giornale abbiamo visto come, di fronte al crescere delle tensioni guerriere, il cosiddetto pacifismo si dimostri complice dei guerrafondai e abbiamo ricordato che di fronte a questa tendenza ineluttabile del capitalismo solo la lotta contro questo sistema può costituire un vero freno alla guerra, come dimostrato dalla rivoluzione russa del 1917, che spinse la borghesia mondiale a mettere fine alla prima guerra mondiale prima che questa arrivasse agli estremi della sua furia distruttiva. Questa posizione, che viene definita dell’internazionalismo proletario perché basata sul fatto che i proletari non hanno un fronte da scegliere, ma un capitale internazionale da combattere, si sta diffondendo a livello internazionale e costituisce, oggi come oggi, assieme ad una rinata tendenza alla solidarietà all’interno delle lotte che si sviluppano nei vari paesi, un elemento caratterizzante e qualificante delle nuove leve di rivoluzionari che emergono ai quattro lati del pianeta.
Per dare una testimonianza dell’emergere di queste nuove leve di rivoluzionari abbiamo già pubblicato sul nostro sito web, nella rubrica ICC on line, la Dichiarazione Internazionalista fatta da una conferenza di gruppi riuniti nella Corea del sud. (1) Qui di seguito riportiamo invece, preceduto da una introduzione, un volantino contro la recente guerra in Libano prodotto da una formazione politica di compagni turchi.
Mentre l'orizzonte politico sembra oscurato dalla guerra e la barbarie, la prospettiva proletaria vive e si sviluppa. Lo dimostrano non soltanto lo sviluppo delle lotte della classe operaia in varie parti del mondo, ma anche la comparsa in vari paesi di piccoli gruppi ed elementi politicizzati che cercano di difendere le posizioni internazionaliste che sono il segno distintivo della politica proletaria. Il gruppo “Enternasyonalist Komunist Sol” (“Sinistra comunista internazionale”) in Turchia è un'espressione di questa tendenza. Riproduciamo qui un volantino che questo gruppo ha prodotto in risposta alla guerra in Libano. L'emergere di questa voce internazionalista in Turchia è tanto più significativa in quanto il nazionalismo (diffuso in particolare dalla sinistra del capitale) è particolarmente forte in questo paese. Inoltre la Turchia è profondamente implicata nelle rivalità interimperialiste che devastano questa regione. Lo Stato turco è sul punto di lanciare una nuova offensiva contro i nazionalisti kurdi del PKK - campagna militare che sarà certamente giustificata ideologicamente dalla recente ondata di attacchi terroristici in molte città turche, attribuite alle fazioni nazionalistiche kurde. La questione kurda è direttamente legata alla situazione in Iraq ed in Siria, e la Turchia è uno di quegli Stati ad avere stretti legami con Israele. La guerra in Libano ha un forte peso sugli operai in Turchia; allo stesso tempo, la classe operaia turca, che ha una lunga tradizione di lotte combattive, potrebbe svolgere un ruolo importante nello sviluppo di un'alternativa proletaria alla guerra imperialista in questa regione.
Il volantino di EKS sulla situazione in Libano ed in Palestina
Il 12 luglio, subito dopo il rapimento dei soldati israeliani da parte di Hezbollah, il presidente israeliano Ehoud Olmert ha promesso ai libanesi una “risposta molto dolorosa e di grande ampiezza”. Il 3 luglio all'alba, lo Stato di Israele cominciava un'invasione e spingeva la sua classe operaia in una nuova guerra nazionalista ed imperialista. Lo Stato di Israele ha lanciato quest'invasione per i suoi propri interessi e senza preoccuparsi del sangue che poteva essere versato. In 15 giorni circa 400 civili libanesi hanno perso la vita. La recente tregua non garantisce che i massacri non ricominceranno poiché lo Stato di Israele ha mostrato che è pronto a distruggere tutto quello che minaccia i suoi interessi, non soltanto nell'ultimo conflitto ma anche attraverso la continua tortura dei palestinesi.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare che Israele non è il solo responsabile di questo conflitto. Né Hezbollah, che attualmente attira l'attenzione del mondo per gli attacchi che sferra contro gli Israeliani con una violenza che eguaglia la loro, né l’OLP ed Hamas, che da anni conducono una guerra nazionalista in Palestina, possono essere considerati dei “puri”. Hezbollah, che Israele ha messo all’indice davanti al mondo prima dell'inizio del conflitto, ha ucciso civili israeliani con razzi che provengono dalla Siria e dall’Iran, durante tutta la guerra. Hezbollah è un'organizzazione antisemita e fondamentalista. Più importante ancora, contrariamente a ciò che pensano alcuni, Hezbollah non si è battuto per proteggere il Libano. Al contrario, è per i propri interessi che ha forzato la classe operaia libanese a raggiungere il fronte nazionalista e si è battuto soltanto per difendere i territori che controlla e l'autorità che detiene. L’OLP, che ha spinto gli operai palestinesi dal terreno della lotta di classe alle grinfie della loro borghesia nazionale, ed Hamas che è altrettanto reazionario, violento, antisemita e fondamentalista quanto Hezbollah, anche loro non fanno che difendere i loro interessi. Qui è necessario descrivere brevemente cosa è l’imperialismo. Contrariamente a ciò che molta gente pensa, l’imperialismo non è una politica che esercitano i potenti Stati nazionali allo scopo di prendere il controllo delle risorse degli Stati nazionali più deboli. Al contrario, si tratta della politica di ogni Stato nazionale, o di organizzazioni che funzionano come uno Stato nazionale, che controllano una certa zona, le risorse di questa e che esercitano la loro autorità sulla popolazione di questo territorio. Più semplicemente, l’imperialismo è la politica naturale che pratica qualsiasi Stato nazionale o qualsiasi organizzazione che funziona come uno Stato nazionale. Come abbiamo visto nell'ultimo conflitto tra Israele ed Hezbollah, in alcune situazioni, gli Stati nazionali o le organizzazioni che funzionano come uno Stato nazionale, hanno conflitti d'interesse e questi conflitti sfociano in una guerra interimperialista.
In una tale situazione, ciò che dicono i gauchistes in Turchia e nel mondo, risulta ancora più ridicolo ed incoerente. In Turchia come nel mondo, la maggior parte dei gauchistes hanno dato il loro sostegno totale all’OLP e ad Hamas. Rispetto all'ultimo conflitto, si sono espressi unanimemente per dire “siamo tutti Hezbollah”. Seguendo questa logica, secondo la quale “il nemico del mio nemico è mio amico”, hanno interamente sostenuto questa violenta organizzazione che ha spinto la classe operaia in una disastrosa guerra nazionalista.
Il sostegno dei gauchistes al nazionalismo ci mostra perché questi non hanno molto di diverso da dire rispetto a quello che dice l’MPH (partito del movimento nazionale - i Lupi grigi fascisti) non solo su Hezbollah, OLP ed Hamas ma anche su altri argomenti. In Turchia, in particolare, i gauchistes non hanno alcuna idea di ciò di cui parlano.
La guerra tra Hezbollah ed Israele e la guerra in Palestina sono entrambe guerre interimperialiste, ed i diversi campi in gioco utilizzano, tutti, il nazionalismo per trascinare la classe operaia della loro regione nel proprio campo. Più gli operai sono risucchiati nel nazionalismo, più perderanno la loro capacità ad agire come classe. È per questo che né Israele, né Hezbollah, né OLP, né Hamas devono essere sostenuti, in nessun caso. Ciò che deve ricevere un sostegno in questo conflitto, è la lotta dei lavoratori per sopravvivere, non le organizzazioni nazionaliste o gli Stati che li fanno uccidere. E ancora più importante, ciò che si deve fare in Turchia è operare per la coscienza di classe e la lotta di classe che si svilupperanno qui. L’imperialismo ed il capitalismo incatenano i paesi gli uni agli altri; per questo l'indipendenza nazionale è impossibile. Solo la lotta della classe operaia per i propri bisogni può offrire una risposta.
Per l’internazionalismo e la lotta di classe!
Enternasyonalist Komunist Sol
1. Dalla nostra introduzione alla dichiarazione internazionalista dalla Corea: “Alla fine di ottobre 2006, l’Alleanza Politica Socialista (SPA) ha convocato una conferenza di organizzazioni, gruppi e militanti internazionalisti nelle città coreane del sud di Seul e di Ulsan. Per quanto modesti fossero i numeri delle persone presenti, l’SPA, per quanto ne sappiamo, è la prima espressione organizzata nell’Estremo-Oriente dei principi della Sinistra Comunista e questa conferenza era certamente la prima del genere. Come tale, essa ha un’importanza storica e la CCI le ha dato il suo pieno e convinto sostegno inviando una delegazione per parteciparvi.”
Il recente conflitto tra Israele e Hezbollah in Libano ha costituito ancora una volta l’occasione, in un gran numero di paesi, per sentire elevarsi voci contro "l'imperialismo americano" come il principale, addirittura unico, seminatore di guerra e destabilizzazione. I gauchistes sono spesso i primi in questo elenco. In Francia, in particolare, i trotskisti di LO (Lotta Operaia) e della LCR (Lega dei comunisti rivoluzionari) non perdono mai l'occasione per stigmatizzare l'imperialismo americano, e quello del suo alleato israeliano, qualificato come "espansionismo sionistico", che massacrano, saccheggiano, occupano e sfruttano i "popoli" e le "nazioni" oppresse. Ma la prima potenza mondiale non ha il monopolio dell'imperialismo. Anzi, quest'ultimo è una condizione sine qua non alla sopravvivenza di ciascuna nazione. Il periodo di decadenza del capitalismo, cominciato circa un secolo fa, segna l'entrata del sistema nell'era dell'imperialismo generalizzato al quale nessuna nazione può sottrarsi. Questa tensione permanente contiene la guerra come prospettiva ed il militarismo come stile di vita per tutti gli Stati, siano essi grandi, piccoli, forti, deboli, aggressori o aggrediti.
Per dare una definizione molto generale, l'imperialismo è la politica di un paese che cerca di conservare o estendere il suo dominio politico, economico e militare su altri paesi o territori; questa definizione ci riconduce a numerosi momenti della storia umana, dai vecchi imperi assiri, romani, ottomani o alle conquiste di Alessandro il Grande fino ai nostri giorni. Però, nel capitalismo, questo termine acquista un significato molto particolare. Come scriveva Rosa Luxemburg "la tendenza del capitalismo all'espansione costituisce l'elemento più importante, il tratto notevole dell'evoluzione moderna; in effetti l'espansione accompagna tutta la carriera storica del capitale, essa ha preso nella sua attuale fase finale, l'imperialismo, un'energia così impetuosa che mette in discussione tutta l'esistenza civilizzata dell'umanità" (1). È dunque vitale comprendere ciò che è l'imperialismo in un sistema capitalista diventato decadente, ciò che genera oggi quei conflitti che mettono a ferro e fuoco il pianeta tutto, ciò che nella "fase finale attuale […] mette in discussione tutta l'esistenza civilizzata dell'umanità". Dal momento che il mercato mondiale è stato costituito all'inizio del ventesimo secolo ed è stato diviso in zone commerciali e di influenza tra Stati capitalisti avanzati, l'intensificazione e gli scatenamenti della concorrenza che risultavano tra queste nazioni hanno condotto all'aggravamento delle tensioni militari, allo sviluppo senza precedente di armamenti ed alla sottomissione crescente dell'insieme della vita economica e sociale agli imperativi militari per la preparazione permanente alla guerra. Rosa Luxemburg ha distrutto le basi della mistificazione secondo cui solo uno Stato, o un gruppo particolare di Stati, che dispongono di una certa potenza militare, sarebbero i soli responsabili della barbarie guerriera. Se tutti gli Stati non dispongono degli stessi mezzi, tutti hanno la stessa politica. Se, infatti, le ambizioni di dominio mondiale possono manifestarsi solamente tra gli Stati più potenti, non significa che i più piccoli non condividono gli stessi appetiti imperialistici. Accade come nel campo della mafia, in cui solo il grande padrino può dominare la città intera, mentre il magnaccia di quartiere regna su una sola strada. Tuttavia, niente li distingue sul piano delle aspirazioni o dei metodi di gangster. E' così che tutti i piccoli Stati sviluppano con altrettanta energia degli altri la loro ambizione a diventare una nazione più grande a spese dei loro vicini. E' per tale motivo che è impossibile fare una distinzione tra Stati oppressori e Stati oppressi. In effetti nei rapporti di forza che si impongono tra loro gli squali imperialisti, tutti sono ugualmente concorrenti nell'arena mondiale. Il mito borghese dello Stato o del blocco aggressore a causa del militarismo viscerale serve a giustificare la guerra "difensiva". La stigmatizzazione dell'imperialismo più aggressivo costituisce solo la propaganda di ogni avversario per reclutare le popolazioni nella guerra. Il militarismo e l'imperialismo costituiscono manifestazioni sempre più aperte dell'entrata del sistema capitalista nella sua decadenza, a tal punto che fin dall'inizio del ventesimo secolo hanno provocato un dibattito tra i rivoluzionari.
La spiegazione materialista dell'imperialismo
Di fronte al fenomeno dell'imperialismo, differenti teorie sono state sviluppate dal movimento operaio per spiegarlo, particolarmente da Lenin e Rosa Luxemburg. Le loro analisi sono comparse alla vigilia e durante la Prima Guerra mondiale contro la visione di Kautsky che faceva dell'imperialismo un'opzione tra altre politiche possibili per gli Stati capitalisti e che poteva sfociare su una "fase di super imperialismo, di unione e non di lotta degli imperialismi del mondo intero, una fase della cessazione delle guerre in regime capitalista, una fase di sfruttamento in comune dell'universo da parte del capitale finanziario unito a scala internazionale”. (2) Al contrario, gli approcci marxisti hanno in comune il considerare non solo l'imperialismo come un prodotto delle leggi del capitalismo, ma sempre più come una necessità legata al suo declino. La teoria di Lenin riveste un'importanza particolare perché gli ha permesso nel primo conflitto mondiale di difendere un rigoroso internazionalismo che è diventato poi la posizione ufficiale dell'Internazionale Comunista. Tuttavia, Lenin affronta soprattutto la questione dell'imperialismo in un modo descrittivo senza riuscire a spiegare chiaramente l'origine dell'espansione imperialista. Per lui, è essenzialmente un movimento dei paesi evoluti che ha per caratteristica principale l’utilizzazione nelle colonie del capitale delle metropoli "in sovrabbondanza", allo scopo di ottenere dei "superprofitti" approfittando di una mano d'opera meno cara e di materie prime abbondanti. In questa concezione, i paesi capitalisti avanzati diventano i parassiti delle colonie; l'ottenimento dei "superprofitti", indispensabili alla loro sopravvivenza, spiega lo scontro mondiale per conservare o conquistare delle colonie. La conseguenza di ciò è la divisione del mondo in paesi oppressori da una parte e in paesi oppressi nelle colonie dall'altra. "L'insistenza di Lenin sul fatto che i possedimenti coloniali erano un tratto distintivo ed anche indispensabile dell'imperialismo non ha retto alla prova del tempo. Malgrado la previsione che la perdita delle colonie, precipitosa per le rivolte nazionali in queste regioni, avrebbe scosso il sistema imperialista fino ai suoi fondamenti, l'imperialismo si è adattato facilmente e completamente alla decolonizzazione. La decolonizzazione [dopo il 1945] ha espresso solo il declino delle vecchie potenze imperialiste ed il trionfo dei giganti imperialisti che non erano ostacolati da un gran numero di colonie al momento della prima guerra mondiale. E’ così che gli Stati Uniti e l'URSS hanno potuto sviluppare una politica cinica "anti-coloniale" per portare avanti i loro obiettivi imperialisti, appoggiandosi sui movimenti nazionali e trasformandoli immediatamente in guerre interimperialiste per "popoli" interposti" (3). Partendo dall'analisi dell'insieme del periodo storico e dell'evoluzione del capitalismo come sistema globale, Rosa Luxemburg è giunta ad una comprensione più completa e profonda del fenomeno dell'imperialismo. Ha messo in evidenza la base storica dell'imperialismo nelle stesse contraddizioni del sistema capitalista. Mentre Lenin si limita a constatare il fenomeno dello sfruttamento delle colonie, Rosa Luxemburg analizza che le conquiste coloniali hanno accompagnato costantemente lo sviluppo capitalista nutrendo l'insaziabile necessità dell'espansione capitalista e hanno rappresentato, attraverso la penetrazione nei nuovi mercati, l'introduzione dei rapporti capitalisti nelle zone geografiche dove non esistevano ancora: "L'accumulazione in un campo esclusivamente capitalista è impossibile. Da là risulta fin dalla nascita del capitale il suo bisogno di espansione nei paesi e negli strati non capitalisti, la rovina dell'artigianato e della classe contadina, la proletarizzazione degli strati medi, la politica coloniale (la politica "di apertura" dei mercati), l'esportazione dei capitali. L'esistenza e lo sviluppo del capitalismo dalla sua origine sono stati possibili solamente attraverso un'espansione costante sia nella produzione che nei paesi nuovi" (4). E' in tal modo che l'imperialismo si è accentuato considerevolmente nell'ultimo quarto del diciannovesimo secolo... "Il capitalismo, alla ricerca arida e febbrile di materie prime e di acquirenti che non fossero né capitalisti, né salariati, rubò, decimò ed assassinò le popolazioni coloniali. Fu l'epoca della penetrazione e dell'estensione dell'Inghilterra in Egitto, della Francia in Marocco, a Tunisi e nel Tonchino, dell'Italia nell'est dell'Africa, sulle frontiere dell'Abissinia, della Russia zarista in Asia Centrale ed in Manciuria, della Germania in Africa ed in Asia, degli Stati Uniti nelle Filippine ed a Cuba, infine del Giappone sul continente asiatico" (5). Ma questa evoluzione blocca il capitalismo nella contraddizione fondamentale: più la produzione capitalista estende la sua impresa sul globo, più stretti diventano i limiti del mercato creato dalla ricerca sfrenata del profitto rispetto al bisogno di espansione capitalista. Al di là della concorrenza per le colonie, Rosa Luxemburg identifica nella saturazione del mercato mondiale e la rarefazione degli sbocchi non capitalisti una svolta nella vita del capitalismo: il fallimento ed il vicolo cieco di questo sistema che "non può compiere più la sua funzione di veicolo storico dello sviluppo delle forze produttive" (6). È questa anche la causa, in ultima analisi, delle guerre che caratterizzano ormai lo stile di vita del capitalismo decadente.
L'imperialismo, stile di vita del capitalismo in decadenza
Una volta raggiunti i limiti del globo terrestre, per il mercato capitalista la rarefazione degli sbocchi solvibili e di nuovi mercati apre la crisi permanente del sistema capitalista mentre la necessità di espansione resta una questione vitale per ogni Stato. Oramai, questa espansione può solamente farsi a detrimento degli altri Stati in una lotta per la ripartizione attraverso le armi del mercato mondiale. "All'epoca del capitalismo ascendente le guerre (nazionali, coloniali e di conquista imperialista) esprimevano la marcia ascendente, di fermentazione, di allargamento e di espansione del sistema economico capitalista. La produzione capitalista trovava nella guerra la continuazione della sua politica economica attraverso altri mezzi. Ogni guerra si giustificava e pagava le sue spese aprendo un nuovo campo per una maggiore espansione, assicurando così lo sviluppo di una maggiore produzione capitalista. (...) La guerra fu il mezzo indispensabile al capitalismo per aprirgli delle possibilità d’ulteriore sviluppo, all'epoca in cui queste possibilità esistevano e potevano essere aperte solamente con la violenza.” (7) Ormai, "La guerra diventa il solo mezzo non di soluzione alla crisi internazionale ma il solo mezzo attraverso il quale ogni imperialismo nazionale tende a liberarsi delle difficoltà con cui è alle prese, a spese degli Stati imperialisti rivali" (8).Questa nuova situazione storica impone in tutti i paesi del mondo lo sviluppo del capitalismo di Stato. Ogni capitale nazionale è condannato alla competizione imperialista e trova nello Stato l'unica struttura sufficientemente forte per mobilitare tutta la società per affrontare i suoi rivali economici sul piano militare. "La crisi permanente pone l'inevitabilità del regolamento di conti tra imperialisti attraverso la lotta armata. La guerra e la minaccia di guerra sono gli aspetti latenti o manifesti di una situazione di guerra permanente nella società. La guerra moderna è una guerra basata sulle macchine. In vista della guerra è necessaria una mobilitazione mostruosa di tutte le risorse tecniche ed economiche dei paesi. La produzione di guerra diventa anche l'asse della produzione industriale e principale campo economico della società" (9). E' per tale motivo che il progresso tecnico è condizionato interamente dal militare: l'aviazione si sviluppa prima militarmente durante la prima guerra mondiale, l'atomo utilizzato come bomba nel 1945, l'informatica ed Internet concepiti come strumenti militari per la NATO. Il peso del settore militare in tutti i paesi assorbe tutte le forze vive dell'economia nazionale per sviluppare un armamento da utilizzare contro altre nazioni. All'alba della decadenza, la guerra era concepita come un mezzo di ripartizione dei mercati. Ma col passare del tempo, la guerra imperialista perde la sua razionalità economica. Fin dall'inizio della decadenza, la dimensione strategica prende il passo sulle questioni rigorosamente economiche. Si tratta di conquistare posizioni geostrategiche contro tutti gli altri imperialismi nella lotta per l'egemonia, per imporsi come potenza e difendere il proprio rango. In questo periodo del declino del capitalismo, la guerra rappresenta sempre più un disastro economico e sociale. Quest'assenza di razionalità economica della guerra non significa che ogni capitale nazionale si astenga da saccheggiare le forze produttive dell'avversario o del vinto. Ma una tale "rapina", contrariamente a ciò che pensava Lenin, non costituisce più lo scopo principale della guerra. Mentre certi immaginano ancora, ufficialmente per fedeltà a Lenin, che la guerra possa essere motivata dagli appetiti economici (il petrolio è il primo nella hit-parade su questa questione) la realtà si incarica di dare loro una risposta. Il bilancio economico della guerra in Iraq condotta dagli Stati Uniti dal 2003 non sembra francamente pendere dal lato della "redditività". I redditi del petrolio iracheno, anche sperati per i prossimi anni 100, pesano ben poco di fronte alle spese abissali effettuate dallo Stato americano per condurre questa guerra, senza che si veda, per il momento, una loro frenata. L'entrata del capitalismo nella sua fase di decomposizione porta all'incandescenza le contraddizioni contenute nel periodo di decadenza. Per tutti i paesi, ogni conflitto particolare in cui sono impegnati implica dei costi che superano largamente i benefici che possono trarre. Le guerre hanno per risultato, senza parlare degli stessi massacri, solo distruzioni massicce che lasciano completamente esangui e nella rovina completa i paesi dove si svolgono, che non saranno mai ricostruiti. Ma nessuno di questi calcoli di profitto o di perdita elimina la necessità degli Stati, tutti gli Stati, a difendere la loro presenza imperialista nel mondo, a sabotare le ambizioni dei loro rivali, o ad aumentare i loro bilanci militari. Al contrario, essi sono presi tutti in un ingranaggio irrazionale dal punto di vista economico e della redditività capitalista. Ignorare l'irrazionalità della borghesia significa sottovalutare la minaccia reale di distruzione pura e semplice che pesa sull'avvenire dell'umanità.
(tradotto da Révolution Internationale n° 335 - maggio 2003)
1. Rosa Luxemburg, L’Accumulazione del capitale, Einaudi
2. Lenin, L'imperialismo stadio supremo del capitalismo, Editori Riuniti.
3. Révue Internationale n°19, p. 11.
4. Rosa Luxemburg, Una anticritica. Ne L'accumulazione del capitale, mostra che la totalità del plusvalore estratto dallo sfruttamento della classe operaia non può essere realizzato dentro i rapporti sociali capitalisti, perché gli operai, i cui salari sono inferiori al valore creato dalla loro forza lavoro, non possono acquistare tutte le merci che producono. La classe capitalista non può consumare tutto il plusvalore poiché una parte di questa deve servire alla riproduzione allargata del capitale e deve essere scambiata. Dunque il capitalismo, considerato da un punto di vista globale, è obbligato costantemente a ricercare degli acquirenti alle sue merci all'infuori dei rapporti sociali capitalisti. 5. Il Problema della guerre di Jehan, Bilan 1935, citato nella Révue Internationale n°19. 6. Rosa Luxemburg, Una anticritica, in L’accumulazione del capitale, Einaudi. 7. Rapporto alla conferenza di luglio 1945 della Gauche Communiste de France (Sinistra Comunista di Francia). 8. Ibid. 9. Ibid.
La gravità del riscaldamento climatico legato all'emissione di gas a effetto serra è “una scomoda verità”. Almeno, è ciò che ci dice Al Gore, l’ex-vice presidente degli Stati Uniti che, dopo il suo fiasco elettorale nel 2000, vola di conferenza in conferenza (dagli Stati Uniti, al Giappone, dalla Cina, alla Germania...) per rivelare al mondo, come un uccello del malaugurio, questa “scomoda” verità. E’ logico quindi che il regista pro-democratico Davis Guggenheim abbia messo in scena una di queste innumerevoli conferenze in un documentario al titolo: Una scomoda verità. La cosa “scomoda” a questo punto è che a consegnarci questa grande verità in un magistrale corso, sul grande schermo ed a livello planetario, sia proprio un alto dignitario della borghesia americana. Sono più di trent’anni che la comunità scientifica si dedica al problema ed oltre dieci anni che questa ha constatato unanimemente l'aggravamento del riscaldamento della terra legato all'inquinamento industriale. In fin dei conti, la sola ed unica rivelazione che contiene questo film è Al Gore stesso ed il suo dono innato per la commedia. In effetti, quello che si presenta oggi come il paladino della difesa dell'ambiente, dopo i suoi anni di studi a Harvard dove seguiva assiduamente i corsi del professore Roger Revelle (pioniere della teoria del riscaldamento globale), è lo stesso di quello che più tardi, con Clinton, “ha autorizzato lo scarico di diossina negli oceani ed ha lasciato che si compiesse il più grande disboscamento di tutta la storia degli Stati Uniti” (The Independent, apparso sul giornale francese Courier International del 15 giugno 2006). Albert Gore, come una spugna inzuppata d'ipocrisia, è un esemplare molto rappresentativo della sua classe sociale. Tutti gli Stati sono coscienti della posta in gioco a livello climatico. Tutti proclamano la volontà di fare qualcosa per preservare l'ambiente naturale della specie umana e garantire il futuro delle prossime generazioni. Tuttavia, nonostante le incendiarie dichiarazioni del Summit sulla terra a Rio (1992) o le buone risoluzioni del protocollo di Kyoto (1998), l'inquinamento va crescendo e le minacce legate allo sconvolgimento del clima si amplificano. In effetti, la scomoda verità che la borghesia nasconde dietro tutte le sue conferenze, e ora i suoi film, è che il mondo capitalista è completamente impotente a trovare una soluzione ai danni climatici... e ciò tanto più che ne è il primo responsabile.
Il riscaldamento climatico è un pericolo per il futuro della specie umana
Il sistema capitalista, in fallimento da più di un secolo, non rappresenta più alcun progresso per l'umanità. La sua esistenza si poggia oggi su una base malata e distruttiva. Le disastrose conseguenze ecologiche, avvertite sin dagli anni 1950, ne sono una ulteriore dimostrazione. Gli esami di carotaggio del ghiaccio non mentono! I campioni prelevati in Antartico con questo metodo, permettono di studiare la composizione dell'atmosfera su molte centinaia di migliaia di anni. Questi indicano chiaramente che i tassi di CO2 non sono mai stati tanto alti come a partire dalla metà del 20º secolo. Le emissioni di gas a effetto serra, caratteristica del modo di produzione capitalista, sono aumentate incessantemente e la temperatura media si accresce ad un ritmo regolare. “Il pianeta è oggi più caldo di quanto non lo è mai stato nel corso degli ultimi 2 millenni, e, se la tendenza attuale continua, sarà probabilmente più caldo entro la fine del 21º secolo come non lo è mai stato negli ultimi due milioni di anni” (The New Yorker, apparso in Courier International, ottobre 2006). Questo aumento di calore è del resto visibile ad occhio nudo ai due poli del globo. Lo scioglimento dell’Antartide è tanto spinto che si prevede la sua scomparsa entro il 2080. Tutti i grandi ghiacciai si stanno riducendo e gli oceani si riscaldano. Nel 1975, James Hansen, direttore dell'istituto Goddard di studi spaziali (il GISS), si è interessato ai cambiamenti climatici. “Nella sua tesi dedicata al clima di Venere, egli avanza l'ipotesi secondo la quale se il pianeta presenta una temperatura media di superficie di 464°C, è perché è avvolta da una nebbia di gas carbonico responsabile di un effetto serra considerevole. Qualche tempo dopo, una sonda spaziale fornisce la prova che Venere è effettivamente isolata da un'atmosfera composta al 96% di biossido di carbonio (CO2)” (The New Yorker). Ecco a cosa potrebbe somigliare la terra, in un futuro molto lontano, sotto l'effetto dell'accumulo continuo di CO2... l'estirpazione di qualsiasi forma di vita. Ciò detto, non c’è bisogno di proiettarsi così lontano per rendersi conto del potenziale devastante del riscaldamento climatico. Ben prima che l'effetto serra abbia trasformato la terra in un forno immenso a più 400°C, i segni premonitori dello sconvolgimento climatico già bastano a causare vere catastrofi per la specie umana: inondazioni, malattie, tempeste... Il direttore del British Antarctic Survey, Chris Rapley, ha fatto osservare all’inizio del 2005 che la calotta glaciale dell'Antartico Occidentale stava fondendo. Ora, quest'ultimo (come la Groenlandia) contiene tanta acqua da far salire il livello dei mari di 7 metri, cosa che corrisponde all'immersione a medio termine di vaste estensioni di terre abitate in Tailandia, in India, nei Paesi Bassi, negli Stati Uniti... Un altro direttore, quello dell’INSERN, ha evidenziato nel 2000 che “la capacità riproduttrice ed infettiva di molti insetti e roditori, vettori di parassiti o di virus, è legata alla temperatura ed all’umidità dell’ambiente. In altre parole, un aumento della temperatura, anche modesto, dà via libera all’espansione di numerosi agenti patogeni per l’uomo e per gli animali. E’ così che le malattie parassitarie come la malaria (…) o delle infezioni virali come la dengue (febbre rompiossa), certe encefaliti e febbre emorragiche hanno guadagnato terreno negli ultimi anni. O sono ricomparse in settori dove erano scomparse, o toccano delle regioni finora risparmiate…”. Un ultimo elemento. La frequenza e la potenza degli uragani non potranno che aumentare con il riscaldamento. Infatti, la colonna d'aria umida che li crea si forma soltanto quando la temperatura di superficie del mare è superiore a 26°C. Se gli oceani si riscaldano, aumentano le zone che superano questa soglia. Quando Katrina ha raggiunto la categoria 5 della classificazione degli uragani, la temperatura si aggirava sui 30°C alla superficie del golfo del Messico. Inoltre, secondo Kerry Emanuel del Massachusetts Institute of Technology, “il perdurare del riscaldamento rischia di aumentare il potenziale distruttivo dei cicloni tropicali e, con l'aumento delle popolazioni costiere, aumentare in modo sostanziale il numero delle vittime dovute agli uragani nel 21° secolo”. Così, dopo aver studiato le statistiche sull'intensità degli uragani degli ultimi 50 anni, K. Emanuel arriva alla conclusione che gli ultimi uragani durano in media più a lungo e che la velocità dei loro venti è del 15% più elevata, il che significa una capacità di distruzione aumentata del 50%. Al confronto le dieci piaghe d'Egitto e tutte le inondazioni della Bibbia messe insieme sono bazzecole.
Una scomoda verità: il sistema capitalista responsabile del rischio climatica
Contrariamente a Venere, il cui clima è evoluto naturalmente verso temperature infernali, il riscaldamento attuale della terra ha tutt’altra origine... l'attività industriale degli uomini. Questa verità non ha tuttavia nulla di uno scoop, dato che un buon numero di climatologi (e la borghesia stessa) non ne fa mistero. Il manifesto del film di Al Gore è ancora più esplicito mostrando il camino di una fabbrica dal quale esce un fumo che assume la forma di un ciclone. “L'industria è colpevole!” Ecco un comodo capro espiatorio, perché in realtà non è l'industria in sé a dover essere messa in causa ma piuttosto il modo in cui la si fa funzionare, in altre parole, il modo in cui funziona il capitalismo. Il modo di produzione capitalista ha sempre inquinato l'ambiente anche nel 19° secolo quando era ancora un fattore di progresso. Bisogna dire che il capitalismo se ne infischia altamente dell'ambiente. “Accumulare per accumulare, produrre per produrre, questa è la parola d'ordine dell'economia politica che proclama la missione storica del periodo borghese. E non si è illusa neanche per un momento sui travagli della ricchezza: ma a che pro fare piagnistei che non cambiano in nulla i destini storici?” (Karl Marx, Il Capitale - libro I). L'accumulazione del capitale, tale è lo scopo supremo della produzione capitalista e poco importa la sorte riservata all'umanità o all'ambiente... finché frutta, va bene! Il resto è poca cosa. Ma quando questo sistema entra nella sua fase di declino storico all'inizio del 20° secolo, la distruzione della natura prende tutt’altra dimensione. Allora diventa impietosa, come la lotta senza quartiere che si fanno tra loro i capitalisti per mantenersi sul mercato mondiale. Ridurre i costi di produzione al massimo per essere il più possibile competitivi diventa allora una regola di sopravvivenza inevitabile. In questo contesto, le misure per limitare l'inquinamento industriale sono ovviamente un costo insopportabile. La permanente necessità economica di ridurre al massimo i costi di produzione spiega l'ampiezza dei danni materiali ed umani causati dagli elementi naturali. Case di cartone, dighe senza manutenzione, sistemi di soccorso inefficienti... il capitalismo non è neppure capace di garantire un minimo di protezione contro i cataclismi, le epidemie e gli altri flagelli che contribuisce a propagare. L'impresa cinematografica del signor Gore finisce col dirci che, tuttavia, abbiamo il potere di cambiare le cose, di riparare il male che è stato fatto e di allontanare la minaccia del riscaldamento climatico se ci prendiamo la briga di diventare dei perfetti... “eco-cittadini”. Per questo i titoli di coda del suo film sgranano un lungo elenco di raccomandazioni: “cambiate il termostato”, “piantate un albero”... “votate per un candidato che si impegna a difendere l'ambiente... se non ce ne sono, candidatevi!” Ed infine “se siete credenti, pregate perché gli altri cambino comportamento”. Forse è questo il solo consiglio sensato e degno di questo nome che un borghese possa dare: “prima che il sole si offuschi e che le stelle cadono dal cielo mettetevi in ginocchio e pregate”. Bell’ammissione d'impotenza della borghesia e del suo mondo! La classe operaia non può permettersi di lasciare più a lungo le sorti del pianeta tra le mani di questa gente e del loro sistema. La crisi ecologica è la prova ulteriore che il capitalismo deve essere distrutto prima che lui trascini il mondo nell'abisso. Far nascere una società che mette al centro l’uomo ed il suo divenire è diventato una necessità imperiosa. Il comunismo sarà questo mondo necessario e la rivoluzione proletaria il cammino per condurvi l'umanità.
Jude (20 ottobre 2006)
(da Révolution Internationale n° 373, novembre 2006)
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