Due anni fa, l’attentato dell’11 settembre sulle Twin Towers a New York apriva la strada ad un’accelerazione senza precedente degli scontri imperialisti dalla fine della Guerra fredda. Questo ulteriore passo del mondo nel caos ha avuto come giustificazione la “lotta contro il terrorismo internazionale” e la “lotta per la difesa della democrazia”. Questa propaganda non può più mascherare la realtà di un aggravamento delle tensioni imperialiste tra le grandi potenze ed in particolare tra gli Stati Uniti ed i loro vecchi alleati del blocco dell’Est.Come abbiamo più volte sviluppato nella nostra stampa, gli Stati Uniti sono costretti permanentemente ad affermare sul piano militare la loro leadership mondiale che i vecchi alleati gli contestano. I principali conflitti in cui sono rimaste coinvolte queste potenze dal crollo del blocco dell’Est rivelano questa logica. Questa è ancora più evidente in Afghanistan ed in Iraq dove gli Stati Uniti giocano un maggiore ruolo di mantenimento dell’ordine ed hanno difficoltà crescenti di fronte ad una situazione che già possiamo definire impantanata.
Gli Stati Uniti incapaci di controllare e migliorare la situazione in Iraq
Allo scopo di impedire che i suoi principali rivali gli mettessero i bastoni fra le ruote in Iraq e in Medio oriente, gli Stati Uniti hanno fatto in modo di essere i soli padroni in campo negando all’ONU la possibilità di poter giocare il benché minimo ruolo politico nell’amministrazione dell’Iraq e sottomettendo alla loro autorità tutte le altre componenti della forza internazionale presente militarmente in questo paese. Eppure, non solo non esiste al momento alcuna prospettiva tangibile di un alleggerimento del loro apparato militare sul posto (145.000 uomini), ma in più quest’ultimo si dimostra sempre più in difficoltà a controllare la situazione. Gli obiettivi che gli USA si erano fissati sembrano allontanarsi di giorno in giorno mentre la prospettiva di ristabilire la società irachena non è mai stata così lontana.
Le condizioni di vita della popolazione già misere sotto il regno di Saddam Hussein si sono aggravate a causa della guerra e dell’incapacità dell’occupante a migliorare l’approvvigionamento di beni di consumo e di prima necessità, a rimettere in piedi un minimo di infrastrutture indispensabili alla vita quotidiana. Per la fame, dei rivoltisi assalgono i rari magazzini di approvvigionamento. La criminalità dilaga, mentre sperpero e speculazione di ogni tipo si estendono in tutto il paese.
L’insicurezza e l’instabilità si sviluppano in particolare sotto l’effetto del terrorismo a largo raggio. Quest’ultimo colpisce essenzialmente le forze americane o i loro alleati, come dimostra l’attentato perpetrato a Bagdad contro l’ambasciata della Giordania. Ma prende di mira anche gli interessi economici vitali dell’Iraq, come gli oleodotti che trasportano acqua o petrolio.
Le truppe d’occupazione pagano quotidianamente un pesante tributo nella difesa degli interessi imperialisti della borghesia americana. Ne sono testimoni i 62 soldati che sono morti in attentati o imboscate dalla fine della guerra. Per la maggior parte terrorizzate, le truppe americane a loro volta terrorizzano la popolazione generando in essa un’ostilità crescente. Lo sforzo di guerra americano, in dollari ed in vite umane, non è certo finito: altri 78 soldati sono rimasti uccisi, questa volta “accidentalmente”, dopo la “vittoria”. Malgrado la morsa di ferro che gli Stati Uniti tentano di attuare su quel che resta di questa società, in Iraq regna una totale anarchia. Quanto ad un ricambio iracheno che possa sostituire sul posto la dominazione americana ci sarà un bel po’ da aspettare, così come per la costituzione di un governo “democratico”, progetto faro della propaganda della Casa Bianca e giustificazione della guerra. Bush ha proclamato che mai nella storia una coalizione governativa aveva riunito tanti partiti differenti come nel “Consiglio del Governo Provvisorio”, “prova” della sua volontà di attuare la “democrazia” Questa coalizione non è affatto uno scheletro di governo futuro ma un vero covo di vipere. Gli interessi più diversi e contrapposti vi si scontrano, senza la minima preoccupazione per l’interesse “nazionale”. Peggio, alcune frazioni pro-sciite presenti al suo interno sono sempre più inclini a una lotta frontale con l’America, escludendo così di fatto ogni possibilità che questa coalizione possa giocare il benché minimo ruolo.
Quanto alla terra promessa, la ricostruzione dell’Iraq, è sempre più chiaro che ne esce malconcia: i profitti petroliferi previsti potranno parteciparvi solo in minima parte, appena sufficiente per finanziare la riattivazione delle installazioni petrolifere. Si pone dunque la questione di sapere chi deve accollarsi il fardello finanziario.
Chi va a controllare e finanziare il protettorato dell’Iraq?
Giunti ad eliminare l’influenza dei rivali in Iraq, gli Stati Uniti si trovano ora prigionieri di contraddizioni dalle quali cercano di uscire. L’occupazione dell’Iraq è una voragine finanziaria e le perdite di vite umane tra le truppe americane porranno a lungo termine dei problemi seri alla borghesia americana, che però non può disimpegnarsi senza aver stabilizzato la situazione a suo vantaggio, il che è una scommessa. Essa cerca dunque di coinvolgere altre potenze nello sforzo finanziario e militare conservando però il monopolio del comando, con la Gran Bretagna nel ruolo di secondo piano. Tenuto conto dell’opposizione francese e tedesca ad un ritorno dell’ONU come semplice banchiere e fornitore di carne da cannone, senza tenere le leve del comando, la tensione sale nuovamente tra le principali potenze imperialiste.
Gli attentati contro i soldati o quelli che colpiscono personalità inclini ad una cooperazione con la Casa Bianca sono destinati a far salire la pressione contro “l’invasore yankee”. Le difficoltà attuali degli Stati Uniti incoraggiano naturalmente tutti i raggruppamenti, che agiscono sul posto o nei paesi vicini, ostili alla presenza americana. L’attentato contro un dignitario sciita moderato il 9 agosto a Nadjaf, con i suoi 82 morti e 230 feriti, è un colpo supplementare alla credibilità della borghesia americana per quanto riguarda la sua capacità ad attuare una soluzione politica in Iraq. Questo attentato fa essenzialmente il gioco delle potenze rivali degli Stati Uniti, senza che queste ne siano necessariamente i mandanti.
Tutti gli atti terroristici in Iraq non sono tuttavia diretti contro gli interessi americani come ha dimostrato l’attentato contro la sede dell’ONU a Bagdad il 12 agosto che ha ucciso più di venti persone, tra cui il rappresentante speciale in Iraq del segretario generale dell’ONU, grande amico della Francia (le sue guardie del corpo erano tutte francesi ed elementi riportati dai media mostrano che egli era particolarmente preso di mira). Questo attentato fa gli interessi degli Stati Uniti per diversi aspetti. Benché costituisca una prova supplementare della loro incapacità a mantenere l’ordine in questo paese, esso alimenta tuttavia la loro propaganda secondo la quale “é in Iraq che si combatte il terrorismo internazionale che, come si vede, non è diretto unicamente contro gli interessi americani”. Esso costituisce anche un pretesto per fare pressione sulle grandi democrazie, rivali degli Stati Uniti, affinché si prendano le loro responsabilità e s’impegnino nella causa di pacificazione e di edificazione dell’Iraq democratica. Non è certamente una coincidenza se questo attentato giunge quando la Gran Bretagna e gli Stati uniti miravano a fare assumere a più membri della “comunità internazionale” il peso militare ed economico della situazione in Iraq. Tuttavia, la Francia e la Germania hanno potuto ribaltare a loro vantaggio l’attentato invocando l’impossibilità dell’ONU di prendere una parte attiva sul terreno umanitario in Iraq senza essere associati alla direzione degli affari di questo paese che permetta loro di garantire la sicurezza del proprio personale. Questo è il significato dell’arringa fatta la settimana seguente l’attentato dal ministro degli affari esteri francesi, de Villepin, “per una soluzione politica” in Iraq, ripresa con forza da Chirac che ha chiesto dinanzi a 200 ambasciatori “il trasferimento del potere…agli stessi Iracheni” ed l’attuazione “di un processo a cui solo le Nazioni Unite sono in grado di dare tutta la sua legittimità”, il tutto arricchito dalla denuncia del “l’unilateralismo”, e cioè degli Stati Uniti.
Le contraddizioni a cui è sottoposta la borghesia americana non risparmiano la borghesia britannica, tanto più allarmata per il fatto che essa ha poco da guadagnare in quest’alleanza con lo Zio Sam. Le peripezie intorno alla morte di David Kelly, uno dei principali consiglieri dell’ONU per le questioni sulle Armi di Distruzione di Massa irachene, esprimono l’esistenza di un disaccordo di frazioni significative della borghesia inglese con la politica perseguita da Tony Blair.
Territori palestinesi: i piani americani hanno fatto cilecca
Accanto al pantano iracheno, Washington deve far fronte ad una situazione endemica che perdura e s’aggrava da decenni, il conflitto israelo-palestinese. Nessuno dei piani di pace americani ha potuto fino ad allora venirne a capo. Era tuttavia urgente e della massima importanza che gli Stati Uniti eliminassero un focolaio di tensione in grado di cristallizzare nei confronti di Israele e di se stessi l’ostilità del mondo arabo. Il famoso “foglio di via” di cui l’amministrazione Bush è all’origine è stato il segno della determinazione di Washington a costringere Israele a fare delle concessioni significative. In questo caso non si è trattato più di trattative tra Israele e l’Autorità palestinese come all’epoca degli accordi di Oslo inaugurati da Clinton nel 1993, ma di una ingiunzione della Casa Bianca affinché Israele non ponesse più ostacoli alla creazione di uno stato palestinese. Rispetto al campo palestinese avverso, sono stati impiegati gli stessi metodi autoritari per eliminare tutto ciò che sembrava costituire un ostacolo alla soluzione finale. Per questo Arafat, fino ad ora un buon alleato degli Stati Uniti nella messa in opera del processo di pace, è stato messo da parte a favore del suo rivale Mahmoud Abbas. Malgrado la pressione di Bush, Sharon, fingendo di accettare le diverse tregue, ha continuato la sua politica di apertura dei territori palestinesi ai coloni israeliani, di incursioni sanguinarie nei territori occupati e di uccisione di capi di Hamas e della Jiihad islamica. Queste organizzazioni intanto aspettavano solo le provocazioni dello Stato israeliano per perpetrare una nuova serie di attentati contro israeliani.
Il “foglio di via” é riuscito per un certo tempo ad abbassare la tensione, ma il nuovo incendio attuale segna il suo fallimento. Di fronte alla situazione di debolezza della diplomazia degli Stati Uniti, Arafat fa un tentativo di ritorno sulla scena presentandosi come un attore inevitabile della pace con Israele. Alle difficoltà crescenti della Casa Bianca in Iraq fa eco la sua impotenza ad influire sul conflitto israelo-palestinese.
Alla vigilia del secondo anniversario dell’attentato contro le Twin Towers e del terzo anniversario dell’Intifada in Palestina, la prospettiva che offre il capitalismo, tanto alle popolazioni delle regioni annientate dalle guerre, sottomesse al terrore ed ad una miseria indicibile, che all’insieme del pianeta, è sempre più caos, sempre più orrori e massacri.
Mulan (30 agosto)
L’indecenza, l’assenza totale di pudore che caratterizzano le campagne dei media della borghesia, hanno raggiunto questa volta il massimo. Con cinismo la borghesia da spettacolo della sofferenza e della solitudine dei vecchi, il dolore dei parenti piangenti, ma cade nel macabro più abietto saturando fino alla nausea gli spettatori con le immagini dei becchini che si attivano nei cimiteri o di custodie di plastica e di bare allineate sotto i neon dei locali frigo del mercato di Rungis requisiti e trasformati in sala mortuaria per la circostanza, come se si trattasse di bestiame appena abbattuto: ci viene mostrata con compiacenza l’organizzazione del “deposito” prima dell’inumazione, ed il trasporto dei corpi con i camion frigo; e per “l’ambiente” per poco non viene evocato l’odore dei cadaveri! E’ ripugnante.
Queste scene dei “bodybags” che la borghesia non sa dove ammassare, le camere degli ospedali strapiene, con un personale estenuato che riconosce la sua impotenza, pazienti a dozzine sulle barelle nei corridoi o distesi per terra, che aspettano ore e ore che qualcuno si occupi di loro, danno tutta la dimensione della decomposizione del capitalismo, di una società che sta andando in brandelli e che, sempre di più, scherza con la morte. La borghesia ha ripetuto il solito ritornello della “fatalità della catastrofe naturale, eccezionale ed imprevista”. Da Raffarin a Kouchner, ci viene ripetuto continuamente che “il governo non è responsabile del tempo che fa”. Giustamente, sempre di più studi scientifici stabiliscono che, per la prima volta nella storia, l’umanità (leggere il sistema capitalista in decadenza e l’anarchia distruttrice della sua produzione basata sulla ricerca a qualsiasi costo del profitto) influenza l’evoluzione globale del clima ed è responsabile di un aumento della temperatura climatica, definita “arma di distruzione di massa” da uno specialista inglese. Già “la ripetitività e l’intensità dei fenomeni climatici estremi producono una sfrenata baraonda sull’insieme dei continenti e degli oceani. (…) Caldo torrido ed inondazioni si succedono, tempeste e siccità si combinano. L’alternanza ravvicinata di catastrofi dette naturali provoca una aspirale di squilibri. Il numeri delle vittime silenziose ed anonime si accresce. I danni sull’ecosistema planetario s’intensificano” (1). In avvenire, “le ondate di calore saranno più frequenti, più intense e i record di temperature non dovranno più attendere cento anni per essere superati” (2). Ricercatori americani prevedono “un 21° secolo caratterizzato da variazioni estreme di temperature e di precipitazioni. In altri termini, all’ondata di calore ed alla siccità che attualmente conosce la Francia ed i suoi vicini, si alterneranno periodi di ondate fredde e d’inondazioni” (2). Le popolazioni dell’Europa occidentale sono condannate dal capitalismo ad essere sempre più esposte in avvenire agli effetti del “disordine climatico maggiore che si accelera e si generalizza” (1) attraverso la ripetizione dei fenomeni di cui esse sono ormai regolarmente vittime, come per la tempesta del 1999 in Francia, per le inondazioni catastrofiche dell’inverno 2002 in Germania ed in Francia 2001, gli allagamenti ed i fiumi di fango in Italia negli ultimi anni, così come quest’afa dell’estate 2003.
Il responsabile di questo disastro attuale è il sistema capitalista. E’ lo stesso capitalismo che ha preparato questo cocktail esplosivo del disordine climatico, associato ai picchi di inquinamento d’ozono, che battono tutti i record storici a Parigi, e che, con l’aggiunta della povertà di parti sempre più importanti della popolazione (principalmente pensionati) e della politica di riduzione drastica dei costi della salute, ha dato come risultato quest’ecatombe senza precedenti. Nonostante il ritardo con cui si è mosso, aspettando la moltiplicazione dei decessi, definiti all’inizio come “morti naturali”, prima di attuare “il piano bianco” per far fronte alla situazione, il governo si è messo fuori causa. Prima ci ha raccontato che lo Stato non ha dato prova di sottostimare il problema perché “per sottostimare, bisogna essere avvertiti, ora questa afa non era prevedibile” (3). Poi, per nascondere la propria responsabilità si è messo alla ricerca di un capro espiatorio. In modo completamente infamante se l’è presa con gli stessi vecchi: il ministro della salute è arrivato a giustificare l’insuccesso delle campagne di prevenzione del governo contro il caldo, non con la quasi inesistenza dei mezzi messi in opera, ma…con la scarsa memoria dei vecchi(!) incapaci di ricordare dopo qualche giorno le prescrizioni sanitarie appropriate!
Ma soprattutto, la borghesia ha scatenato una vera e propria campagna di colpevolizzazione del personale ospedaliero e delle famiglie utilizzando argomenti scandalosi Affermando che “dato che un tale caldo è sopraggiunto in un momento dell’anno in cui gli effettivi negli ospedali sono più deboli, non potevamo aspettarci che conseguenze drammatiche” (J.F. Copé, porta parole del governo) (2), si punta il dito sul personale degli ospedali, e sia fa cadere una parte di responsabilità su questi immemori della loro missione, che preferiscono beneficiare dei sedicenti vantaggi concessi dalle 35 ore, andandosene al mare, piuttosto che assicurare il loro dovere di servizio pubblico nel momento in cui si ha più bisogno di loro! Quanto alle famiglie, non solo sono colpevoli perché si sono prese delle vacanze, “nell’indifferenza del loro modo di vita egoista” lasciando al loro destino i loro vecchi parenti isolati, incapaci di dare l’allarme in caso di necessità! Ma sono anche accusate direttamente di negligenza ed di abbandono dell’obbligo di presa in carico dei vecchi! E per meglio rafforzare il concetto si rincara la dose attraverso tutto lo scalpore, immagini all’appoggio, intorno ai cadaveri scoperti in casa da vicini dopo giorni dal decesso e i 300 corpi che nessuno reclama nei frigoriferi di Rungis e d’Ivry. Veramente nauseante!
Inoltre con lacrime di coccodrillo versate su questo dramma, la borghesia ci gratifica con il tumulto dei suoi battibecchi. Sinistra e destra fanno cadere la responsabilità di queste migliaia di morti sulla cattiva gestione del sistema della sanità… ma dei governi precedenti. Alcuni, come i Verdi (che radicali!) esigono anche le dimissioni del ministro della salute per incompetenza! Che ipocrisia!
Sinistra e destra sono complici nel tacere e nel dissimulare che lo stato di precarietà sociale e sanitaria in cui si trova una parte sempre più ampia di proletari - proprio come l’incapacità degli ospedali a far fronte alla situazione per la carenza di letti, di medici e di infermieri - è il risultato della loro politica, e ogni frazione ne è complice. La politica di una classe dominante strangolata dalla crisi economica insolubile, pronta ad ogni sacrificio sull’altare del profitto, e che dagli anni di Mitterrand e dell’istituzione del prezzo forfettario ospedaliero da parte del “compagno” ministro Ralite del PCF nel 1983, ha fatto della riduzione delle spese per la sanità un’ossessione costante ed il leitmotiv della sua azione. Sinistra e destra hanno mostrato la stessa determinazione e la stessa costanza nell’applicazione di misure di restrizione budgetarie, di compressione del personale, di soppressione di letti, di soppressione di servizi interi e di ospedali; misure volta per volta iniziate dagli uni, allargate ed estese dagli altri man mano che si succedevano al governo.
L’Istituto Nazionale di Vigilanza Sanitaria, creato dalla sinistra, ed il suo “dispositivo d’allarme sanitario” come l’applicazione del sacrosanto “principio di prevenzione” si sono mostrati completamente inoperanti e si sono rivelati per quello che sono: fumo negli occhi.
Le vittime delle precedenti ondate di caldo (2000 nel 1976 e 5000 nel 1983) sono state accuratamente nascoste. Al contrario oggi. Tutta la pubblicità dei media attuale contribuisce a tentativo di abituare la classe operaia all’idea che tutto questo è e sarà in futuro “normale ed “ineluttabile”.
Le migliaia di vittime si contano in maggioranza tra le persone anziane, ma anche tra gli handicappati ed i “senza fissa dimora” morti di sete nelle strade. Cioè tra quelli che il capitalismo condanna ad un’emarginazione ed ad una miseria sempre più grande; bocche improduttive, diventate ai suoi occhi inutili, ed il cui peso aumenta sempre di più per la borghesia costantemente alla ricerca del loro mantenimento a minor costo. E’ per questo che l’APA (Aiuto personalizzato d’autonomia) il cui scopo è d’aiutare le persone anziane, a domicilio o in casa di riposo, e finanziare le spese (non mediche) legate alla perdita di autonomia, s’è vista amputata di 400milioni d’euro principalmente a detrimento delle persone anziane che vivono a domicilio. Così come lo stanziamento di 180 milioni d’euro previsti dalla Sicurezza sociale nel 2003 per migliorare le condizioni d’accoglienza e la qualità delle cure nelle 10.000 case di riposo è stato ridotto a 100 milioni di euro e su questi, solo 30 milioni appena rappresentano una reale spesa assicurazione-malattia. L’applicazione della riforma delle pensioni che si traduce con una perdita dal 15% al 50% del potere d’acquisto delle pensioni, rappresenta una nuova tappa negli attacchi antioperai ed insieme allo smantellamento della sicurezza sociale, cominciato attraverso l’annuncio di centinaia di medicine che non saranno rimborsate e di cure più onerose, illustra il fallimento del sistema capitalista che diventa incapace di integrare nella produzione la forza lavoro e scarta dopo decenni di sfruttamento fino al midollo quelli da cui non può trarre nessun profitto, come appunto i vecchi.
L’ecatombe attuale, degna delle catastrofi del terzo mondo, mostra che le popolazioni occidentali dei paesi sviluppati, non sono e soprattutto non saranno affatto risparmiate dagli effetti della decomposizione del sistema capitalista. La vera calamità è il capitalismo e la dominazione della classe borghese.
Scott
1. Le Monde del 9 agosto.
2. Le Monde del 16 agosto.
3. Le Monde del 15 agosto.
La CCI ha tenuto una riunione a Milano, il 26 giugno, su invito della Giovane Talpa (1) sulla nostra teoria della decadenza del sistema capitalista. Alla riunione hanno partecipato anche altri compagni in contatto con la Giovane Talpa e con la CCI. Noi abbiamo dato un caloroso benvenuto a questa opportunità di discutere una questione che è d'importanza cardinale nel capire l’attuale periodo storico e le condizioni per la lotta al rovesciamento del sistema di produzione esistente. Come uno dei partecipanti alla riunione ha detto: “per un marxista il concetto di decadenza è fondamentale, altrimenti si potrebbe pensare che il capitalismo è un sistema progressivo. Il capitalismo non può far funzionare il mondo, un comunista deve credere per forza alla decadenza altrimenti come pensiamo a distruggerli?”
Infatti, come la nostra introduzione alla riunione ha mostrato, la teoria marxista della decadenza è la chiave per capire l'evoluzione della società umana attraverso lo sviluppo delle forze produttive ed il cambiamento che questo sviluppo comporta nelle relazioni di produzione. I sistemi sociali non sono eterni: così come la schiavitù, il dispotismo asiatico, il feudalesimo sono sorti come forme sociali e sono declinati e morti, così anche il capitalismo è condannato a morire. Questo sistema ha svolto per un periodo un ruolo storico nello sviluppo delle forze produttive, ma raggiunto il massimo del suo sviluppo è entrato nella sua fase decadente in cui è divenuto un ostacolo per quelle stesse forze e ha da offrire all’umanità solamente crisi, disoccupazione di massa, guerra, disastri ambientali, fallimento economico, sociale e politico. È la decadenza del capitalismo come sistema sociale che produce le condizioni per la rivoluzione proletaria, che dà il quadro per capire quali sono le armi della lotta rivoluzionaria e come i rivoluzionari devono intervenire per spingere in avanti all'interno del proletariato lo sviluppo della coscienza del proprio ruolo storico. Poiché un’analisi rigorosa delle conseguenze di un cambiamento di periodo storico è necessaria per arrivare ad una chiarezza politica sulla prospettiva che abbiamo di fronte, la nostra presentazione si è poi focalizzata sulle principali implicazioni politiche della decadenza del capitalismo.
Il diciannovesimo secolo ha visto la formazione di nazioni borghesi in Europa -ad esempio l'unificazione dell’Italia o la creazione della Germania - ed è stato anche un periodo che ha visto l'espansione a livello internazionale del sistema capitalista attraverso le conquiste coloniali - per esempio quelle sui continenti americano ed africano - che aprirono la via alla creazione di stati indipendenti in queste zone, meglio caratterizzati dalla guerra d'indipendenza americana. I rivoluzionari dell’epoca sostennero quei movimenti che erano progressivi in quanto facevano parte dello sviluppo e dell’estensione del capitalismo, e pertanto favorivano la maturazione delle condizioni per la rivoluzione proletaria. Ma la possibilità per la classe lavoratrice di sostenere certe fazioni della borghesia finì all'inizio del 20° secolo con la fine del ruolo progressivo del capitalismo. La prima guerra mondiale e l'ondata rivoluzionaria che ha posto termine ad essa hanno segnato l'entrata della società nel periodo di guerra o rivoluzione; i movimenti nazionalisti persero il loro carattere progressivo e divennero nient’altro che pedine nella lotta imperialista tra stati capitalisti per ridividere le sfere d’influenza mondiale. Non era più possibile per la classe operaia ottenere riforme durevoli da un sistema che ora era in crisi permanente, mentre le condizioni obiettive divenivano mature per la lotta rivoluzionaria. Questo comportò un cambiamento nella natura e nei mezzi della lotta; la tendenza verso lo sciopero di massa sostituì la divisione tra la lotta politica e la lotta economica; il parlamento non poteva più servire come foro per migliorare la situazione della classe operaia all'interno del capitalismo; i sindacati, che erano serviti alla classe nella sua lotta per le riforme nel 19° secolo, divennero un’arma del nemico, mentre la lotta di massa in Russia nel 1905 e nel 1917 portò alla creazione di nuovi organi, i soviet, che erano conformi alle necessità della lotta nel nuovo periodo (2).
Nella discussione che ha avuto luogo sulla base della presentazione, ci sono state due critiche principali alla nostra posizione sulla decadenza.
La prima è che l’impostazione teorica della CCI è stata costruita su di un singolo aspetto (quello economico), su cui sono stati messi altri aspetti, e questo diventa il quadro per spiegare tutti gli avvenimenti mondiali, e che Marx invece era molto più aperto. Questo solleva un problema di fondo: qual è il quadro per capire la realtà sociale, qual è il metodo marxista? L’importanza della visione sviluppata da Marx ed Engels sta nell’identificare nello sviluppo delle forze produttive il motore dell’evoluzione sociale.
"Nella produzione sociale della propria esistenza, gli uomini allacciano dei rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà; questi rapporti di produzione corrispondono allo stadio dato dallo sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti formano la struttura economica della società, il fondamento reale su cui si eleva un edificio giuridico e politico ed a cui corrispondono delle forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica ed intellettuale. Non è la coscienza degli uomini che determina la loro esistenza, è al contrario la loro esistenza sociale che determina la loro coscienza.
Ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive della società entrano in collisione con i rapporti produttivi esistenti, o con i rapporti di proprietà in seno ai quali esse si erano mosse fino ad allora, e che non ne sono che l'espressione giuridica. Ieri ancora forme di sviluppo delle forze produttive, queste condizioni si trasformano in pesanti ostacoli. Comincia allora un'era di rivoluzione sociale.
Il cambiamento dei fondamenti economici si accompagna ad un rivolgimento più o meno rapido in tutto questo enorme edificio. Quando si considerano questi rivolgimenti, bisogna sempre distinguere due ordini di cose. Esiste il rivolgimento materiale delle condizioni di produzione economiche. Bisogna constatarlo con lo spirito di rigore delle scienze naturali. Ma ci sono anche le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche, filosofiche; in breve, le forme ideologiche all'interno delle quali gli uomini prendono coscienza di questo conflitto e lo portano fino all'ultimo grado. Non si giudica un individuo per l'idea che egli ha di se stesso. Non si giudica un'epoca di rivoluzioni per la coscienza che essa ha di se stessa. Questa coscienza si esplicherà piuttosto sulla base delle contraddizioni della vita materiale, sulla base del conflitto che oppone le forze produttive sociali e i rapporti di produzione.
Giammai una società muore prima di aver sviluppato tutte le forze produttive che essa può contenere; giammai dei rapporti di produzione superiori si instaurano, prima che le condizioni materiali della loro esistenza siano apparse nel seno stesso della vecchia società.
L'umanità non si pone che i problemi che può risolvere; perché, considerando la questione più da vicino, si trova sempre che il problema stesso sorge solo quando già esistono o sono almeno in processo di formazione le condizioni materiali per la sua soluzione.
In grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno appaiano come epoche progressive della formazione economica della società." (3)
Questo descrive precisamente e succintamente la visione materialista storica dell'evoluzione sociale e le condizioni che generano una situazione rivoluzionaria ed è la base da cui il successivo movimento operaio sviluppò una comprensione del cambiamento di periodo quando si confrontò direttamente con esso nel 1914. La prima guerra mondiale ha visto il tradimento dei partiti socialisti all'interno della Seconda Internazionale quando questi difesero gli interessi delle loro borghesie nazionali nella guerra imperialista contro il ruolo storico del proletariato. Però la sinistra difese una posizione internazionalista contro la guerra e sviluppò una discussione sul significato della fase imperialista nella vita del capitalismo, sull'impossibilità di difendere il nazionalismo borghese ed il significato della rivoluzione russa come la presa del potere da parte del proletariato in un periodo in cui la rivoluzione comunista era finalmente all’ordine del giorno della storia.
La dichiarazione dell’Internazionale Comunista nel 1919 che il capitalismo era entrato in un periodo di guerra o rivoluzione era una concretizzazione della visione di Marx che i rapporti sociali di produzione, quando entrano in conflitto con lo sviluppo delle forze produttive, segnano la crisi finale della vecchia società e producono le condizioni obiettive per una situazione rivoluzionaria. Ma furono soprattutto Bilan e la GCF (Sinistra Comunista Francese) a tirare le lezioni dalla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria e analizzare le implicazioni del cambio di periodo per la lotta della classe operaia e l'intervento dei rivoluzionari.
Questo è il metodo che segue la CCI, l’unico capace di identificare l'agente rivoluzionario al centro del sistema capitalista, il proletariato. L'idea secondo la quale dobbiamo essere più 'aperti', che non tutto dipende dal concetto di decadenza, significa togliere dal quadro la coerenza e il rigore del metodo marxista e cadere in una visione empirica della realtà, concepita come una serie di fenomeni distaccati, senza una coesione interna se non la soggettività dell'individuo. E’ per certi versi strano che una tale critica venga proprio dalla Giovane Talpa che ha risposto all'ultima guerra del Golfo producendo un opuscolo, con la ristampa di tre testi del movimento operaio che prendono una posizione internazionalista sulla guerra, e un'introduzione che intende fare un bilancio generale e storico della situazione attuale del capitalismo per spiegare le ragioni dell'attacco all'Iraq. Quali che siano i disaccordi che possiamo avere su punti specifici dell'opuscolo, il metodo e l’approccio è quello che difendiamo: risalire alla storia del movimento operaio, non limitare l'analisi ad un'interpretazione dell'evento in sé ma situarlo nel contesto della situazione sociale e globale.
La seconda obiezione sollevata nella discussione è che è sbagliato datare l’inizio della decadenza dal 1914 perché c'è stato uno sviluppo delle forze produttive anche dopo la seconda guerra mondiale. Diversi elementi sono stati portati dai compagni che difendono questa posizione: la seconda guerra mondiale ha prodotto scoperte tecnologiche e scientifiche poi applicate in campo industriale; dagli anni ’50 agli anni ’80 ci sono stati miglioramenti delle condizioni di vita dei lavoratori, se non in ogni parte del mondo, almeno nei paesi centrali del capitalismo; solo dopo la seconda guerra mondiale i paesi africani guadagnarono l'indipendenza; in Cina nel 1949 c'è stata non una rivoluzione proletaria ma una rivoluzione democratico borghese.
Anche qui è necessario capire ogni singolo fenomeno individuale nel contesto della situazione generale. Non possiamo riportare qui per esteso le risposte che sono stata date dalla CCI, né possiamo sviluppare ogni singola questione, ma vogliamo brevemente ricordare quali sono stati gli elementi da noi portati per un’ulteriore riflessione.
Innanzitutto, quando diciamo che il capitalismo è decadente, non diciamo che lo sviluppo delle forze produttive si ferma completamente, che non c’è nessuno sviluppo tecnologico, ma piuttosto che lo sviluppo tende ad essere un fattore che aggrava le crisi economiche nel contesto della disoccupazione crescente, al posto di aprire la possibilità di un nuovo ciclo economico e l’integrazione di più operai nella produzione. In questo contesto, “l’indipendenza” accordata agli stati africani nella seconda metà del 20° secolo, non ha aperto una prospettiva di sviluppo dell'infrastruttura e la formazione di stati moderni. Essa è servita semplicemente a sanare una situazione residua del periodo coloniale, che è stato un’espressione dell’espansione capitalista dal centro alla periferia nella fase ascendente, ma non è più la forma appropriata di dominio nell’epoca imperialista, durante la quale il controllo viene esercitato attraverso il capitale finanziario. Del resto questi nuovi stati “indipendenti” sono stati integrati fin dall'inizio in uno dei due blocchi imperialisti allora esistenti; le affiliazioni possono cambiare a seconda dei periodi e delle situazioni, ma il gioco è sempre lo stesso. E questo gioco imperialista è un’espressione della decadenza capitalista in cui la guerra è il modo di vita del sistema moribondo.
L’ascesa di Mao Tse Tung nella Cina del secondo dopoguerra non è stata l'ultima delle rivoluzioni democratiche borghesi, ma un tentativo di rendere più adatto questo paese, arretrato e rurale, alla sopravvivenza in una situazione di crisi economica globale e permanente. Non una rivoluzione borghese quindi, ma un fattore della tendenza generale verso il capitalismo di stato, forma più idonea a controllare la crisi attraverso il diretto intervento dello Stato nella vita economica di una nazione. Questa tendenza è caratteristica del periodo decadente, non solo in Russia ma, in forme diverse, anche nei regimi più sviluppati dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti ed in ogni paese del mondo.
Ugualmente, anche se la classe operaia non può ottenere miglioramenti reali e durevoli, e la situazione oggi mostra un declino senza precedenti delle condizioni di vita, a livello di disoccupazione, intensificazione dello sfruttamento, tagli al salario sociale, questo non significa che non ci possano essere stati guadagni temporanei e relativi. I miglioramenti tra gli anni ’50 e ’80 menzionati alla riunione (ed in verità dovrebbe essere considerato un periodo più breve), sono stati una conseguenza della ricostruzione dopo la guerra, un palliativo momentaneo della crisi mortale del capitalismo.
Questa riunione con la Giovane Talpa chiaramente non si è conclusa con un accordo completo con l’analisi della CCI sulla decadenza. E non poteva che essere così perché questa è una questione complessa, che richiede molte discussioni e riflessioni per farne emergere tutte le implicazioni. Ciononostante questa riunione è stato un momento politico importante perché è stata animata da uno spirito costruttivo di confronto, da un reale interesse a discutere, esprimendo critiche, dubbi, posizioni diverse, per arrivare ad una chiarificazione politica al fine di poter meglio contribuire alla maturazione dello scontro tra le classi. E’ stata quindi una riunione che ha confermato l'importanza del dibattito aperto tra quegli elementi e quelle forze che si situano sul terreno della missione storica del proletariato ed ha confermato il bisogno di riappropriarsi della storia del movimento operaio in modo critico e profondo per rafforzare il movimento di oggi e di domani. In questo senso ripetiamo l'appello fatto alla fine della riunione stessa, di continuare il dibattito per iscritto ed attraverso altre riunioni; sviluppare le critiche con lo scopo di partecipare al lavoro essenziale di rafforzare una coerenza rivoluzionaria che possa rispondere in maniera decisiva alla necessità storica aperta dalla bancarotta del sistema capitalista: la rivoluzione della classe operaia.
AS
1. La Giovane Talpa è un collettivo editoriale a carattere aperto. Vedi il loro sito internet: www.giovanetalpa.net [5]
2. Per la posizione della CCI sulla decadenza, vedi l’opuscolo “La decadenza del capitalismo” e altri articoli nella Rivista Internazionale (in inglese, francese, spagnolo)
3. Marx, “Prefazione alla Critica dell’economia politica”
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/6/107/iraq
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[5] http://www.giovanetalpa.net/
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/influenzati-dalla-sinistra-comunista