ottobre-dicembre 2013
Nata nel 1906, Hannah Arendt era di origine ebraica. Giovane studentessa, seguì i corsi del filosofo Martin Heidegger con cui ebbe una relazione d'amore. Il fatto che non abbia mai rinnegato questa relazione, come d’altronde lo stesso Heidegger, malgrado l'adesione di quest'ultimo al partito Nazista a partire dal 1933, in seguito le è stato molto rimproverato; i suoi legami con Heidegger e con il suo pensiero filosofico, probabilmente molto complesso, avrebbero meritato quasi un romanzo a sé, ed i flashback dei suoi incontri con Heidegger sono forse le scene meno riuscite del film, le sole dove si sente la Von Trotta meno incisiva rispetto al tema trattato nel suo film: la "banalità del male".
Hannah Arendt fugge dalla Germania nel 1933, al momento dell'arrivo al potere di Hitler, e si stabilisce a Parigi dove milita nel movimento sionista malgrado nutra verso quest’ultimo posizioni critiche. È a Parigi che sposa, nel 1940, il suo secondo marito Heinrich Blücher. Con l'invasione della Francia da parte della Germania, viene internata dallo Stato francese nel campo di Gurs, ma riesce a fuggire e - dopo molte peripezie - a maggio del 1941 arriva infine negli Stati Uniti. Priva di tutto, si dà da fare per guadagnarsi da vivere e riesce a farsi assumere all’università (essa sarà anche la prima donna ammessa come professore presso la prestigiosa università di Princeton) e, nel 1960, quando il film comincia, Arendt è un'intellettuale di vigore avendo già pubblicato due delle sue opere più importanti: Le origini del totalitarismo (1951) e La condizione dell'uomo moderno (1958).
Certamente, Hannah Arendt non era una marxista, anche se si è interessata all'opera di Marx ed alla vita di Rosa Luxemburg, essendo stato suo marito Heinrich un vecchio spartachista ed in seguito membro dell'opposizione alla stalinizzazione del KPD negli anni 20, raggiungendo il KPD-opposizione (KPO) di Brandler e Thalheimer all'epoca dell'esclusione di questo dal partito[2]. Il film dà una strizzatina d’occhio all'impegno di Heinrich: si sente, da una testimonianza di un'amica americana della coppia che "Heinrich era stato con Rosa Luxemburg fino alla fine". Pur non essendo una marxista il lavoro filosofico di Arendt e soprattutto la sua analisi sui meccanismi del totalitarismo restano ancora oggi molto pertinenti. Per il suo rigore di pensiero e per la sua integrità, grazie alla quale è pronta ad impegnarsi contro i luoghi comuni dell'ideologia dominante della sua epoca, Hannah Arendt, per la sua onestà, è una donna scomoda. Nell’analizzare approfonditamente il processo ad Eichmann a Gerusalemme, Arendt cerca di comprendere come degli esseri umani siano potuti diventare i funzionari dello sterminio degli ebrei.
I primi momenti del film rievocano la cattura di Adolf Eichmann da parte del Mossad, in Argentina. Sotto il regime nazista, Eichmann aveva occupato parecchie posizioni importanti, innanzitutto nell'organizzazione che espulse gli ebrei dall'Austria, e poi, durante la guerra, nella logistica della "soluzione finale", particolarmente il trasporto degli ebrei dell'Europa verso i campi di morte di Auschwitz, Treblinka ed altri. L'intenzione di David Ben Gurion, primo ministro d'Israele e, dunque, responsabile dell'operazione del Mossad, era chiaramente di montare un processo spettacolo come fondazione del giovane Stato, dove gli stessi ebrei avrebbero giudicato uno degli autori del loro genocidio.
Apprendendo la notizia del processo Eichmann, Arendt propone alla rivista letteraria New Yorker di seguire il processo e di farne il servizio. In seguito la serie di articoli che essa ha scritto sul processo è stata pubblicata sotto forma di libro con il titolo La banalità del male.
La pubblicazione del libro creò uno scandalo notevole in Israele ed ancora più negli Stati Uniti: Arendt fu oggetto di una campagna di denuncia mediatica: "ebrea che si detesta" e "Rosa Luxemburg del nulla" non erano che due degli epiteti più gentili. Le venne chiesto di licenziarsi dal suo posto all’Università, ma lei si rifiutò. È proprio l'evoluzione del pensiero di Arendt durante il processo e la reazione al suo libro che fornisce la materia del film. Quando si pensa di fare un'opera drammatica del movimento contraddittorio e talvolta faticoso del pensiero filosofico, senza tuttavia volgarizzarlo, questo diventa una scommessa sacrosanta che Von Trotta e Sukowa raccolgono con briosa serietà.
Perché dunque il servizio di Arendt ha tanto scandalizzato?[3]. In parte la reazione era comprensibile ed anche inevitabile: Arendt maneggia il bisturi della critica come un chirurgo, ma per molti, la guerra e le sofferenze abominevoli delle vittime della Shoah erano troppo vicine, i traumi ancora troppo presenti, per dare giudizi obiettivi sugli avvenimenti. Ma le voci più forti erano interessate: interessate soprattutto a mantenere sotto silenzio le verità imbarazzanti che la critica di Arendt svelava.
Arendt colpiva nel vivo quando demoliva il tentativo del primo ministro d'Israele, David Ben Gurion, di utilizzare il processo Eichmann come un processo spettacolo per giustificare l'esistenza d'Israele strumentalizzando il calvario degli ebrei nella Shoah. Perciò, il processo Eichmann doveva essere quello di un mostro, degno rappresentante dei crimini mostruosi dei nazisti contro l'umanità. La stessa Arendt si aspettava di vedere un mostro, ma più l'osservava meno era convinta, non della colpevolezza ma della mostruosità. Nelle scene del processo, Von Trotta non pone Arendt nella sala pubblica del tribunale ma in una riservata ai giornalisti che seguivano il processo attraverso un collegamento teletrasmesso. Questo trucco cinematografico permette a Von Trotta di mostrarci, non un attore che recita Eichmann, ma il vero Eichmann, e come Arendt, possiamo vedere quest’uomo mediocre (Arendt utilizzava piuttosto il termine "banale" al posto di "mediocre") che non ha niente a che vedere con la follia omicida di un Hitler né con la fredda pazzia di un Goebbels (come abbiamo potuto vederli interpretati brillantemente da Bruno Ganz ed Ulriche Mathes in La Caduta). Al contrario, ci troviamo di fronte ad un piccolo burocrate il cui orizzonte intellettuale non supera quello del suo ufficio e del suo buon funzionamento, e le cui prospettive non superano le sue speranze di promozione e le rivalità burocratiche. Eichmann non è un mostro, conclude Arendt: "sarebbe stato molto confortante credere che Eichmann fosse un mostro (…) Il problema Eichmann era proprio che ce n'erano tanti come lui che non erano né dei perversi né dei sadici, ma al contrario notevolmente e spaventosamente normali" (p. 274)[4]. Tutto sommato, il crimine di Eichmann non era di essere stato responsabile come un Hitler dello sterminio degli ebrei, ma di avere abdicato ad ogni capacità di riflessione, di pensiero, e di avere dunque agito in tutta legalità ed in buona coscienza come un semplice ingranaggio di una macchina totalitaria di uno Stato, lui sì criminale. Il "buonsenso" indiscutibile delle "personalità" gli è servito da "guida morale". Così, la conferenza di Wannsee (che doveva mettere in moto il meccanismo operativo della "soluzione finale") "era un'opportunità molto importante per Eichmann che non si era mai immischiato ad altrettante 'grandi personalità' (…) Adesso poteva vedere con i suoi occhi e poteva sentire con le sue orecchie non solo Hitler, non solo Heydrich o la 'sfinge' Müller, non solo le SS o il Partito ma anche l'élite della buona vecchia funzione pubblica che si disputa gli onori della direzione di queste questioni 'sanguinose'. In questo momento, ho provato un'emozione alla Ponzio Pilato, mi sono sentito sollevato da ogni colpevolezza" (p. 112).
Arendt rigetta esplicitamente l'idea che "tutti sono potenzialmente colpevoli", o "colpevoli per associazione": Eichmann meritava la morte per ciò che aveva fatto (come se la sua esecuzione poteva restituire vita ai mucchi di cadaveri!). Dopo di che, la sua analisi è uno schiaffo coraggioso inflitto all'antifascismo diventato ideologia ufficiale di tutti gli Stati, e particolarmente dello Stato sionista. Dal nostro punto di vista, la "banalità" di cui parla Arendt è quella di un mondo - il mondo capitalista, - dove l'essere umano, alienato e reificato, è ridotto allo stato di una cosa, di una merce, un ingranaggio nella macchina del capitale.
Questa macchina non è solo appannaggio dello Stato Nazista. Arendt ci ricorda che la politica di "judenrein" (sbarazzarsi degli ebrei), era già stata sperimentata dallo Stato polacco prima della guerra, nel 1937, e che il democratico governo francese nella persona del suo ministro degli affari esteri, Giorgio Bonnet, aveva previsto l'espulsione dei 200.000 ebrei "non-francesi" verso il Madagascar (Bonnet aveva anche chiesto dei consigli al riguardo al suo omologo tedesco Von Ribbentrop). Arendt indica anche il tribunale di Norimberga come un "tribunale dei vincitori" dove sedevano dei giudici i cui paesi erano altrettanto responsabili di crimini di guerra: i russi colpevoli dei gulag, e gli americani colpevoli del bombardamento atomico di Nagasaki e Hiroshima.
Anche con lo Stato dl'Israele Arendt non è tenera. Contrariamente agli altri reporter, nel suo libro sottolinea l'ironia amara della messa in accusa di Eichmann per crimini a sfondo razziale, mentre anche questo Stato incorpora distinzioni razziali nelle sue leggi: "la legge rabbinica detta lo statuto personale dei cittadini ebraici, con il risultato che nessuno ebreo può sposare un non ebreo, i matrimoni all'estero sono riconosciuti ma i figli dei matrimoni misti sono illegittimi (…) e se si nasce da madre non ebraica non si può essere né sposato né sepolto". Quale ironia amara per i superstiti della politica della "purezza razziale" nazista nel cercare di creare la loro "purezza razziale" in terra promessa! Arendt detestava in generale il nazionalismo ed in particolare il nazionalismo israeliano. Già negli anni '30, si era opposta alla politica sionista ed al rifiuto di questa di cercare un modo di vita comune con i palestinesi. E lei non esita a smascherare l'ipocrisia del governo Ben Gurion che punta i riflettori sui legami di certi Stati arabi col regime Nazista mentre resta in silenzio sul fatto che la Germania dell'Ovest continuava a dare riparo ad un numero impressionante di nazisti concedendo loro posti di alta responsabilità.
Un altro motivo di scandalo era la questione dei "Judenrat" - i consigli ebraici creati dai nazisti proprio per facilitare la "soluzione finale". Pur essendo una breve parte del libro, quest’argomento ha colpito nel vivo. Ecco, ciò che dice Arendt: “Ovunque abitavano ebrei, c'erano dirigenti ebrei riconosciuti, e questa direzione, quasi senza eccezione, in un modo o nell'altro, per una ragione o per un'altra, ha cooperato con i nazisti. La verità, è che se gli ebrei fossero stati disorganizzati e senza direzione, ci sarebbero stati caos e miseria in abbondanza ma il numero totale delle vittime non sarebbe salito a 4-6 milioni di persone (…) Ho trattato questo aspetto dalla storia, che il processo di Gerusalemme ha mancato di esporre davanti al mondo intero nella sua vera dimensione, perché ci offre l'idea più sorprendente del crollo morale totale che i nazisti hanno inflitto alla rispettabile società europea" (p. 123). Essa rivela anche un elemento di distinzione di classe tra i dirigenti ebraici e le masse anonime: nella catastrofe generale, quelli che scappavano erano o sufficientemente ricchi per comprarsi la loro fuga, o sufficientemente "in vista" nella "comunità internazionale" per aver salva la vita in quella specie di ghetto privilegiato di Theresienstadt. Le relazioni tra la popolazione ebraica ed i regimi nazisti, ed anche con le altre popolazioni europee, erano molto più complesse di quanto volesse far credere la manichea ideologia dominante dei vincitori della guerra.
Il problema della Shoah e del nazismo occupa un posto centrale nella storia recente dell'Europa, ed oggi ancora più rispetto agli anni ‘60. Malgrado gli sforzi degli autori, per esempio del Libro nero del comunismo, il nazismo resta in qualche modo il "male estremo". La Shoah è una parte alquanto importante del programma scolastico, insieme alla Resistenza francese, con la quasi esclusione di ogni altra considerazione sulla guerra. Tuttavia, sul piano puramente aritmetico, lo stalinismo era molto peggio, con 20 milioni di morti nei gulag di Stalin ed almeno 20 milioni di morti nella carestia provocata dal "Grande salto in avanti" di Mao. C'è evidentemente in ciò una forte dose di opportunismo: i discendenti di Stalin e di Mao sono sempre al potere in Russia ed in Cina, sono sempre delle persone con cui si possono e si devono "fare degli affari".
Arendt non tratta direttamente questa questione, ma in una discussione sul capo di accusa contro Eichmann, insiste sul fatto che il crimine dei nazisti non era un crimine contro gli ebrei, ma un crimine contro tutta l'umanità nella persona del popolo ebraico, precisamente perché negava agli ebrei la loro appartenenza alla specie umana, e faceva di questi esseri umani un male inumano da estirpare. Questo carattere razzista, xenofobo, oscurantista del regime nazista, era mostrato con chiarezza e del resto è perciò che una parte della classe dominante europea, delle classi contadine e piccolo-borghesi rovinate dalla crisi economica, hanno potuto così ben uniformarsi. Lo stalinismo invece, si mostrava sempre come progressista: si cantava sempre che "L'internazionale sarà il genere umano", ed è per tale motivo che fino alla caduta del Muro di Berlino, ed anche dopo la sua caduta, certe persone comuni hanno potuto continuare a difendere i regimi stalinisti in nome della speranza in un avvenire migliore[5].
Ciò che essenzialmente sostiene Arendt, è che la barbarie "impensabile" della Shoah, la banalità dei funzionari nazisti, è il prodotto della distruzione della "capacità di pensare". Eichmann "non pensa", esegue gli ordini della macchina e fa correttamente il suo lavoro, in modo molto rigoroso e disciplinato, senza alcuno stato d'anima, senza alcuna capacità di immaginarsi l'orrore nei campi di sterminio. In questo senso, il film di Von Trotta deve essere visto come un elogio del pensiero.
Hannah Arendt non era marxista[6]. Non aveva una visione rivoluzionaria e storica del mondo e quindi non comprendeva che, dalla fine del comunismo primitivo, "la storia dell'umanità è la storia di lotte di classi" (Marx). Non comprendeva neanche la concezione del lavoro di Marx. Ma, ponendo delle questioni che mettono a mal partito l'ideologia antifascista ufficiale, essa è nemica del conformismo, dei luoghi comuni e dell'abbandono del pensiero critico. Il merito della sua analisi è anche quello di permettere una riflessione sulla "coscienza morale" dell'essere umano (proprio come l'esperienza dello psicologo americano Stanley Milgram, riferita nel film di Henri Verneuil "I come Icare", che mette in evidenza i meccanismi di "sottomissione all'autorità" cui sono soggetti i torturatori).
La pubblicità fatta oggi da tutta la borghesia democratica all'opera di Hannah Arendt, diventata un'icona nei campi dell'intellighenzia "democratica", non è limpida. Ciò a cui mira questo recupero della sua analisi del totalitarismo, è evidentemente l'idea perniciosa che esiste una continuità tra le macchine totalitarie dello Stato stalinista con il bolscevismo e la Rivoluzione russa di Ottobre 1917 poiché "il verme era già nel frutto": Stalin sarebbe stato solamente l'esecutore del pensiero di Lenin. Morale: ogni rivoluzione proletaria non può che condurre al totalitarismo ed a nuovi crimini contro l'umanità! È perciò che certi ideologi patentati della borghesia, come Raymond Aron, non hanno perso l'occasione per sfruttare l'analisi di Hannah Arendt del totalitarismo dello Stato stalinista salutando la sua "filosofia politica" per alimentare le campagne della Guerra fredda e quelle sul "fallimento del comunismo" scatenato dopo il crollo dell'URSS.
Hannah Arendt era una filosofa. E come diceva Marx, "I filosofi hanno interpretato il mondo. Ora si tratta di trasformarlo". Il marxismo non è una dottrina "totalitaria". È l'arma teorica della classe sfruttata per la trasformazione rivoluzionaria del mondo. Ed è perciò che solo il marxismo è stato capace di integrare gli apporti dell'arte, della scienza e dei filosofi come Epicuro, Aristotele, Spinoza, Hegel, ecc., e che è oggi capace di integrare gli apporti di Hannah Arendt: uno sguardo profondo e critico sull'epoca contemporanea ed il suo elogio del pensiero.
Jens e SL, 25 giugno
[1] Vedere la critica pubblicata nel numero 113 de la Révue internationale, https://fr.internationalism.org/french/rint/113_pianiste.html [1]
[2] Il KPO faceva parte di quei gruppi di opposizione allo stalinismo e non è riuscito mai a rompere pienamente con questo poiché, come Trotsky, tali gruppi non hanno mai accettato l'idea di una controrivoluzione in URSS.
[3] Il lettore francofono potrebbe ascoltare delle testimonianze dell'epoca molto illuminanti a questo proposito, in un documentario di France Culture (Francia Cultura): Hannah Arendt ed il processo di Eichmann, (https://www.radiofrance.fr/emission-la-fabrique-de-l-histoire-histoire-des-grands-proces-24-2013-05-07 [2])
[4] Le citazioni del libro sono tratte dall'edizione pubblicata da Penguin Books nel 2006, con un'introduzione di Amos Elon, tradotto dall'inglese da noi.
[5] Vedere a questo proposito questa affascinante serie documentaria (in inglese ed in tedesco) a proposito della vita nell'ex-RDT: https://www.youtube.com/watch?v=7fwQv5h7Lq8 [3]
[6] Arendt ha scritto una biografia molto succinta di Rosa Luxemburg a partire dal libro di Nettl. Non comprende che i due corpi franchi che hanno assassinato Rosa erano agli ordini di Noske e Scheidemann, conosciuti per il loro ruolo di primo piano nello schiacciamento della rivolta spartakista. Lei pensa che il governo Noske era solo "complice" di quei corpi franchi che avrebbero servito il nazismo.
Il 27 settembre migliaia di cittadini del Bahrein, appartenenti alle classi sfruttate, sono scesi in piazza a manifestare per la democrazia. Manifestare per la democrazia? Si illudono di cambiare la loro situazione con la democrazia!
Noi viviamo in Italia e non sappiamo nulla di ciò che succede in Bahrein, a meno che non si usi internet e si cerchino notizie particolari. Ma le nostre tv non ci nascondono solo il Bahrein: ci solo le lotte degli studenti in Cile, degli insegnanti in Messico e Spagna, dei disoccupati in Brasile e chissà in quanti altri posti. Lotte di lavoratori, di proletari.
Non ci nascondono solo le lotte dei lavoratori in altre parti del pianeta ma anche le nostre lotte, le nostre proteste, le nostre situazioni, quelle dei disoccupati, dei precari, dei cassaintegrati, dei licenziati, dei nullatenenti, dei pensionati e degli studenti, in poche parole dei proletari italiani.
A dire la verità in alcuni servizi televisivi, talk show, i proletari in tutte le loro forme appaiono ma come contorno, come a dire “visto che ci occupiamo anche dei fatti vostri!”. C’è una giornalista che intervista il sindacalista di turno che parla in nome dei lavoratori licenziati davanti la fabbrica, oppure un giornalista che intervista i pensionati che non riescono a fare la spesa e nello studio televisivo chi c’è? Carfagna, Gelmini, Santanchè, etc.. e altri omologhi del PD insieme ai soliti giornalisti de “Il Fatto” o “Il Giornale” e qualcun altro. Di che cosa parlano? Di Berlusconi!! Del fatto che è un colpo di stato farlo dimettere da senatore, che LUI ha abolito l’IMU, che la legge Severino non deve essere retroattiva, bla bla bla. Tutta questa commedia non ha senso se non per nascondere altro. Per quanto riguarda Berlusconi è comprensibile la paura di essere ridimensionato dalla scena politica, ma per la restante parte della borghesia italiana qual è il problema?
È stato difficile formare il governo ma una volta fatto avrebbe dovuto mettere in opera le misure necessarie per raddrizzare la barca che affonda. Ma ci sono queste misure e soprattutto si ha la forza e la capacità di metterle in opera? E ancora è possibile rimettere in modo la fabbrica Italia?
Qual è la situazione economica reale dell’Italia?
Per quanto riguarda il debito pubblico: “Nei primi sette mesi dell’anno il debito pubblico è cresciuto di 84,2 miliardi rispetto alla fine del 2012. Lo comunica la Banca d’Italia. (…). A luglio invece, si è attestato a 2.072,863 miliardi di euro, in diminuzione di 2,3 miliardi rispetto a giugno. Nei primi sette mesi dell’anno le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 225 miliardi, in aumento dell’1,4% (3,2 miliardi) rispetto a quelle dello stesso periodo del 2012.”[1].
Come si vede Il debito non fa che aumentare a passi da gigante (84.1 miliardi in 7 mesi) mentre le entrate tributarie fanno piccoli spostamenti, solo 3,2 miliardi in più. L’evasione, più di 200 miliardi l’anno, resta tale.
Il PIL è in diminuzione costante, quest’anno scenderà dell’1,3% secondo le statistiche Eurostat[2] . E così il rapporto debito/Pil non fa che aumentare, ha superato il 130%. E se il debito aumenta nonostante tagli e nuove tasse, non è lecito chiedersi a che servono tutti questi sacrifici?
Qual è la situazione della popolazione italiana?
La popolazione sta subendo un vero salasso economico perché di fronte all’aumento costante dei prezzi, con o senza l’IVA al 22%, si assiste alla continua diminuzione della massa salariale dovuta ai licenziamenti, alla precarizzazione dei posti di lavoro in tante forme diverse, il che comporta salari senza anzianità e indennità varie, al mancato turnover, 500.000 occupati in meno in un anno[3], all’aumento delle imposte varie sia locali sia nazionali. I trasporti aumentano, gli affitti pure mentre i prezzi delle case diminuiscono, ma le compravendite crollano (dal 2007 si sono dimezzate). Soldi non ce ne sono e le banche non concedono mutui facilmente per il timore di non vederseli ripagare.
Per contrastare la povertà crescente in Grecia hanno messo in commercio, a prezzo ridotto, i prodotti scaduti. In Italia stanno aumentando i supermercati low cost e mense per chi non riesce a sfamarsi. Le foto di persone che vanno al mercato a raccogliere i prodotti scartati non fanno più notizia, come non fanno più notizia i suicidi e i gesti disperati perché sono all’ordine del giorno.
Per quanto riguarda i negozi, le statistiche dicono che c'è un saldo negativo di 15.000 unità. E anche le imprese chiudono[4] o vengono svendute a prezzi stracciati in quanto piene di debiti, come nel caso della Telecom consegnata agli spagnoli. E quando avvengono queste acquisizioni si procede immediatamente alla riduzione del personale.
Qual è stata la politica economica adottata dal governo?
Il governo “del fare” è nato sull'onda della eliminazione della tassa sulla prima casa, cavallo di battaglia di Berlusconi. É riuscito a bloccare la prima rata di questa tassa creandone un'altra che graverà su tutti, anche su chi non ha casa. Ma questo è servito a far dire a Berlusconi che lui mantiene le promesse. Per quanto riguarda il settore del lavoro ci sono state promesse di assunzione di precari e un aumento delle risorse scolastiche ma per ora sono solo promesse e comunque del tutto insufficienti alle reali necessità.
Per poter dare un serio segnale di cambiamento il governo avrebbe dovuto far aumentare le entrate, diminuire le spese, detassare i settori lavorativi e incrementare l'occupazione con investimenti strutturali.
Ma ad ognuna di queste voci corrisponde una risposta contraria.
Tagliare il budget militare, cioè l'acquisto degli F35, significava ridurre l'occupazione negli stabilimenti Finmeccanica e l'importanza di questa azienda strategica per l'imperialismo italiano. Lo stesso vale per la riduzione del settore militare all'estero: smettere con le “missioni di pace” significherebbe rinunciare a giocare un ruolo sullo scacchiere imperialista, cioè accettare di non contare niente.
Tagliare ulteriormente le spese statali, cioè nella sanità, scuola significa chiudere ospedali e scuole perché sono al collasso.
Aumentare le entrate significa effettuare un controllo serio degli evasori ma questo significa darsi la zappa sui piedi. Non dimentichiamo che i governi sono espressione della classe al potere, cioè della borghesia. E lo stesso sarebbe aumentare il prelievo fiscale sui milionari. Berlusconi che si aumenta le tasse? Tagliare le tasse sui salari dei lavoratori? Ma se sono loro a mantenere lo Stato!
Qualsiasi cosa si faccia si può rovesciare la situazione? Non c'è soluzione alla crisi dello Stato, non solo a quello italiano ma a tutti. I debiti sono aumentati a tal punto che non c'è più possibilità di ridurli. In Italia poi c'è una instabilità governativa che fa paura ad ogni investitore estero.
La farsesca storia della crisi di governo prima dichiarata e poi ritirata dà un’idea chiara di come sia precario il sistema politico italiano. E questa precarietà politica non fa che aggravare la situazione economica, sia perché espone il paese alla speculazione dei mercati, sia perché non si riesce nemmeno a trovare delle pezze per tappare le falle.
Oblomov, 29 settembre ’13
[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/13/bankitalia-debito-pubblico-cresciuto-di-842-miliardi-dallinizio-dellanno/710446/ [5]
[2] epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tec00115&plugin=1
[4] Fallimenti in costante crescita: sono 3637 le aziende fallite nel primo trimestre 2013, www.cribis.com/Pages/News-Fallimenti-Iq-2013.aspx?gclid=CLbyi5fd8LkCFYmN... [7]
In Siria, per esempio, la guerra ed i massacri a cui sono esposte le popolazioni (più di 100.000 morti in quindici mesi) illustrano tutto l’orrore e la barbarie di un sistema agonizzante. Traducono la situazione drammatica in cui sono immersi milioni di proletari, coinvolti nello scatenamento di scontri tra cricche borghesi sostenute da ogni grande potenza. Presi in ostaggio, non possono costituire una forza sufficiente per potere giocare anche minimamente un loro ruolo particolare ed a maggior ragione liberare la loro prospettiva. Purtroppo, il corollario di questa situazione è che, come in una parte crescente del Medio Oriente o dell’Africa, la gioventù sfruttata, ritrovandosi arruolata massicciamente in uno o l’altro dei campi opposti, è ridotta a carne da cannone.
All’opposto, in Turchia come in Brasile[1], centinaia di migliaia di proletari sofferenti, attualmente si organizzano e lottano. Sono capaci di suscitare un immenso slancio di solidarietà e di protesta. In prima linea, le giovani generazioni si richiamano e si ispirano fortemente ai movimenti degli Indignati in Spagna, pur dovendo affrontare una repressione feroce sia da un governo islamico retrogrado che da un potere tenuto dalla sinistra. Una sinistra che si vanta di essere la più “radicale” e “progressista”, una variante del famoso “socialismo del XXI secolo” in voga in America latina, e che pretende fare del Brasile un modello di paese emergente tale da tirare fuori la maggioranza della popolazione dalla sua immensa povertà. Anche se in Brasile, il rifiuto dell’aumento del biglietto dei trasporti pubblici è servito da detonatore/unificatore del movimento, questo non si è ridotto a rivendicazioni strettamente economiche. Alla stessa stregua del governo francese che cercando di imporre il CPE (Contratto di primo impiego) ha dovuto fare retromarcia di fronte alla mobilitazione dei giovani proletari nel 2006, l’indietreggiamento spettacolare del governo brasiliano, costretto dalla pressione a rinunciare a questo attacco, non è bastato ad arginare la mobilitazione perché quest’ultima è espressione di un profondo malcontento. L’esempio della Turchia è ancora più edificante. Vi si trova, oltre una continuità con la lotta degli operai della Tekel nel 2008, che aveva già dimostrato in modo ancora embrionale tutto un potenziale di combattività e di solidarietà al di là delle stesse divisioni inter-etniche alimentate dalla borghesia, il rigetto di una gogna e un’oppressione culturale ed ideologica insopportabile, in particolare tra le nuove generazioni di proletari all’avanguardia del movimento. I valori morali oscurantisti ed autoritari incarnati dal governo pro-islamico di Erdogan, i suoi atteggiamenti provocatori che provocano radicalizzazione ed estensione del movimento di fronte alla repressione, rafforzano la potente inspirazione alla dignità. A dispetto del peso della violenza e della decomposizione sociale, più che verso la Primavera araba facilmente recuperata dai religiosi, la protesta dei giovani proletari in Turchia, impregnata questi ultimi mesi da un contesto di lotte operaie importanti nei grandi centri industriali del paese ed influenzata dalla sua esperienza laica dopo Mustapha Kemal Atatürk, si iscrive, malgrado tutte le debolezze che esprime, in una dinamica profonda ed in linea con il movimento degli Indignati, degli Occupy e di Maggio 1968. Vi attinge le sue più vive risorse, di fronte ad un mondo di miseria, di oppressione ideologica e di sfruttamento, proprio come il movimento sociale in Brasile che si è egualmente e nettamente smarcato dalla religione di Stato e dalla sacra unione nazionale intorno al “Dio calcio” (prendendo di mira le spese esorbitanti dello Stato per i preparativi della Coppa del Mondo). Questa intensa agitazione, questo rombo fremente venuto dalle viscere della società imputridita traduce una stessa aspirazione, una stessa speranza. Essa è portata dalle giovani generazioni combattive, figli di proletari meno segnati rispetto ai loro padri dal peso delle sconfitte, dallo stalinismo ed in generale dalla controrivoluzione. Reagiscono e chiamano così agli assembramenti di massa o alle mobilitazioni attraverso portatili e social network, come Twitter. Dal profondo delle favelas a nord di Rio, alle gigantesche manifestazioni in tutte le grandi città brasiliane, fino a piazza Taksim ed alle assemblee aperte al dibattito pubblico nei parchi di Istanbul o presso gli studenti cileni, aspirano ad un altro tipo di rapporti sociali, dove non si è più disprezzati né trattati come bestie da soma.
Questi movimenti annunciano un nuovo periodo per il futuro, quello di una scossa in profondità che risuona come mezzo e promessa per sfuggire alla rassegnazione ed alla logica di concorrenza propria del capitalismo. Essi si pongono sullo stesso terreno dei paesi del centro storico del capitalismo dove, pur essendo presente lo stesso degrado delle condizioni di esistenza, la classe operaia non riesce ancora a prendere la strada di lotte massicce, in grande parte perché confrontata ad una borghesia molto esperta ed organizzata. Ma fin da ora è verso questa classe operaia dei paesi centrali, in particolare d’Europa, che si portano gli sguardi delle mobilitazioni attuali, perché essa rappresenta la parte del proletariato mondiale più concentrata, più esperta e la più rotta alle trappole ed alle più sofisticate mistificazioni tese dal nemico, come la democrazia o la libertà sindacale. I metodi di lotta che questa è potenzialmente capace di riproporre, come le assemblee generali di massa ed autonome, sono vere armi per l’insieme del proletariato internazionale. Dalla loro avvio dipenderà l’avvenire dell’umanità intera.
Wim, 26 giugno
[1] Per la Turchia vedi “Movimento sociale in Turchia: il rimedio contro il terrore di Stato non è la democrazia”, per il Brasile “Manifestazioni contro l’aumento del prezzo dei trasporti in Brasile: la repressione poliziesca provoca la collera della gioventù”.
Il movimento è iniziato contro l’abbattimento degli alberi in vista della distruzione del parco Gezi e della piazza Taksim a Istanbul, ed ha preso un’ampiezza sconosciuta nella storia della Turchia fino ad oggi. (...) Si può comprendere il vero carattere di questo movimento soltanto ponendolo nel contesto internazionale. E visto da quest’angolo, diventa chiaro che il movimento in Turchia è in continuità diretta non soltanto con le rivolte del Medio Oriente del 2011 – le più importanti delle quali (Tunisia, Egitto, Israele) ebbero un’impronta molto forte della classe operaia – ma in particolare con il movimento degli Indignati in Spagna e di Occupy negli Stati Uniti, dove la classe operaia rappresentava non solo la maggioranza della popolazione nel suo insieme ma anche dei partecipanti al movimento. Lo stesso vale per l’attuale rivolta in Brasile e per il movimento in Turchia, la cui stragrande maggioranza immensa delle componenti appartiene alla classe operaia, e particolarmente alla gioventù proletaria. (...) Il settore che vi ha partecipato maggiormente era quello chiamato: “la generazione degli anni 90”. L’apoliticismo è stata l’etichetta appiccicata ai manifestanti di questa generazione, di cui molti non potevano ricordarsi dell’epoca precedente al governo AKP[2]. Questa generazione, di cui si è detto che non si sentiva investita negli avvenimenti e che i cui membri cercavano solo di salvare stessi, ha capito che restando soli non c’era scampo ed era stufa dei discorsi del governo che gli diceva come e come vivere. Gli studenti (…) hanno partecipato in massa alle manifestazioni. I giovani operai e i giovani disoccupati erano largamente presenti nel movimento ed erano presenti anche operai e disoccupati più istruiti. In certi settori dell’economia dove lavorano soprattutto giovani in condizioni precarie e dove è di solito difficile lottare - in particolare nel settore dei servizi - i lavoratori si sono organizzati sulla base del luogo di lavoro ma in modo da trascendere ogni particolare posto di lavoro ed hanno partecipato insieme alle manifestazioni. Si trovano esempi di tale partecipazione fra i fattorini dei negozi di kebab, il personale dei bar, quello dei call center e degli uffici. Allo stesso tempo, il fatto che questo genere di partecipazione non ha prevalso sulla tendenza degli operai ad andare alle manifestazioni individualmente ha costituito una delle debolezze più significative del movimento. Ma questo è stato tipico anche dei movimenti in altri paesi, dove la preminenza della rivolta di piazza è stata un’espressione pratica del bisogno di superare la dispersione sociale creata dalle condizioni che esistono nella produzione e la crisi capitaliste – in particolare, il peso della disoccupazione e del precariato. Ma queste stesse condizioni, accoppiate agli immensi attacchi ideologici della classe dominante, hanno reso difficile alla classe operaia vedersi come classe ed hanno contribuito a rafforzare l’idea nei manifestanti di essere essenzialmente una massa di singoli cittadini, dei membri legittimi della Comunità “nazionale”. Questo è il cammino contradittorio verso la ricostituzione del proletariato in classe, ma indubbiamente questi movimenti sono un passo su questa strada.
Una delle principali ragioni per la quale una massa significativa di proletari insoddisfatti delle loro condizioni di vita ha organizzato delle manifestazioni con una tale determinazione, sta anche nell’indignazione e il sentimento di solidarietà contro la violenza poliziesca e il terrore dello Stato. Ciò nonostante, diverse tendenze politiche borghesi sono state attive nel tentare di influenzare il movimento dall’interno per mantenerlo nel quadro dell’ordine esistente, per evitarne la radicalizzazione e impedire alle masse proletarie, che avevano guadagnato la strada contro il terrore statale, di sviluppare rivendicazioni di classe sulle proprie condizioni di vita. Così, non potendo evocare rivendicazioni portavano all’unanimità nel movimento, quello che ha generalmente predominato quest’ultimo sono state le rivendicazioni democratiche. La linea che rivendicava “più di democrazia”, che si è formata attorno ad una posizione anti-AKP e, nei fatti, anti-Erdogan, in sostanza non esprimeva che una riorganizzazione dell’apparato di Stato turco su un modello più democratico. L’impatto delle rivendicazioni democratiche sul movimento ha costituito la sua più grande debolezza ideologica.
Poiché Erdogan stesso ha costruito tutti i suoi attacchi ideologici contro il movimento intorno a quest’asse della democrazia e delle elezioni; le autorità governative, benché con mucchi di menzogne e manipolazioni, hanno ripetuto a sazietà l’argomentazione secondo la quale anche nei paesi considerati più democratici, la polizia utilizza la violenza contro le manifestazioni illegali – questa su cui non avevano torto. Inoltre, la linea che mirava a ottenere diritti democratici legava le mani delle masse dinanzi agli attacchi della polizia e il terrore statale, e pacificava la loro resistenza. (...) Detto ciò, l’elemento più attivo in questa tendenza democratica che sembra aver preso il controllo della Piattaforma di Solidarietà di Taksim sta nelle confederazioni sindacali di sinistra come la KSEK e la DISK. (...) La Piattaforma di Solidarietà di Taksim e dunque la tendenza democratica, per il fatto di essere costituita da rappresentanti di ogni sorta di associazioni e organizzazioni, ha tratto la sua forza non da un legame organico con i manifestanti ma dalla legittimità borghese, dalle risorse mobilitate e dal sostegno delle sue componenti. (...) La sinistra borghese è un’altra tendenza che occorre citare. La base dei partiti di sinistra, che si possono anche definire come la sinistra legale borghese, è stata per larga parte tagliata dalle masse. In generale è stata alla coda della tendenza democratica. I circoli stalinisti e trotskisti, o la sinistra radicale borghese, erano anch’essi in gran parte tagliati delle masse. Erano influenti nei quartieri, dove hanno tradizionalmente una certa forza. Benché si opponevano alla tendenza democratica quando questa provava a disperdere il movimento, l’hanno generalmente sostenuta. Le analisi della sinistra borghese si limitavano, per la maggior parte, a rallegrarsi “del sollevamento popolare” e a cercare di presentare i propri portavoce come i leader del movimento. Anche gli appelli allo sciopero generale, una linea tradizionalmente messa avanti dalla sinistra, non hanno avuto veramente eco al suo interno a causa dell’atmosfera di gioia cieca. Il suo slogan più accettato fra le masse era “spalla contro spalla contro il fascismo”. (...) Oltre alle tendenze citate sopra, si può parlare di una tendenza proletaria o di più tendenze proletarie all’interno del movimento. (...) In generale, una parte significativa dei manifestanti difendeva l’idea che il movimento doveva creare un’auto-organizzazione che gli permettesse di determinare il proprio futuro. La parte dei manifestanti che voleva che il movimento si unisse con la classe operaia era composta da elementi coscienti dell’importanza e della forza della classe, che erano contro il nazionalismo, anche se mancava loro una chiara visione politica. (...) [Tuttavia], la debolezza comune delle manifestazioni in tutta la Turchia è la difficoltà a creare discussioni di massa e prendere il controllo del movimento grazie a forme d’auto-organizzazione sulla base di queste discussioni. Discussioni di massa simili a quelle che si sono sviluppate nei movimenti attraverso il mondo sono state assenti in particolare nei primi giorni. Un’esperienza limitata della discussione di massa, di riunioni, di assemblee generali, ecc., e la debolezza della cultura del dibattito in Turchia hanno senza dubbio giocato su questa debolezza. Allo stesso tempo, il movimento ha avvertito la necessità della discussione e i mezzi per organizzarla sono iniziati a emergere. La prima espressione della coscienza del bisogno di discutere è stata la creazione di una tribuna aperta nel parco Gezi. Questa non ha attirato molto l’attenzione, né è durata molto, ma ha avuto tuttavia un certo impatto. (...) Se si guarda questo movimento a livello del paese, l’esperienza cruciale è fornita dai manifestanti di Eskișehir.
In un’assemblea generale nella piazza della Resistenza di Eskișehir, sono stati istituiti dei comitati per organizzare e coordinare le manifestazioni. (...) Inoltre, dal 17 giugno, nei parchi di diversi quartieri di Istanbul, masse di gente ispirate dai forum del parco Gezi hanno messo su assemblee di massa anch’esse chiamate “forum”. Tra i quartieri dove si sono organizzati questi forum, ci sono Beșiktaș, Elmadağ, Harbiye, Nișantașı, Kadıköy, Cihangir, Ümraniye, Okmeydanı, Göztepe, Rumelihisarüstü, Etiler, Akatlar, Maslak, Bakırköy, Fatih, Bahçelievler, Sarıyer, Yeniköy, Sarıgazi, Ataköy e Alibeyköy. I giorni seguenti, altri se ne sono tenuti ad Ankara e in altre città. Di colpo, per paura di perdere il controllo su queste iniziative, la Piattaforma di Solidarietà di Taksim ha iniziato anche lei appelli a favore di questi forum. (...).
Benché per molti aspetti la resistenza del parco Gezi sia in continuità con il movimento di Occupy negli Stati Uniti, degli Indignati in Spagna e dei movimenti di protesta che hanno destituito Mubarak in Egitto e Ben Ali in Tunisia, ha anche delle sue particolarità: come in tutti questi movimenti, in Turchia c’è un peso vitale del giovane proletariato. L’Egitto, la Tunisia e la resistenza del parco Gezi hanno in comune la volontà di sbarazzarsi di un regime che è percepito come “una dittatura”. (...) Ma, contrariamente al movimento in Tunisia che ha organizzato comitati locali, e in Spagna o negli Stati Uniti dove le masse si sono generalmente assunte la responsabilità del movimento attraverso assemblee generali, in Turchia questa dinamica è restata all’inizio molto limitata. (...) [Inoltre] le questioni più discusse riguardavano i problemi pratici e tecnici degli scontri con la polizia. (...) La similitudine con Occupy negli Stati Uniti è stata l’occupazione effettiva [della strada]; anche se in Turchia, le occupazioni superavano in numero, con una partecipazione di massa, quelle degli Stati Uniti. Inoltre in Turchia come negli Stati Uniti, c’è stata una tendenza fra i dimostranti a comprendere l’importanza dell’implicazione nella lotta della parte del proletariato occupato. (...) Benché il movimento in Turchia non sia riuscito a stabilire un legame serio con l’insieme della classe operaia, le chiamate allo sciopero attraverso i social network hanno incontrato una certa eco che si è manifestata attraverso una maggiore astensione dal lavoro che negli Stati Uniti. Nonostante le sue particolarità, non c’è alcun dubbio che il movimento di questa “canaglia” è parte integrante della catena dei movimenti sociali internazionali. (...) Uno dei migliori indicatori che mostrano che questo movimento fa parte dell’onda internazionale si trova nel suo rifarsi ai manifestanti brasiliani. I manifestanti turchi hanno salutato la risposta venuta dall’altra sponda del mondo con le parole d’ordine: “Siamo insieme, Brasile + Turchia!” e “Brasile, resisti!”. E poiché il movimento si è ispirato alle manifestazioni in Brasile che contengono rivendicazioni di classe, questo può in futuro favorire la nascita di rivendicazioni di classe in Turchia. (...) Nonostante tutte le debolezze e i pericoli che minacciano questo movimento, se le masse in Turchia non fossero riuscite a diventare un anello della catena delle rivolte sociali che scuotono il mondo capitalista, il risultato sarebbe stato un ben più grande sentimento d’impotenza. La nascita di un movimento sociale di un’ampiezza mai vista dal 1908 in questo paese è dunque di un’importanza storica.(...)
Dünya Devrimi, il 21 giugno
[1] Disponibile in inglese, spagnolo e francese sulle rispettive pagine del nostro sito: www.internationalism.org [10].
[2] Partito per la giustizia e lo sviluppo, islamista “moderato”, al potere dal 2002 in Turchia (ndr)
Ecologia verde: trappole, mistificazioni e alternative
Anche se il libro non ci risulta essere stato pubblicato in Italia, pensiamo che quest’articolo, scritto dai nostri compagni in Belgio, possa costituire comunque un utile contributo alla riflessione sul problema del degrado ambientale e sulla risposta che questo richiede.
Il libro Il mito dell’economia verde[1], si presenta come una critica spietata de “l’economia verde”, perché rimette in causa un buon numero di soluzioni (ad esempio, il fracking) proprie di questo cosiddetto approccio “alternativo”: sia perché queste risolvono solo un problema parziale, senza tener conto dell’impatto ecologico distruttivo a lungo termine, sia perché il rimedio si rivela più terribile del male per l’uso, nel quadro de “l’economia verde”, di mezzi che mettono in moto processi che sono altrettanto inquinanti, se non di più, a medio e lungo termine.
Una critica apparentemente dura de “l’economia verde” …
Nel primo e nel secondo capitolo, la situazione disastrosa viene spiegata dal fatto che non ci si può aspettare alcuna soluzione da parte del capitalismo perché questo sistema considera la natura come “un dono gratuito”[2], che può essere utilizzato a proprio piacere.
Gli autori tentano anche di ricercare le radici di questa crisi ecologica e spiegano che queste si trovano nell’espropriazione dei beni sociali comunitari (definiti con il termine inglese common). Dimostrano molto minuziosamente come il capitalismo gioca un ruolo attivo nella degradazione della natura e come s’interessa a essa solo quando la può trasformare in valore commerciale. Ne consegue che ogni cosa riguardante la natura cui il capitalismo è interessato è destinata a essere saccheggiata o distrutta. Mostrano, infine, che la stessa “economia verde”, non solo non riesce a fermare i misfatti della mercificazione della natura, ma li aggrava.
Con fatti e argomenti, descrivono come tutte le soluzioni proposte servano solo a spostare l’ipoteca che pesa sulla società e tentino di farne ricadere la colpa sulla popolazione e “i cittadini”. Secondo gli autori, uno degli obiettivi prioritari è ridurre il consumo di petrolio e di altri combustibili fossili in quanto causa principale di inquinamento, riduzione che deve essere affrontata con urgenza.
Il libro porta poi, essenzialmente, sull’alternativa ecologica dei beni sociali comunitari o common - attaccati costantemente dalla liberalizzazione dell’economia - e sull’insuccesso evidente del neoliberismo in campo ecologico. Parlando di una necessaria alternativa, viene fatta una critica rispetto al “socialismo reale” dell’USSR e dei paesi che adesso s’ispirano, dove è flagrante la catastrofe ecologica[3]. Ma quando si fa riferimento a Cuba, questa critica improvvisamente non è più valida. Cuba sarebbe oggi un esempio, il paese con la minore impronta ecologica al mondo, grazie all’arresto improvviso delle consegne di petrolio dopo il crollo dell’USSR. Che Cuba abbia sterminato la sua foresta subtropicale per la coltivazione della canna da zucchero all’inizio degli anni 60 e che sia stata responsabile di altre catastrofi ecologiche, gli autori sembrano non averne mai sentito parlare. Ma anche questo mito è stato già da tempo sfatato da alcuni attivisti ecologici cubani[4].
… per promuovere la mistificazione della “democrazia verde”
Innanzitutto, bisogna dire che la scienza può diventare un’alleata della classe operaia e più in generale dell’umanità. Inoltre, gli studi scientifici che oggi possono liberarsi dal dominio materiale o ideologico del capitalismo e della sua inevitabile sponsorizzazione, sono più che benvenuti. Tuttavia, la domanda da porsi è: il libro esplora realmente fino in fondo la contraddizione del sistema capitalista per ciò che riguarda “l’economia verde”? Una lettura attenta del lavoro permette immediatamente di rilevare un certo numero di contraddizioni nell’argomentazione.
Da una parte, si afferma giustamente che le soluzioni che sono proposte da “l’economia verde” restano rigorosamente nel quadro della possibilità di realizzare profitti. Dall’altra, si dice che i common farebbero esattamente il contrario. Ma per dare ai beni sociali comunitari tutti i loro diritti, viene tuttavia invocato l’aiuto di una regolamentazione da parte dello Stato (o dagli organi che sono controllati o promossi dallo Stato, come i sindacati). Poiché non viene evocata nessuna soppressione dello sfruttamento capitalista, ma unicamente una diversa regolamentazione dei consumi, in sostanza non si fa altro che chiedere il sostegno dello Stato borghese che deve essere riformato “ecologicamente” per servire meglio “gli interessi del popolo”. Il presentare i regimi di Morales e di Chavez e il modello Cuba, come esempi di un’alternativa, conferma questa logica di una regolamentazione da parte dello Stato, tipico dell’ambiente gauchista. Che questi regimi oltre ad essere totalitari, abbiano anche più di una volta represso con violenza la protesta operaia – usando l’esercito a più riprese contro le fabbriche in sciopero e gli operai agricoli – non viene detto.
Sul piano delle rivendicazioni il libro è molto ambiguo: vantare i common come soluzione ecologica creativa alternativa e allo stesso tempo elemosinare l’aiuto dello Stato e dei sindacati, che sono elementi propri alla società capitalista, è come voler conciliare l’acqua con il fuoco. Questi non sono attori neutrali nel contesto capitalista: lo Stato garantisce “l’ordine sociale globale" e bada alla sopravvivenza del sistema capitalista, possibilmente attraverso elezioni democratiche o se no con le armi. La struttura sindacale, già dalla prima guerra mondiale, ha il ruolo di “disciplinare la fabbrica” e non ha mai sostenuto esigenze che possono minacciare l’interesse nazionale e il sistema. I soli che minacciano sono gli operai, quando scendo in lotta con uno sciopero “selvaggio” (come recentemente hanno sperimentato gli operai dei subappalti di Ford-Genk).
Nell’alternativa proposta dagli autori viene sostenuta “una soluzione democratica”. Ma che significa una soluzione democratica? Delle volte sembra situarsi - secondo gli autori - al di fuori del capitalismo, in altri momenti, sembra dover passare attraverso delle leggi veloci perché “il tempo stringe”. Eppure, loro stessi hanno constatato prima che tutte le misure de “l’economia verde” vanno nella direzione del sistema e sono distruttrici per la natura. Non è chiaro con quali misure pensano sia possibile rovesciare tale tendenza. Da un lato, avanzano dei “successi”, come i casi di autogestione in Argentina, in Messico e in Gran Bretagna, ma dopo viene fuori che questi sono solo temporanei…
Degli argomenti avanzati nel libro possono talvolta somigliare a quelli della componente riformista del movimento Occupy e degli “Indignados” - (Democracia Real Ya – “Una vera democrazia ora” - in Spagna), che ha tentato con tutti i mezzi di orientare il movimento di protesta verso obiettivi “concreti” nel quadro del capitalismo, mentre in questi movimenti si manifestavano molte tendenze proletarie che mettevano in discussione il sistema stesso.
Nel libro vengono poi enumerate vari elementi per un’alternativa, tipo “l’insieme dei paesi del Sud”, il proletariato ecologico, i cittadini coscienti. Ciò che colpisce è che della classe operaia non si parla proprio. Esiste ancora? A quanto pare, per gli autori non conta. A pagina 192, affermano che un capitalismo verde fabbrica “consumatori” al posto di “cittadini”! Ai “cittadini coscienti”, allora, spetterebbe il compito di impedire la catastrofe ecologica. Il posto centrale della classe operaia nel processo di produzione capitalista sparisce. Resta solo l’indignazione morale del “consumatore cosciente”, del “cittadino”. In questo modo ogni protesta viene sradicata dalla sfera della produzione e canalizzata verso quella del consumo. Diventa così impossibile avere una comprensione reale dei rapporti di produzione capitalista e del ruolo centrale della classe operaia nel capovolgimento di questi.
Alla fine, la critica “radicale” dell’economia verde diventa solo una cortina di fumo per fare ingoiare le classiche ricette dell’estrema sinistra del capitale: lo Stato, la “democrazia popolare”, la riforma dei consumi come alternativa all’interno della logica del profitto capitalista.
Il marxismo propone un’alternativa?
Nella ricerca di alternative al di fuori del capitalismo, dove si porrà fine alla produzione per il profitto (il valore di scambio delle merci) e dove l’uso (il valore d'uso), sarà posto come fine della produzione, si arriva necessariamente a Marx ed Engels.
Due attuali ricercatori accademici, John Bellamy Foster e Paul Burkett[5], hanno fornito un importante contributo sulla reale visione difesa da Marx ed Engels riguardante il rapporto tra Uomo e Natura. J. Bellamy Foster aveva constatato che i Verdi erano fortemente influenzati dal filosofo inglese Francis Bacone, un pensatore materialista che, nel 1660, è stato uno dei fondatori della Royal Society of London. Investigando ulteriormente, e attraverso Bacone e la sua visione materialista sulla natura (espressa nel suo lavoro Novum Organum), è risalito ai filosofi materialisti ed Epicuro, nell’antica Grecia, e a Lucrezio, nella cultura romana antica. Attraverso questo percorso ha “riscoperto” Marx (la cui tesi trattava di Epicuro.) A partire da qui, ha messo in evidenza che la “critica verde” era in fondo “idealista” e che attaccava in modo totalmente infondato il marxismo, per il suo sedicente “produttivismo”, sulla base di una critica delle posizioni di Stalin e di molti partiti e gruppi dell’estrema sinistra borghese. Il suo collega P. Burkett ha condotto una ricerca complementare apportando ulteriori elementi, provenienti soprattutto da Il Capitale, parte III, da Teorie sul plusvalore di Marx e dalla Dialettica della natura di Engels. Ma, in quest’articolo, per mancanza di spazio purtroppo non possiamo sviluppare questo punto.
Lo stalinismo ha tradito tutti i principi marxisti: l’internazionalismo proletario è stato messo a profitto della patria “socialista”, l’arte e la cultura sono state violate subordinandole allo Stato onnipotente, il materialismo storico è stato abbandonato a favore del materialismo volgare, la crescita mostruosa dello Stato si è sostituita alla sua soppressione, l’analisi dei rapporti di produzione è stata scalzata da quella del modo di produzione. Questo ha permesso allo stalinismo di promuovere a “socialismo” il proprio sistema di produzione di plusvalore e dunque di sfruttamento. In effetti, era una forma di capitalismo di Stato, visto che i rapporti di produzione capitalista continuavano ad esistere come plusvalore realizzato globalmente dallo Stato (la concezione di un “socialismo di Stato” era già stata rigettata da Engels).
Nei primi anni della rivoluzione russa ci si basava minuziosamente sulle idee di Marx ed Engels a proposito della natura. All’epoca dello sviluppo di nuovi complessi industriali, fu calcolato quali danni questi avrebbero potuto causare all’ambiente naturale e come compensarli, per esempio con la creazione di parchi naturali, gli zapovedniki (tra il 1919 e 1929, furono creati 61 parchi naturali con una superficie totale di circa 4 milioni di ettari), nei quali le regioni naturali erano protette come modelli da paragonare alle terre coltivate[6]. All’epoca dell’industrializzazione forzata sotto lo stalinismo, i difensori di questa politica furono liquidati e non solo nel senso figurato del termine, con tutte le conseguenze che ne sono derivate per l’ambiente[7].
In seno alla tradizione marxista, ciò ha significato un serio colpo per la riflessione relativa alla natura e all’equilibrio ecologico. A parte Christopher Caudwell e Amadeo Bordiga, la riflessione sul legame indissociabile tra uomini e natura si è fermata quasi totalmente fino agli anni 80. I comunisti di sinistra intorno a Bordiga si sono basati sulle idee di Engels riguardanti la soppressione nel socialismo della contrapposizione tra città e campagna, come mostrano queste citazioni di Engels e di Bordiga: “La soppressione dell’opposizione tra città e campagna non è un’utopia più di quanto non lo sia la soppressione dell’antagonismo tra capitalisti e salariati. Essa diventa ogni giorno di più un’esigenza pratica sia dal punto di vista della produzione industriale che della produzione agricola. Nessuno l’ha difesa con più forza di Liebig nei suoi lavori sulla chimica agricola nei quali chiede che l’uomo renda alla terra ciò che ha ricevuto da essa…”[8]; “Siamo in pieno nel quadro delle atroci contraddizioni che il marxismo rivoluzionario denunzia come proprie dell’odierna società borghese, e che non si limitano alla spartizione dei prodotti del lavoro e ai conseguenti rapporti tra i produttori, ma - inseparabilmente - si estendono alla dislocazione geografica e territoriale degli strumenti ed impianti di produzione e di trasporto, e quindi degli uomini stessi, che forse in nessun’altra epoca storica presentò caratteri così disastrosi e raccapriccianti”[9]; “La lotta rivoluzionaria per lo sventramento dei paurosi agglomerati tentacolari può definirsi: ossigeno comunista contro fogna capitalista. Spazio contro cemento”[10].
Per l’umanità, si tratta di fermare il Moloch del capitalismo attraverso la rivoluzione proletaria, la sola che può e deve rovesciare questo sistema di produzione. Solo dopo un’altra logica potrà mettersi in moto e rompere radicalmente col principio del profitto, che sfrutta l’uomo e la natura minacciando di distruggerli. Come dice Caudwell: “Da qui a quando maturerà una situazione rivoluzionaria, ci sarà una nuova sovrastruttura che esisterà in modo latente in seno alla classe sfruttata derivante da tutto ciò che questa ha appreso dallo sviluppo delle forze produttive… è il ruolo creativo delle rivoluzioni… La rivoluzione proletaria è una conseguenza dell’antagonismo crescente tra la sovrastruttura borghese ed il lavoro proletario”.
Per seguire questa strada, abbiamo bisogno di un’analisi molto più radicale di quella che è avanzata dagli autori de “Il mito dell’economia verde”. Con i loro argomenti si continua a restare prigionieri nella spirale discendente della riflessione all’interno dei limiti di un sistema di sfruttamento che distrugge tutto.
JZ
Da Internationalisme, organo della CCI in Belgio, maggio 2013
[1] Anneleen Kennis & Matthias Lievens, Le mythe de l’économie verte, EPO, Anversa, 2012.
[2] Secondo Adam Smith, economista e padre del pensiero economico capitalista.
[3] Il 20% dell’immenso territorio dell’ex-URSS è gravemente inquinato e per generazioni intere.
[4] Vedi i contributi, interessanti da questo punto di vista, dell’attivista ecologico cubano, Gilberto Romero, Cuba’s environmental Crisis, Contacto, Magazine. 1994-96, e due contributi critici che provengono dal campo anarchico: Frank Fernández, Cuban Anarchism, the history of a movement, See Sharp Press Arizona 2001 e Sam Dolgoff, The Cuban revolution, a critical perspective, Blackrose Books, Montreal 1976.
[5] John Bellamy Foster, Marx’s Ecology, materialism and nature, Monthly Review Press, Nex York, 2000. Paul Burkett, Marx and Nature, a red and green perspective, St Martins' press, New York, 1999. L’unico limite dei due ricercatori è che, anche se partono da punti di vista materialisti basati su Marx ed Engels, nella loro ricerca di prospettive non fanno riferimento alle esperienze del movimento operaio rivoluzionario, tra altro all’eredità dei comunisti di sinistra. Questo non sminuisce, tuttavia, il valore di un contributo che permette la “riabilitazione” dell’analisi marxista del rapporto tra uomo e natura di fronte alle falsificazioni staliniste.
Altre fonti interessanti al riguardo sono: The myth of the “green economy” nella nostra Rivista Internazionale n.138, 2009 (in inglese, francese e spagnolo) e il lavoro dello scienziato russo Vladimir I. Vernadsky, perseguitato dallo stalinismo, che ha elaborato il concetto di noosfera e sviluppato quello di biosfera nel suo libro La Biosfera, Mosca 1926.
[6] Arran Gare in Soviet Environmentalism: The Path not taken in “The Greening of Marxism”, edito da Ted Benton, Guilford Press, New York London, 1996.
[7] Christopher Caudwell, Studies e Further studies in Dying Culture, Monthly Review Press, 1971, Men and Nature, pag.151-2. Critico marxista morto in giovane età durante la guerra civile in Spagna.
[8] F. Engels, La Questione delle Abitazioni.
[9] A. Bordiga, Specie umana e crosta terrestre, Sul Filo del Tempo 1952, ed. Iskra.
[10] A. Bordiga, Spazio contro cemento, Sul Filo del Tempo 1953, ed. Iskra.
La popolazione siriana sacrificata sull'altare degli interessi imperialisti
Lunedì 21 agosto un attacco con armi chimiche ha provocato centinaia di morti nei pressi di Damasco, capitale siriana. Su tutte le reti televisive, su tutti i giornali si vedevano immagini strazianti di bambini, donne ed uomini agonizzanti. La borghesia, senza alcuno scrupolo, si impadroniva di questa tragedia umana per difendere sempre ed ancora i suoi sordidi interessi. Il regime di Bachar el Assad, macellaio tra i macellai, aveva appena varcato la linea rossa. Perché ufficialmente, per la classe borghese, si può massacrare con tutta la forza possibile ma non con le armi chimiche. Quelle che essa chiama nel suo gergo armi sporche, che sarebbero molto differenti secondo lei dalle armi accettabili, come le bombe e granate di ogni genere o ancora come le bombe atomiche lanciate nel 1945 dagli americani su Hiroshima e Nagasaki. Ma l'ipocrisia della borghesia non conosce limiti. Dalla Prima Guerra mondiale (1914-1918) in cui i gas tossici sono stati adoperati massicciamente per la prima volta, provocando parecchie centinaia di migliaia di morti, quest'arma chimica non ha cessato mai d’essere prodotta, "perfezionata" ed adoperata. Gli accordi di facciata sulla sua non utilizzazione, in particolare dopo le due guerre mondiali e negli anni ‘80, essendo solamente dichiarazioni di principio, non hanno mai impedito il loro impiego. E così è stato! Molti teatri di guerra da questa epoca hanno conosciuto l'utilizzazione di questo tipo di armi. Nel Nord Yemen dal 1962 al 1967, l'Egitto adoperò senza vergogna il gas mostarda (iprite). Nella guerra Iran-Iraq nel 1988, città come Halabja sono state bombardate con armi chimiche provocando più di 5.000 morti, sotto gli occhi benevoli e complici della 'comunità internazionale', dagli Stati Uniti alla Francia, passando per l'insieme dei membri dell'ONU! Ma l'utilizzazione di questo tipo di armi non è l'appannaggio dei piccoli paesi imperialisti, o delle dittature tipo Assad, come vorrebbe farci credere la borghesia. La più massiccia utilizzazione dell'arma chimica fino ad ora, accanto ai bombardamenti al napalm, è stata operata dagli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam. Si è trattato di scaricare massicciamente del diserbante contaminato alla diossina per distruggere le risaie e le foreste. Bisognava radere tutto e ridurre la popolazione vietnamita e i Vietcong alla carestia. Terre bruciate e desertificate, popolazione bruciata ed asfissiata... ecco l'opera dell'azione del capitalismo americano in Vietnam che oggi con altre grandi potenze occidentali, come la Francia, si prepara ad intervenire in Siria per difendere falsamente la popolazione. Dall'inizio di questa guerra in Siria, ci sono stati più di 100.000 morti ed almeno un milione di profughi nei paesi limitrofi. Al di là dei discorsi sviluppati nel tempo dall'insieme dei mezzi di informazione borghesi, la classe operaia deve sapere quali sono le vere cause dello scatenamento della guerra imperialista in Siria.
La responsabilità della situazione in Siria è della società capitalista decadente
Attualmente, la Siria è al centro dello sviluppo delle tensioni inter-imperialiste e del caos che si estende dall'Africa settentrionale fino al Pakistan. Se, oggi, per continuare il suo gioco al massacro, la borghesia siriana si scontra con le armi in seno ad un paese in rovine, è perché essa può contare sull'appetito insaziabile di un buon numero di imperialismi di ogni stampo. Nella regione, l'Iran, l’Hezbollah libanese, l'Arabia Saudita, Israele, la Turchia ..., tutti sono implicati più o meno direttamente in questo conflitto sanguinoso. Ed anche i più potenti imperialismi del mondo difendono laggiù i loro sordidi interessi. La Russia, la Cina, la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti partecipano anche loro alla propagazione di questa guerra ed alla sua estensione nell'insieme della regione. Davanti alla loro impotenza crescente a semplicemente controllare la situazione, si seminano ancora più caos e distruzione, seguendo talvolta quella vecchia strategia della terra bruciata ("se non posso dominare questa regione, che essa bruci").
Durante la guerra fredda, periodo che ufficialmente va dal 1947 al 1991 e la caduta dell'URSS, due blocchi si opponevano, l'Est e l'Ovest, con, alla loro testa, rispettivamente l’ Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Queste due superpotenze governavano con pugno di ferro i loro "alleati" o "satelliti ", costretti all'ubbidienza di fronte all'orco nemico. Il termine che qualificava questo ordine mondiale si chiamava la disciplina dei blocchi. Questo periodo storico fu molto pericoloso per l'umanità, perché se la classe operaia non fosse stata in grado di resistere, anche passivamente, al reclutamento ideologico guerriero, una terza conflagrazione mondiale sarebbe stata possibile. Dal crollo dell'URSS, non ci sono più blocchi, più rischi di una terza guerra mondiale generalizzata. Ma la disciplina dei blocchi si è volatilizzata. Ogni nazione gioca la sua carta, le alleanze imperialiste sono sempre più effimere e di circostanza ... così i conflitti si moltiplicano senza che nessuna borghesia possa alla fine controllare niente. È il caos, la decomposizione crescente della società.
Ancora, l'indebolimento accelerato della prima potenza imperialista mondiale, gli Stati Uniti, contribuisce attivamente allo sprofondamento di tutto il Medio Oriente nella barbarie. All'indomani dell'attacco chimico nei pressi di Damasco, le borghesie francesi ed inglesi, seguite più timidamente dalla borghesia americana, hanno dichiarato in modo altisonante che un tale misfatto non poteva restare impunito. La risposta militare era imminente e sarebbe stata proporzionale al crimine che si stava producendo. Però la borghesia americane e certe borghesie occidentali nella sua scia, hanno appena conosciuto due sconfitte clamorose, nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, paesi in totale decomposizione. Come intervenire in Siria senza ritrovarsi nella stessa situazione? Ma, ancora, queste borghesie hanno a che fare con quella che chiamano l'opinione pubblica, nello stesso momento in cui la Russia invia nuove navi da guerra nella regione. La popolazione non vuole questo intervento! In maggioranza non crede più alle menzogne della propria borghesia. L'opinione pubblica sfavorevole a questo intervento, anche sotto forma di bombardamenti limitati nel tempo, pone un problema alle borghesie occidentali.
Ecco quello che ha costretto alla fine la borghesia inglese a rinunciare ad intervenire militarmente in Siria, al prezzo di rinnegare essa stessa le sue prime dichiarazioni di guerra! È anche la prova che la borghesia occidentale non ha "buone soluzioni", ma cattive: o non interviene (come ha appena scelto di fare la Gran Bretagna) ed allora questa rappresenterebbe una confessione di notevole debolezza; o interviene (come sembra verosimile per gli Stati Uniti e la Francia), ed allora essa non raccoglierà niente altro che sempre più caos, instabilità e tensioni imperialiste incontrollabili.
Solo il proletariato può, distruggendo il capitalismo, farla finita con la barbarie
Il proletariato non può restare indifferente a tutta questa barbarie. Sono gli sfruttati, famiglie intere, che si fanno massacrare, annientare da tutte le cricche imperialiste. Sciiti o sunniti, laici o drusi ... da questo punto di vista non c'è alcuna differenza. La sana reazione umana è di volere fare qualche cosa "subito", di fermare questi crimini abominevoli. È questo sentimento che sfruttano le grandi democrazie ogni volta per condurre e giustificare le loro offensive guerriere in nome dell’ "intervento umanitario". Ed ogni volta, la situazione mondiale peggiora. Si tratta dunque di una trappola.
Il solo modo per l'umanità di esprimere la sua vera solidarietà verso tutte queste vittime del capitalismo putrescente, è di abbattere questo sistema che produce tutti questi orrori. Un tale rovesciamento, in realtà, non si farà in un giorno. Ma anche se questa strada è lunga, è la sola a condurre realmente ad un mondo senza guerra, né patria, senza miseria né sfruttamento. La classe operaia non ha bandiere nazionali da difendere. Il paese dove vive è il luogo del suo sfruttamento e per alcuni nel mondo, il luogo della loro morte, stritolata dalle armi della classe capitalista. È responsabilità della classe operaia opporre al nazionalismo guerriero borghese il suo internazionalismo. Per quanto difficile sia questa strada, essa è necessaria e... possibile! La classe operaia di oggi deve ricordarsi che la Prima Guerra mondiale non ha avuto fine per la buona volontà dei belligeranti, né con la sconfitta della Germania. E' stata la rivoluzione proletaria che vi ha messo fine e solo lei
Tino, 31 agosto
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[2] https://www.radiofrance.fr/emission-la-fabrique-de-l-histoire-histoire-des-grands-proces-24-2013-05-07
[3] https://www.youtube.com/watch?v=7fwQv5h7Lq8
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/3/45/cultura
[5] https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/13/bankitalia-debito-pubblico-cresciuto-di-842-miliardi-dallinizio-dellanno/710446/
[6] https://www.istat.it/it/charts/occupati/year/y/flashfc/width/800/height/640/javascript/1
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