giugno-settembre 2013
Lo sviluppo degli eventi
Nel novembre 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una situazione in cui il governo Berlusconi risultava gravemente screditato sia all’interno del paese che all’estero, impone al suo leader di fare un passo indietro dando incarico a Monti di costituire un nuovo governo. Il nuovo esecutivo riesce nell’intento di risollevare la credibilità dell’Italia come paese-azienda, ma al costo di lacrime di sangue della popolazione. Un altro pedaggio pesante lo pagano i due partiti maggiori, il PD e il PDL, costretti nonostante la loro reciproca rivalità storica a sostenere entrambi lo stesso governo, il che evidentemente non può che produrre un’usura della loro reputazione. Tanto che il PDL si sfila dal governo prima della sua scadenza naturale proprio per poter meglio demarcarsi rispetto ai rivali nelle imminenti elezioni politiche del 2013.
Le elezioni regionali del 28 ottobre 2012 in Sicilia danno un segnale importante di questa usura e perdita di controllo dei partiti maggiori nei confronti del territorio, in particolare della destra e di Berlusconi sul territorio siciliano dove, in altri tempi, i risultati elettorali si erano conclusi con un cappotto a favore della destra. Se il governo della regione passa a una coalizione di sinistra, questo si fa sulla base di un’affluenza alle urne che si riduce dal 66,68% al 47,42% delle precedenti amministrative del 2008. Dunque i risultati esprimono un primo segnale di un discredito diffuso in tutto il paese nei confronti dei partiti tutti. Infatti, il Movimento 5 stelle diventa a sorpresa, con il suo quasi 15%, il primo partito a livello regionale.
Se possibile, le elezioni politiche del febbraio 2013 costituiscono un ulteriore e ancor più forte choc. Infatti, chi pregustava già una fase politica finalmente liberata perlomeno dagli oltranzismi spudorati e arroganti del berlusconismo, ha dovuto assistere con amarezza alla rimonta del cavaliere che, benché in parte annunciata alla vigilia, ha sorpreso tutti, così che la vittoria del PD e del centro sinistra, se di vittoria si può parlare, è stata di stretta misura. Ma ancora una volta è il Movimento 5 Stelle che si è imposto incredibilmente come primo partito a livello nazionale arrivando da solo a competere con le rispettive coalizioni di centro-sinistra e di destra. La riduzione dell’affluenza alle urne scende di oltre 5 punti rispetto alle precedenti politiche, dall’80,46 al 75,21%, mostra che quella situazione di perdita di credibilità dei due schieramenti maggiori, già registrata 4 mesi prima in Sicilia, si conferma a livello nazionale con voti persi da entrambi i partiti maggiori sia attraverso il calo di affluenza alle urne (5%) sia nella migrazione di voti verso il partito di Grillo (25,55% alla Camera).
L’interludio che ha portato, alla fine, all’attuale governo Letta, è anch’esso di notevole significato e occorre rievocarne alcuni passaggi. Il PD, nominalmente vincitore delle elezioni ma di fatto vero perdente, ha imbroccato una serie interminabile di passi falsi arrivando alla fine a una vera debacle che ha portato alle dimissioni del segretario Bersani e a cedere il passo alla corrente più aperta ad un dialogo con la destra. I passaggi sono stati segnati prima da una corte sfrenata al M5S per indurlo a partecipare al governo, poi dalla candidatura di Marini alla presidenza della Repubblica, che è stato il primo schiaffo in faccia a tutta quella parte del popolo di sinistra che si aspettava una svolta anche attraverso questa elezione. D’altra parte lo stesso M5S, che ha giocato a fare l’innamorata schizzinosa con il PD, aveva avanzato e fatta propria la candidatura di una figura del mondo della sinistra quale Stefano Rodotà. Ma, di fatto, sia Marini che Rodotà sono stati bocciati dallo stesso PD che non è riuscito a trovare un’unità su nomi del suo stesso partito, tanto da ricorrere all’aiuto in calcio d’angolo del presidente della repubblica uscente che è stato costretto a ricandidarsi per superare lo stallo in cui il PD era caduto. La lacerazione che ne è seguita è quella che ha suggellato l’ulteriore indebolimento del PD e una sorta di genuflessione nei confronti del PDL che, a questo punto, è giustamente entrato in campo come il “salvatore della patria”.
La formazione del governo Letta ha fatto registrare nell’animo della gente comune un vero ultimo schianto. E’ come se tutta una serie di attese, di speranze e di sacrifici per cui si era vissuto fino a quel momento fossero stati in un istante vanificati. Tutte le aspettative diffuse dalle campagne sull’antiberlusconismo, cavallo di battaglia da sempre della sinistra, portavano adesso al suo opposto, al famigerato governo delle larghe intese, messo sotto ricatto fin dal primo giorno da un Berlusconi mai veramente domato. Letta sembra più una controfigura che un capo di governo mentre è Berlusconi che ha guadagnato alla grande, con un conflitto perenne tra PD e PDL in cui Berlusconi tiene sotto tiro Letta e usa questo governo per navigare a vista pronto a mollare tutto quando gli farà comodo. E’ un governo costruito contro ogni promessa elettorale. Il popolo di sinistra è andato a votare per dire basta a Monti e a Berlusconi soprattutto, e dopo chi si ritrova? Una sconfitta totale ed un governo con il peggior nemico. Questo ha creato uno schianto morale per il popolo della sinistra tra cui moltissimi hanno dichiarato che non avrebbero più votato. La prospettiva è quindi di forte instabilità, anche a livello internazionale.
L’ultimo atto di questo breve riepilogo è costituito dalle elezioni amministrative del maggio 2013. Come tutti sappiamo queste elezioni, alquanto stranamente, hanno attribuito una schiacciante vittoria alla sinistra che, tra primo e secondo turno, ha fatto cappotto al PDL vincendo per 16 a 0 nelle città capoluogo di provincia. Ora bisogna subito precisare che, nonostante la loro natura di elezioni locali a cui si attribuisce usualmente una minore rilevanza, queste elezioni costituiscono un episodio particolarmente illuminante per il semplice fatto che sono state assolutamente omogenee dal nord al sud, mostrando di esprimere più gli orientamenti generali del paese che degli interessi locali. Cosa è venuto fuori? La prima cosa è che non è affatto vero che il PD abbia vinto ma che invece ha perso una barca di voti e che, se è riuscito a piazzarsi davanti al PDL, è perché questo ha perso ancora di più. In una situazione in cui a livello nazionale il voto è crollato mediamente del 15%, risulta emblematica la situazione di Roma, con i suoi 2.359.263 aventi diritto al voto e una percentuale di votanti inferiore al 53%. Facendo riferimento alle percentuali assolute di voti sugli aventi diritto al voto e non alle percentuali relative ai votanti viene fuori uno scenario che è veramente raccapricciante per i partiti di governo. Infatti, rispetto alle precedenti amministrative del 2008, il PD scende dal 25,03% al 13,87%, ma riesce a vincere grazie al fatto che chi prima aveva vinto, il PDL con il 26,89%, adesso si ferma ad un misero 10,14%. Lo stesso discorso lo si può fare nelle altre città. La stessa Lega è stata ridotta a effimera rappresentanza di un passato ormai tramontato.
Ma la sorpresa è che anche chi, solo 4 mesi prima, aveva sorpreso per l’exploit mostrato alle politiche, il M5S di Grillo, adesso risulta completamente sconfessato dalle urne delle amministrative. Questo movimento, che abbiamo già caratterizzato come bluff populista, è condotto da un vertice che non ha nulla “di sinistra” e la cui parola d’ordine è “lo Stato può funzionare se a gestirlo saremo noi”, dimostrando così come questo movimento non metta minimamente in discussione l’ordine delle cose esistenti. Altra cosa è però l’illusione che si è fatta chi ha votato il M5S e che si aspettava che, dopo tanto urlare, con tutti i voti presi, qualcosa si potesse fare. Grillo non ha escluso l’occupazione del potere (in varie città sta al potere o collabora), ma probabilmente la vittoria alle politiche ha creato un contesto nuovo. E’ come se Grillo e Casaleggio avessero capito di essere arrivati un po’ troppo avanti rispetto alle aspettative e avessero avuto timore di andare oltre. Partecipare al governo potrebbe essere stato un passo troppo rischioso per loro perché, finché si è minoranza o si sta all’opposizione, si può dare la colpa agli altri, ma se si assumono responsabilità governative, si rischia di rimanere invischiati e di bruciare le posizioni guadagnate. Al tempo stesso i voti che hanno ricevuto sono tanti che questa loro riluttanza ad andare al governo li ha posti in contraddizione rispetto a chi li ha votati e che avrebbe voluto, dopo tante promesse, che adesso si mettesse a frutto il ricco pacchetto di parlamentari acquisito. Forse anche per questo in Sicilia, dopo che Grillo aveva dichiarato “Il modello siciliano? Meraviglioso”, il M5S ha rotto con l’appoggio esterno alla giunta siciliana PD-UDC di Crocetta. Su questa base si può ben capire come il M5S, che era riuscito a fare il pieno del voto di protesta dell’elettorato alle politiche diventando addirittura il primo partito a livello nazionale, sia caduto a percentuali anche 10 volte più basse alle amministrative.
Il peso della decomposizione sull’apparato politico
Come si vede la sequenza di avvenimenti, che è regolata da uno scontro continuo tra le varie formazioni politiche della borghesia, talvolta sembra essere dettata dall’assenza più assoluta di una logica. Se questo avviene è perché, nella misura in cui ci troviamo di fronte ad una crisi economica che non ha alcuna via d’uscita, che questa società non offre alcuna prospettiva, le stesse forze politiche borghesi in campo non sono più capaci di dare una visione di marcia credibile e dunque di avere un controllo serio sull’elettorato. E’ quello che abbiamo definito come la fase di decomposizione del capitalismo[1]. In più la situazione italiana è stata particolarmente marcata dall’affare Tangentopoli dei primissimi anni ’90 che, sotto le mentite spoglie di un’operazione della magistratura, è stata in realtà l’espressione dello scontro a morte tra due diverse frazioni della borghesia, l’una per mantenere il controllo degli USA sulla politica dell’Italia, l’altra per liberarsene. Questo scontro ha condotto, come è noto, a cancellare letteralmente il vecchio quadro politico governativo incentrato sulla DC spingendo nuove formazioni politiche a entrare in gioco per riempire il vuoto rimasto. Ma i vari partiti che via via si sono costituiti hanno tutti mostrato una grande precarietà politica. In particolare tutti sono nati sotto il carisma di un capo, caduto il quale il partito è andato in sofferenza. Si veda ad esempio il rapporto tra PDL e Berlusconi, Lega Nord e Bossi, Italia dei Valori e Di Pietro fino al M5S e Grillo. Tra questi partiti, in mancanza di alternative percorribili, si sviluppa sempre più il populismo, di destra o di sinistra.
La sinistra, e in particolare il PD, costituisce invece l’ultimo frammento di quella classe politica che ha una tradizione politica e quello che si chiama “senso dello Stato”, che significa assunzione di responsabilità di fronte ai problemi dell’insieme della borghesia di quel paese. Ma questo non significa che non ci siano problemi anche per il PD e che la decomposizione non si avverta anche in questo partito. Solo che questa decomposizione si esprime in maniera diversa e si produce a partire da un contesto diverso. Il PD infatti si è caratterizzato fondamentalmente per una mancanza di iniziativa e questo perché esso viene fuori dalla confluenza dei due vecchi partiti che tradizionalmente si sono combattuti per quarant’anni dalla fine della guerra fino al crollo del muro di Berlino, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Per cui tutte le volte che, di fronte a delle difficoltà, emergono le due diverse anime del partito, come adesso in occasione di tutta la faccenda post-elettorale, il partito si spacca e si paralizza. In più, in quanto partito “di sinistra”, il PD ha qualche difficoltà a proporsi come gestore dell’emergenza e come massacratore della popolazione, visto che gli risulta sempre più difficile trovare in nome di che proporre ulteriori attacchi.
Può il M5S essere la risposta che la gente cerca?
Di fronte a questo sconquasso dell’apparato politico della borghesia è chiaro che la gente sta cercando freneticamente un’alternativa valida, che è stata intravista ad un certo momento nel movimento di Grillo, tanto che un terzo dei votanti alle politiche ha fatto affidamento sul M5S. Ma può essere il M5S la risposta che la gente cerca? Su questo, in aggiunta a quanto abbiamo già detto in passato[2], vogliamo sviluppare solo due punti ulteriori. Il primo riguarda la “democrazia interna” di questo cosiddetto movimento. Le espulsioni continue dal movimento, decretate direttamente dal líder máximo Beppe Grillo e motivate sulla base del fatto che non si è d’accordo con un “non statuto”, sono un’offesa alla dignità e all’intelligenza umana. Ammesso pure che Grillo e Casaleggio siano delle grandi teste (e non aggiungiamo altro!), può questo bastare per imporre a tutti i partecipanti al M5S di spegnere il proprio cervello e di sfilare come tanti soldatini di fronte ai generalissimi?
In secondo luogo vogliamo attirare l’attenzione dei lettori su quanto riportato sul blog di Grillo il 26 maggio scorso in cui l’ex comico, per giustificare il proprio fallimento alle amministrative, ne attribuisce la responsabilità a quell’“Italia di serie A” che, “guidata dall’interesse personale” sosterrebbe “tutti gli altri partiti” e che sarebbe “composta da chi vive di politica, 500.000 persone, da chi ha la sicurezza di uno stipendio pubblico, 4 milioni, dai pensionati, 19 milioni”, un’Italia interessata “allo status quo” e pronta a sventolare la “bandiera del ‘teniamo famiglia’”, che avrebbe scelto per “se stessa e poi per il paese”, a differenza di un’altra Italia, stavolta di serie B, che avrebbe deciso per il bene del paese e avrebbe votato “rischiando” per il Movimento, un’Italia composta da “lavoratori autonomi, cassintegrati, precari, piccole e medie imprese, studenti”, un’Italia di “sfrattati, imprenditori falliti, disoccupati che si danno fuoco, si buttano dalla finestra o si impiccano.”
Ma non esistono le due Italie così dipinte perché è solo grazie all’aiuto di genitori con uno stipendio da statale o una pensione che i figli studenti, disoccupati o precari possono tirare a campare. E’ solo attraverso una salda solidarietà tra generazioni che la popolazione italiana e mondiale sta riuscendo a reggere l’impatto della crisi. Inoltre evidentemente Grillo non capisce cosa significa per una famiglia tirare a campare con una miserabile pensione a volte anche di sole 400-500 euro al mese o con uno stipendio da statale di poco più di 1000 euro. Se esistono ancora “posti fissi” nelle strutture pubbliche, diventa questo elemento di vergogna e di biasimo per chi si è sottoposto allo sfruttamento capitalista per tutta una vita?
In sostanza questo tentativo di dividere i lavoratori tra lavativi (col posto fisso e pensionati) e non (cassintegrati, precari e disoccupati) è esattamente quello che hanno sempre fatto tutte le forze della borghesia: mettere gli uni contro gli altri settori della stessa classe, che hanno gli stessi interessi, e che si scambiano continuamente di ruolo per cui un operaio oggi al lavoro domani potrà essere cassintegrato, precario e finanche disoccupato, e viceversa. Questa opera di divisione e il mescolare gli uni e gli altri con settori della classe dominante, i politici da una parte, gli imprenditori dall’altra, sono l’esatto contrario di quello che serve ai proletari: il concepirsi come una classe, un corpo unico che comprende la stragrande maggioranza della gente, la cui forza coesa può, lei si, cambiare le cose.
Ezechiele 16/06/2013
Un’ondata di proteste contro l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici si sta sviluppando attualmente nelle grandi città del Brasile, particolarmente nella città di San Paolo, ma anche a Rio de Janeiro, Porto Alegre, Goiânia, Aracaju e Natal. Questa mobilitazione raccoglie dei giovani, studenti liceali e universitari e in una misura minore ma non trascurabile anche dei lavoratori salariati e autonomi.
La borghesia brasiliana, con alla testa il Partito del Lavoro (PT) e i suoi alleati, ha insistito per riaffermare che tutto andava bene. E questo mentre in maniera evidente esistono delle grandi difficoltà a contenere l’inflazione nel momento in cui vengono adottate delle misure di sostegno ai consumi delle famiglie per evitare che l’economia entri in recessione. Senza alcun margine di manovra, la sola alternativa sulla quale può appoggiarsi per contenere l’inflazione consiste, da una parte, nell’aumento del tasso di interesse e dall’altra nel ridurre le spese dei servizi pubblici (la scuola, la salute e lo stato sociale).
In questi ultimi anni sono scoppiati molti scioperi contro la riduzione dei salari e la precarizzazione delle condizioni di lavoro, della scuola e del sistema di assistenza. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, gli scioperi sono stati isolati dal cordone sanitario dei sindacati legati al governo dominato dal PT e il malcontento è stato contenuto in modo da non rimettere in questione la “pace sociale” a beneficio dell’economia nazionale. E’ in questo contesto che sono intervenuti l’aumento del prezzo dei trasporti a San Paolo e nel resto del Brasile: sempre più sacrifici per i lavoratori per sostenere l’economia nazionale, cioè il capitale nazionale.
Senza alcun dubbio, gli esempi dei movimenti che sono esplosi nel mondo in questi ultimi anni, con la partecipazione della gioventù, mettono in evidenza che il capitalismo non ha altra alternativa da offrire per il futuro dell’umanità che la disumanità. E’ per questo che la recente mobilitazione in Turchia ha avuto un’eco così forte nelle proteste contro il costo dei trasporti in Brasile. La gioventù brasiliana ha mostrato di non voler accettare la logica dei sacrifici imposti dalla borghesia e s’inscrive nelle lotte che hanno scosso il mondo in questi ultimi anni, come la lotta dei figli della classe operaia in Francia (lotta contro il CPE nel 2006), della gioventù e dei lavoratori in Grecia, Egitto e in Africa del Nord, degli Indignati in Spagna, degli “Occupy” negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
Une settimana di proteste e la reazione brutale della borghesia
Incoraggiate dal successo delle manifestazioni nelle città di Porto Alegre e di Goiânia, che hanno dovuto far fronte ad una forte repressione e che, nonostante ciò, sono riuscite ad ottenere la sospensione dell’aumento del prezzo dei trasporti, sono partite delle manifestazioni anche a San Paolo il 6 giugno. Queste sono state indette dal Movimento per il libero accesso ai trasporti (MPL), gruppo costituito in maggioranza da giovani studenti influenzati da posizioni di sinistra, ed anche anarchiche, che ha visto un aumento sorprendente dei suoi aderenti tra 2000 e 5000 persone. Altre manifestazioni si sono avute poi il 7, l’11 e il 13 giugno. Dall’inizio la repressione è stata brutale ed ha portato a numerosi arresti e a molti giovani feriti. Bisogna sottolineare il coraggio e la combattività dei manifestanti e la simpatia che hanno rapidamente suscitato, fin dall’inizio, nella popolazione, a un livello tale che la cosa ha sorpreso gli stessi organizzatori.
Di fronte alle manifestazioni, la borghesia ha scatenato un livello di violenza non comune nella storia di movimenti di questo tipo, violenza perfettamente ripresa dai mezzi di comunicazione che si sono precipitati a qualificare i manifestanti come dei vandali e degli irresponsabili. Una persona altolocata nella gerarchia statale, il procuratore Rogério Zagallo, si è esposto pubblicamente consigliando alla polizia di picchiare e di uccidere: “Sono due ore che cerco di tornare a casa ma c’è una banda di scimmie in rivolta che bloccano le stazioni Faria Lima et Marginal Pinheiros. Qualcuno può informare la Tropa de Choque [una sorta di squadra antisommossa, unità d’élite della polizia militare] che questa zona fa parte della mia giurisdizione e che se ammazzano qualcuno, questi figli di puttana, sarò io a istruire l’inchiesta poliziesca (…). Come si fa a non avere nostalgia dell’epoca in cui questo genere di cose si risolvevano con un proiettile di gomma nella parte posteriore di queste merde”.
Oltre a questo, c’è stata una successione di discorsi di uomini politici appartenenti a partiti avversari tra di loro, come il governatore di Stato Geraldo Alckmin, del PSDB (Partito della Socialdemocrazia brasiliana) e il sindaco di San Paolo, del PT, ma che si sono pronunciati entrambi in difesa della repressione poliziesca e per condannare il movimento. Una tale sintonia non è comune, visto che il gioco politico della borghesia consiste tipicamente nell’attribuire la responsabilità dei problemi che si pongono alla frazione borghese che si trova in quel momento al potere.
In risposta alla crescente repressione e alla cortina di fumo dei principali giornali, catene televisive e radio, sempre più partecipanti si sono riuniti ad ogni mobilitazione, fino a 20.000 persone giovedì scorso, 13 giugno. La repressione è stata allora ancora più feroce traducendosi con 232 arresti e numerosi feriti.
Vale la pena sottolineare l’apparizione di una nuova generazione di giornalisti. Per quanto minoritaria, attraverso una chiara manifestazione di solidarietà, questi hanno reso conto delle violenze poliziesche e, allo stesso tempo, ne sono stati anche vittime. Coscienti delle manipolazioni sempre presenti negli editoriali dei grandi media, questi giornalisti sono pervenuti, in un certo modo, a far percepire che gli atti di violenza dei giovani sono una reazione di autodifesa e che, certe volte, i vandalismi effettuati essenzialmente contro gli uffici del governo e contro i tribunali sono delle manifestazioni non contenute d’indignazione contro lo Stato. Oltre a questo sono state ugualmente rapportate delle azioni messe in atto da provocatori, cosa che la polizia utilizza abitualmente durante le manifestazioni.
La messa in evidenza di una serie di manipolazioni che ha permesso di smentire le versioni statali ufficiali, dei media e della polizia - che invece cercavano di distorcere i fatti, di demoralizzare e criminalizzare un movimento legittimo - ha avuto l'effetto di moltiplicare la partecipazione dei manifestanti e di aumentare il sostegno della popolazione. In questo senso, è importante sottolineare il grande contributo che ha avuto l’azione sui social network di elementi attivi nel movimento o di suoi simpatizzanti. Per paura che la situazione sfuggisse di mano, alcuni settori della borghesia hanno cominciato a cambiare discorso. Le grandi imprese di comunicazione, dopo una settimana di silenzio sulla repressione poliziesca nei loro giornali e televisioni, hanno infine menzionato gli “eccessi” dell’azione di polizia. Ugualmente alcuni politici hanno criticato gli “eccessi” su cui promettono di indagare.
La violenza della borghesia attraverso il suo Stato, qualunque sia il suo volto, democratico o "radicale", ha come fondamento il terrore totalitario contro le classi sfruttate o oppresse. Se con lo Stato democratico questa violenza non è così aperta come nelle dittature ed è, in più, nascosta in modo che gli sfruttati accettino le loro condizioni di sfruttamento e si identifichino con loro, ciò non significa che lo Stato rinunci ai metodi più diversi e moderni di repressione fisica quando la situazione lo richieda. Non è una dunque una sorpresa che la polizia scateni una tale violenza contro il movimento. Tuttavia, come in tante storie precedenti, si è visto che l’aumento della repressione ha provocato solo una solidarietà crescente in Brasile ed anche nel mondo, anche se in maniera ancora del tutto minoritaria. Delle mobilitazioni di solidarietà sono già previste al di fuori del Brasile, soprattutto per iniziativa di brasiliani che vivono all'estero. Bisogna dire chiaramente che la violenza poliziesca è nella natura stessa dello Stato e che non è un caso isolato o un “eccesso” di dimostrazione di forza da parte della polizia, come vorrebbero far credere i media borghesi e le autorità legate al sistema. In questo senso, non si tratta di un errore dei “dirigenti” e non porta a niente “chiedere giustizia” o chiedere un comportamento più cortese da parte della polizia perché, per fare fronte alla repressione ed imporre un rapporto di forza, non vi è altro modo che l’estensione del movimento verso ampi strati di lavoratori. Per fare questo, non possiamo rivolgerci allo Stato e chiedere l'elemosina. La denuncia della repressione e dell’aumento del prezzo dei trasporti deve essere sostenuta da tutta la classe operaia, chiamandola ad ingrossare le azioni di protesta in una lotta comune contro la precarizzazione e la repressione.
Le manifestazioni, che sono tutt’altro che terminate, si sono estese a tutto il Brasile e le proteste sono state presenti alla partenza della Coppa delle Confederazioni di calcio del 2013, che è stato caratterizzato dai fischi indirizzati alla presidente Dilma Rousseff, così come al presidente della Fifa, Joseph Blatter, prima della partita di apertura del torneo tra Brasile e Gappone[1]. Entrambi non hanno potuto nascondere l’imbarazzo per questi segnali di ostilità, tanto che il loro discorso è stato abbreviato per limitare la confusione. Intorno allo stadio si è anche tenuta una grande manifestazione alla quale hanno partecipato circa 1200 persone in solidarietà con il movimento contro l’aumento del costo dei trasporti. Ma questi sono stati fortemente repressi dalla polizia che ha ferito 27 persone e ha fatto 16 arresti. Per rafforzare ulteriormente la repressione, lo Stato ha dichiarato che qualsiasi manifestazione nei pressi degli stadi durante la Coppa delle Confederazioni sarebbe stata vietata, con il pretesto di non portare pregiudizio a questo evento, al movimento delle persone e dei veicoli, così come al funzionamento dei servizi pubblici.
I limiti del movimento per la gratuità dei trasporti e qualche proposta
Come si sa, questo movimento si è sviluppato a livello nazionale grazie alla sua propria dinamica e alla capacità di mobilitazione dei giovani studenti contro l’aumento dei prezzi dei trasporti. Tuttavia è importante tenere presente che esso ha, come obiettivo a medio e lungo termine, di negoziare l’esistenza di trasporti pubblici gratuiti per tutta la popolazione a carico dello Stato.
E’ proprio là che si pone il limite della sua principale rivendicazione, visto che un trasporto universale e gratuito non può esistere nella società capitalista. Per raggiungere questo obiettivo, la borghesia e il suo Stato dovrebbero aumentare ancora di più il grado di sfruttamento della classe operaia e di altri lavoratori attraverso un aumento delle imposte sui salari. Perciò occorre tener conto che la lotta non deve essere collocata nella prospettiva di una riforma impossibile, ma nell’ottica di costringere lo Stato a revocare i suoi decreti.
Attualmente le possibilità del movimento sembrano superare la semplice rivendicazione contro l’aumento delle tariffe dei trasporti. Delle manifestazioni per la prossima settimana sono già previste in decine di città grandi e medie.
Il movimento deve essere vigile nei confronti della sinistra del capitale, specializzata nel sabotare manifestazioni dirigendole verso vicoli ciechi, come ad esempio chiedendo che le corti di giustizia risolvano i problemi e che i manifestanti tornino a casa.
Perché questo movimento si sviluppi, è necessario creare luoghi per ascoltare e discutere collettivamente i diversi punti di vista sulla lotta. E questo è possibile solo attraverso assemblee generali con la partecipazione di tutti, dove sia garantito indistintamente il diritto di parola ad ogni manifestante. In più, è necessario chiamare i lavoratori, invitarli a delle assemblee e a delle azioni di protesta perché loro e le loro famiglie sono toccati dall’aumento del prezzo dei trasporti.
Il movimento di protesta che si è sviluppato in Brasile è una confutazione eclatante della campagna della borghesia brasiliana, sostenuta d’altronde dalla borghesia mondiale, secondo la quale il Brasile sarebbe un “paese emergente”, sul punto di superare la povertà e di mettere in atto il proprio sviluppo. Questa campagna è stata promossa particolarmente da Lula, che è conosciuto in tutto il mondo per la sua pretesa di aver tirato fuori dalla miseria milioni di brasiliani, mentre in realtà il suo grande risultato per il capitale è stato quello di ripartire delle briciole tra le masse più povere per mantenerle nell’illusione ed accentuare la precarietà del proletariato brasiliano in generale.
Di fronte all’aggravarsi della crisi mondiale e dei suoi attacchi contro le condizioni di vita del proletariato, non c'è altra via che la lotta contro il capitalismo.
Revolução Internacional (Corrente Comunista Internazionale), 16 giugno
All’alba del XXI secolo: perché il proletariato non ha rovesciato il capitalismo?
(...) In questo contesto di sfide per la classe operaia nello sviluppo della sua presa di coscienza sarebbe intervenuto alla fine del 1989 un significativo evento storico, esso stesso manifestazione della decomposizione del capitalismo: il crollo dei regimi stalinisti dell’Europa dell’est, di quei regimi che tutti i settori della borghesia avevano sempre presentato come “socialisti”:
“Gli avvenimenti che attualmente agitano i cosiddetti paesi “socialisti”, la sparizione di fatto del blocco russo, il fallimento patente e definitivo dello stalinismo sul piano economico, politico e ideologico, costituiscono il fatto storico più importante dalla seconda guerra mondiale insieme con il risorgere internazionale del proletariato alla fine degli anni ‘60. Un avvenimento di tale portata si ripercuoterà, e già ha iniziato a farlo, sulla coscienza della classe operaia, e ciò tanto più che esso riguarda un’ideologia e un sistema politico presentati per più di un mezzo secolo come “socialisti” e “operai”. Con lo stalinismo è il simbolo e la punta di diamante della più terribile controrivoluzione della storia che spariscono. Ma ciò non significa che lo sviluppo della coscienza del proletariato mondiale ne risulti facilitato, al contrario. Anche nella sua fine lo stalinismo rende un ultimo servizio alla dominazione capitalista: decomponendosi il suo cadavere continua ad appestare l’atmosfera che il proletariato respira. Per i settori dominanti della borghesia il definitivo crollo dell’ideologia stalinista, i movimenti “democratici”, “liberali” e nazionalisti che sconvolgono i paesi dell’est costituiscono un’occasione per scatenare e intensificare le loro campagne di mistificazione. L’identificazione sistematica tra comunismo e stalinismo, la menzogna mille volte ripetuta e martellata oggi ancora più di prima per cui la rivoluzione proletaria non potrebbe condurre che al fallimento, vanno a trovare con il crollo dello stalinismo, e per tutto un periodo di tempo, un impatto accresciuto nei ranghi della classe operaia. E’ dunque un riflusso momentaneo della coscienza del proletariato, di cui già ora si possono notare le manifestazioni - in particolare con il ritorno in forze del sindacato - che bisogna attendersi. Se gli attacchi incessanti e sempre più brutali che il capitalismo non mancherà di sferrare contro gli operai costringeranno questi a scendere in lotta, in un primo tempo non ne risulterà una maggiore capacità della classe di avanzare nella sua presa di coscienza. In particolare, l’ideologia riformista peserà molto fortemente sulle lotte del prossimo periodo, favorendo grandemente l’azione dei sindacati.”[2]
Questa previsione che abbiamo fatto ad ottobre 1989 è stata completamente verificata in tutti gli anni ‘90. Il declino della coscienza all’interno della classe operaia si è manifestato con una perdita di fiducia nella propria forza che ha causato il calo generale nella combattività di cui ancor oggi possiamo vedere gli effetti.
Nel 1989 abbiamo definito le condizioni per una uscita della classe operaia da questa condizione di perdita di acquisizioni:
“Tenuto conto dell’importanza storica dei fatti che lo determinano, l’attuale riflusso del proletariato, benché non rimetta in causa il corso storico, la prospettiva generale agli scontri fra le classi, si presenta come ben più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia. Ciò detto, noi non ne possiamo prevedere né l’ampiezza reale, né la durata. In particolare, il ritmo di sprofondamento del capitalismo occidentale - di cui si può percepire attualmente un’accelerazione con la prospettiva di una nuova recessione aperta - va a costituire un fattore determinante del momento in cui il proletariato potrà riprendere la sua marcia verso la coscienza rivoluzionaria. Rovesciando le illusioni sul “raddrizzamento” dell’economia mondiale, mettendo a nudo la menzogna che presenta il capitalismo “liberale” come una soluzione al fallimento del preteso “socialismo”, svelando il fallimento storico dell’insieme del modo di produzione capitalista, e non solamente delle sue incarnazioni staliniste, l’intensificazione della crisi capitalista spingerà il proletariato a volgersi di nuovo verso la prospettiva di un’altra società, a iscrivere in maniera crescente le sue lotte in questa prospettiva.”[3]
(…)
Ciò detto, c'è un altro elemento più generale per spiegare le difficoltà della politicizzazione attuale del proletariato, una politicizzazione che gli consentirebbe di comprendere, anche in modo embrionario, le sfide delle lotte che porta avanti in modo da fertilizzarle e amplificarle:
Per comprendere tutti i dati nel periodo attuale e futuro, dobbiamo anche tener conto delle caratteristiche del proletariato che oggi conduce la lotta:
per il fatto che solo le generazioni che non hanno subito la sconfitta sono state in grado di trovare la via della lotta di classe, esiste tra queste generazioni e quelle che hanno condotte le ultime battaglie decisive negli anni ‘20, un fossato enorme che oggi il proletariato paga con un prezzo elevato:
Queste caratteristiche spiegano in particolare il carattere difficile del corso attuale delle lotte operaie. Esse permettono di capire i momenti di mancanza di fiducia in se stessi di un proletariato che non ha coscienza della forza che può costituire di fronte alla borghesia. Esse mostrano anche la lunghezza della strada che attende il proletariato, che non potrà fare la rivoluzione se non integrando consapevolmente le esperienze del passato e costruendo il suo partito di classe. (...)
Fabienne
Come spiegare un tale paradosso? La classe dominante ci dà le sue risposte. Questo fenomeno mostruoso sarebbe legato ad un "esaurimento delle risorse[2] ed alla crescita demografica"[3].
In realtà, la penuria cronica che si diffonde come la peste è solamente il prodotto del sistema capitalista, della sua legge del profitto. Ed è questa legge che porta ad un'assurdità nei riguardi dello stesso mercato e degli uomini, la sovrapproduzione di merci. Questa ultima induce un fenomeno totalmente irrazionale e scandaloso, che la borghesia passa largamente sotto silenzio: lo spreco.
Un articolo de Le Monde riporta un recente studio rivelando che "il 30- 40% dei 4 miliardi di tonnellate di alimenti prodotti ogni anno sul pianeta non finisce mai in un piatto "[4]. Poiché lo studio non può mettere in evidenza le cause profonde dello spreco senza rimettere in causa il capitalismo, sottolineando che in Europa e negli Stati Uniti gli stessi consumatori gettano il cibo nella pattumiera esso resta allo stato di superficie, per cui tali comportamenti sono legati semplicemente al condizionamento dei prodotti ed al marketing (con le sue "promozioni 'due al prezzo di uno' "). Lo studio non osa rivelare che lo spreco è generato soprattutto dalla sovrapproduzione e dalla ricerca del profitto a breve termine, che induce gli industriali a moltiplicare "infrastrutture inadatte e luoghi di stoccaggio poco redditizi con "le più importanti perdite (...) a valle della catena di produzione". Questo studio dimentica di dire che una merce sempre più di scarsa qualità, pletorica, che non può essere venduta per mancanza di cliente, viene stipata volontariamente in questi luoghi trascurati per ridurne i costi! Per economizzare e fare profitto, i capitalisti speculano e giungono spesso a distruggere deliberatamente certe merci, principalmente derrate alimentari. Per gli stessi motivi, "fino al 30% delle culture di legumi nel Regno Unito non sono mai raccolte!" Le produzioni sono dunque spesso distrutte per non fare cadere il costo delle merci. Per esempio, certi produttori che non possono vendere la loro frutta o verdura, anche in perdita, le spruzzano di gasolio per mantenere artificialmente alti i costi.
Nei paesi detti "in via di sviluppo", esiste lo stesso fenomeno, amplificato ed aggravato anche fin dall'inizio della catena di produzione, "tra il campo ed i mercati, a causa di trasporti locali inadeguati", dando luogo a perdite colossali. Le "deficienze" possono essere tali che "nel Sud-est asiatico (…) le perdite di riso oscillano tra il 37 e l'80% della produzione totale in funzione del livello di sviluppo del paese, la Cina per esempio si trova al 45% ed il Vietnam all' 80%".
Il rapporto sottolinea anche una cupa realtà:"Questa perdita netta non si limita agli scarti generati dagli alimenti non consumati. Lo scempio è visibile a tutti i livelli della catena di produzione alimentare, nell'utilizzazione delle terre, dell'acqua, dell'energia. Circa 550 miliardi di metri cubi di acqua sono così persi per fare aumentare raccolti che non raggiungeranno mai i consumatori".
Secondo gli ingegneri di questo studio, un semplice sfruttamento razionale delle risorse esistenti permetterebbe "di offrire dal 60 al 100% di cibo in più senza aumentare la produzione ma liberando anche del terreno e diminuendo il consumo d'energia". L'affermiamo di netto qui: questa prospettiva di "buon senso" è impossibile da realizzare nel sistema capitalista! Il problema non consiste in una mancanza di competenze o di volontà: risiede innanzitutto nelle contraddizioni di un sistema economico che non produce per soddisfare i bisogni umani, di cui non gliene importa un fico secco, ma per il mercato, per realizzare un profitto. Da cui conseguono le peggiori assurdità, l'anarchia e l'irrazionalità più totale.
Tra migliaia di esempi, prendiamo uno dei più scandalosi: nel momento in cui i bambini dell’Africa sub-sahariana urlavano per la fame, nello stesso momento in cui si imponevano quote latte e abbandoni di terre in Europa, delle associazioni caritatevoli e delle ONG chiedevano fondi a colpi di campagne pubblicitarie costose e colpevolizzanti, per finanziare degli stoccaggi di latte in polvere destinati a questi bambini affamati, ai quali regolarmente mancava … l’acqua! Se il fatto non fosse stato così triste e tragico, avrebbe potuto diventare una battuta di basso livello.
Il capitalismo è un modo di produzione obsoleto diventato una forza distruttrice addestrata contro la civiltà. Genera ed attiva ogni pulsione mortale. Le sue contraddizioni, di fronte alle crescenti tragedie che genera, inaspriscono i più irrazionali ed antisociali comportamenti. La carestia e lo spreco, la povertà e la disoccupazione, come le guerre, sono i suoi naturali prodotti. Ma nel suo seno, coltiva anche la sua negazione ed il proprio becchino, la classe operaia, quella degli sfruttati rivolti verso il futuro. Essi solo potranno mettere fine a questo sistema putrido. Più che mai, l'alternativa resta "socialismo o barbarie!"
WH (1 gennaio)
[1] Ciò significa un’alimentazione giornaliera inferiore alla quantità necessaria per soddisfare i bisogni dell'organismo di una persona (2500 calorie giornaliere).
[2] Ogni menzogna ha un fondo di verità. In sé, non c’è una mancanza di risorse. E’ il sistema capitalista, invece, a generare delle situazioni che conducono alla distruzione massiccia di quest’ultime.
[3] Saremo teoricamente intorno a 9 miliardi nel 2050.
[4] Rapporto Globale Food Waste Not, Want not, pubblicato giovedì 10 gennaio 2013 dall'Istituzione of Mechanical Engineers (IME), organizzazione britannica degli ingegneri in ingegneria meccanica. (Fonte: https://écologie.blog.lemonde.fr)
Pubblichiamo qui di seguito un nostro contributo al dibattito che si è sviluppato sul nostro forum[1] in lingua spagnola a proposito dei criteri che dovrebbero essere alla base dell’economia in una futura società comunista.
Il calcolo economico nel comunismo
Il compagno Graccus ha postato sul nostro forum un commento che contiene un link ad un sito dove viene posta la questione del calcolo economico nel comunismo:
https://icorsoc.blogspot.com.es/2012/07/debate-sobre-el-calculo-economico-en-el.html [10]
Su questo sito c’è un punto di partenza giusto: “Innanzitutto dobbiamo fare una serie di considerazioni: la confusione e la mistificazione storica intorno al termine ‘socialismo’. Evidentemente non consideriamo tali le società di Capitalismo di Stato (Collettivismo di Stato secondo altri, in ogni caso società di sfruttamento) che a questo si rivendicavano (URSS, Paesi dell’Est, Cina...)”.
Qualsiasi discussione sulla società futura deve avere come premessa che in URSS, Cina, Cuba o Corea del Nord, non c’è mai stato comunismo né nulla che gli assomigliasse, ciò che impera in questi paesi - in URSS fino al suo crollo - è una forma particolare della tendenza generale verso il Capitalismo di Stato.
Il compagno sottolinea che “la realizzazione della società socialista-comunista presuppone il superamento dello sfruttamento e della legge del valore; vale a dire del sistema del lavoro salariato, con la conseguente abolizione non solo del mercato ma anche del denaro e l’acquisizione dei beni in funzione del loro valore d’uso”. E anche su questo siamo d’accordo. La società comunista è una società senza Stato, senza sfruttamento e senza confini, è basato sulla comunità umana globale, cioè l’umanità unificata che ha abolito la divisione in classi sociali. La produzione è concepita a scala mondiale e non secondo le leggi della concorrenza tra nazioni o tra aziende; il suo obiettivo è la piena soddisfazione dei bisogni umani e il pieno sviluppo naturale. Cioè è orientata alla produzione di valori d’uso e non di valori di scambio (merci).
Il compagno sottolinea che “l’economia socialista pienamente sviluppata (non si tratta di un ritorno al comunismo primitivo) dove partire dal livello di sviluppo delle forze produttive apportato dal capitalismo. Quindi, una ‘associazione di produttori liberi’ non può evitare calcoli relativi a problemi quali le necessità, le forze produttive disponibili, la corretta assegnazione delle risorse”. Questo è globalmente vero, come anche il fatto che “l’economia socialista non può prescindere dalla pianificazione e il calcolo, superando anche ogni sfruttamento e ogni legame burocratico. E se si assume che il socialismo può essere solo una società instaurata a livello mondiale, la complessità della rete di produzione aumenta”.
Il compagno interviene in questo dibattito sul calcolo economico nel socialismo con il seguente obiettivo: “Questo dibattito è di assoluta necessità come punto di partenza per qualsiasi movimento che pretenda di trasformare veramente la società (ovviamente al meglio, poiché l’alternativa contraria purtroppo non si può escludere). Perché senza un costante rinnovamento teorico e un apprendimento della realtà oggettiva non è possibile una teoria rivoluzionaria e senza teoria rivoluzionaria non c’è rivoluzione. È questo enorme deficit teorico che attualmente permette alle classi dominanti di applicare misure brutali nonostante le mobilitazioni di massa che, senza volerne escluderne i meriti (15-M, lotte in Grecia, Occupy Wall Street) non sono sufficienti quanto meno a far retrocedere di poco la determinazione dei ‘pesci grossi’”.
Siamo pienamente d’accordo con il compagno sulla necessità di dotarsi di una solida base programmatica e della cultura del dibattito, condividiamo il suo interesse per la teoria e gli sviluppi scientifici e siamo d’accordo che entrambi sono di vitale importanza per un avanzamento reale delle lotte proletarie verso una prospettiva rivoluzionaria.
Il compagno propone di iniziare un primo approccio al dibattito a partire dal seguente testo riportato da Wikipedia:
https://es.wikipedia.org/wiki/Debate_sobre_el_c%C3%A1lculo_econ%C3%B3mico_en_el_socialismo [11]
Purtroppo questo testo non apporta la benché minima chiarezza, anzi proprio il contrario: la sua tesi e i suoi calcoli si basano sull’identificazione tra il capitalismo di Stato e il “socialismo”. Come illustrazione, vediamone due passaggi:
• il testo inizia così: “La funzione del calcolo economico in un’economia nazionale che coinvolge un numero molto elevato di individui è stata interpretata in modi diversi da economisti pro-capitalismo di diverso tipo ed economisti socialisti di diverso tipo”. L’approccio nazionale è proprio del capitalismo e non ha nulla a che fare con il comunismo che o sarà mondiale o non sarà.
• Il testo cita anche tre modelli possibili di dibattito sul calcolo economico: “capitalismo di mercato”, “socialismo pianificato” e “socialismo di mercato”. In altri termini, si tratta di un calcolo economico che si situa completamente sul terreno del funzionamento dell’economia capitalistica, seppure con etichette diverse: quella degli USA sarebbe un’economia “liberale”, l’ex-URSS sarebbe “economia pianificata”, mentre la Cina “socialismo di mercato”. Vuota retorica per nascondere che sono tutte capitalistiche!
Il testo di Wikipedia fa riferimento a Oskar Lange, un economista stalinista, quindi è più che giustificata la risposta che un altro compagno, Comunero, dà sempre sul nostro forum (https://es.internationalism.org/node/3501#comment-1828 [12]):
“Vorrei fare una puntualizzazione sull’articolo a cui si fa riferimento: quando Lange parla di socialismo si sta riferendo al capitalismo di Stato (basta vedere il fatto che prende come esempio della superiorità del socialismo rispetto al capitalismo le “conquiste” dell’URSS degli anni trenta), lo stesso dà ad intendere in ogni descrizione che fa del suo ‘socialismo’ e quando cita Kautsky parlando dell’impossibilità di raggiungere la seconda fase del comunismo.
Lange utilizza un tipo di analisi che non tiene conto del processo di produzione e respinge espressamente l’analisi marxista, come ad esempio l’esistenza della legge del valore.
In definitiva credo che la verbosità di questo tipo di “economisti” dovrebbe essere lasciata da parte in una discussione di questo genere, soprattutto quando questi “economisti” non riconoscono l’esistenza delle classi né le sue implicazioni politiche”.
Il dibattito della Sinistra comunista negli anni trenta
A nostro parere il dibattito non dovrebbe essere incentrato sul terreno del calcolo economico della riproduzione del capitalismo (senza entrare nel merito della validità scientifica, in molti casi discutibile, delle teorie relative).
Nella società comunista sarà necessario un calcolo economico? È evidente che l’umanità ricorrerà a metodi scientifici di pianificazione, organizzazione e distribuzione della produzione. Quali saranno questi metodi? Su quali unità di misura ci si baserà?
Suggeriamo di analizzare criticamente il contributo dei Comunisti dei Consigli Olandesi, in particolare del GIK - Gruppo di Comunisti Internazionali. Questo gruppo nel 1930 scrisse il testo Principi fondamentali della produzione e della distribuzione comunista, conosciuto come “Grund-prinzipien”, dove si difende l’idea che la misura del tempo di lavoro costituisce la base per il calcolo della produzione e di un’equa distribuzione dei beni di consumo.
Questa posizione suscitò un dibattito al quale parteciparono Bilan - organo della Sinistra comunista italiana[2] - e Pannekoek[3].
Lo studio di questo dibattito è raccolto nel nostro libro La Sinistra olandese: contributo ad una storia del movimento rivoluzionario. Questo libro è disponibile al momento solo in inglese e francese, per questo ne riassumiamo qui i tratti essenziali esponendo in successione la posizione del GIK, di Pannekoek e la nostra[4]
La posizione del GIK
Il GIK parte da una visione economicistica: “Considerando che la lotta di classe del proletariato è essenzialmente di natura economica (...) Il dominio del proletariato sulle forze produttive nella rivoluzione è la questione primaria. La dittatura del proletariato, attraverso il ‘consiliarismo’, è una dittatura economica prima ancora che politica”[5].
Secondo i “Grund-prinzipien” la causa della sconfitta della rivoluzione in Russia nel 1917 è stata la negligenza o la sottovalutazione del terreno economico: “La Russia ha cercato per quanto riguarda l’industria di edificare la vita economica secondo i principi comunisti ed in questo ha fallito completamente”[6].
Le lezioni che invece trae la Sinistra comunista dalla Rivoluzione russa non vengono considerate valide dal GIK. La più importante, cioè il fallimento dell’estensione della rivoluzione a livello mondiale, viene scartata in un sol colpo: “Né l’assenza di rivoluzione mondiale né l’inadeguatezza della singola azienda agricola rurale alla gestione statale possono essere considerate responsabili del fallimento della rivoluzione russa nel dominio economico”[7]. La stessa sottovalutazione si manifesta rispetto al ruolo negativo dello Stato che nasce dopo la rivoluzione: “Sembra che non ci sia problema con l’esistenza di uno Stato (o semi-Stato) nel periodo di transizione verso il comunismo. La sua stessa esistenza, la sua caratterizzazione (Stato “proletariato” o “male” che eredita il proletariato) non si pone mai. Questi problemi sono praticamente scomparsi”[8].
Per il GIK tutto si riduce al controllo dell’economia da parte del proletariato: “Si tratta soprattutto del fatto che i produttori controllino e distribuiscano il prodotto sociale in modo egualitario ad ognuno e mediante un’autorità esercitata dal basso (...) La soluzione secondo il GIK risiede nel calcolo del costo di produzione misurato in tempo di lavoro delle imprese in relazione alla quantità di beni sociali creati. Certamente, secondo la produttività delle rispettive imprese, per lo stesso prodotto la quantità di lavoro necessario per la sua produzione non è uguale. Ma per risolvere il problema basta calcolare il tempo di lavoro sociale medio di produzione per ogni prodotto. La quantità di lavoro delle imprese più produttive che superano la media sociale verrebbe versata a un Fondo Comune, questo si incaricherebbe di collocarla, al livello medio, alle imprese meno produttive. Questo servirebbe, contemporaneamente, a introdurre il progresso tecnologico necessario per lo sviluppo della produttività delle aziende di un determinato ramo, in modo da ridurre il tempo medio di produzione”[9].
Secondo il GIK questo sistema porrebbe fine al predominio della legge del valore sull’economia: “I prodotti non circolerebbero secondo il loro valore di scambio, soggetti al modello universale del denaro. D’altra parte, con la costituzione di un centro di contabilità e statistica “neutrale”, non separato dai Consigli, ma indipendente da qualsiasi gruppo di persone o qualsiasi istanza di carattere centrale, la nuova società sfuggirebbe al pericolo della formazione di una burocrazia parassitaria che si appropria di una parte del prodotto sociale”[10].
La risposta di Pannekoek
Pannekoek, legato come il GIK al Comunismo dei Consigli, condivide con questo una stessa visione economicistica, perché per lui “La tradizione significa dominio dell’economia da parte della politica. Quello che i lavoratori devono portare avanti è il dominio sulla politica da parte dell’economia”[11]. Tuttavia, non condivide completamente le tesi dei “Grund-prinzipien” e infatti si rifiutò di scrivere una prefazione alla pubblicazione di questo libro. Anni dopo, nel 1946, nella sua opera I Consigli Operai cerca di definire la propria posizione.
Questa condivide con il GIK la tendenza a vedere tutto ridotto all’aspetto economico: “Nel nuovo sistema di produzione, il dato fondamentale è il numero di ore di lavoro, sia se espresso inizialmente in unità monetaria o nella sua forma reale”, per trarre la conclusione che “la contabilità generale, che riguarda e abbraccia le amministrazioni delle diverse imprese le riunirà tutte in una tabella del processo economico della società. L’organizzazione sociale della produzione ha come base una buona gestione mediante statistiche e dati contabili. Il processo di produzione è sotto gli occhi di tutti sotto forma di un’immagine numerica semplice e intellegibile”[12].
Come il GIK, Pannekoek ignora il difficile problema della persistenza dello Stato dopo la rivoluzione, lasciando intendere che il tutto si risolverebbe con un decentramento del potere statale in una molteplicità di poteri costituiti da “comunità operaie di fabbrica”: “Tutto il potere appartiene ai lavoratori stessi. Laddove sia necessario l’esercizio del potere - contro disordini o attacchi all’ordine esistente – il potere emana dalle comunità operaie nelle fabbriche e rimane sotto il loro controllo”[13].
Ora, rispetto alla visione del GIK, la posizione di Pannekoek è molto più realistica. Per il GIK la presa del potere del proletariato in un paese permette “di mettersi a costruire il comunismo” immediatamente, dando per scontato che è già scomparsa l’influenza dei rapporti capitalistici di produzione sul “territorio liberato”. Invece per Pannekoek “All’inizio del periodo di transizione, quando si tratta di risollevare un’economia in rovina, il problema essenziale è mettere in piedi l’apparato produttivo e garantire l’esistenza immediata della popolazione. È molto probabile che in queste condizioni si continui a ripartire in modo uniforme i prodotti alimentari, come si fa in tempo di guerra o carestia. Ma è più probabile che in questa fase di ricostruzione, dove tutte le forze disponibili devono essere impiegate a fondo e dove i nuovi principi morali del lavoro in comune prendono forma in modo graduale, il diritto al consumo è vincolato all’adempimento di un lavoro. Il vecchio detto popolare che chi non lavora non mangia esprime un sentimento istintivo di giustizia”[14].
Quello che Pannekoek ricorda è che il comunismo non potrà sorgere immediatamente dopo la presa del potere del proletariato in un paese. Sostenere un’idea simile porta inevitabilmente al concetto stalinista del “socialismo in un paese”, il che, qualsiasi sia l’etichetta che si dà la società che si trasforma, conduce necessariamente al ritorno all’ovile del capitalismo. Ma è necessario andare oltre: dopo il rovesciamento del potere borghese in tutti i paesi si apre un periodo di transizione dove, per porre le basi del comunismo, il proletariato deve condurre una dura lotta contro i resti della legge del valore capitalista, contro i residui della divisione in classi sociali e contro la conseguenza di tutto il passato che è la persistenza dello Stato.
Su questa linea, Pannekoek critica anche la pretesa del GIK che il pagare a ciascun lavoratore secondo le sue ore di lavoro costituisca un’equa distribuzione del consumo. Come diciamo nel nostro libro, Pannekoek “Nel rifiutare un “uguale diritto” nella distribuzione del consumo, è più vicino alla posizione di Marx nella sua Critica del programma di Ghota. Questa mostrava, infatti, che una distribuzione uguale basata sull’orario di lavoro portava necessariamente a nuove disuguaglianze, perché i produttori differiscono uno dall’altro sia per capacità di lavoro che per condizioni fisiche e famigliari”[15].
La nostra posizione
La nostra posizione[16] cerca di seguire le linee di analisi tracciate da Bilan. La riflessione su come potrà essere la futura società comunista ha due punti di origine:
• la comprensione profonda delle contraddizioni che portano al fallimento del capitalismo, così come la natura e la dinamica della classe rivoluzionaria, il proletariato;
• l’analisi critica delle esperienze storiche vissute dal proletariato nei suoi tentativi rivoluzionari: la Comune di Parigi, la Rivoluzione russa e l’ondata rivoluzionaria mondiale del 1917-23.
Da questo punto di partenza, il nostro libro sottolinea le nostre divergenze con il GIK. In primo luogo, “Il GIK pensa che sia immediatamente possibile, dopo la presa del potere da parte dei Consigli operai in un dato paese, la costruzione del comunismo nella sua forma più evoluta. Esso parte da una situazione ideale, dove il proletariato vittorioso si impadronisce dell’apparato produttivo di paesi altamente sviluppati che non hanno subito le devastazioni di una guerra civile”[17].
Ignorare la realtà significa condannarsi ad essere prigioniera di questa. Il tentativo rivoluzionario mondiale del 1917-23, si scontrò, soprattutto in Russia, con le conseguenze terribili della Prima guerra mondiale e quasi senza tregua con gli effetti ancora più traumatici di una brutale guerra civile (1918-21) guidata da Gran Bretagna, USA, Francia e Giappone. Nella nostra epoca, stiamo verificando come interi continenti, vedi l’Africa, siano stati ormai abbandonati nell’abisso dalla crisi capitalista, crisi che ora sta spazzando via come uno tsunami le economie considerate “privilegiate”. Per non parlare delle guerre imperialiste, dei disastri ambientali e della barbarie morale dilagante che, come un altro tsunami ancora più pericoloso per i suoi effetti profondi, riguarda tutta l’umanità! È serio pensare che in tali condizioni si possa impostare la costruzione immediata del comunismo? Peggio ancora sarebbe pretendere di isolarsi dal mondo, rinchiudersi nel paese “conquistato” e mettersi a costruire solo qui, il “comunismo”.
In secondo luogo, “Il GIK dà una forma automatica e quasi naturale all’edificazione della società comunista. Questa non sarebbe il risultato di un lungo processo contraddittorio di lotta di classe per il dominio del semi-Stato contro le forze conservatrici, ma il frutto di uno sviluppo lineare e armonioso, praticamente matematico”[18]. Nella transizione dal capitalismo al comunismo, la lotta di classe continua: contro i resti della borghesia sconfitta e soprattutto contro il semi-Stato. Quest’ultimo infatti è un’arma a doppio taglio: mentre è essenziale per eliminare i resti della borghesia sconfitta e integrare gli strati sociali non sfruttatori, è contemporaneamente il luogo di concentramento di tutte le forze che vogliono mantenere lo status quo, che tentano di espropriare il proletariato della sua autorganizzazione e così chiudere il percorso verso il comunismo.
Ma nello specifico, analizzando la tesi del calcolo del tempo di lavoro come misura di organizzazione della produzione e della distribuzione, si vede che questa presenta un difetto scientifico importante: questo è un sistema che “reintroduce la legge del valore, dando un valore contabile e non sociale al tempo di lavoro necessario per la produzione. Il GIK si contrappone a Marx per il quale il metro di valutazione nella società comunista non è il tempo di lavoro ma il tempo disponibile, quello del tempo libero disponibile”[19]. Attraverso una lunga lotta, nel periodo di transizione che segue alla distruzione dello Stato capitalista in tutti i paesi, si vanno costruendo le basi per recuperare quello che il capitalismo portava in germe, ma che dopo un secolo di decadenza gli è impossibile sviluppare: la società dell’abbondanza, uno dei fondamenti del comunismo. Nel comunismo, “la vera ricchezza sarà la piena potenza produttiva di tutti gli individui, il metro di valutazione non sarà più il tempo di lavoro, ma il tempo a disposizione. Adottare il tempo di lavoro come misura della ricchezza vuol dire basare la società sulla povertà; è volere che il tempo libero non esista più che in e per opposizione al tempo di lavoro; è ridurre tutto il tempo esclusivamente al tempo di lavoro”[20].
Da dove iniziare?
Come abbiamo detto all’inizio è molto valido l’interesse a voler capire come sarà la società comunista per la quale lottiamo. Ebbene, dall’analisi del dibattito circa i Grund-prinzipien si evince la chiara lezione che il punto di partenza devono essere le questioni politiche: estensione mondiale della rivoluzione, mantenere e sviluppare l’autorganizzazione del proletariato, rafforzare l’iniziativa e l’attività autonoma delle masse operaie, lotta feroce contro il semi-Stato fino alla sua completa estinzione.
Questa preminenza della politica include necessariamente delle priorità vitali sul terreno economico: la sistematica riduzione dell’orario di lavoro, il miglioramento permanente delle condizioni di lavoro e di vita (alimentazione, salute, cultura, istruzione, sicurezza e igiene sul lavoro, ecc.), in modo che il proletariato possa godere della migliore situazione materiale possibile per sviluppare la sua autorganizzazione, la sua autonomia politica, la sua coscienza, la sua capacità di avanzare verso il comunismo.
“Di tutti gli strumenti di produzione, la maggiore forza produttiva è la stessa classe rivoluzionaria” dice Marx ne La miseria della filosofia[21]. L’autorganizzazione, lo sviluppo della coscienza, la solidarietà e la fiducia reciproca in continuo sviluppo, l’iniziativa e la creatività delle masse lavoratrici, la capacità di integrare con pazienza e spirito costruttivo gli strati sociali non sfruttatori, tutto questo è il motore della marcia verso il comunismo. Lo slogan “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, formulato dalla Prima Internazionale (1864-76) non è retorico, esprime l’essenza della rivoluzione comunista. Ma questa capacità della classe operaia necessita del rafforzamento, seppur lento e graduale, delle sue condizioni di vita. Non si può pensare e agire insieme se i lavoratori e le loro famiglie sono soggetti a un lavoro estenuante, alla necessità di cercare disperatamente lavoro, cibo e quello che serve per vivere!
L’esperienza del 1918-20 in Russia è molto istruttiva a questo proposito: le fabbriche chiudevano in massa, il razionamento era feroce, lo sfruttamento dei lavoratori aumentò, la classe operaia fu sottomessa alla militarizzazione e al taylorismo... Quello che fu chiamato, creando ancora più confusione, “comunismo di guerra” contribuì fatalmente all’indebolimento politico e sociale del proletariato e alla morte dei Soviet dei lavoratori[22].
Quando Pannekoek parla del primato dell’economia sulla politica applica alla rivoluzione proletaria lo schema seguito dalle rivoluzioni borghesi. Nel lungo periodo che va dalla metà del XV secolo fino alla fine del XVIII secolo, la borghesia sviluppò rispetto al feudalesimo un potere economico enorme, era la classe dominante della società in molti paesi europei dal punto di vista economico. Da questa posizione poté realizzare lo “scacco matto” al potere feudale attraverso rivoluzioni nazionali in paesi come la Gran Bretagna, nel 1640, o la Francia, nel 1789.
Oltre ad essere mondiale, e mai nazionale, la rivoluzione proletaria segue lo schema inverso: lotta politica per porre le basi di una società dove non ci sarà la produzione mercantile, il lavoro salariato e lo sfruttamento. “Solo in un contesto in cui non esistono più classi né antagonismo di classe, le evoluzioni sociali smetteranno di essere rivoluzioni politiche”, allora “la classe operaia sostituirà, nel corso del suo sviluppo, la vecchia società civile con un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo; non ci sarà un potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente la concretizzazione ufficiale dell’antagonismo nella società civile”[23].
[2] Bilan, fondato nel 1933, fu l’organo della Sinistra comunista italiana. Vedi il nostro libro La Sinistra comunista italiana 1927-1952 che può essere richiesto al nostro indirizzo mail o postale.
[3] Antón Pannekoek (1873-1960) è stato un importante militante proletariato che partecipò attivamente al movimento della Sinistra comunista internazionale.
[4] Il libro può essere acquistato sul nostro sito.
[5] Edizione francese del libro La Sinistra olandese: contributo a una storia del movimento rivoluzionario, capitolo VII, paragrafo I, pagina 182.
[6] Idem, capitolo VII; paragrafo 4, pagina 195.
[7] Idem, pagina 196.
[8] Idem, pagina 195.
[9] Idem, pagina 196.
[10] Idem.
[11] Idem, pagina 194.
[12] Idem, pagina 198.
[13] Idem. Notiamo che se ci sono “attacchi contro l’ordine costituito” è perché persistono dei conflitti di classe che rendono necessario lo Stato proprio per reprimere i tentativi di restaurare il capitalismo.
[14] Idem pagina 199.
[15] Idem.
[16] Per maggiori elementi sui problemi economici del periodo di transizione dal capitalismo al comunismo vedi i numeri 127, 130, 132 e 134 della nostra Rivista Internazionale, in inglese, francese e spagnolo sul nostro sito.
[17] La Sinistra olandese, op. cit., pagina 196.
[18] Idem, pagina 197.
[19] Idem.
[20] Marx, Grundisse, tomo II.
[21] Capitolo II: La metafisica dell’economia politica.
[22] Vedi a questo proposito la nostra critica al FOR (Fomento Obrero Revolucionario) sul comunismo di guerra e le collettività del 1936 in Spagna, entrambe espressioni, secondo questo gruppo, di “relazioni non-capitaliste”: “Le confusioni del FOR sull’Ottobre 1917 e la Spagna 1936”, Rivista Internazionale n.25, disponibile in inglese e francese sul nostro sito.
[23] Marx, op. cit., capitolo II: La metafisica dell’economia politica
“Intensificazione militare in Corea del Nord”, “La Corea del Nord annuncia che è in stato di guerra con il Sud”, “La Corea del Nord minaccia di colpire gli Stati Uniti”, “Minaccia di guerra nucleare”… i titoli dei giornali ci hanno fatto sudare freddo. Ma contrariamente alla propaganda che ci è stata servita mattina, pomeriggio e sera, questa palpabile tensione militare non è il frutto dei soli cervelli malati dei dirigenti nord-coreani. Tutta l’Asia del Sud-est è presa in questa spirale. Ad esempio, negli ultimi mesi, il Giappone si è scontrato continuamente con la Cina per il controllo delle isole Senkaku/Diyao e con la Corea del Sud per quello dell’isola di Takeshima/Dokdo, a colpi di dichiarazioni bellicose e di campagne nazionaliste. Del resto, per comprendere realmente ciò che avviene oggi in Corea, è imperativo studiare la storia moderna, molto densa, dei conflitti che hanno devastato l’Asia.
Le radici del conflitto
Durante la Prima Guerra mondiale, l’Asia orientale è stata relativamente risparmiata. Ma durante la Seconda, la deflagrazione è stata più terribile: probabilmente più di 20 milioni di morti![1] E la capitolazione del Giappone, il 2 settembre 1945, se ha significato la fine della Seconda Guerra mondiale nel Pacifico, non ha per niente aperto un periodo di “pace”. La prima guerra ne ha solo preparato un’altra: la nuova sarà chiamata “Fredda”. Dal 1945, mentre le rovine fumavano ancora, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti entrano in conflitto per il controllo dell’Asia. Questa è la vera causa dello sganciamento delle prime bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki: dal momento che il Giappone è già in ginocchio (Tokio è stata schiacciata sotto un tappeto di bombe incendiarie durante l’inverno 1944/1945), gli Stati Uniti vogliono dimostrare tutta la loro potenza per bloccare l’avanzata del loro nuovo nemico numero uno, l’URSS. Questo stesso scontro imperversa anche in Cina. La Russia sostiene l’esercito Rosso di Mao, gli Stati Uniti le truppe di Chiang Kai Shek. La Cina è così il primo paese ad essere diviso in un territorio pro-russo (La Repubblica popolare cinese) ed uno pro-americano (Taiwan). Ancora oggi, queste due nazioni si puntano reciprocamente contro un terrificante arsenale militare.
La storia della Corea si inscrive pienamente in questa opposizione frontale tra il blocco dell’Est e quello dell’Ovest. Nel 1945, dopo la sconfitta degli occupanti giapponesi, mentre le truppe russe si preparavano ad occupare tutta la penisola coreana, gli Stati Uniti costringono la Russia ad accettare un’occupazione congiunta della Corea. La Corea fu così divisa lungo il 38° parallelo. La guerra di Corea del 1950-1953 è stata uno dei primi e dei più cruenti conflitti della Guerra Fredda (tre milioni di morti, Seul e Pyongyang rase al suolo parecchie volte). Il paese è da allora rimasto diviso e gli eserciti non hanno mai smesso lo stato di allerta.
L’escalation attuale si inscrive in questa continuità. Le sue radici affondano nelle suddivisioni imperialiste, la frammentazione del mondo in nazioni impegnate in lotte a morte per la loro sopravvivenza. La Corea dunque non è affatto un’eccezione. L’insieme dell'Europa è stata divisa in due blocchi dopo il 1945 (la Germania è rimasta divisa fino al 1989); il subcontinente indiano è stato diviso tra Pakistan, Bangladesh ed India; è stato diviso anche il Vietnam; nel 1990, la Jugoslavia è stata lacerata da numerose guerre di secessione ed oggi si ritrova frammentata in Serbia, Bosnia, Croazia, Slovenia, Montenegro e Macedonia; i territori dell’ex-impero ottomano in Medio Oriente sono stati spezzettati in numerose piccole nazioni costantemente in guerra, con, in più, la fondazione d’Israele al centro di questo scenario che ha creato un’altra zona di guerra permanente… Tutto questo mostra che la formazione delle nuove nazioni non rappresenta più un progresso per l’umanità ma genera solo morte e desolazione.
La scacchiera imperialistica attuale
La Cina
Il regime nord-coreano è stato sostenuto dalla Cina fin dai suoi primi giorni di esistenza perché questa vi ha visto la possibilità di costituire una zona “tampone” tra sé stessa ed il Giappone. Ancora oggi, dietro la Corea del Nord, troviamo il gigante cinese. La Cina sfrutta l’attitudine aggressiva del regime di Pyongyang: le forze armate dei suoi avversari (Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti) devono concentrarsi sulla bellicosa Corea del Nord e sono quindi costretti ad allentare un po’ la pressione sulla Cina. E l’idea di una riunificazione delle Coree del Nord e del Sud (sotto il dominio sud-coreano) e la prospettiva di una base americana presso la frontiera cinese non possono che rafforzare la sua determinazione. Ma una sconfitta del regime nord-coreano in uno scontro militare con gli Stati Uniti rappresenterebbe un indebolimento significativo della Cina. Essa deve dunque tentare di “frenare” la Corea del Nord, pur lasciandole le truppe americane mobilitate contro di lei. Si tratta di un gioco pericoloso, dall’equilibrio instabile.
La Russia
In quanto alla Russia, questa, come in molte altre zone di conflitto dal 1989, si ritrova in una posizione contraddittoria. Da un lato, è stata una rivale della Cina dagli anni 1960 (dopo averla sostenuta all’inizio della Guerra Fredda), ma dall’ascesa della Cina come “potenza emergente” durante l’ultimo decennio, la Russia ha preso le parti della Cina contro gli Stati Uniti pur volendo limitarne il potere. Rispetto alla Corea del Nord, la Russia non vuole che gli Stati Uniti aumentino la loro presenza.
Gli Stati Uniti
Gli Stati Uniti non sono stati mai d’accordo a lasciare cadere la Corea nelle mani della Cina e della Russia. Nella situazione presente, sono di nuovo i difensori inflessibili della Corea del Sud e del Giappone. Certamente, il loro obiettivo maggiore è frenare la Cina. Fino ad un certo punto, le minacce militari nord-coreane sono una giustificazione gradita agli Stati Uniti per aumentare il loro arsenale di guerra nel Pacifico (hanno già spostato più armi in Guam, in Alaska ed in Corea). Naturalmente, queste armi possono essere utilizzate contro la Corea del Nord, ma anche contro la Cina. Allo stesso tempo, ogni paese che può sfidare o anche direttamente minacciare le basi americane in Guam o in Alaska - come lo pretende la Corea del Nord - contribuisce ad un indebolimento del dominio americano. Così, dopo l'indebolimento delle posizioni dello Zio Sam rispetto alla Cina, le ambizioni nord-coreane di minacciare gli Stati Uniti con le armi nucleari non possono essere tollerate da questi ultimi. La politica americana di contenimento della Cina contribuisce significativamente ad alimentare le tensioni con la Corea del Nord.
Il Giappone
Il Giappone è in una situazione estremamente complessa e piena di contraddizioni. In quanto nemico storico della Cina, si sente il più minacciato da quest’ultima e dal suo alleato, la Corea del Nord. Allo stesso tempo, il Giappone è in conflitto con la Corea del Sud a proposito delle isole Dokdo/Takeshima. Il dilemma perciò è tutto conflittuale con gli Stati Uniti: dalla scomparsa del blocco russo dopo il 1989, il Giappone ha avuto come obiettivo di allentare la stretta americana; ma a causa dell’ascesa della Cina e dei conflitti ripetuti e sempre più acuti con la Corea del Nord, il Giappone non ha potuto ridurre la sua dipendenza dalla potenza militare degli Stati Uniti. Se la Corea dovesse essere riunita, il Giappone dovrebbe fare fronte ad un altro grande rivale nella regione. Il Giappone che ha occupato la Corea per oltre tre decenni avrebbe anche - paradossalmente – non avere piacere a vedere sparire lo stato-tampone Nord-coreano. L'incremento recente delle tensioni con la Cina e la Corea del Nord è stato un ottimo pretesto per il governo giapponese per aumentare le sue spese di armamento.
Così, a quasi 60 anni dalla fine della guerra della Corea nel 1953, le stesse forze si oppongono le une alle altre; l'Asia dell'estremo oriente è una zona di conflitti permanenti con ricadute mondiali.
Corea del Nord, Corea del Sud: due regimi nemici giurati della classe operaia
Il regime della Corea del Nord non è giunto al potere in seguito ad un sollevamento operaio ma solamente grazie all'aiuto militare della Russia e della Cina. Dipendendo interamente dai suoi padroni stalinisti, il regime ha diretto le sue risorse verso il mantenimento e l'espansione del suo apparato militare. Conformemente a questa militarizzazione gigantesca, su una popolazione di 24,5 milioni, il paese afferma disporre di un esercito di mestiere forte di 1,1 milione di uomini e di 4,7 milioni di riservisti. Come tutti gli ex-paesi stalinisti dell'Europa dell'Est, l'economia della Corea del Nord non ha prodotti civili concorrenziali da offrire sul mercato del commercio mondiale. L'ipertrofia del settore militare significa che, durante i sei ultimi decenni, ci sono stati razionamenti permanenti di cibo e di prodotti di consumo. Dal crollo del blocco russo nel 1989, la produzione industriale è caduta più del 50%. La popolazione è stata decimata da una carestia nel mezzo degli anni 1990, carestia che è stata apparentemente fermata solo attraverso donazioni alimentari da parte la Cina. Ancora oggi, la Corea del Nord importa il 90% della sua energia, l’80% dei beni di consumo ed approssimativamente il 45% degli alimenti dalla Cina.
Se la classe dominante non ha niente da offrire alla sua popolazione che miseria, fame e repressione, che va di pari passo con una militarizzazione permanente, e se le sue imprese non possono in alcun modo essere competitive sul mercato mondiale, il regime può provare solamente a guadagnarsi "un riconoscimento" grazie alla sua capacità di minacciare e fare ricatti sul piano militare. Un tale comportamento è l'espressione tipica di una classe in rovina che non ha niente da offrire all'umanità se non violenza, estorsione e terrore. L'atteggiamento di minacciare i suoi rivali con ogni tipo di attacco militare mostra fino a che punto la situazione è diventata imprevedibile. Sarebbe dunque un errore sottovalutare il reale pericolo crescente nella situazione. L’acuirsi delle tensioni imperialiste non sono mai dei semplici "bluff" "fanfaronate" o "diversivi". Tutti i governi nel mondo sono presi dalla spirale del militarismo. La classe dominante non ha un reale controllo sul cancro del militarismo. Anche se è evidente che un attacco della Corea del Nord contro la Corea del Sud o contro gli Stati Uniti, condurrebbe ad un indebolimento considerevole, se non al crollo di tutto il regime e dello Stato, è bene sapere che la classe dominante non conosce alcun limite alla politica di terra bruciata. Il caso della Corea del Nord mostra che uno Stato, tutto intero, può essere pronto al "suicidio". Anche se la Corea del Nord è estremamente dipendente dalla Cina, questa’ultima non può essere sicura di essere in grado di "frenare" il regime di Pyongyang che ha appena mostrato una nuova dimensione della sua follia.
Con questo regime nord-coreano così apertamente guerrafondaio, il Giappone, gli Stati Uniti e la Corea del Sud possono presentarsi facilmente oggi come "vittime innocenti ". Occorre qui ricordare come la storia abbia molte volte dimostrato fino a che punto le "grandi democrazie" sono state non meno barbare delle peggiori dittature!
La Corea del Sud non è meno feroce della sua vicina del Nord. A maggio 1948, il governo Rhee (sostenuto dagli Stati Uniti nel Sud) ha organizzato un massacro di circa 60.000 persone a Cheju, un quinto dei residenti dell'isola. Durante la guerra del 1950-1953, il governo sud-coreano ha ucciso con la stessa intensità delle truppe del Nord. Durante il periodo di ricostruzione, sotto Rhee o sotto Park Chung-Hee, quando manifestazioni di collera operaia o studentesca esplodevano, il regime ha fatto ricorso a sanguinose repressioni. Nel 1980, un sollevamento popolare a grande partecipazione operaia a Kwangju è stato schiacciato. La legge sulla Sicurezza Nazionale ancora oggi autorizza il governo a dare la caccia ad ogni voce critica del regime, accusando chiunque di essere un agente della Corea del Nord. In tanti scioperi e manifestazioni di operai o di studenti o anche di "cittadini ordinari" (vedere per esempio Ssangyong o "la manifestazione delle candele accese") lo Stato sud-coreano ha utilizzato costantemente la repressione. E la cricca al potere sud-coreano non è poi tanto meno determinata ad utilizzare mezzi militari contro il suo rivale del Nord. Recentemente, Seul ha avuto per obiettivo di approntare delle armi nucleari! La storia lo mostra: nessun regime è migliore dell’altro; i due sono nemici giurati dei lavoratori. I lavoratori non possono disporsi affianco a nessuno di essi.
L'incremento recente delle tensioni in Asia cristallizza le tendenze distruttive del capitalismo. Ma il conflitto recente non è una semplice ripetizione dei conflitti passati, il pericolo è diventato molto più grande per l'umanità. Questo sistema marcisce: è sempre più pesantemente armato e sempre meno razionale. Dei dittatori pazzi controllano la potenza nucleare di grandi potenze, una contro l’altra, pronti a tutto, il capitalismo è una vera spada di Damocle sospesa sopra le nostre teste.
Ma il potenziale per abbattere questo barbaro sistema e creare così una nuova società, senza guerra né classi sociali, è oggi reale e possibile. Al tempo della guerra di Corea e della Guerra Fredda, la classe operaia era sconfitta ed incapace ad alzare la testa. Solo, un piccolo numero, infimo, di rivoluzionari della Sinistra Comunista ha difeso una posizione internazionalista. Oggi, il proletariato del Sud-est asiatico non vuole sacrificare la sua vita nell'avanzata mortale del capitalismo. Affinché l'umanità non affondi nella barbarie, la classe operaia deve rigettare il patriottismo e l'ingranaggio militarista. No a "un fronte unito col governo!" No alla guerra imperialista! La sola soluzione per la classe operaia è combattere risolutamente contro la sua borghesia, al Nord come al Sud. Questa posizione internazionalista è stata difesa già nel 2006 ad una Conferenza di rivoluzionari. Tre gruppi e sette persone hanno firmato così una Dichiarazione internazionalista dalla Corea contro la minaccia di guerre[2] che si è conclusa con questi due punti:
"Affermiamo la nostra totale solidarietà verso i lavoratori della Corea del Nord e del Sud, di Cina, del Giappone, di Russia che saranno i primi a soffrire in caso di uno scoppio di scontri armati.
Dichiariamo che solo la lotta degli operai a scala mondiale può per sempre mettere fine alla minaccia della barbarie, della guerra imperialista e della distruzione nucleare che è sospesa sull'umanità sotto il capitalismo".
I rivoluzionari devono riprendere ovunque questa parola d’ordine.
D e P (17 aprile)
[1] In particolare attraverso il terribile conflitto cino-giapponese tra il 1937 ed il 1945.
[2] Vedi la dichiarazione contro le prove nucleari nord-coreane [16], al seguente indirizzo web.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[4] https://it.internationalism.org/files/it/images/manif_brasil_2013.jpg
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/4/94/sud-e-centro-america
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[7] https://it.internationalism.org/files/it/images/staline.jpg
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/5/99/collasso-del-blocco-dellest
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[10] https://icorsoc.blogspot.com.es/2012/07/debate-sobre-el-calculo-economico-en-el.html
[11] https://es.wikipedia.org/wiki/Debate_sobre_el_c%C3%A1lculo_econ%C3%B3mico_en_el_socialismo
[12] https://es.internationalism.org/node/3501#comment-1828
[13] https://en.internationalism.org/forum
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/2/26/rivoluzione-proletaria
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/3/43/comunismo
[16] https://fr.internationalism.org/ri374/coree.html
[17] https://it.internationalism.org/en/tag/4/60/asia
[18] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra