Il mondo della politica si mostra ogni giorno più litigioso. Un giorno è la plastic tax, un altro il meccanismo europeo detto salva-stati, i vari partiti politici non esitano a usare i loro contrasti per confonderci le idee e distrarci dai problemi reali che vivono i proletari. Ognuno di loro ha la pretesa di parlare a nome del “popolo” italiano, e quindi anche dei lavoratori. In realtà, sia il governo gialloverde come quello giallorosso attuale (come lo definiscono loro), al pari di tutti quelli che li hanno preceduti, non sono altro che i difensori del capitale nazionale e devono per questo provare ad ingannare i lavoratori con misure spacciate per panacee per le loro condizioni di vita.
Il precedente governo ha cercato di accreditarsi come governo “popolare”, sbandierando le sue misure che avrebbero dovuto creare un sollievo ai problemi del lavoro come la quota cento e il reddito di cittadinanza. Ma quando le andiamo a vedere da vicino, queste misure non hanno portato in realtà niente di veramente consistente per l’insieme dei proletari. Vediamo:
La situazione con il nuovo governo non migliora, tutt’altro. Lo scenario che con sempre maggiore nitidezza va profilandosi davanti agli occhi di tutti è di uno sgretolamento progressivo di tutta la sfera produttiva italiana. I numeri dei posti in esubero sono impressionanti: Alitalia 5000; Unicredit 8000; Ilva di Taranto 4700; Whirlpool Campania 800; Embrago a Riva di Chieri 500; Bosch di Bari 640; Pernigotti 25, Jabil 350, Conad 3105, … per citare solo i più conosciuti, ma cui andrebbero aggiunte altre decine d’imprese di medie e piccole dimensioni che si trovano nelle stesse condizioni. Sono 160 le crisi aziendali per un totale stimato di 400.000 posti di lavoro a rischio. Particolarmente significativo è il caso dell’Unicredit che, con gli 8000 esuberi (più di 6000 in Italia) e la chiusura di quasi 500 filiali, è solo l’ultimo tassello di una falcidia nel settore bancario che in 12 anni ha cancellato 74.000 posti di lavoro. In questo caso è facile vedere come il progresso del digitale e dell’informatica (nel 2019 13,7 milioni d’italiani gestivano il loro denaro attraverso lo smartphone) sia a solo vantaggio degli imprenditori e tutto a carico dei lavoratori. E se per qualcuna sembra esserci una conclusione positiva, come per Almaviva dove sono stati revocati i 3000 licenziamenti, a leggere gli accordi ci si rende conto che ciò è avvenuto solo aumentando lo sfruttamento della manodopera: 6 mesi di Contratto di Solidarietà al 45% su Roma, 45% su Palermo e 35% su Napoli e ulteriori 12 mesi di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria.
Questo non è vero solo in Italia, ma tocca tutti i paesi capitalisti. Perfino nella “florida” Germania sono in corso tagli al personale in tutti i settori: Deutsche Bank, 18.000 posti in meno nei prossimi anni, 5600 in meno alla T-Systems, filiale informatica di Deutsche Telekom, 700 in meno in Allianz, Thyssenkrupp 6000 licenziamenti nel mondo di cui 4000 in Germania, Siemens 2700 nel mondo, 1400 in Germania, Bayer 12.000 da qui al 2021. Mentre in Francia il governo Macron attacca i servizi sociali, le pensioni, la sanità, ecc.
Se le aziende falliscono o semplicemente licenziano, non è per loro incapacità o perché c’è qualcuno che ha speculato o ha rubato: non è colpa del singolo capitalista se stiamo andando verso una nuova profonda recessione, è una conseguenza dell’obsolescenza di questo sistema capitalista che non riesce a garantire neanche più la semplice sopravvivenza dei suoi sfruttati.
Che cosa fanno di fronte a questa rovina lo Stato e i sindacati? Se consideriamo il caso dell’ILVA di Taranto, con i suoi 4700 esuberi - che coinvolgono all’incirca 20.000 famiglie considerando anche l’indotto - l’ultima pensata dello Stato è quella di entrare in società con l’attuale gestore franco-indiano ArcelorMittal con una iniezione di soldi freschi e … riducendo gli esuberi a 1800. In pratica, è una resa dello Stato di fronte al gioco al rialzo di Mittal accettando il 40% degli esuberi dichiarati dall’azienda. Il tutto accompagnato dalla promessa di una riconversione dell’impianto con una tecnologia più pulita, puntando con questo ancora una volta a mettere in alternativa occupazione e salute, come se i lavoratori dovessero scegliere se morire di cancro o semplicemente di fame.
E i sindacati? Cosa propongono i sindacati per far fronte a questa situazione? La risposta di Landini, segretario generale della CGIL, il sindacato che si presenta come il più combattivo e di sinistra, è davvero significativa. Piuttosto che difendere le condizioni dei lavoratori passando all’attacco contro licenziamenti e peggioramenti delle condizioni di vita, Landini propone “un’alleanza con governo e imprese per impedire che il Paese si sbricioli”[3], chiedendo alle imprese di “abbandonare le sirene della finanza, di tornare a essere gli imprenditori innovativi e capaci che insieme a chi lavora hanno fatto l’Italia”[4]. In pratica si propone un patto sociale che non può essere fatto che sulle spalle dei proletari. In più il subdolo monito sulle “sirene della finanza” suggerisce l’illusoria idea che l’investimento di capitali in aree speculative in questo periodo sia il fatto di capitalisti egoisti e non la ricerca della necessaria valorizzazione di ogni capitale.
Di fronte a questi attacchi generalizzati coadiuvati e sostenuti dal sindacato, solo la lotta unita di tutti i lavoratori può mettere in campo una forza capace di opporvisi. Non ci si può opporre agli attacchi concentrici di capitalisti, Stato e sindacato con delle lotte separate, incentrate sulle specificità della propria situazione, come i sindacati ci invitano continuamente a fare. Né si può pensare di salvare il proprio posto di lavoro mettendo avanti le qualità della propria azienda, la sua alta produttività, il suo ruolo strategico. L’unica regola che il capitale conosce è quella della massima estrazione di plusvalore dai proletari e di trasformarlo in profitto; quando non ci riesce, taglia e chiude.
Per evitare che i lavoratori comincino da soli a pensare che bisogna unirsi, ecco che il sindacato si mette subito davanti per prendere tempo: “E’ necessario riflettere su uno sciopero generale unitario” ha dichiarato il segretario della CGIL Landini il 20 novembre, ma dopo ben oltre un mese ci stanno ancora riflettendo! E comunque li conosciamo gli “scioperi generali unitari” del sindacato: giornate isolate di mobilitazione, con i lavoratori a sfilare ognuno dietro il proprio striscione per andare ad ascoltare il solito comizio del sindacalista di turno e poi tornarsene a casa senza che sia cambiato niente. Non è certo così che si fa l’unità dei lavoratori: questa si forgia nelle assemblee congiunte, dove ci si riunisce in quanto proletari, dove ci si confronta per decidere come dare forza alla lotta, come dare continuità alla mobilitazione, come allargare la lotta ad altri settori, visto che gli attacchi non si limitano ai licenziamenti, ma comprendono la crescente precarizzazione del lavoro, i tagli ai salari, ecc.
Se ad attaccare è il capitale con le sue appendici dei governi borghesi e dei sindacati ormai strumenti di controllo delle lotte proletarie, la strada per i lavoratori è una sola: unirsi per difendere le proprie condizioni di lavoro, senza perdersi dietro alle specificità, dietro le sterili manifestazioni sindacali.
Certo, questa tappa è difficile. E’ una vera montagna. Essa richiede di riconoscersi non più come metalmeccanici, siderurgici, bancari, infermieri, ecc., ecc., ma come proletari, come i veri produttori della ricchezza, una ricchezza che ci viene strappata in massima parte per diventare profitto per il capitale. Per arrivarci i lavoratori più coscienti devono diffondere l’idea che è una cosa possibile, che l’esperienza del movimento del proletariato lo dimostra, che i lavoratori in Francia nel 1968 o quelli italiani nel 1969 (l’autunno caldo), o ancora quelli della Polonia nel 1980 lo hanno fatto, che il proletariato è la principale forza sociale della società quando è unito, solidale e organizzato. Questi lavoratori devono raggrupparsi, discutere, riappropriarsi delle lezioni del passato, per preparare l’avvenire della lotta di classe.
Elios
[1] Preso dall’entusiasmo, Di Maio arrivò anche a dire che per ogni pensionamento si sarebbero creati 3 nuovi posti di lavoro! Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ora abbiamo anche la moltiplicazione dei posti di lavoro!
[2] Ogni tanto ci presentano statistiche secondo cui gli occupati sono in aumento, ma se poi si vanno a vedere le ore lavorate, si vede che queste diminuiscono; questo perché ùquesto aumento corrisponde solo ad un aumento del lavoro part time, per cui da un solo occupato ora ce ne sono due, ma a metà stipendio.
[3] La Repubblica, 9 dicembre 2019.
[4] Non deve sfuggire in questa frase l’invito a considerare gli imprenditori come dei partner, degli alleati con cui tracciare assieme un percorso comune, piuttosto che degli avversari. D’altra parte la produzione della RAI di ben cinque fiction sui grandi imprenditori italiani (Adriano Olivetti, Enrico Mattei (ENI), Giovanni Borghi (Ignis), Enzo Ferrari e Luisa Spagnoli) va esattamente nello stesso senso, cioè far passare l’idea che esistano gl’imprenditori buoni e capaci e che se le cose vanno male è per l’incapacità o l’ingordigia di qualche imprenditore.
Se c’è un obiettivo che questo governo non può non cercare di perseguire è quello di durare il più a lungo possibile. A differenza delle coalizioni del passato infatti questo governo non si basa su un progetto condiviso, almeno in linea di massima, ma sulla necessità di non andare alle elezioni consegnando il paese alla destra, alla Lega di Salvini in particolare.
L’opposizione di Salvini e della Meloni cerca in tutti i modi di utilizzare le divisioni governative per far saltare il governo e portare l’Italia alle elezioni che, visti gli attuali orientamenti politici degli Italiani, porterebbe a eleggere un parlamento con una maggioranza di destra con un’ancora più forte influenza populista. Questo risultato produrrebbe non solo un governo di destra a guida Salvini, ma anche l’elezione di un presidente della Repubblica gradito alla destra e soprattutto ai populisti. Lo scenario che si aprirebbe è davvero raccapricciante per la borghesia che finora si è aggrappata ai delicati e discreti interventi di personaggi come Napolitano e Mattarella e che con un personaggio, poniamo, alla Berlusconi, perderebbe completamente la capacità di manovra che ha avuto negli ultimi anni e prima ancora.
Essendo nato per una emergenza, si capisce dunque come un tale governo non solo non può essere portatore di uno sviluppo della situazione politica ed economica italiana, ma non riesce neanche ad avere un minimo di tranquillità al suo interno. Infatti, i vari partiti governativi sono a loro volta contrapposti su questioni specifiche, un esempio per tutti è la questione dell’acciaieria di Taranto, in affitto ad Arcelor Mittal, che vede i 5 Stelle divisi in chi è a favore della chiusura e chi per la difesa dei posti di lavoro. A Taranto si è presentato anche il presidente Conte a cercare di calmare la situazione, anche se onestamente ha detto di non avere delle soluzioni. E pare che la proposta infine accettata sia di far fuori un numero considerevole di lavoratori, sul numero si sta trattando, e investire denaro pubblico per risanare l'impianto industriale, ciò che Arcelor alla fine voleva.
Le campagne propagandistiche del governo Di Maio-Salvini erano centrate su Quota 100, Reddito di cittadinanza e No agli immigrati, quelle dell’attuale governo faticano a venir fuori non essendoci una base condivisa, si va avanti alla cieca, e quindi scompaiono dalla scena politica. Non si parla più degli sbarchi degli immigrati, cavallo di battaglia di Salvini, della TAV, delle autostrade, e neanche la questione Alitalia viene affrontata seriamente. Ma soprattutto non vengono affrontate tutte le questioni riguardanti il mondo del lavoro, del precariato che doveva essere abolito, dell'economia e dello sviluppo delle infrastrutture. Un governo che si dichiara di sinistra non ha nulla da offrire ai lavoratori se non una ridicola riduzione fiscale di 40€ al mese, ma non per tutti!
Sul piano economico, la componente più importante della manovra consisteva nel bloccare l’aumento dell’IVA, e questo sono riusciti a farlo, ma a costo di non avere più soldi per un adeguamento delle infrastrutture alle necessità del paese. Il territorio va a rotoli tra frane e crolli, allagamenti e alluvioni, non si riesce a dar inizio ad una serie di interventi di ampie dimensioni per evitare il peggio e nel frattempo i partiti al governo litigano su che cosa si dovrebbe fare.
Negli ultimi giorni, dopo un incontro a livello europeo, l’accordo sul MES, meccanismo europeo di stabilità, ha portato lo scontro tra governo e opposizione ad un livello più alto, Salvini e Meloni accusando Conte di tradimento della nazione ma quest'ultimo, dimostrando un carattere diverso dal Conte del primo governo, ha rinfacciato a Salvini il suo precedente accordo sul MES. Se Conte è sicuro dell’appoggio del Presidente della Repubblica e d’importanti settori della borghesia sul suo operato, non può dire altrettanto di Di Maio, che è tentato di pugnalarlo alle spalle.
Questo governo sembra concentrare in sé tutti i problemi del periodo. Infatti, questo è un governo che non ha i numeri per affrontare la crisi attuale non tanto per incapacità, che pure c’è, ma perché la situazione è oggettivamente non risolvibile. In più è sotto gli attacchi incessanti del populismo e si trova al centro di una crisi industriale in Italia tra le più gravi della storia degli ultimi decenni. Il problema che si pone alla borghesia in Italia è dunque come recuperare il controllo sull’elettorato e dunque la macchina delle elezioni per puntare su forze politiche più responsabili nelle prossime elezioni. Questa è un’operazione non facile, ma dei tentativi si possono vedere in almeno due fenomeni. Il primo è la creazione del tutto artificiale del movimento ecologista di Greta Tumberg, che ha già dato nuova linfa a vari partiti verdi in varie elezioni in Europa. L’altro, più locale, è lo sviluppo del movimento delle sardine[1], un movimento in prima istanza antipopulista, che ha già guadagnato la fiducia di strati importanti di popolazione e il cui intento è esplicitamente quello di contrastare il populismo di Salvini e produrre una sorta di anticorpi politici nel paese.
Quale sarà l’evoluzione di questa situazione è quasi impossibile da prevedere, ma sappiamo che dall’esito dello scontro tra le varie forze politiche dipenderà solo il ritmo con cui avanza la crisi della situazione politica ed economica italiana, non certo la sua soluzione. Questa invece dipende solo dalla ripresa della lotta di classe e dall’affermarsi del proletariato come classe protagonista di questa società.
Oblomov, 8 dicembre 2019
[1] Il movimento è nato con la protesta di Piazza Maggiore contro Matteo Salvini che dalla stessa città lanciava la campagna elettorale leghista in vista delle regionali in Emilia Romagna.
Dappertutto nel mondo si stanno estendendo e approfondendo gli attacchi contro la classe operaia[1]. Ancora una volta la classe dominante sta cercando disperatamente di frenare gli effetti del declino storico del suo modo di produzione e sono sempre ed ancora i proletari a dover pagare il conto! Nei paesi "ricchi", i piani di licenziamento sono in aumento, in particolare in Germania e nel Regno Unito e Italia. Alcuni dei cosiddetti paesi "emergenti" sono già in recessione (Brasile, Argentina, Turchia), con tutto ciò che quest'ultima comporta come fattore d’aggravamento della condizione dei proletari. Per quanto riguarda i proletari dei paesi che non sono né "ricchi" né "emergenti", la loro situazione è ancora più drammatica; ed anche altri strati della popolazione non sfruttatrice è spinta in una miseria senza fondo.
Questi ultimi paesi in particolare sono stati recentemente teatro di movimenti popolari in risposta ai ripetuti sacrifici richiesti da anni dal capitalismo e repressi da governi spesso incancreniti dalla corruzione, screditati e odiati dalle popolazioni. Tali movimenti hanno avuto luogo in Cile, Ecuador, Haiti, Iraq, Algeria, Libano e più recentemente in Iran. Le mobilitazioni, spesso molto massicce, sono accompagnate in alcuni paesi da forti violenze e da sanguinose repressioni. Il massiccio movimento di protesta a Hong Kong, che si è sviluppato in reazione non tanto alla miseria e alla corruzione quanto al rafforzamento dell'arsenale repressivo - in particolare la possibilità di estradizioni nella Cina continentale - ha recentemente visto l'irruzione di un livello superiore di repressione: la polizia ha sparato a bruciapelo contro i manifestanti.
Se la classe operaia è presente in queste "rivolte popolari", non lo è mai come classe antagonista al capitalismo, risulta sempre diluita nella popolazione. In effetti, sono le grandi difficoltà che incontra nel riconoscere la propria identità di classe e la sua assenza dalla scena sociale globale a spiegare la moltiplicazione di tali movimenti popolari sterili e inadatti ad opporsi alla logica del capitale. Inoltre, lungi dal favorire l'emergere di una futura risposta della classe operaia e, con essa, l'unica prospettiva praticabile, la lotta contro il sistema capitalista, le rivolte popolari, interclassiste, marcate dal “no futur” (nessun futuro), non fanno che oscurare una tale prospettiva. Esse rafforzano ulteriormente le difficoltà della classe operaia ad esprimere la propria lotta di classe contro le manifestazioni sempre più intollerabili del fallimento del capitalismo. Tuttavia, non possono eliminare il fatto che le contraddizioni di questo sistema, che saranno sempre più profonde, spingeranno sempre più la classe operaia mondiale a far fronte a tutte le difficoltà che sta affrontando attualmente. Il ruolo dei rivoluzionari è cruciale perché sono gli unici in grado di fare una critica senza compromessi alle sue debolezze.
Dopo anni di ripetuti attacchi è spesso un nuovo attacco, non necessariamente massiccio, ad "incendiare le polveri".
In Cile, è l'aumento del prezzo della metropolitana di Santiago a rappresentare "la goccia che fa traboccare il vaso". "Il problema non sono i 30 centesimi [d'aumento], ma i 30 anni [di attacchi]”, lo slogan emerso nelle manifestazioni. In questo paese, il salario mensile è inferiore a 400 €, la precarietà è generale, i costi del cibo e dei servizi sono esagerati, i sistemi educativi e sanitari spesso falliscono, quello pensionistico condanna i pensionati alla povertà.
In Ecuador, il movimento di protesta è causato da un aumento del prezzo del biglietto dei trasporti, che si aggiunge all'aumento di tutti i prodotti o servizi di base, che a sua volta si accompagna al congelamento dei salari, a licenziamenti di massa, alla "donazione" obbligatoria di una giornata di lavoro allo Stato, alla riduzione dei giorni di ferie e ad altre misure che portano ad un ulteriore deterioramento e precarietà alle condizioni di vita.
Ad Haiti, la carenza di carburante si abbatte sulla popolazione come un'ulteriore calamità che porta alla paralisi del paese più povero dell'America Latina, uno dei pochi al mondo a non veder ridursi il suo tasso di estrema povertà.
Se la crisi economica è di solito la causa principale degli attacchi alle condizioni di vita, in alcuni paesi, come il Libano e l'Iraq, questa si sovrappone alle conseguenze traumatiche e drammatiche delle tensioni imperialiste e delle guerre senza fine in Medio Oriente.
In Libano, è l'imposizione di una tassa sulle chiamate tramite WhatsApp a provocare la "rivolta" nel paese in cui il debito pro capite è il più elevato del mondo. Ogni anno il governo aggiunge nuove tasse, un terzo della popolazione è disoccupato e le infrastrutture sono mediocri.
In Iraq, dal primo giorno di un movimento nato spontaneamente dopo gli appelli a protestare sui social network, i manifestanti chiedono lavoro e servizi pubblici che funzionino, esprimendo la loro rabbia contro la classe dirigente accusata di corruzione.
In Iran, l'aumento del prezzo del carburante arriva in una situazione di profonda crisi economica aggravata dalle sanzioni americane contro il Paese.
In Cile, i tentativi di lotta sono stati deviati sul terreno della violenza nichilista senza alcuna prospettiva, caratteristica della decomposizione capitalista. Abbiamo così visto l'irruzione di una violenza sottoproletaria, favorita dallo Stato, attraverso atti di violenza irrazionale e minoritaria. Questo clima di violenza è stato ovviamente utilizzato dallo Stato per giustificare la repressione e intimidire il proletariato. Secondo i dati ufficiali, ci sarebbero stati 19 morti. La tortura è riapparsa come nei momenti peggiori di Pinochet. Tuttavia, la borghesia cilena ha capito che la brutale repressione non è servita a calmare il malcontento. Il governo di Piñera ha allora fatto il mea culpa, adottato una posizione "umile", e ha dichiarato di "comprendere" il "messaggio del popolo", ha "provvisoriamente" ritirato le misure e aperto la porta al "dialogo sociale". Vale a dire che gli attacchi saranno imposti dalla "negoziazione", a partire dal tavolo del "dialogo" in cui si trovano i partiti di opposizione, i sindacati, i padroni, tutti insieme a "rappresentare la nazione". Perché questo cambio di tattica? Perché la repressione non è efficace se non è accompagnata da un inganno democratico, dalla trappola dell'unità nazionale e dallo scioglimento del proletariato nella massa amorfa del "popolo"[2].
In Ecuador, le associazioni dei trasportatori hanno paralizzato il traffico e il movimento indigeno così come altri gruppi diversi hanno aderito alla mobilitazione. Le proteste degli imprenditori dei trasporti e di altri settori di piccoli sfruttatori si caratterizzano per il loro aspetto di rivolta di “cittadini” e soprattutto nazionalista. È in questo contesto che le mobilitazioni nascenti dei lavoratori contro gli attacchi - nel sud di Quito, a Tulcán e nella provincia di Bolivar - costituiscono una bussola per l'azione e la riflessione di fronte all’estensione della "mobilitazione" della piccola borghesia.
La Repubblica di Haiti si trova in una situazione prossima alla paralisi generale. Le scuole sono chiuse, le strade principali tra la capitale e le regioni sono tagliate da barricate, molti negozi sono chiusi. Il movimento è accompagnato da manifestazioni spesso violente, mentre bande criminali (tra le 76 bande armate repertoriate in tutto il territorio […], almeno tre sono al soldo del potere, il resto è sotto il controllo di un ex deputato e senatori dell'opposizione) commettono abusi, bloccano le strade e saccheggiano i pochi automobilisti. Domenica 27 ottobre, un vigilante privato ha sparato contro i manifestanti, uccidendo una persona. In seguito è stato linciato dalla folla e bruciato vivo. Un rapporto non ufficiale riporta una ventina di morti in due mesi.
Algeria: una marea umana ha nuovamente invaso le strade di Algeri nell'anniversario dello scoppio della guerra contro il colonizzatore francese. La mobilitazione è simile a quella registrata nel momento più alto dell'"Hirak", il movimento di protesta senza precedenti di cui l'Algeria è stato teatro dal 22 febbraio. Essa si oppone massicciamente alle elezioni presidenziali che il potere organizza il 12 dicembre per eleggere un successore di Bouteflika, perché considera che queste elezioni servono solo a mantenere in vita questo "sistema".
Iraq: in diverse province del sud, i manifestanti hanno attaccato istituzioni, partiti politici e gruppi armati. Impiegati, sindacati, studenti hanno dimostrato e iniziato dei sit-in. Se finora la repressione delle manifestazioni ha provocato, secondo un rapporto ufficiale, la morte di 239 persone, la maggior parte delle quali abbattute da pallottole di arma da fuoco, la mobilitazione è continuata a Baghdad e nel sud del paese. Dall'inizio della protesta, i manifestanti hanno ripetutamente affermato di rifiutare qualsiasi recupero politico del loro movimento perché volevano rinnovare l'intera classe politica. È anche necessario, dicono, porre fine al complicato sistema di distribuzione dei posti per confessione o gruppo etnico, intriso di clientelismo e che lascia sempre fuori i giovani che sono la maggioranza della popolazione. Nei giorni scorsi ci sono state imponenti manifestazioni di esultanza e picchetti di sciopero che hanno paralizzato università, scuole e amministrazioni. Inoltre, violenze notturne hanno avuto luogo contro quartieri generali (QG) di partito e delle milizie.
Libano: la rabbia popolare è generale, trascende tutte le comunità, tutte le confessioni e tutte le regioni del paese. La cancellazione della nuova tassa sulle chiamate tramite WhatsApp non ha impedito alla rivolta di guadagnare l'intero paese. Le dimissioni di Saad Hariri sono solo una piccola parte delle rivendicazioni della popolazione. I libanesi chiedono le dimissioni dell'intera classe politica, considerata corrotta e incompetente, e un cambiamento radicale del sistema.
Iran: dall'annuncio dell'aumento del prezzo dei carburanti, violenti scontri tra rivoltosi e forze dell'ordine hanno prodotto parecchi morti da entrambe le parti, particolarmente numerosi da parte dei manifestanti.
In tutte le rivolte popolari interclassiste sopra citate, e secondo le informazioni che siamo stati in grado di raccogliere, la classe operaia è riuscita solo occasionalmente a manifestarsi come tale, anche in situazioni come il Cile in cui la causa principale delle mobilitazioni è stata chiaramente la necessità di difendersi dagli attacchi economici.
Spesso, la "rivolta" prende allora per bersaglio privilegiato o addirittura unico, quelli che, al potere, si sono resi responsabili di tutti i mali che toccano la popolazione e, di conseguenza, essa risparmia il sistema di cui costoro sono i servi. Focalizzare la lotta sull’obiettivo della sostituzione dei politici corrotti è ovviamente un vicolo cieco perché, qualunque siano le formazioni al potere, qualunque sia il loro livello di corruzione, tutte queste non potranno e non faranno che difendere gli interessi della borghesia e condurre una politica al servizio del capitalismo in crisi. Questa situazione di stallo è tanto più pericolosa perché "legittimata" da richieste democratiche "per un sistema pulito", mentre la democrazia è la forma privilegiata di dominio della borghesia per mantenere il suo dominio di classe sulla società e sul proletariato. È significativo a questo proposito come in Cile, dopo la feroce repressione e di fronte a una situazione di cui la borghesia aveva sottovalutato l'esplosività, quest'ultima sia passata successivamente ad una nuova fase della sua risposta, fatta di un attacco politico basato sulla mobilitazione degli organi democratici classici di mistificazione e di inquadramento, finalizzato al progetto di una "nuova costituzione" presentata come una vittoria del movimento di protesta.
La rivendicazione democratica diluisce i proletari nell'insieme della popolazione, offusca la coscienza della loro lotta storica, li sottomette alla logica del dominio del capitalismo, li riduce all'impotenza politica.
Interclassismo e democratismo sono due metodi che si sposano e si completano a vicenda in modo terribilmente efficace contro la lotta autonoma della classe operaia. Ciò è tanto più vero che, con il periodo storico aperto con il crollo del blocco dell'Est e le ingannevoli campagne sulla morte del comunismo[3], il progetto storico del proletariato ha cessato temporaneamente di stare più o meno consapevolmente alla base della sua lotta. Quando quest'ultima riesce a imporsi, è in contrasto con il fenomeno generale della decomposizione della società in cui l’ognuno per sé, l'assenza di prospettive, ecc. acquisiscono un peso maggiore[4].
Le esplosioni di violenza che spesso accompagnano le rivolte popolari sono lungi dall'esprimere una qualsivoglia radicalità. Ciò è evidente quando esse sono fatte dai sottoproletari, che agiscono spontaneamente o agli ordini occulti della borghesia, con i loro vandalismi, saccheggi, incendi, violenza irrazionale e minoritaria. Ma, fondamentalmente, una tale violenza è intrinsecamente contenuta nei movimenti popolari quando essi non si rimettono direttamente alle istituzioni dello Stato. Non avendo ovviamente da offrire alcuna prospettiva di una radicale trasformazione della società per abolire la povertà, le guerre, la crescente insicurezza, e altre calamità del capitalismo in agonia, essi possono solo essere portatori di tutte le tare della società capitalista in decomposizione.
Il movimento di protesta a Hong Kong ne è un perfetto esempio, in quanto sempre più visibilmente privato di prospettive - in effetti non poteva averne dal momento che esso si collocava nel campo "democratico" senza mettere in discussione il capitalismo - esso si trasforma in una gigantesca vendetta dei manifestanti di fronte alla violenza della polizia, e poi degli stessi poliziotti, che a volte rispondono spontaneamente alla violenza dell'altra parte. È la costatazione che fanno certi organi della stampa borghese: "niente che Pechino abbia potuto tentare di fermarli ha funzionato, né il ritiro della legge sull'estradizione, né la repressione poliziesca, né il divieto di indossare maschere sulla strada pubblica. Ora questi giovani di Hong Kong non sono più mossi dalla speranza, ma dalla voglia di battersi, per mancanza di altri possibili risultati"[5].
Alcune persone immaginano - o vogliono farci credere - che qualsiasi violenza in questa società, quando esercitata contro le forze della repressione dello Stato, è necessariamente da sostenere, perché s'apparenterebbe alla necessaria violenza di classe del proletariato quando quest'ultimo entra in lotta contro l'oppressione e lo sfruttamento capitalistici[6]. Si tratta di un profondo errore profondo o di una mistificazione grossolana. In effetti, la violenza cieca dei movimenti interclassisti non ha nulla a che fare con la violenza di classe del proletariato che è liberatrice, per la soppressione dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, a differenza di quella del capitalismo che è oppressiva, con lo scopo principale di difendere la società di classe. La violenza dei movimenti interclassisti è disperata, all'immagine della piccola borghesia che non ha un futuro, a cui non resta solo o aggrapparsi alla borghesia o unirsi al proletariato.
In effetti, la trilogia "interclassismo, rivendicazione democratica, violenza cieca" è il segno distintivo delle rivolte popolari che stanno scoppiando in ogni angolo del pianeta in risposta al degrado accelerato di tutte le condizioni di vita che colpiscono la classe operaia, altri strati non sfruttatori e la piccola borghesia totalmente impoverita. Il movimento dei gilet gialli che è apparso in Francia un anno fa appartiene anche a questa categoria di rivolte popolari[7] . Tali movimenti possono solo contribuire a oscurare agli occhi dei proletari quale sia la vera lotta di classe, a rafforzare le attuali difficoltà di questi ultimi a concepirsi come una classe sociale, diversa dalle altre classi, con la sua lotta specifica contro lo sfruttamento e la sua missione storica del rovesciamento del capitalismo.
Questo è il motivo per cui la responsabilità dei rivoluzionari e delle minoranze più coscienti della classe operaia è quella di lavorare affinché la classe operaia possa riappropriarsi dei suoi metodi di lotta, al centro dei quali c'è la lotta di massa; l'assemblea generale come luogo di discussione, di decisione e di difesa contro i tentativi di sabotaggio dei sindacati, aperta a tutti i settori della classe operaia; l'estensione agli altri settori, imposta contro le manovre dei sindacati e della sinistra della capitale[8]. Benché effettivamente queste prospettive appaiono oggi lontane, specialmente in quelle parti del mondo dove la classe operaia è molto minoritaria, con poca esperienza storica, esse tuttavia restano ovunque l'unica bussola che permetterà al proletariato di non dissolversi e perdersi.
Silvio. (2019/11/17)
[1] Leggi il nostro articolo “Nuova recessione: Il capitale esige più sacrifici dal proletariato!”, in francese su Révolution Internationale n. 478
[2] Per ulteriori informazioni e analisi sulla situazione in Cile, leggi il nostro articolo Mouvement social au Chili: l’alternative dictature ou démocratie est une impasse [4], su Révolution Internationale n.479
[3] Torneremo presto con articoli della nostra stampa sul notevole impatto di queste campagne menzognere sulla lotta di classe e metteremo in evidenza come lo stato del mondo sia diventato l'opposto di quanto era stato annunciato: “un’era di pace e prosperità”.
[4] Vedi in particolare le Tesi sulla decomposizione, su Rivista internazionale n. 14, https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo [5]
[5] "I manifestanti di Hong Kong non sono guidati dalla speranza". The Atlantic, rivista americana
[6] Da questo punto di vista, è illuminante confrontare le recenti rivolte in Cile con l'episodio della lotta dei lavoratori in Argentina chiamato del Cordobazo nel 1969: “Il 29 maggio, in seguito a una serie di proteste nelle città operaie contro i violenti attacchi economici e la repressione della giunta militare, gli operai di Cordoba sopraffecero completamente la polizia e l'esercito (per lo più dotati di carri armati) diventando padroni della città (la seconda del paese). Il governo fu in grado di "ristabilire l'ordine" solo il giorno successivo grazie al massiccio invio di truppe militari.”; sullo stesso episodio leggere il nostro articolo "Il Cordobazo argentino (Maggio 1969): un anello di una catena di mobilitazioni operaie nel mondo", The Argentinean Cordobazo - May 1969, a moment in the resurgence of the international class struggle [6]
[7] Leggi a questo proposito il nostro supplemento a Révolution Internationale n. 478, Bilan du mouvement des “gilets jaunes”: Un mouvement interclassiste, une entrave à la lutte de classe [7]
[8] A questo proposito, leggi la risoluzione sul rapporto di forze tra le classi adottata al 23° Congresso della CCI (2019) https://it.internationalism.org/content/1502/risoluzione-sul-rapporto-di-forza-tra-le-classi-2019 [8]
La Libia è regolarmente nelle notizie di cronaca dal 2011, anno della liquidazione della sua defunta “guida” Gheddafi da parte delle potenze della NATO (Francia, Regno Unito e Stati Uniti). “Questa sfortunata Libia, che la guerra franco-britannica del 2011 ha trasformato in un paradiso per i terroristi di Daesh e Al Qaeda, ora eredita una guerra civile. Trafficanti di armi, droga o di migranti vi proliferano e raramente entrano in conflitto con i jihadisti. Ovvio, sono spesso soci in affari…”[1].
In nome della “protezione della popolazione civile”, dopo la fine della “Primavera araba” in Libia (repressa brutalmente dall'ex colonnello dittatore) le potenze occidentali dichiararono guerra al leader libico. Dopo aver schiacciato la popolazione sotto le bombe e aver liquidato Gheddafi, hanno lasciato il paese nelle mani di numerosi gruppi assetati di sangue che si disputano continuamente il controllo del moribondo Stato libico.
"I combattimenti che rimbombano di nuovo alle porte di Tripoli, "padrini" regionali che alimentano le fiamme tra i belligeranti, un diluvio di odio nella propaganda. Dal 4 aprile, giorno dell'attacco a Tripoli da parte delle truppe del maresciallo Haftar, la guerra riaccende i fuochi in Libia. Otto anni dopo l'insurrezione anti-Gheddafi (sostenuta dalle incursioni della NATO) e cinque anni dopo la guerra civile del 2014, il gigante nordafricano, convalescente, ricade nel caos, nell’'instabilità, nel rischio estremista. (...) Si torna al punto di partenza”[2].
Oggi, tra la decina di milizie coinvolte, le due fazioni più importanti pretendono lo statuto di interlocutori con le grandi potenze e le Nazioni Unite: si tratta del Governo di accordo nazionale (GAN) guidato da Faïse Sarraj, nominato dalle Nazioni Unite, sostenuto da Turchia e Qatar e dell’Esercito nazionale libico (ANL), che governa la regione cirenaica, guidato da Khalifa Haftar che è sostenuto da Egitto, Arabia, Emirati Arabi Uniti più (dietro le quinte) Francia, Russia e Stati Uniti. Intanto il governo dell'ex potenza coloniale italiana sostiene l'una o l'altra fazione delle “autorità” in campo, come ha fatto recentemente in ottobre rinnovando, ad esempio, un accordo spregevole che consente la formazione di guardie costiere libiche per dare la caccia ai migranti.
In realtà, quello che domina in questo conflitto sono il ciascuno per sé e l'ipocrisia. Questo spettacolo barbaro rivela l'atteggiamento completamente falso e abietto delle grandi potenze che fanno il doppio gioco, come il governo francese colto in flagrante menzogna quando nega senza vergogna l'esistenza di missili forniti dai suoi servizi segreti al maresciallo Haftar affermando che “la Francia è in Libia per combattere il terrorismo”.
Per quanto riguarda i due signori della guerra libici, i loro obiettivi sono altrettanto infami: “In questo modo, l’uno di fronte all’altro, i due campi non oseranno mai confessare il vero motivo del loro scontro. Il ricorso enfatico a una retorica giustificatrice ad uso esterno (“rivoluzione” o “antiterrorismo”) difficilmente nasconde la brutalità di una rivalità per appropriarsi delle risorse, che assume un significato molto particolare in questo ex Eldorado del petrolio che è la Libia. Nonostante le turbative causate dal caos post 2011, il petrolio libico continua a fornire 70 milioni di dollari (62,5 milioni €) di entrate al giorno. Pertanto il controllo dei canali di distribuzione di questa rendita petrolifera stuzzica molti appetiti”[3].
Questo è un altro aspetto del conflitto di cui nessuno parla nei discorsi ufficiali dei leader del mondo capitalista! Questa corsa al “bottino” petrolifero, aperta dal caos generato dopo il 2011, oppone fra loro un gran numero di piccoli e grandi gangster locali e internazionali sul suolo libico.
Peggio ancora, per i grandi avvoltoi capitalisti la Libia rappresenta un altro interesse inconfessabile: l'esistenza, su loro iniziativa, di mostruosi “campi di accoglienza” per i migranti rimpatriati o in attesa di un imbarco tanto ipotetico quanto mortale in Europa!
Oltre al cruento caos provocato dalle grandi potenze imperialiste, la Libia è diventata un vero “mercato” e un cimitero per i migranti di cui l'UE è responsabile. Il 14 novembre 2017 sono state trasmesse dalla CNN immagini del mercato degli schiavi in Libia dove abbiamo potuto vedere esseri umani venduti all'asta come bestiame. Sono tra i 700.000 e 1 milione i migranti caduti nella trappola di reti e trafficanti criminali di cui Stati europei e africani sono complici attivi. “Ciò che sta accadendo in Libia, paese senza leadership e consegnato alla milizia armata, è una tragedia su cui l'Unione europea chiude gli occhi. I leader africani, dopo aver optato per l'ipocrisia, seguono l'Europa come galline (...) Il reportage della CNN non cambierà molto alla situazione a Tripoli, Misrata, Bengasi o Tobruk. In un paese decimato dalla guerra civile, dove esplode l'inflazione, dove l'economia è in rovina e dove si praticano esecuzioni di massa dei prigionieri, ognuno lavora sia nel settore del contrabbando e collabora con i trafficanti che nella lotta contro il contrabbando e contro i contrabbandieri. Questo reportage mostra un caso di servitù legato alla liquidazione di un debito, ma un gran numero di migranti venduti all'asta in Libia sono detenuti in un traffico legato al pagamento di riscatti. Con la chiusura della strada libica che porta in Italia, i migranti subsahariani si trovano spesso bloccati e non possono permettersi di tornare a casa. I trafficanti li vendono quindi al miglior offerente (ad esempio una milizia). Gli acquirenti costringono poi i migranti a contattare le loro famiglie per chiedere loro di inviare un riscatto che può variare da 2000 a 3000 dinari (da 1200 a 1800 euro) a persona”[4]. Secondo un rapporto pubblicato dall'Unicef: “I centri di detenzione gestiti dalle milizie non sono altro che campi di lavoro forzato, carceri in cui tutti vengono derubati sotto la minaccia delle armi. Per migliaia di donne e bambini, la vita in queste carceri è fatta di stupri, violenza, sfruttamento sessuale, fame e abusi ripetuti”.
Tutto ciò mostra la portata di questa barbarie che coinvolge direttamente le grandi potenze imperialiste che, attraverso le loro politiche, stanno gettando i migranti tra le braccia di schiavisti come in epoca passata. L'UE, in effetti, esige una politica attiva contro gli immigrati dagli Stati vicini fallimentari e terribilmente corrotti (Niger, Nigeria, ecc.) sovvenzionandoli per la costruzione di muri e campi di sterminio. L'UE è anche coinvolta nello sviluppo di pratiche mafiose e nella contrattazione tra banditi fornendo fondi e attrezzature alle guardie costiere libiche che intercettano le barche dei migranti e le portano nei mostruosi “centri di detenzione”.
Ancora oggi i migranti si trovano sempre nella stessa situazione di miseria e sofferenza, in mezzo a pericoli che li portano a migliaia alla morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, come dimostra questa storia: “Sulla spiaggia di Aghir dell'isola di Djerba, nel nord della Tunisia, ci sono più cadaveri che bagnanti in questo inizio del mese. Lunedì 1 luglio, un canotto è affondato al largo. Un’imbarcazione partita all'alba dalla città libica di Zouara, a 120 chilometri a ovest di Tripoli, con 86 persone a bordo. Tre sono stati pescati vivi. Il mare sta restituendo gli altri uno ad uno”. “Non ne posso più. Questo è troppo!”: Chemsedddine Marzog, il pescatore che per anni offre un'ultima dimora ai corpi che il mare rigetta, dice che non ne può più. “Ho seppellito quasi 400 cadaveri e, lì, dozzine arriveranno ancora nei prossimi giorni. Non è possibile, è disumano e non possiamo gestire questo da soli”, si dispera il guardiano del cimitero dei migranti di Zarzis, città del sud-est della Tunisia, vicino al confine con la Libia”[5].
Nel frattempo le “democrazie occidentali” chiudono gli occhi e si tappano il naso di fronte a questa crudele barbarie mentre continuano la loro lotta per la “messa in sicurezza” (cioè la chiusura) dei loro confini contro gli “illegali” e sbandierano il loro "umanesimo universale" quando sono proprio loro che spingono attivamente e addirittura definiscono questa famigerata politica[6].
Amina, novembre 2019
[1] Le Canard enchaîné (24 aprile 2019), giornale satirico francese
[2] Le Monde, (12-13 maggio 2019).
[3] Le Monde (3 maggio 2019)
[4] Courrier international, (7-13 dicembre 2017)
[5] Le Monde (10luglio 2019)
[6] A questo proposito, possiamo aggiungere che i paesi dell'UE non sono i soli a portare avanti una politica barbara nei confronti dei migranti. Possono anche contare sull'aiuto del loro “grande amico” e cliente saudita. Infatti Ryad massacra, imprigiona, espelle gli “indesiderabili” migranti che si trovano sul suo territorio. Secondo The Guardian: “10.000 etiopi sono stati espulsi dall'Arabia Saudita ogni mese dal 2017, quando le autorità hanno intensificato la loro campagna spietata per respingere i migranti privi di documenti. Circa 300.000 persone sono rientrate da marzo di quell'anno, secondo gli ultimi dati dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e voli speciali carichi di deportati arrivano settimanalmente all'aeroporto di Addis Abeba. (...) Centinaia di migliaia di etiopi sono stati deportati durante una precedente ondata di caotica repressione condotta tra il 2013 e il 2014.” Queste pratiche del regime sanguinario saudita nei confronti di coloro che cercano di fuggire dalla miseria e la morte di casa loro è un sinistro esempio del fatto che tutti gli Stati condividono lo stesso cinismo per garantire la perpetuazione di un sistema disumanizzato.
La civiltà capitalista - questo sistema mondiale basato sul lavoro salariato e su una produzione fatta per il solo profitto - sta morendo. Come l’antico sistema schiavistico di Roma o la servitù feudale, è destinata a sparire. Ma, a differenza dei sistemi precedenti, minaccia di trascinare con sé nel baratro l’intera umanità. Per oltre cento anni i sintomi del suo declino sono diventati sempre più evidenti. Due guerre mondiali con livelli di distruzione senza precedenti seguiti da decenni di conflitti per procura tra due blocchi imperialisti (USA e URSS), conflitti che contenevano sempre la minaccia di una terza e ultima guerra mondiale. Da quando il blocco dell’est è crollato nel 1989, non abbiamo visto la pace ma guerre locali e regionali sempre più caotiche, come quelle che stanno devastando il Medio Oriente. Abbiamo attraversato convulsioni economiche globali, come quelle degli anni '30, '70 o del 2008, che hanno precipitato milioni di persone nella disoccupazione e nella povertà e che hanno accelerato la spinta verso una guerra aperta. E quando il capitalismo è riuscito a ripristinare l’accumulazione – come sulla scia della massiccia distruzione avvenuta dopo il 1945, o drogandosi con il debito - la sua crescita e la sua espansione sono avvenute solo attraverso l’ulteriore distruzione della natura che minaccia sempre di più il pianeta.
Rosa Luxemburg nel 1916, in risposta agli orrori della prima guerra mondiale, indicò l’alternativa che si poneva all’umanità: “o il trionfo dell’imperialismo e il crollo di tutta la civiltà, come nell’antica Roma, con lo spopolamento, la desolazione, la degenerazione - un grande cimitero. O la vittoria del socialismo, che significa lotta attiva e cosciente del proletariato internazionale contro l’imperialismo e la sua guerra. Questo è un dilemma della storia del mondo, un aut aut”. (Rosa Luxemburg, Brochure di Junius).
A differenza del sistema schiavistico, che alla fine ha lasciato il posto al feudalesimo che, a sua volta, ha permesso al capitalismo di crescere al suo interno, l’attuale sistema capitalista ormai moribondo non darà automaticamente origine a nuovi rapporti sociali. Una nuova società può essere costruita solo attraverso la “lotta attiva e cosciente del proletariato internazionale” - attraverso l'incontro di tutti gli sfruttati del mondo che si riconoscono come un’unica classe con gli stessi interessi in ogni parte del mondo.
Questo è un compito immenso, reso più difficile negli ultimi decenni dalla perdita del senso d’identità di classe, tanto che anche molti di quelli che avvertono che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel sistema attuale, trovano difficile accettare che esista ancora una classe operaia, figuriamoci poi se si aggiunge che questa è l’unica capace di cambiare il mondo.
Eppure la rivoluzione proletaria rimane l’unica speranza per il pianeta perché significa la fine di tutti i sistemi in cui l’umanità è dominata da forze economiche cieche, la prima società in cui tutta la produzione è pianificata in modo consapevole per soddisfare i bisogni dell’umanità nella sua interazione con la natura. Una società basata sulla possibilità e sulla necessità per gli esseri umani di prendere nelle loro mani la vita sociale.
È per questo motivo che dobbiamo opporci agli slogan e ai metodi di chi organizza le attuali proteste climatiche, invitandoci a esercitare i nostri diritti democratici per manifestare o votare con l’obiettivo di esercitare pressioni su governi e partiti politici affinché reagiscano alla crisi ecologica. Questo è un inganno perché il ruolo di tutti questi governi e partiti, sia di destra che di sinistra, è di gestire e difendere quello stesso sistema che è all’origine dei molteplici pericoli che affliggono il pianeta.
Le scelte che ci sono offerte dai politici di ogni genere sono delle false scelte. Una Gran Bretagna fuori o dentro l’UE non proteggerà la classe operaia di quel paese dalle tempeste che si scatenano sull’economia mondiale. Un governo americano retto dal vandalismo di Trump versione “America First” o dalle politiche “multilaterali” più tradizionali di altre fazioni non cambierà in nessun caso la natura di un potere imperialista costretto a difendere il proprio status contro tutte le altre potenze imperialiste. I governi che negano il cambiamento climatico o quelli che parlano dell’investimento in un “New Green Deal” saranno comunque obbligati a gestire un’economia nazionale che generi profitto e quindi a compiere incessanti attacchi alle condizioni di vita della classe lavoratrice. E così, perpetuando il meccanismo dell’accumulazione capitalista, porteranno avanti la trasformazione della Terra in un deserto.
Ma, ci viene detto, possiamo anche votare per una equipe governativa diversa e - nei paesi in cui anche questo “diritto” viene negato - possiamo chiedere che ci venga concesso.
In effetti, l’illusione di poter avere qualche controllo sul colosso del capitalismo dando il nostro voto ogni pochi anni è parte integrante dell’intera frode della democrazia capitalista. Il voto nel chiuso della cabina elettorale non solo ci tiene intrappolati nelle false scelte offerte, ma è esso stesso un’espressione della nostra impotenza, riducendoci a “cittadini” atomizzati di questo o quello stato.
La lotta di classe del proletariato ha mostrato una reale alternativa a questa impotenza istituzionalizzata. Nel 1917-19, la classe operaia si ribellò al massacro della guerra e formò i consigli dei lavoratori in Russia, Germania, Ungheria e altri paesi, consigli di delegati eletti e revocabili dalle assemblee operaie da cui provenivano e che per la prima volta avevano la possibilità di esercitare un controllo consapevole sulla vita politica e sociale. Questa massiccia rivolta internazionale portò i governi dell’epoca a porre fine alla guerra poiché si dovevano unire le forze per schiacciare la minaccia della rivoluzione.
L’umanità ha pagato un costo elevato per la sconfitta che ne seguì: tutta la barbarie degli ultimi cento anni ha le sue radici nel fallimento del primo tentativo di rovesciare il capitale mondiale. E il costo sarà ancora più pesante se la classe operaia non recupererà le sue forze per un secondo assalto al cielo.
Ciò può sembrare una prospettiva lontana, ma finché esisterà il capitalismo, ci sarà sempre lotta di classe. E poiché il capitalismo nella sua agonia non ha altra scelta che aumentare lo sfruttamento e la repressione dei suoi schiavi salariali, a questi ultimi non resta che resistere in vista di passare dalla lotta difensiva a una di attacco, da quella economica a quella direttamente politica, da una rivolta istintiva al rovesciamento organizzato del capitalismo.
CCI, 16.11.19
Novanta anni fa il crollo del mercato azionario dell'ottobre 1929, che annunciò la crisi economica degli anni '30, confermò il significato della Prima guerra mondiale, vale a dire che il capitalismo era definitivamente entrato nel suo periodo di decadenza. In pochi mesi, decine e decine di milioni di persone sarebbero cadute in una miseria totale. Sicuramente dopo di allora la borghesia ha imparato a mitigare la violenza della crisi ma, nonostante le lezioni che ne ha potuto tirare, questa crisi non è mai stata superata. Ciò conferma che nel periodo aperto dalla Prima guerra mondiale le contraddizioni del capitalismo non potevano che portare al degrado delle condizioni di esistenza della stragrande maggioranza dell'umanità.
La crisi del 1929 corrisponde perfettamente alla diagnosi fatta da Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista rispetto alle crisi già sperimentate dal capitalismo nel diciannovesimo secolo: "Scoppia un'epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe sembrata assurda: l'epidemia della sovrapproduzione". Tale diagnosi è tanto più valida se si considera che la crisi del 1929 non scoppiò con il crollo dei mercati azionari del 24 e 29 ottobre 1929, ma che ancor prima di queste date la situazione economica stava già peggiorando in un numero crescente di settori dell'economia e di paesi.
Negli Stati Uniti la produzione nel settore edilizio e dell’auto era già in calo da marzo del 1929, una caduta che si generalizza all'intera economia durante l'estate dello stesso anno. D'altra parte l'attività economica era in generale in calo nei paesi europei dove si ebbe un crollo delle borse prima che negli Stati Uniti; in queste condizioni la speculazione al rialzo alla borsa di New York non poteva che scontrarsi con la riduzione dei profitti e finire con un crollo.
Questo calo dell'attività economica nei paesi centrali del capitalismo ebbe come cause, da un lato, la sovrapproduzione mondiale dei prodotti agricoli a partire dalla metà degli anni '20, il che implicava un calo dei profitti nell'agricoltura e, d'altro, la persistente debolezza dei salari, che erano aumentati molto meno della produzione nell'insieme dei paesi industrializzati. Tale dinamica verificava pienamente la causa della sovrapproduzione identificata da Marx: "La ragione ultima di tutte le crisi reali è sempre la povertà e il consumo limitato delle masse, di fronte alla tendenza dell'economia capitalista a sviluppare le forze produttive, come se esse non avessero per limite che il potere del consumo assoluto della società"[1].
Naturalmente, il crollo del mercato azionario amputerà severamente le riserve di capitale finanziario e causerà il fallimento di grandi banche come la Bank of The United States, aggravando così la sovrapproduzione perché diventava sempre più difficile finanziare l'accumulazione di capitale.
A ciò ha fatto seguito un drastico calo degli investimenti, aggiungendo una massiccia sovrapproduzione di beni di produzione alla tendenza generale che esisteva da diversi anni. Questa dinamica ha provocato una rapida accelerazione della caduta della produzione industriale e, dato le strette relazioni finanziarie e commerciali a livello internazionale, il peggioramento della crisi diventerà mondiale. Va notato che il declino dell'attività sarà più profondo e rapido proprio nei due paesi più sviluppati, vale a dire gli Stati Uniti e la Germania.
Eppure nei primi mesi successivi al crollo la borghesia e la maggior parte dei suoi economisti, accecati dall'idea che il sistema capitalista fosse eterno, pensavano come il presidente degli Stati Uniti Hoover che "tutto sarebbe finito entro sessanta giorni" e che, come nelle crisi del diciannovesimo secolo, la ripresa economica sarebbe arrivata spontaneamente. La violenza della crisi provocò un profondo smarrimento nelle fila della classe dominante ma, poiché bisognava innanzitutto mantenere un minimo di profitto, la reazione delle imprese fu quella di attuare licenziamenti di massa e ridurre i salari. Gli Stati, nonostante delle esitazioni, cercarono di conservare la loro credibilità finanziaria mantenendo un bilancio in pareggio attraverso la riduzione della spesa pubblica. Negli Stati Uniti fu votata nel giugno 1932 una politica di riduzione della massa monetaria e un forte aumento delle imposte dirette e indirette. In Germania il cancelliere Brüning, soprannominato il cancelliere della fame, aumentò le tasse, abbassò i salari dei dipendenti pubblici del 10% e le indennità per i disoccupati già nel 1930; poi, nello stesso paese, nel giugno 1931 furono prese misure ancora più severe contro i disoccupati. In Francia, dal 1933, i vari governi ridussero la spesa pubblica, le pensioni ed i salari dei dipendenti pubblici, e nel 1935 questi stessi salari furono tagliati del 15% e poi ancora del 10%.
L'altro orientamento adottato dagli Stati fu quello di proteggere l'economia nazionale attraverso il protezionismo: tutti i paesi seguirono l'esempio degli Stati Uniti il cui Congresso aveva votato, prima del crollo dell'ottobre 1929, la legge Smoot-Hawley, che aumentava i dazi doganali del 50%. In effetti, negli anni '30 si sviluppò una vera e propria guerra commerciale e monetaria tra le grandi potenze. In particolare, la fluttuazione del valore della sterlina britannica e la sua svalutazione di oltre il 30% decisa nel settembre 1931 e quella del dollaro del 40% nel 1933, mostrano che ogni grande potenza, prendendo esempio dal Regno Unito e dal Commonwealth già orientati a privilegiare il commercio all’interno del proprio “impero”, si ripiegava sulla propria zona di influenza.
L'attuazione di tale politica mostra che la borghesia non aveva compreso che il capitalismo, a differenza del periodo precedente alla Prima guerra mondiale dove viveva ancora la sua fase ascendente, non aveva più i mezzi per controllare e frenare la sovrapproduzione verso la quale spingevano irrimediabilmente le sue contraddizioni. Nel periodo precedete le crisi erano sfociate in nuove fasi di crescita perché il mercato mondiale era ancora aperto e permetteva quindi ai capitali nazionali più moderni e dinamici di trovare nuovi mercati che potessero superare i problemi ciclici della sovrapproduzione. Come ha dimostrato Rosa Luxemburg, la Prima guerra mondiale era stata manifestazione del fatto che il mercato mondiale era globalmente ripartito tra le grandi potenze e che non c'erano più abbastanza nuovi mercati da conquistare. Ciò implicava che lo sbocco della crisi poteva essere solo la distruzione del capitalismo da parte della classe operaia o lo scoppio di una nuova guerra mondiale. Di conseguenza le politiche statali nei primi tre o quattro anni dopo l'ottobre 1929, ispirate alla situazione del secolo precedente, non riuscirono neppure a ridurre l'impatto della sovrapproduzione; al contrario, esse lo aggravarono.
In effetti, come afferma l'economista Kindleberger, questi anni sono stati "uno slittamento verso l'abisso". Tra l'autunno del 1929 e il primo trimestre del 1933, il PNL degli Stati Uniti e della Germania fu dimezzato, il livello medio dei prezzi mondiali scese del 32%, il volume degli scambi mondiali diminuì del 25%. Una tale flessione dell'attività economica causò la caduta dei profitti, il che spiega perché nel 1932 gli investimenti lordi negli Stati Uniti erano vicini allo zero. In altre parole molte aziende non sostituirono le loro macchine usurate. Come diceva Keynes, oltre un certo livello di calo dei prezzi e quindi di perdite, le imprese non possono più rimborsare i propri debiti e le banche non possono che collassare; ed è quello che successe. Le grandi banche fallirono in tutti i paesi. Il 13 maggio 1931, il KreditAnstaldt[2] sospendeva i pagamenti; nel luglio dello stesso anno, anche la grande banca tedesca Danatbank va in bancarotta e, a causa del panico bancario, tutte le banche tedesche chiusero per tre giorni; negli Stati Uniti, all'inizio del 1932, il numero di fallimenti bancari fu tale che Roosevelt, neoeletto presidente, fu obbligato a chiudere l'intero sistema bancario (più di 1.000 banche non riapriranno più!).
Le conseguenze per la classe operaia furono terrificanti: la disoccupazione aumentava in tutti i paesi: alla fine del 1932 la disoccupazione raggiunse almeno il 25% negli Stati Uniti (e in questo paese non c'era alcuna forma di assistenza per i disoccupati) e il 30% in Germania[3]. Una gran parte degli operai lavorava part-time in miseria totale; le indennità di disoccupazione vennero ridotte in Germania e Gran Bretagna; le code di persone emaciate dalla miseria e coperte di stracci per avere una ciotola di minestra si allungavano mentre tonnellate di merci invendute venivano distrutte. In Brasile vennero persino bruciate scorte di caffè nelle locomotive! In più gli aumenti delle tasse andavano a silurare ulteriormente una classe operai già impoverita.
Il crollo dell'economia mondiale costrinse la classe dominante e alcuni suoi esperti a rimettere in discussione i loro vecchi precetti liberali di non intervento da parte dello Stato, del rispetto del pareggio di bilancio, e a rendersi conto che la causa della crisi era la sovrapproduzione, che la borghesia ribattezzò abilmente con la teoria di Keynes "insufficienza della domanda".
Per fermare il crollo del capitale, bisognava innanzitutto agire affinché gli Stati prendessero nelle loro mani il controllo dell'apparato produttivo, a volte direttamente, come nel caso del trasporto ferroviario in Francia o in Gran Bretagna per i trasporti di Londra e il trasporto aereo. Ma ancora più importante, questo controllo in prima persona da parte dello Stato è consistito nel costringere l'insieme delle aziende, attraverso la regolamentazione, ad adottare una gestione coerente con gli interessi del capitale nazionale: fu questo il contenuto del famoso New Deal del presidente Roosevelt negli Stati Uniti o del piano De Man in Belgio. Tra le numerose riforme del new deal, Roosevelt presentò al Congresso l'Emergency Banking Act, il piano economico statunitense degli anni '30 in cui si doveva far fronte alla crescente e dilagante crisi del 1929. Attraverso il Banking Act l'amministrazione statunitense creò un organismo assicurativo al quale le banche dovevano aderire per ricevere fondi dalla Banca centrale (la FED). Un'altra legge organizzava il sostegno ai prezzi agricoli offrendo un indennizzo agli agricoltori se avessero ridotto le aree coltivate. Nell'industria, il NIRA chiedeva alle diverse branche industriali di organizzarsi (in Germania, ad avere un tale incarico furono le corporazioni) per fissare le quote di produzione e i prezzi di vendita delle imprese; inoltre, ai sindacati venne concesso il diritto di firmare accordi collettivi, la qual cosa permetteva a quest'ultimi di accrescere la loro presa sulla classe operaia. Tali leggi (che venivano adottate in modo simile in altri paesi come in Francia sotto il Fronte Popolare) non migliorarono i salari poiché i prezzi aumentavano di più. Per ridurre la sovrapproduzione, queste leggi avevano lo scopo non solo di diminuire la produzione ma anche di rilanciare la domanda attraverso il deficit di bilancio. Ad esempio, il NIRA organizzò una politica di grandi lavori pubblici, come il recupero della Valle degli Appalachi, la costruzione del Triborough Bridge a New York e lo sviluppo e la pianificazione di molte dighe nella valle del Tennessee. Troviamo la stessa volontà in Germania a partire dal ‘32 con la costruzione di autostrade, lo scavo di canali, il recupero di alcune aree geografiche. L'aumento artificiale della domanda rafforzando al contempo il controllo sulla classe operaia, divennero anche gli obiettivi della borghesia britannica che introdusse di nuovo i sussidi di disoccupazione, quindi un regime pensionistico e stimolò la costruzione di alloggi. Lo sviluppo della presa dello Stato sul capitale che fu introdotto in modo piuttosto caotico negli anni '30, avrà in seguito un grande futuro. Sarà anche teorizzato come keynesismo. Il controllo dell'insieme del capitale da parte dello Stato utilizzando una serie di strumenti (dalla nazionalizzazione al sostegno alle imprese attraverso di organismi pubblici) sarà sempre più sistematico. L’indebitamento sempre più grande dell'intera economia (stimolato dallo Stato), così come la pratica di deficit pubblici saranno sviluppati continuamente al fine di mitigare gli effetti della sovrapproduzione. Allo stesso modo, l'istituzione del "Welfare state" dopo la Seconda guerra mondiale, estendendo ciò che era stato fatto nei paesi dell'Europa occidentale negli anni '30, costituirà un fattore di regolamentazione della domanda e al contempo anche uno strumento di controllo ideologico della classe operaia. Come negli anni '30, il dispiegamento di tutti questi mezzi consentirà allo Stato di ritardare nel tempo gli effetti della sovrapproduzione. Ma la borghesia non potrà comunque risolvere la crisi e sfuggire realmente alla sovrapproduzione.
Oggi la crisi del sistema capitalista continua ad approfondirsi, anche se a un ritmo molto più lento rispetto agli anni '30. Questo conferma che il capitalismo di Stato non è uno strumento che può porre fine alla sovrapproduzione, perché questa è congenita al capitalismo stesso. Nei fatti la risposta del capitale alla crisi è di per sé un'espressione della senilità del modo di produzione capitalistico che continua ad affermarsi. Il capitalismo di Stato permette solo una gestione tale da limitare gli effetti della sua crisi permanente, ma a prezzo di contraddizioni sempre più acute e distruttive.
Vitaz, 8 ottobre 2019
Documentari, trasmissioni radiofoniche, notiziari, articoli di stampa, commemorazioni pubbliche ... tutti mezzi disponibili per ripetere instancabilmente che la caduta del muro, il 9 novembre 1989, è stata il vero simbolo del "fallimento del comunismo". Tuttavia, come abbiamo sempre sostenuto, i regimi stalinisti del blocco dell'Est hanno sempre incarnato una particolare forma di capitalismo di Stato e mai nemmeno lontanamente la società comunista. Se il suo ventesimo anniversario fu "celebrato" in pompa magna dalla classe dominante, specialmente in Europa, le attuali commemorazioni assumono una forma molto più sobria. Ed a ragione! La borghesia ha voglia di spremersi le meningi, per lei, ora, è molto più difficile mantenere l'illusione di un mondo che naviga verso il progresso universale sotto gli effetti benefici dell'economia di mercato capitalista e della democrazia come essa poté declamare con forza nel corso degli anni '90. Non di meno ciò le impedisce di rafforzare la sua propaganda utilizzando in particolare lo sfondamento dei partiti populisti in diversi paesi dell'ex blocco dell'Est. "In futuro, dobbiamo impegnarci per la democrazia, la libertà, i diritti dell'Uomo e la tolleranza", ha dichiarato Angela Merkel, il 9 novembre, durante la cerimonia di commemorazione. Democrazia in pericolo? È necessario a tutti i costi difenderla, ci dicono i valletti politici della borghesia. Difendere questo sistema che sarebbe servito da bulldozer per la distruzione del Muro e la caduta del blocco dell'Est, è ciò che da settimane i media affermano continuamente. Secondo loro, la caduta del muro di Berlino sarebbe in realtà il prodotto di un vasto movimento democratico nato in Polonia nel 1980 con la creazione di Solidarnosc. La grande e bella democrazia avrebbe avuto ragione sulla "barbarie comunista" ed è allo stesso modo che oggi bisognerebbe difenderla di fronte all'ascesa dei governi populisti.
Di fronte ai suoi fiumi di menzogne, ripubblichiamo, questo articolo della nostra stampa che ci riporta su questi eventi, permettendo così di ristabilire la verità storica.
Venti anni fa, il 9 novembre 1989, il muro di Berlino fu abbattuto e smantellato pezzo per pezzo da una folla delirante. Fu lì, nel cuore dell'Europa, in una Germania intossicata dalla dissipazione della "cortina di ferro" e dal miraggio della riunificazione, il simbolo più forte della fine della divisione del mondo in due blocchi rivali: Est ed Ovest. Alla fine del 1989, in pochi mesi, l'umanità fu testimone dello smantellamento dell'URSS e della scomparsa dei regimi stalinisti nell'Europa dell'Est.
All'epoca, questo evento permise alla borghesia di usare un'arma ideologica di distruzione di massa: la morte dello stalinismo dimostrava definitivamente che il comunismo era stato un sogno pericoloso che portava inevitabilmente al totalitarismo e al fallimento! Identificando così in modo fraudolento lo stalinismo con il comunismo, e facendo della dissolutezza economica e della barbarie dei regimi stalinisti l'inevitabile conseguenza della rivoluzione proletaria, la borghesia mirava ad allontanare gli operai da qualsiasi prospettiva rivoluzionaria.
Nella foga del momento, la borghesia ne approfittò anche per fare passare una seconda grande menzogna di cui solo lei custodirebbe il segreto: con la scomparsa dello stalinismo, il capitalismo avrebbe potuto veramente prosperare. Il futuro, essa prometteva, si annunciava radioso. Così, il 16 marzo 1991, George Bush padre, presidente degli Stati Uniti d'America, forte della sua recente vittoria sull'esercito iracheno di Saddam Hussein, annunciò l'avvento di un "nuovo ordine mondiale" e il compimento di un "mondo in cui le Nazioni Unite, liberate dallo stallo della guerra fredda, sono in grado di realizzare la visione storica dei loro fondatori. Un mondo in cui la libertà e i diritti umani sono rispettati da tutte le nazioni". Questa seconda impostura non durò a lungo. Gli anni 1990 e 2000 furono segnati da una successione di guerre (dalla Jugoslavia all'Afghanistan passando, ancora una volta, dall'Iraq) e da un crescente impoverimento. Inoltre, oggi, nel mezzo di un disastro economico senza precedenti, le celebrazioni della caduta del muro sono state fatte con una certa modestia ed all'insegna di una certa discrezione, visto che le promesse di "libertà", di "pace" e di "prosperità" sembrano a tutti, quello che realmente sono: una truffa.
La classe operaia non ha più illusioni su questo sistema di sfruttamento. Oggi sa che il futuro promesso dal capitalismo può essere fatto solo di disoccupazione, miseria, guerra e sofferenza. Di contro, ciò che manca per avere il coraggio di tornare a combattere è una speranza, una prospettiva, un altro mondo possibile per il quale combattere. Le menzogne che assimilano il comunismo allo stalinismo, questa immensa propaganda che si è scatenata in occasione della caduta del muro e del crollo del blocco dell'Est, pesano ancora oggi nelle teste degli operai, anche tra i più combattivi.
Questo è il motivo per cui riproduciamo di seguito larghi estratti di un documento che abbiamo pubblicato nel gennaio 1990 come supplemento alla nostra stampa territoriale e che mira proprio a combattere questa campagna nauseabonda.
Nel crepare, oggi lo stalinismo rende un ultimo servizio al capitalismo. (...)
La morte dello stalinismo costituisce oggi una vittoria ideologica per la borghesia occidentale. Al momento, il proletariato deve incassare il colpo. Ma dovrà comprendere che lo stalinismo non è mai stato altro se non la forma più caricaturale di dominio capitalista. (...) Dovrà capire che in Occidente, come in Oriente, il capitalismo non può offrire alle masse sfruttate che una miseria ed una barbarie crescente con, alla fine, la distruzione del pianeta. Dovrà capire, infine, che non esiste salvezza per l'umanità se non attraverso la lotta di classe del proletariato internazionale, una lotta a morte che, rovesciando il capitalismo, consentirà la costruzione di un reale società comunista mondiale, una società liberata da crisi, guerre, barbarie e oppressione in tutte le sue forme. (...)
Proclamando a gran voce che la barbarie stalinista è la legittima erede della rivoluzione d'Ottobre 1917, affermando che Stalin ha solo portato alle sue ultime conseguenze un sistema sviluppato da Lenin, l'intera borghesia MENTE. Tutti i giornalisti, gli storici e altri ideologi a soldo del capitalismo sanno benissimo che non c'è continuità tra l'Ottobre proletario e lo stalinismo. Tutti costoro sanno che l'istituzione di questo regime di terrore non era altro che la controrivoluzione che si instaurò sulle rovine della rivoluzione russa, con la sconfitta della prima ondata rivoluzionaria internazionale del 1917-1923. Infatti, fu proprio l'isolamento del proletariato russo, dopo il sanguinoso schiacciamento della rivoluzione in Germania, che inferse un colpo mortale al potere dei soviet operai in Russia.
La Storia non ha fatto che confermare tragicamente ciò che il marxismo ha sempre affermato fin dagli albori del movimento operaio: la rivoluzione comunista può assumere solo un carattere internazionale. "La rivoluzione comunista (...) non sarà una rivoluzione puramente nazionale; essa si produrrà allo stesso tempo in tutti i paesi civilizzati ... Avrà anche un notevole impatto su tutti gli altri paesi del mondo e trasformerà e accelererà completamente il corso del loro sviluppo. Essa è una rivoluzione universale; avrà, pertanto, un terreno universale" (F. Engels, Principi del Comunismo, 1847). E fu questa fedeltà ai principi del comunismo e dell'internazionalismo proletario che spinse Lenin, in attesa di uno slancio della rivoluzione in Europa, ad esprimersi in questi termini: "La rivoluzione russa non è che un distaccamento dell'esercito socialista mondiale e il successo e il trionfo della rivoluzione che abbiamo realizzato dipendono dall'azione di questo esercito. È un dato di fatto che nessuno di noi dimentica (...). Il proletariato russo è cosciente del suo isolamento rivoluzionario e sa chiaramente che la sua vittoria ha come condizione indispensabile e premessa fondamentale l'intervento unito degli operai del mondo intero" (Lenin, “Rapporto alla Conferenza dei Comitati di Fabbrica della Provincia di Mosca", 23 luglio 1918).
Quindi, in ogni momento, l'internazionalismo è stato la pietra angolare delle lotte della classe operaia e del programma delle sue organizzazioni rivoluzionarie. Fu questo programma che Lenin e i bolscevichi hanno costantemente difeso. Fu armato di questo programma che il proletariato fu in grado, prendendo il potere in Russia, di costringere la borghesia a porre fine alla prima guerra mondiale e quindi ad affermare la sua alternativa: contro la barbarie generalizzata del capitalismo, trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe.
Qualsiasi rimessa in discussione di questo essenziale principio dell'internazionalismo proletario è sempre stata sinonimo di rottura con il campo proletario e con un'adesione al campo del capitale. Con il crollo interno della rivoluzione russa, lo stalinismo ha giustamente costituito questa rottura, quando, già dal 1925, Stalin avanzò la sua tesi sulla "costruzione del socialismo in un solo paese" grazie alla quale si installerà in tutto il suo orrore la più spaventosa controrivoluzione di tutta la storia umana. Da allora, l'URSS avrà di "sovietico" solo il nome: la dittatura del proletariato attraverso il potere dei "consigli operai" (soviet) si trasformerà in una dittatura implacabile dello Stato-Partito sul proletariato.
L'abbandono dell'Internazionalismo da parte di Stalin, degno rappresentante della burocrazia statale, firmerà definitivamente la condanna a morte della rivoluzione. La politica della Terza Internazionale in corso di degenerazione sarà, ovunque, sotto la guida di Stalin, una politica controrivoluzionaria in difesa degli interessi capitalisti. Fu così che, nel 1927, in Cina, il PC, seguendo le istruzioni di Stalin, sarà sciolto nel Kuomintang (Partito nazionalista cinese) disarmando il proletariato insorto di Shanghai e i suoi militanti rivoluzionari, per consegnarli legati mani e piedi alla sanguinosa repressione di Chiang Kai Tchek, proclamato "membro onorario" dell'Internazionale stalinizzata.
E di fronte all'opposizione di sinistra, che si stava quindi sviluppando contro questa politica nazionalista, la controrivoluzione stalinista scatenò tutta la sua ostilità sanguinaria: tutti i bolscevichi che stavano ancora cercando di difendere contro venti e maree i principi di Ottobre saranno espulsi dal Partito in URSS, deportati a migliaia, cacciati, perseguitati dalla GPU, e poi selvaggiamente giustiziati durante i grandi processi di Mosca (e con il sostegno e la benedizione dell'insieme dei paesi "democratici"!).
Fu così che fu istituito questo regime di terrore: fu sulle macerie della rivoluzione dell'ottobre 1917 che lo stalinismo seppe affermare il suo dominio. Fu grazie a questa negazione del comunismo costituito dalla teoria del "socialismo in un paese" che l'URSS tornò a essere uno Stato del tutto capitalista. Uno Stato in cui il proletariato sarà sottomesso, fucile alla schiena, agli interessi del capitale nazionale, in nome della difesa della "patria socialista".
Così, se l'Ottobre proletario, grazie al potere dei consigli operai, aveva fermato la guerra imperialista, la controrivoluzione stalinista, distruggendo ogni pensiero rivoluzionario, mettendo a freno tutti i tentativi di lotta di classe, provocando il terrore e la militarizzazione di tutta la vita sociale, annunciò la partecipazione dell'URSS alla seconda macelleria mondiale.
L'intera evoluzione dello stalinismo sulla scena internazionale negli anni '30 fu, infatti, segnata dalle sue contrattazioni imperialiste con le maggiori potenze capitaliste, che si stavano nuovamente preparando ad insanguinare con il ferro ed il fuoco l'Europa. Dopo aver stretto un'alleanza con l'imperialismo tedesco al fine di contrastare qualsiasi tentativo di espansione della Germania verso l'Est, Stalin cambierà casacca a metà degli anni '30 per allearsi con il blocco "democratico" (adesione dell'URSS nel 1934 a quel "covo di briganti" che era la Socistà Delle Nazioni, il patto Laval-Stalin nel 1935, la partecipazione dei PC ai "fronti popolari" e alla guerra spagnola nel corso della quale gli stalinisti non esiteranno a usare gli stessi metodi sanguinari massacrando gli operai e i rivoluzionari che contestavano le loro politiche). Alla vigilia della guerra, Stalin rivolterà ancora la sua casacca e venderà la neutralità dell'URSS a Hitler in cambio di un certo numero di territori, prima di raggiungere alla fine il campo degli "Alleati", impegnandosi a sua volta nel massacro imperialista in cui il solo Stato stalinista sacrificherà 20 milioni di vite umane. Tale fu il risultato dei sordidi rapporti dello stalinismo con i vari squali imperialisti dell'Europa occidentale. Fu su questi cumuli di cadaveri che l'URSS stalinista fu in grado di edificare il suo impero, di imporre il suo terrore in tutti quegli Stati che, con il trattato di Yalta, cadranno sotto il suo esclusivo dominio. Fu grazie alla sua partecipazione all'olocausto generalizzato a fianco delle vittoriose potenze imperialiste che, con il suo tributo di sangue delle sue 20 milioni di vittime, l'URSS fu in grado di raggiungere il rango di superpotenza mondiale.
Ma se Stalin fu "l'uomo provvidenziale" attraverso il quale il capitalismo mondiale ha potuto superare il bolscevismo, non fu la tirannia di un singolo individuo, per quanto paranoico, a essere la mente di questa spaventosa controrivoluzione. Lo Stato stalinista, come ogni Stato capitalista, è governato dalla stessa classe dirigente dappertutto, la borghesia nazionale. Una borghesia che si ricostituì, con la degenerazione interna della rivoluzione, non dalla vecchia borghesia zarista eliminata dal proletariato nel 1917, ma dalla burocrazia parassitaria dell'apparato statale con cui si confuse sempre più, sotto la direzione di Stalin, il partito bolscevico. Fu questa burocrazia Partito-Stato che, eliminando alla fine degli anni 1920 tutti i settori suscettibili di ricostituire una borghesia privata, e ai quali essa si era alleata per garantire la gestione dell'economia nazionale (proprietari terrieri e speculatori della NEP), prese il controllo di questa economia. Queste furono le condizioni storiche che spiegano perché, contrariamente ad altri paesi, il capitalismo di Stato in URSS abbia assunto questa forma totalitaria e caricaturale. Il capitalismo di Stato è il modo universale di dominio del capitalismo nel suo periodo di decadenza quando lo Stato assicura il suo controllo su tutta la vita sociale, e genera ovunque strati parassitari. Ma negli altri paesi del mondo capitalista, questo controllo statale sull'intera società non è antagonista con l'esistenza di settori privati e concorrenziali che impediscono un'egemonia totale di questi settori parassitari. In URSS, di contro, la peculiare forma di capitalismo di Stato si caratterizzò per uno sviluppo estremo di questi strati parassiti risultanti dalla burocrazia statale e la cui unica preoccupazione era non di far fruttare il capitale tenendo conto delle leggi mercato, ma riempire le proprie tasche individualmente a spese degli interessi dell'economia nazionale. Dal punto di vista del funzionamento del capitalismo, questa forma di capitalismo di Stato era quindi un'aberrazione che sarebbe necessariamente collassata con l'accelerazione della crisi economica globale. E fu proprio questo crollo del capitalismo di Stato russo derivante dalla controrivoluzione che ha segnato l'irrimediabile fallimento di tutta l'ideologia bestiale che, per più di mezzo secolo, aveva cementato il regime stalinista e fatto pesare la sua cappa di piombo su milioni di esseri umani.
È così che è nato ed è morto lo stalinismo. È nel fango e nel sangue della controrivoluzione che si è imposto sullo scenario della storia, è nel fango e nel sangue che sta crepando, come ci rivelano con tutto il loro orrore i recenti eventi in Romania, che non fanno che annunciare massacri ancora più sanguinari nel cuore di questo regime, in URSS.
In alcun modo, e qualunque cosa dicano la borghesia e i suoi media, questa mostruosa idra si apparenta né per contenuto né per forma alla rivoluzione dell'Ottobre 17. Era necessario che quest'ultima crollasse perché l'altra potesse imporsi. Di questa rottura radicale, di questa antinomia tra Ottobre e lo stalinismo, il proletariato deve prendere pienamente coscienza (...).
CCI (8 gennaio 1990)
[1] Questa intestazione è stata aggiunta alla versione originale per facilitare la lettura
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