Stampa on-line annata 2013
Centinaia di migliaia di persone, se non milioni, hanno protestato contro ogni tipo di problema: in Turchia era per la distruzione dell’ambiente prodotto da uno “sviluppo” urbano insensato, l'intrusione autoritaria della religione nella vita privata e la corruzione dei politici ; in Brasile, era per il rincaro delle tariffe dei trasporti pubblici, l’uso della ricchezza per spese sportive di prestigio mentre la salute, i trasporti, la scuola e le abitazioni vanno in malora e - ancora una volta - la corruzione dei politici. In entrambi i casi le prime manifestazioni hanno incontrato una repressione poliziesca brutale che è però servita ad allargare e approfondire la rivolta. E in tutti e due i casi, il ferro di lancia del movimento non era costituito dalle “classi medie” (vale a dire, secondo il linguaggio della stampa, chiunque possieda ancora un lavoro), ma dalla nuova generazione della classe operaia che, nonostante gli studi, non ha che una misera prospettiva di trovare un lavoro stabile; che, anche quando vivono all’interno di economie “emergenti”, avvertono lo sviluppo dell’economia principalmente come sviluppo dell’ineguaglianza sociale e la ripugnante ricchezza di una minuscola elite di sfruttatori.
Nei mesi di giugno e luglio è stata ancora la volta degli Egiziani che sono scesi giù a milioni nelle strade, tornando a piazza Tahrir, che era stata l’epicentro della rivolta del 2011 contro il regime di Mubarak. Anche loro sono stati guidati da bisogni materiali reali in un'economia che non è così “emergente” ma piuttosto stagnante o in declino. Nel mese di maggio, un ex ministro delle finanze, uno dei principali economisti egiziani, ha osservato in un'intervista con il Guardian che “l’Egitto soffre la peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione. Per i suoi effetti sui poveri, la situazione economica del paese è la peggiore dagli anni ‘930”. E l’articolo prosegue: “Dopo la caduta di Hosni Mubarak nel 2011, l'Egitto ha visto un drastico calo delle entrate sia a livello di investimenti esteri che del turismo, seguito da una caduta del 60% delle riserve di valuta, un calo della crescita del 3% ed una rapida svalutazione della sterlina egiziana. Tutto ciò ha prodotto un drammatico aumento dei prezzi alimentari e disoccupazione, e ancora una carenza di carburanti e di gas per la cucina (...) Attualmente, secondo i dati del governo egiziano, il 25,2 % degli egiziani vive al di sotto della soglia di povertà e il 23,7% è di poco al di sopra”.
Il governo islamico “moderato” di Morsi e dei Fratelli musulmani (con il sostegno degli islamici “radicali”) si é velocemente dimostrato essere altrettanto corrotto quanto il vecchio regime, mentre i suoi tentativi di imporre una "morale" islamica soffocante ha causato, come in Turchia, un enorme risentimento tra la gioventù urbana.
Ma mentre i movimenti in Turchia e Brasile, che in pratica sono diretti contro i rispettivi governi, hanno generato un vero e proprio sentimento di solidarietà e di unità tra tutti coloro che hanno partecipato alla lotta, la prospettiva in Egitto è molto più cupa e punta verso la divisione della popolazione dietro le diverse fazioni della classe dominante o addirittura verso una sanguinosa guerra civile. La barbarie che ha travolto la Siria mostra fin troppo chiaramente quello che potrebbe avvenire anche in Egitto.
La trappola della democrazia
Hanno affibbiato ai movimenti del 2011 in Egitto e in Tunisia il termine di “rivoluzione”. Ma una rivoluzione è qualcosa di diverso rispetto a delle manifestazioni di massa per le strade - anche se queste sono un punto di partenza necessario. Noi viviamo in un’epoca in cui la sola rivoluzione possibile è una rivoluzione mondiale, proletaria e comunista, una rivoluzione fatta non per cambiare un regime, ma per smantellare lo Stato; non per una gestione più “giusta” del capitalismo, ma per il rovesciamento dell’intero rapporto sociale capitalista; non per la gloria della nazione, ma per l’abolizione delle nazioni e per la creazione di una comunità umana a livello del pianeta.
I movimenti sociali che vediamo oggi sono ancora lontani dalla coscienza di sé e dell’auto-organizzazione necessaria per creare una tale rivoluzione. Certo, essi costituiscono dei passi in questa direzione che esprimono uno sforzo profondo da parte del proletariato per ritrovare il suo passato e il suo futuro. Ma dei passi timidi, che possono essere facilmente deviati dalla borghesia, la cui ideologia è profondamente radicata e che costituisce un enorme ostacolo nella mente degli stessi sfruttati. La religione è certamente uno di questi ostacoli ideologici, un "oppio" che predica la sottomissione all'ordine dominante. Ma ancora più pericolosa è l'ideologia democratica.
Nel 2011, le masse in piazza Tahrir chiedevano le dimissioni di Mubarak e la “fine del regime.” E quello che abbiamo visto è che effettivamente Mubarak è stato fatto fuori - soprattutto in conseguenza del sorgere di una potente ondata di scioperi in tutto il paese, che ha aggiunto un’ulteriore dimensione alla rivolta sociale. Ma il sistema capitalista è più di un semplice governo in carica: a livello sociale, è tutto il rapporto basato sul lavoro salariato e la produzione per il profitto. A livello politico, è la burocrazia, la polizia e l’esercito. Ed è anche la facciata della democrazia parlamentare, dove regolarmente dopo un certo numero di anni viene offerta alle masse la possibilità di scegliere la banda di truffatori da cui vuole farsi spennare. Nel 2011 l’esercito - che molti manifestanti credevano “unito” al popolo – è intervenuto per eliminare Mubarak e organizzare le elezioni. I Fratelli Musulmani, che traevano la loro grande forza dalle aree rurali più arretrate, ma che erano anche il partito meglio organizzato nei centri urbani, hanno vinto le elezioni e, da allora, hanno reso la più chiara dimostrazione che il cambiamento di governo attraverso le elezioni non cambia niente. Nel frattempo, il vero potere è rimasto, come in molti altri paesi, stretto nelle mani dell'esercito, la sola forza realmente capace di assicurare l’ordine capitalista a livello nazionale.
Quando le masse sono tornate a piazza Tahrir a giugno, erano piene di indignazione contro il governo Morsi e contro la realtà quotidiane delle loro condizioni di vita, di fronte ad una crisi economica che non è solo “egiziana”, ma mondiale e storica. Nonostante il fatto che molti di loro avessero visto il vero volto repressivo dell'esercito nel 2011, l'idea che “il popolo e l’esercito sono un tutt’uno” era molto diffusa, ed ha trovato nuova vita quando l’esercito ha cominciato ad avvertire Morsi che doveva ascoltare il popolo pena subirne le conseguenze. Quando poi Morsi è stato rovesciato da un colpo di stato militare quasi senza spargimento di sangue, ci sono state importanti scene di festeggiamento in piazza Tahrir. E’ forse questo un segno che il mito democratico non regge tra le masse? Purtroppo no, perché in questo caso l'esercito ha la pretesa di agire in nome della “vera democrazia” che sarebbe stata tradita da Morsi, e ha promesso di indire delle nuove elezioni.
Così il garante dello Stato, l’esercito, interviene di nuovo per evitare che la rabbia delle masse non si volga contro lo Stato stesso. Ma questa volta lo fa al prezzo di divisioni profonde seminate all’interno della popolazione. Che sia in nome dell’Islam o della legittimità democratica del governo Morsi, è nato un nuovo movimento di protesta che esige il ritorno del regime Morsi e che si rifiuta di lavorare con coloro che lo hanno rimosso. La risposta dell'esercito è stata rapida: un massacro spietato di manifestanti davanti al Quartiere Generale della Guardia Repubblicana. Ci sono stati anche degli scontri, di cui alcuni mortali, tra gruppi rivali di dimostranti.
Il pericolo di una guerra civile e la forza capace di impedirla
Le guerre in Libia e in Siria sono partite da manifestazioni popolari contro i regimi in carica. Ma in entrambi i casi, la debolezza della classe operaia e la forza delle divisioni tribali e settarie hanno fatto sì che queste rivolte fossero rapidamente inghiottite da dei conflitti armati tra fazioni borghesi. E in entrambi i casi, questi conflitti locali hanno immediatamente assunto una dimensione internazionale: in Libia, la Gran Bretagna e la Francia, discretamente sostenute dagli Stati Uniti, sono intervenute per armare e “guidare” le forze ribelli; in Siria, il regime di Assad è sopravvissuto grazie al sostegno di Russia, Cina, Iran, degli Hezbollah e di altri avvoltoi della stessa risma, mentre l'Arabia Saudita e il Qatar hanno armato i ribelli con il sostegno più o meno aperto della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. In entrambi i casi, l’allargamento del conflitto ha accelerato lo sviluppo del caos e dell’orrore.
Lo stesso pericolo esiste oggi in Egitto. L’esercito non è assolutamente pronto a cedere il potere. Per il momento, i Fratelli Musulmani hanno promesso di reagire pacificamente al colpo di stato militare, ma accanto all’islamismo “pragmatico” di un Morsi, vi sono delle fazioni più estreme che sono già vicine al terrorismo. La situazione somiglia in maniera sinistra a quella dell’Algeria dopo il 1991, quando l’esercito ha spodestato un governo islamico “venuto dalle urne”, provocando così una guerra civile sanguinosa tra l’esercito e dei gruppi islamici armati, come la FIS. Come al solito, la popolazione civile fu la principale vittima: è stato stimato un numero di morti tra 50.000 e 200.000.
La dimensione imperialista è egualmente presente in Egitto. Gli Stati Uniti hanno espresso il loro rammarico per il colpo di stato militare, ma i loro legami con i militari sono vecchi e profondi e di certo non amano affatto il tipo di islamismo propugnato da Morsi o da Erdogan in Turchia. I conflitti che oggi si estendono dalla Siria all’Iraq e al Libano potrebbero egualmente prendere piede in un Egitto destabilizzato.
Ma la classe operaia in Egitto è una forza molto più importante che in Siria o in Libia. Essa ha una lunga tradizione di lotte combattive contro lo Stato ed i suoi sindacati ufficiali che risale almeno agli anni 1970. Nel 2006 e nel 2007, dei grandi scioperi si sono diffusi a partire dalle industrie tessili che sono altamente concentrate, e questa esperienza di diffidenza aperta nei confronti del regime ha alimentato il movimento del 2011, fortemente influenzato dall’impronta della classe operaia che si è espressa sia nelle tendenze all’autorganizzazione manifestata a piazza Tahrir e nei quartieri, che nell’ondata di scioperi che alla fine hanno convinto la classe dirigente a sbarazzarsi di Mubarak. La classe operaia in Egitto non è immunizzata contro le illusioni democratiche che permeano tutto il movimento sociale, ma allo stesso tempo non sarà facile per le cricche borghesi né convincerla ad abbandonare i suoi interessi di classe né attirarla nella cloaca della guerra imperialista.
La capacità potenziale della classe operaia di sbarrare la strada alla barbarie si vede non solo nella sua storia di scioperi autonomi e di assemblee generali, ma anche nelle espressioni esplicite di coscienza apparse nelle manifestazioni di strada: nei cartelli che proclamano “né con Morsi, né con i militari!” o ancora “rivoluzione, non colpi di stato!” così come nelle prese di posizione più direttamente politiche, come la dichiarazione dei “compagni del Cairo” pubblicata recentemente sul sito Libcom: “Noi vogliamo un futuro che non sia governato né dall’autoritarismo squallido e dal capitalismo dell’intrallazzo dei Fratelli Musulmani, né dall’apparato militare che mantiene il suo pugno di ferro sulla vita politica ed economica, né dal ritorno alle vecchie strutture dell’era di Mubarak. Anche se i manifestanti che scenderanno in piazza il 30 giugno non saranno uniti su questo appello, questo resta il nostro appello, la nostra posizione, perché non accetteremo un ritorno ai periodi sanguinosi del passato”[1].
Tuttavia, come la “primavera araba” ha trovato il suo vero significato con il sollevamento della gioventù proletaria in Spagna, che ha dato luogo ad una messa in discussione più profonda della società borghese, la capacità della classe operaia in Egitto di bloccare la strada a nuovi massacri non potrà realizzarsi se non attraverso la solidarietà attiva e la mobilitazione di massa dei proletari nei vecchi centri del capitalismo mondiale.
Cento anni fa, di fronte alla prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg ricordava solennemente alla classe operaia che la scelta offerta da un capitalismo ormai in declino era tra socialismo o barbarie. L’incapacità della classe operaia di portare a termine le rivoluzioni che hanno risposto alla guerra del 1914-1918 ha avuto come conseguenza un secolo di vera barbarie capitalista. Oggi, la posta in gioco è ancora più elevata perché il capitalismo è ormai in grado di distruggere tutta la vita sull’intero pianeta. Il collasso della vita sociale e il regno delle bande armate assassine: è questa la via della barbarie che viene illustrata da ciò che sta accadendo in Siria. La rivolta degli sfruttati e degli oppressi, la lotta di massa per difendere la dignità umana e un vero futuro: è questa la promessa delle rivolte sociali in Turchia e in Brasile. L’Egitto si trova al crocevia di queste due scelte radicalmente opposte, e in questo senso è il simbolo del dilemma al quale è confrontata tutta l’umanità.
Amos, 10 luglio 2013
Pubblichiamo qui di seguito la traduzione di una dichiarazione di lavoratori di Alicante, una città del sud-est della Spagna, sulla costa del Mediterraneo, preceduta da una breve introduzione della nostra organizzazione. Questi due testi sono stati pubblicati sul nostro sito web in lingua spagnola[1].
Di fronte ai nuovi appelli a “scioperi generali” di 24 ore (per il 31 ottobre indetto dalla CGT[2] e per il 14 novembre da cinque altri sindacati guidata dal duo CO-UGT[3]), i compagni di “Asamblearios – Trabajadores Indignados y Auto-organizados de Alicante” (Lavoratori - Assembleisti[4] indignati e autorganizzati di Alicante), hanno rilasciato una dichiarazione. Questi compagni che sono attivi da più di due anni hanno il merito di denunciare queste manifestazioni che non fanno altro che smobilitare e demoralizzare e che sono l’estensione dei ripetuti attacchi del governo Rajoy. Ma non si sono fermati a questo, hanno portato avanti una prospettiva, quella della lotta per lo sciopero di massa, che di fronte alla smobilitazione sindacale, è la direzione che i lavoratori tendono a prendere da più di un secolo.
È falso dire che non c’è alternativa alle “mobilitazioni per smobilitare”, organizzate dai sindacati. Seguendo le orme dei compagni di Alicante, riteniamo che un dibattito dovrebbe emergere per chiarire l’alternativa che si presenta al proletariato storicamente dopo la rivoluzione del 1905 in Russia, e noi incoraggiamo altri compagni, altri collettivi, affinché diano altri contributi.
CCI (1 novembre 2012)
Di fronte alle “interruzioni di lavoro di 24 ore” che sciopero vogliamo? Lo sciopero di massa!
Com’è possibile che una fermata di ventiquattro ore sia chiamata sciopero? E la domanda più importante da porsi è questa: come può una fermata di 24 ore favorire la lotta della classe operaia?
La nostra posizione politica è legata all’autonomia e all’internazionalismo proletario, per noi ogni azione delle minoranze coscienti deve andare nella direzione del promuovere la presa di coscienza, l’unità e l’auto-organizzazione della classe operaia.
Ci sono state molte proteste negli ultimi tempi e ci sono stati molti sforzi da parte del proletariato nell’organizzarsi. È un periodo di nuove mobilitazioni di massa che ha avuto inizio, simbolicamente, nel maggio 2011. Queste erano la prima risposta agli attacchi sempre più brutali contro le condizioni di vita della popolazione. Ma non c'è una progressione lineare: si tratta di un periodo caratterizzato da tempi molto diversi. Ci sono state spinte molto forti verso l'autorganizzazione che hanno mostrato un movimento diffuso e ancora embrionario a favore delle assemblee generali. Successivamente, approfittando della stanchezza e dell’evidente declino della partecipazione, sono i sindacati e le organizzazioni di sinistra che sono tornati sulla scena, portando le mobilitazioni sulla vecchia strada: delle mobilitazioni ben controllate, disunite, settoriali, demotivanti dove non si guadagna nulla e dove, al contrario, il sentimento della solitudine e la noia tra i partecipanti è evidente. Di fronte a tutto questo, riteniamo logica la mancata partecipazione della maggioranza dei lavoratori alle mobilitazioni che considerano estranee ai propri interessi. Ed è abbastanza normale che ci sia un momento di riflessione.
Abbiamo bisogno di pensare, di imparare da quanto è successo e cercare le vie della nostra autorganizzazione, vie che che non troveremo attraverso la decisione di chissà quali avanguardie "illuminate" o attraverso riflessi condizionati, anche con le migliori intenzioni.
Lo sciopero che noi riteniamo efficace, che sentiamo necessario, deve essere convocato dagli stessi lavoratori ed estendersi a tutta la società, prendendo possesso di tutti gli spazi, occupando tutti i luoghi, creando un nuovo tipo di rapporti e di comunicazioni sociali. Questo sciopero non ferma la vita, anzi la fa rinascere, questo sciopero è lo sciopero di massa che in tutto il secolo scorso si è più volte espresso, dove tutti i nostri nemici (tutte le borghesie pubbliche e private) hanno fatto di tutto per farlo cadere nell'oblio. Semplicemente perché questo tipo di sciopero spaventa in quanto esprime la forza con cui il proletariato è in grado di apparire.
Uno sciopero vero e proprio è un movimento di massa e completo che non si limita solo a smettere di lavorare. È l'arma fondamentale della classe operaia, che prende il controllo della propria vita e questo si riflette in tutti i settori della società che essa combatte, esprimendo simultaneamente tutti gli aspetti della società umana ai quali essa aspira. È chiaro che questo non è qualcosa che può essere chiamato da chiunque (anche con le migliori intenzioni), ma è parte di un processo di presa di coscienza e di lotta dei lavoratori. La questione non è di sapere se durerà 24, 48 ore o a tempo indefinito, il suo radicalismo non è una questione di tempo. La sua radicalità consiste in ciò che è e fa parte del movimento reale dei lavoratori che si organizzano e si dirigono da soli.
Lo sciopero di massa è il risultato di un periodo del capitalismo, il periodo che inizia nel 20° secolo. Fu la rivoluzionaria Rosa Luxemburg a evidenziare questo fenomeno basandosi sul movimento rivoluzionario dei lavoratori in Russia del 1905. Lo sciopero di massa "è un fenomeno storico derivante ad un certo momento di una situazione sociale a partire da una necessità storica"[5].
Lo sciopero di massa non è qualcosa di accidentale, non è il risultato né della propaganda né dei preparativi che sono stati fatti, non è possibile crearlo artificialmente. È il prodotto d’un periodo dato dell’evoluzione delle contraddizioni del capitalismo.
Le condizioni economiche alla base dello sciopero di massa non si limitavano ad un solo paese ma avevano una dimensione internazionale. Queste condizioni fanno sorgere questo tipo di lotta con una dimensione storica, una lotta fondamentale per la nascita di rivoluzioni proletarie. In breve, lo sciopero di massa non è altro che "una forma universale di lotta della classe proletaria determinata dall’attuale stadio dello sviluppo capitalistico e dei rapporti di classe"[6].
Questo "stadio attuale" consisteva nel fatto che il capitalismo stava vivendo i suoi ultimi anni di prosperità. Lo sviluppo di conflitti interimperialisti e la minaccia di una guerra mondiale, la fine di ogni miglioramento durevole delle condizioni di vita della classe operaia, in breve, la crescente minaccia rappresentata dalla presenza della classe operaia all'interno del capitalismo, ecco le nuove circostanze storiche che accompagnavano l’irruzione dello sciopero di massa.
Lo sciopero di massa è il prodotto del cambiamento delle condizioni di vita a livello storico che, oggi lo sappiamo, significava la fine dell’ascendenza capitalistica, condizioni che prefiguravano quelle della decadenza del capitalismo. Allora esistevano già alte concentrazioni di lavoratori nei paesi capitalisti avanzati, abituati alla lotta collettiva, e le cui condizioni di vita e di lavoro erano simili in tutto il mondo. In conseguenza dello sviluppo economico, la borghesia è diventata una classe sempre più concentrata identificandosi sempre più con l'apparato statale. Allo stesso modo del proletariato, i capitalisti aveva imparato a far fronte al loro nemico di classe. Le condizioni economiche hanno reso più difficile per i lavoratori ottenere riforme nel campo della produzione e, nello stesso modo, la “rovina della democrazia borghese” rendeva sempre più difficile per il proletariato il consolidamento delle conquiste a livello parlamentare. Così, il contesto politico, così come il contesto economico dello sciopero di massa, non erano più quelli dell’assolutismo russo, ma quelli della decadenza crescente del dominio borghese in tutti i paesi.
Sul piano economico, sociale e politico il capitalismo aveva posto le basi per i grandi scontri di classe a scala mondiale.
L'obiettivo sindacale (la richiesta di miglioramenti all’interno del sistema) è diventato sempre più difficile da realizzare nel capitalismo decadente. In questo periodo, il proletariato non intraprende una lotta con la prospettiva assicurata di reali miglioramenti nel suo destino. Gli scioperi d’oggi, le grandi manifestazioni, non riescono ad ottenere più nulla.
Pertanto il ruolo dei sindacati, che era quello di ottenere miglioramenti economici all'interno del sistema capitalistico, scompariva. Ci sono altre implicazioni rivoluzionarie derivanti dalla messa in causa dei sindacati da parte dello sciopero di massa:
1) Lo sciopero di massa non poteva essere preparato in anticipo, esso sorge senza un piano prestabilito del tipo “metodo di movimento per il proletariato”. I sindacati, dediti alla loro organizzazione stabile, preoccupati per i loro conti bancari e degli elenchi dei soci, non potevano neanche porsi la questione di essere all’altezza dell’organizzazione di scioperi di massa, una forma che evolve nella e per la lotta stessa.
2) I sindacati hanno diviso i lavoratori e i loro interessi tra tutti i diversi settori industriali quando lo sciopero di massa “fondeva, a partire da differenti punti individuali, cause diverse” e quindi tendeva a eliminare tutte le divisioni all'interno del proletariato.
3) I sindacati organizzavano una minoranza della classe operaia, mentre lo sciopero di massa metteva insieme tutti gli strati della classe, sindacalizzati e non sindacalizzati.
La lotta è legata alla realtà in cui si svolge, non può essere considerata separatamente. Dall'inizio del secolo scorso, il declino di un sistema che ha esaurito i mercati extracapitalisti, limitando in tal modo il suo bisogno insaziabile di crescita, diventa evidente causando una crisi permanente e continui cataclismi sociali (guerre e miseria senza precedenti per l'umanità).
Il periodo successivo alla fine del 1960 è il culmine della crisi permanente del capitalismo, l'incapacità di espandersi del sistema, l'accelerazione di antagonismi interimperialisti, le cui conseguenze minacciano la civiltà umana.
Dappertutto lo Stato, con l'estensione del suo formidabile arsenale repressivo, sostiene gli interessi della borghesia. Davanti a lui c’è una classe operaia che, anche se numericamente indebolita rispetto al resto della società dopo gli anni 1900, è ancora più concentrata e le cui condizioni di vita sono sempre più simili in tutti i paesi fino ad un livello senza precedenti. A livello politico, la “distruzione della democrazia borghese” è così evidente che riesce a malapena a nascondere la sua vera funzione di cortina di fumo davanti al terrore dello Stato capitalista.
Le condizioni dello sciopero di massa corrispondono alla situazione oggettiva della lotta di classe oggi, in quanto le caratteristiche del periodo attuale esprimono il punto più nitido delle tendenze dello sviluppo capitalistico, che cominciarono a imporsi quasi un secolo fa.
Gli scioperi di massa dei primi anni del secolo scorso erano una risposta alla fine del periodo di ascendenza capitalista e all’inizio della condizioni della sua decadenza.
Queste condizioni sono diventate talmente evidenti e croniche oggi, siamo in grado di pensare che ciò che spinge obiettivamente verso lo sciopero di massa è, attualmente, mille volte più forte.
"I risultati complessivi dello sviluppo capitalista internazionale" che hanno determinato l'emergere storico dello sciopero di massa non hanno smesso di maturare fin dagli inizi del XX secolo.
Come possiamo favorire lo sviluppo dello sciopero di massa, dell'autorganizzazione internazionale del proletariato, della sua necessaria unità?
I nostri contributi sono solo i contributi di una parte cosciente della classe operaia. Non aspiriamo a più di questo.
Una delle forme di questi contributi è proprio quella di criticare le azioni errate che sono tante barriere all’autorganizzazione e all'approfondimento della coscienza. Anche con le migliori intenzioni dei loro militanti, l'attivismo, il sindacalismo di base, il sinistrismo ... fanno parte di queste barriere che i lavoratori dovranno abbattere per raggiungere la loro autonomia di classe.
Un altro contributo è quello di stimolare la riflessione, il chiarimento di ciò che abbiamo vissuto. Ma anche l'estensione delle lotte reali, il loro coordinamento e l’informazione, così come gli incontri e l'organizzazione dei rivoluzionari. O il recupero della memoria delle nostre lotte e dei loro strumenti di base, come ad esempio lo sciopero di massa.
Da “Asamblearios – Trabajadores Indignados y Auto-organizados de Alicante” per un 15-M[7] operaio e anticapitalista
[2] Il sindacato CGT in Spagna è un sindacato di tendenza anarcosindacalista, scissione della CNT.
[3] Le Commissioni Operaie (CO), sono storicamente legate al PC, e L’UGT al Partito Socialista. Questi sono i due principali sindacati in Spagna.
[4] A volte usiamo questo neologismo “assembleista”, per definire gli attivisti che difendono le assemblee generali come mezzo di potere dei lavoratori in lotta.
[5] Rosa Luxemburg: Sciopero di massa, partiti e sindacati
[6] Rosa Luxemburg, idem.
[7] “15-M” si riferisce al movimento che è iniziato in Spagna il 15 maggio 2011. [NdT]
Un anno e mezzo fa, di fronte all’inettitudine del governo Berlusconi, la borghesia italiana, grazie al suo “grande vecchio” Napolitano, gettò sul tavolo la carta Monti con il suo governo di tecnici. In questa maniera la borghesia voleva raggiungere vari obiettivi: innanzitutto mettere mano all’economia con delle “riforme” e delle misure che fossero di lungo respiro e di maggiore efficacia rispetto a quelle, pur dolorose per i lavoratori italiani, prese da Berlusconi; questo obiettivo era tanto più urgente visto che l’Italia era nel mirino della speculazione che, facendo salire lo spread[1], aggravava notevolmente il costo del debito dello Stato italiano, con un attacco così forte da far temere alla borghesia di fare la fine della Grecia. Il secondo obiettivo era avere a capo del governo qualcuno che fosse capace di ridare credibilità internazionale all’Italia che ormai veniva vista, e trattata, come un paese di secondo ordine, visto che era governata da un clown, più interessato a raccontare barzellette e fare scherzi durante i summit internazionali, piuttosto che a vedere come difendere gli interessi imperialisti italiani in queste riunioni.
Quanti di questi obiettivi sono stati raggiunti da Monti?
- Sul piano economico gli attacchi sono stati fortissimi, ma i risultati, per il risanamento dell’economia, relativi: il debito statale è aumentato di circa 10 punti, arrivando alla cifra record di circa il 130% del Prodotto Interno Lordo, che a sua volta è calato dell’1,3%, con il seguito di disoccupazione, cassa integrazione ed aumento della povertà. La stretta finanziaria è stata così drastica da portare la Confindustria a lanciare il grido di allarme che senza misure per la crescita l’Italia rischia di sparire dal novero dei grandi paesi industriali.
- Sul piano internazionale, l’obiettivo è stato sostanzialmente raggiunto, vista la stima di cui godeva Monti e la sua capacità di rivestire il ruolo istituzionale in maniera seria e rigorosa.
Arrivata la fine della legislatura (anticipata di poco più di un mese da Berlusconi che, sfiduciando Monti, si è preparato una campagna elettorale in cui cercare di far dimenticare che lui era responsabile di tutti gli attacchi portati ai lavoratori italiani negli ultimi 4 anni), gli italiani sono stati asfissiati da una campagna elettorale caratterizzata dalla guerra di tutti contro tutti, e dalle promesse di tutti verso gli italiani (compresi i 5 stelle che promettevano di cambiare il volto della politica italiana).
Avendo puntato tutti sulla divisione e sulla contrapposizione, i risultati elettorali hanno riflettuto queste divisioni, così che nessuna coalizione ha la maggioranza assoluta in entrambe le camere e c’è quindi la necessità di trovare un accordo tra forze che durante la campagna elettorale se ne sono dette di tutti i colori.
Questo risultato ha dimostrato quale è il vero problema della borghesia italiana, oltre all’impossibilità di superare veramente una crisi economica che è crisi di sistema e che può essere superata solo cambiando il sistema, e cioè il clima di decomposizione in cui versa anche la sua classe politica, oltre che l’insieme della società.
La decomposizione è quella fase storica iniziata da più di un ventennio e caratterizzata da una degenerazione di tutti gli aspetti della vita sociale e politica[2].
La crescente difficoltà della borghesia ad assicurare una qualche prospettiva positiva all’umanità e la contemporanea difficoltà della classe operaia ad imporre una sua prospettiva, quella di una società senza più sfruttamento e capace di soddisfare i bisogni di tutti gli esseri umani e non quelli del capitale, ha portato ad un inasprimento di tutte le contraddizioni e divisioni esistenti, e questo a tutti i livelli.
Uno di questi livelli è la coesione interna delle borghesie nazionali, con il prevalere degli egoismi delle singole parti sugli interessi generali. Questo prevalere degli interessi particolari sui generali ha in qualche caso provocato conseguenze disastrose, come in Jugoslavia, ma si diffonde un po’ dappertutto.
In Italia ha già dato luogo ad una forza come la Lega, che contro ogni giustificazione storica ha come obiettivo finale la secessione della “Padania”, una regione che non esiste, che non ha una lingua comune, che non ha una storia comune, e che da sola non si potrebbe più permettere la situazione economica che ha oggi (grazie all'esistenza di una rete economica nazionale e ad un mercato interno protetto che gli dà gli sbocchi necessari a recuperare quantomeno il capitale investito).
Ma più in generale questo processo di decomposizione ha generato un ceto politico che si mostra di gran lunga al di sotto delle necessità del capitale nazionale di fronte alla peggiore crisi economica della storia del capitalismo, un ceto politico egoista e corrotto, rissoso, che riesce a trovare unità solo nella difesa dei privilegi di cui gode.
Questa situazione ha creato un discredito del ceto politico, ormai caratterizzato come la “casta”.
Questo discredito e queste divisioni sono alla base del risultato elettorale, insieme ad una legge elettorale ridicola, fatta quasi per generare ingovernabilità invece che favorirla. I voti si sono divisi fra 4 schieramenti, impedendo quindi ad ognuno di loro di governare da solo. E uno di questi schieramenti, il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo ha raggiunto il 25% di voti sull'onda dello schifo dei cittadini verso la casta[3]. Ci vorrebbe quindi un governo di coalizione, ma questo obiettivo si è visto subito irrealizzabile, dati i veti incrociati, con Bersani che voleva fare il governo con Grillo, ma questo non vuole, mentre non lo vuole fare con Berlusconi, che invece ci starebbe.
E così il tentativo di Bersani di formare un governo si è impantanato, costringendo Napolitano ad inventarsi una commissione di esperti per consegnare al prossimo presidente una agenda di cose da fare e intorno a cui cercare di trovare una coalizione di governo.
Insomma si è creata una vera situazione di stallo, con poche vie di uscita: se non si mettono d'accordo le forze che sono state elette, si dovrà andare a nuove elezioni, ma, restando questa legge elettorale, le nuove elezioni non potrebbero che dar luogo ad una nuova situazione di stallo, cioè all'impossibilità di formare un governo se non di coalizione, e si tornerebbe punto e a capo[4].
Con questa prospettiva è possibile che il nuovo capo dello Stato riuscirà ad imporre un governo, magari sullo stile di Monti, cioè affidato ad una personalità al di sopra delle parti ma capace di imporre ai due schieramenti principali di sostenerlo per portare a termine un programma limitato e ben preciso: nuova legge elettorale, emergenza economica, costi della politica, ed eventuali altre riforme legate sempre alla funzionalità del sistema.
Se ciò avverrà o meno non è possibile dirlo con certezza, né è nostro compito lanciarci in queste previsioni. Ma alcune certezze comunque le abbiamo: quale che sarà questo eventuale governo l'emergenza economica non potrà affrontarla che usando gli stessi mezzi di quelli che lo hanno preceduto, e cioè attaccando ancora di più i lavoratori, tagliando la spesa sociale o aumentandone i costi a carico della popolazione (vedi ticket e contributi vari). E questa certezza non si basa solo sull'esperienza dei governi precedenti, ma sulla semplice constatazione che i sacrifici richiesti finora
non hanno risolto niente, come abbiamo ricordato analizzando i risultati economici raggiunti dal governo Monti, cioè quello che ha colpito con ancora più durezza i lavoratori.
C'è poco da sperare in un raddrizzamento di questo sistema, c'è poco da sperare nelle forze politiche borghesi, che mostrano solo, con le loro incapacità, la loro corruzione, il loro cinismo, di essere lo specchio di un sistema fallito e in decomposizione.
14/04/2013, Helios
[1] Lo spread è il differenziale tra il rendimento dei Buoni del tesoro di un paese e quello della Germania. L’acquisto di buoni del tesoro di un paese da parte degli investitori è condizionato dalla fiducia che questi investitori hanno nella solvibilità del paese che li emette, e quando questa fiducia è bassa il paese che vuole piazzare i suoi buoni può solo aumentare gli interessi che garantisce su di essi. E’ questo che fa salire appunto lo spread ed è questo che stava succedendo negli ultimi mesi del governo Berlusconi.
[2] Vedi l’articolo “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo [7]”.
[3] Il movimento 5 stelle meriterebbe un'analisi più approfondita, che non è possibile fare qui. Ci limitiamo a notare come questo movimento, pur sostenuto da tanti cittadini che votano Grillo perché vorrebbero una politica diversa, “pulita”, più attenta ai bisogni della popolazione, in realtà non costituisce una alternativa credibile, vista la mancanza di un programma, di un personale politico esperto e, soprattutto, visto che è totalmente preda della volontà di un solo individuo (o di due, Grillo e Casaleggio). Questo movimento è anch’esso un prodotto della decomposizione, non solo perché si basa sull’odio della gente per la casta (frutto appunto della decomposizione del ceto politico tradizionale), ma perché esprime solo una protesta e non una proposta, almeno non una proposta coerente e realistica, perché a fianco di cose ragionevoli e possibili (acqua pubblica, lotta all’evasione fiscale, e altro) mette obiettivi irragionevoli e impossibili da realizzare, come l’uscita dall’euro, che significherebbe consegnare l’Italia alla speculazione finanziaria internazionale. Il fatto che un movimento così poco affidabile prenda il 25% dei voti, mostra un altro aspetto della decomposizione e cioè la difficoltà della borghesia a mantenere il controllo del meccanismo elettorale, cioè la capacità di ottenere dalle elezioni il risultato più confacente alle sue esigenze immediate.
[4] I sondaggi danno Berlusconi vincente se si votasse a breve, ma con un leggero vantaggio sul centrosinistra, quindi con una situazione assolutamente simile a quella attuale, con la sola differenza che la coalizione vincente sarebbe quella di centrodestra.
Mentre le pretese "rivoluzioni arabe" festeggiavano il loro secondo anniversario, le sommosse e le manifestazioni di massa che si sono prodotte in questi ultimi mesi ed anche nelle ultime settimane in Egitto ed in Tunisia sono servite a ricordare di fronte al mondo intero che la cacciata dei dittatori Ben Ali e Mubarak non ha risolto niente. Al contrario, la situazione economica con il suo seguito di disoccupazione crescente, di miseria e di attacchi anti-operai, si è aggravata. E l'autoritarismo regnante come la violenza della repressione che si abbatte oggi sui manifestanti non hanno niente da invidiare a quanto succedeva nei precedenti regimi.
Una collera ed un coraggio immensi…
La Tunisia, dove l’immolazione con il fuoco del giovane Mohammed Bouazizi era stata la scintilla della “Primavera araba”, è attraversata da una grave crisi sociale, economica e politica. Il tasso ufficiale di disoccupazione è del 17% e gli scioperi si moltiplicano da mesi in numerosi settori. La collera che si è manifestata così apertamente e massicciamente in numerose città del paese non è stata pertanto un fulmine a ciel sereno. Già a dicembre, dei giovani disoccupati si sono scontrati violentemente con la polizia nella città di Siliana, per protestare contro il programma di austerità annunciato dal presidente Moncel Marzouki, provocando manifestazioni di solidarietà contro la repressione ed i suoi 300 feriti, alcuni dei quali, in parecchie grandi città e nella capitale, sono stati colpiti da pallettoni da caccia. Il presidente tunisino aveva allora dichiarato di fronte alla crescente tensione sociale: “Non abbiamo una sola Siliana. Ho paura che ciò si possa riprodurre in diverse regioni”. Ed è l'assassinio dell'oppositore laïc Chokri Belaïd che ha ultimamente spinto ancora una volta la popolazione in strada, mentre il suo funerale è stato l’occasione per le 50000 persone presenti al corteo funebre di invocare “una nuova rivoluzione” e chiedere “pane, libertà e giustizia sociale”, principale slogan nel 2011. In una dozzina di città, oltre agli uffici di polizia, come un commissariato del centro di Tunisi, sono stati attaccati alcuni locali del partito islamico Ennahda al potere insieme allo stesso esercito, schierato per contenere le manifestazioni di massa a Sidi Bouzid da dove due anni fa era partita la “rivoluzione da gelsomino”.
Per calmare la situazione e recuperare il movimento, il sindacato UGTT (Unione generale della Tunisia) ha proclamato uno sciopero generale, il primo da 35 anni in Tunisia, mentre il governo organizzava un simulacro di cambiamento tra i dirigenti dello Stato in attesa delle elezioni legislative di giugno. Attualmente, la tensione sembra essere rientrata ma è chiaro che la collera continua ad essere una minaccia dal momento che la promessa di un prestito futuro da parte del Fondo monetario internazionale chiederà nuove drastiche misure di austerità.
In Egitto, la situazione non è migliore. Il paese è in cessazione di pagamento. Ad ottobre scorso, la Banca mondiale ha pubblicato un rapporto con cui esprimeva la sua “inquietudine” di fronte alla moltiplicazione di scioperi, con un record di 300 nella sola prima metà di settembre. Alla fine dell’anno si erano svolte numerose manifestazioni anti governative, in particolare intorno al referendum organizzato dai Fratelli musulmani per legittimare il loro potere. Ma è dal 25 gennaio, giorno del secondo anniversario dello scoppio della “rivoluzione egiziana”, che la contestazione si è amplificata. Giorno dopo giorno, migliaia di manifestanti hanno denunciato le condizioni di vita imposta dal nuovo governo e richiesto la cacciata di Morsi.
Ma è ancora la collera seguita alla repressione che ha dato fuoco alle polveri. In effetti, l’annuncio del 26 gennaio della condanna a morte di 21 tifosi del club al-Masry di Porto Said implicati nel dramma di fine partita del 1 febbraio 2012[1], dove 77 persone avevano trovato la morte, è stato il pretesto per questa fiammata di violenza. Le manifestazioni pacifiche indette dal Fronte di Salvezza Nazionale, la principale forza d’opposizione, hanno dato adito a scene di guerriglia urbana. La sera del 1 febbraio, a piazza Tahrir e davanti al palazzo presidenziale, migliaia di manifestanti si sono impegnati in uno scontro serrato con le forze dell’ordine. Ancora il 2 febbraio parecchie migliaia di manifestanti lanciavano pietre e bombe-Molotov contro il recinto dell'edificio. In una settimana, le sommosse violentemente represse si sono chiuse con più di 60 morti, di cui 40 a Porto-Said. Un video che mostra un uomo nudo, picchiato dai poliziotti, ha ulteriormente acceso la collera dei manifestanti.
Malgrado il coprifuoco instaurato dal regime, delle manifestazioni hanno avuto luogo in tre città situate sul canale di Suez. Un manifestante ha dichiarato: “Adesso siamo per strada perché nessuno deve imporci la sua parola (...) noi non ci sottometteremo al governo”.
Nella città di Ismailia, oltre alle manifestazioni, sono state organizzate dagli abitanti delle partite di calcio per sfidare il coprifuoco e la durezza del regime ed è stata anche incendiata la sede dei Fratelli musulmani.
Davanti all'ampiezza del movimento e alla rabbia espressa, il 12 febbraio in dieci province ci sono state manifestazioni di poliziotti che, temendo per sé stessi, hanno chiesto al governo di non essere utilizzati come strumenti di repressione nelle agitazioni che scuotono il paese! Già a dicembre, molti di loro si erano rifiutati di scontrarsi con i manifestanti al Cairo e si erano dichiarati opportunamente “solidali” con questi.
… ma senza speranza …
Le parole d’ordine che si possono ascoltare in tutte queste manifestazioni sono: “Ennahda[2], via”! e “Morsi, via!”, come, due anni fa, si è sentito “Ben Ali, via”! e “Mubarak, via!”. Ma se, all'inizio del 2011, aleggiava la speranza di cambiamento e di inizio di una via reale verso la libertà “democratica”, nel 2013 la tendenza è più verso il disincanto e lo sviluppo della collera. Tuttavia, in fondo, si esprime sempre la stessa illusione democratica che resta ancora fortemente ancorata negli spiriti. Questa illusione, attualmente, viene alimentata da tutto il battage ideologico attuale che indica il fanatismo religioso come il grande responsabile della repressione e degli assassini, mascherando così di fatto la continuità dell'apparato repressivo della borghesia. È questo che abbiamo visto in modo sorprendente sia in Egitto che in Tunisia dove il potere, che fino ad allora era stato impotente di fronte agli scioperi operai, ha represso senza vergogna, dimostrando così che le illusioni si pagano e si pagheranno sempre più con dei bagni di sangue. Dopo la cacciata dei dittatori “laici” sono arrivati i dirigenti religiosi che tentano di imporre “democraticamente” un’altra dittatura, quella della charia, su cui tutto è focalizzato, ma si tratta della stessa cosa: la dittatura della borghesia e del suo Stato sulla popolazione, quella dello sfruttamento forsennato della classe operaia[3].
La stessa questione si pone pensando che sia possibile “cambiare vita” scegliendo questa o quella cricca borghese. Perché, come abbiamo visto ancora recentemente, sono anche queste illusioni che hanno preparato la repressione e l’esplosione della violenza statale. Ciò è particolarmente vero in questi paesi condotti da decenni da frazioni borghesi arretrate, sostenute con grandi sforzi dai paesi avanzati e nei quali non è possibile alcun ricambio di squadra con una prospettiva vitale, se non dei massacri di popolazione. Basta vedere lo stato di decomposizione delle coalizioni al potere nei due paesi, che passano il loro tempo a farsi e disfarsi, senza essere in grado di disegnare un programma economico che sia minimamente credibile, e la velocità con la quale la situazione di povertà si è diffusa ed accelerata, con una crisi agraria e dunque alimentare senza precedenti. Se ciò accade non è perché questi dirigenti sarebbero più stupidi di altri, ma perché si esprime in questi paesi l’impasse completo in cui si trova la borghesia che non ha più margini di manovra, e non più soltanto in questi paesi, ma a livello di tutta la borghesia mondiale e dell'intero sistema capitalista, che non hanno più alcuna soluzione da offrire all'umanità.
“Il popolo vuole un'altra rivoluzione”, gridavano i giovani disoccupati di Siliana. Ma se “rivoluzione” vuol dire cambiamento di governo o di regime, in attesa di essere divorati vivi dai nuovi cacicchi al potere, o ancora se ciò significa focalizzarsi in lotte di strada e scontri con questa o quella frazione della borghesia, disorganizzati di fronte agli assassini di professione armati dalle grandi potenze, non è più un’illusione ma un suicidio.
È significativo che se le popolazioni egiziane e tunisine hanno di nuovo alzato la testa è perché al loro interno esiste una forte componente operaia, che abbiamo già visto esprimersi chiaramente nel 2011 attraverso una moltitudine di scioperi. Ora, è proprio a questa che spetta il compito di non lasciarsi prendere da tutte le illusioni veicolate dagli anti-islamici e/o dai pro- o anti-liberali di ogni tipo. La continuazione degli scioperi dimostra la forza potenziale del proletariato per difendere le sue condizioni di vita e di lavoro e bisogna salutare il suo immenso coraggio.
… finché la lotta non si svilupperà nei paesi centrali
Ma le sue lotte non potranno offrire una reale prospettiva finché resteranno isolate. Nel 1979, in Iran, abbiamo assistito ad una serie di rivolte e di scioperi operai che avevano così dimostrato la forza delle reazioni proletarie ma che, chiusi in una cornice nazionale e in mancanza di prospettive e di una maturazione insufficiente delle lotte operaie al livello mondiale, erano state soffocate dalle illusioni democratiche e prese nella gogna degli scontri tra cricche borghesi. È il proletariato occidentale che, con la sua esperienza e la sua concentrazione, porta la responsabilità di fornire una vera prospettiva rivoluzionaria. I movimenti degli Indignati in Spagna e di Occupy negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna si sono riferiti esplicitamente alla continuità dei sollevamenti in Tunisia ed in Egitto, al loro immenso coraggio e alla loro incredibile determinazione. Il grido all’epoca della “primavera araba”, “non abbiamo più paura”, deve essere effettivamente fonte di ispirazione per tutto il proletariato mondiale. Ma è solo il faro dell'affermazione delle assemblee operaie, nel cuore del capitalismo, drizzate contro gli attacchi del capitalismo in crisi, che può offrire un’alternativa che permetta realmente il capovolgimento di questo mondo di sfruttamento che ci immerge sempre più profondamente nella miseria e la barbarie.
La classe operaia non deve sottovalutare il peso reale di cui dispone nella società, per il suo posto nella produzione ma anche e soprattutto per ciò che rappresenta come prospettiva per tutta la società e per l'avvenire del mondo. In questo senso, se gli operai egiziani e tunisini non devono lasciarsi imbrogliare dai miraggi dell'ideologia borghese democratica, è responsabilità di quelli dei paesi centrali mostrare loro la strada. È soprattutto in Europa che i proletari hanno la più lunga esperienza di scontro con la democrazia borghese e con le trappole più sofisticate di cui essa è capace. Devono dunque cogliere i frutti di questa esperienza storica ed elevare ancora più la loro coscienza. Sviluppando le loro lotte, in quanto classe rivoluzionaria, romperanno l'isolamento attuale delle lotte disperate che scuotono numerose regioni del pianeta e riaffermeranno la possibilità di un nuovo mondo per tutta l'umanità.
[2] Movimento della Rinascita, partito di maggioranza in Tunisia.
Annunciando l’adozione di una legge che autorizza il matrimonio omosessuale, il governo francese ha scatenato, come è capitato in tutti i paesi che hanno seguito la stessa strada, una serie di mobilitazioni e di dibattiti mediatici dove ciascuno ha dovuto scegliere da che parte stare: pro o contro il “matrimonio gay”. Anche in Italia questa questione suscita un certo interesse e spesso viene usata per creare divisioni e falsi schieramenti. Per questo abbiamo tradotto il seguente articolo scritto dai nostri compagni in Francia.
Le manifestazioni omofobiche sono espressione della decomposizione capitalista
Le ripugnanti manifestazioni organizzate da leghe e partiti omofobici, come “Civitas” e “Famille de France" (“Famiglia di Francia”), hanno scioccato per la loro ampiezza. Se la ridicola feccia del cattolicesimo integralista, con i suoi paramenti da fiera e i suoi patiboli da crocifissione, ha formato il grosso del battaglione, l’ampiezza delle mobilitazioni mostra fino a che punto le tendenze alla disumanizzazione, all’odio verso l’altro e all’irrazionalità proprie del capitalismo in disfacimento, si diffondono come la peste in tutti gli strati della società[1].
Dietro slogan sbiaditi come “la difesa della famiglia”, durante i cortei le “pecorelle” avevano qualche difficoltà a contenere le loro manie omofobiche e razziste.
Di fronte a queste dimostrazioni di odio e deliri collettivi, organizzate in nome di una “normalità” e di una sedicente “evidenza” astratta e disumanizzata, il proletariato deve affermare il suo attaccamento alla libertà sessuale, al rispetto delle differenze, ma dal punto di vista della sua lotta. Perché la lotta per il comunismo non è solo una lotta per il pane e un tetto, ma è anche - e soprattutto! - una lotta per l’emancipazione degli uomini, per “un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”[2].
Il matrimonio esiste solo per l’interesse dei possidenti
Tuttavia resta una questione: l’autorizzazione al matrimonio omosessuale può far avanzare la società verso una maggiore libertà sessuale?
Al di là dell’idea che il “matrimonio per tutti” sarebbe uno strumento per lottare contro le discriminazioni - gli insulti, le aggressioni e i datori di lavoro omofobici purtroppo non scompariranno con un anello al dito - e di tute le chiacchiere sui “Diritti dell’uomo” e sulla “uguaglianza davanti alla Legge”, le argomentazioni portate avanti sono rivelatrici del carattere reazionario di questo “nuovo contratto”. La borghesia e specialmente i suoi partiti di sinistra presentano il matrimonio omosessuale come un progresso sociale che permetterebbe agli interessati di beneficiare dei vantaggi fiscali e dei diritti di successione di cui godono le coppie eterosessuali, in particolare verso i bambini che non usufruiscono della filiazione di uno dei loro genitori. Queste argomentazioni mostrano perfettamente che il matrimonio non è nient’altro che un rapporto di denaro. Come diceva Marx “Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con la moglie e i figli non ha più niente in comune con la famiglia borghese. Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia”[3].
Certamente, numerosi operai si sposano per esprimere sinceramente il loro amore e beneficiare delle magre misure fiscali e amministrative. Ma il matrimonio è un’istituzione fondamentalmente legata alle società di classi. Per la borghesia, il matrimonio ha ben poco a che vedere con l’amore, è soprattutto un contratto per la conservazione e la trasmissione della proprietà privata: “Questo matrimonio di convenienza si converte abbastanza spesso nella più sordida prostituzione - talvolta delle due parti, ma più frequentemente della donna; se questa si distingue dalla cortigiana ordinaria, è solamente perché non affitta il suo corpo volta per volta, come una salariata, ma lo vende una volta per tutte, come una schiava”[4].
Ecco la natura del “progresso sociale” promesso dalla sinistra che si adorna ad ogni buon conto di un’immagine progressista: una semplice riforma sulla base della mercificazione degli esseri umani e della produzione capitalista, un sistema di produzione che è all’origine di tutte le discriminazioni e in particolare dell’assillo e dei comportamenti “da pogrom” di cui sono vittime gli omosessuali.
El Generico (24 gennaio)
[2] K. Marx e F. Engels: Manifesto del Partito comunista, 1848.
[3] Idem
[4] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884. In quest’opera, Engels sviluppa una critica completa e storica della famiglia, e particolarmente del ruolo del matrimonio nelle società di classe.
Ancora una volta la borghesia francese si lancia alla testa di un conflitto armato in Africa. Ancora una volta, lo fa in nome della pace. Nel Mali, si tratterebbe di una lotta contro il terrorismo e dunque per la sicurezza dei popoli. Non c’è alcun dubbio sulla crudeltà delle bande armate che regnano nel nord del Mali. Questi signori della guerra ovunque passino seminano morte e terrore. Ma i motivi dell’intervento francese non hanno niente a che vedere con le sofferenze delle popolazioni locali. Lo Stato francese mira solo a difendere i suoi sordidi interessi imperialisti. Gli abitanti di Bamako sono scoppiati di gioia e hanno salutato François Hollande come un salvatore. Queste sono le sole immagini di questa guerra che i media francesi diffondono: popolazioni in festa, tranquillizzate dal fatto che viene bloccata l’avanzata verso la capitale delle orde mafiose che intensificano i loro atroci soprusi. Ma questa esultanza sarà di breve durata. Quando una “grande democrazia” passa con i suoi carrarmati, dopo l’erba non è mai più verde di prima! Al contrario, desolazione, caos e miseria sono i risultati del suo intervento. La cartina geografica sotto riprodotta evidenzia nei dettagli i principali conflitti che hanno devastato l’Africa negli anni 90 e le carestie che l’hanno colpita. Il risultato è spettacolare: ogni guerra - spesso fatta sotto la bandiera del diritto all’ingerenza umanitaria, come in Somalia nel 1992 o in Ruanda nel 1994 - ha provocato gravi penurie alimentari. Non sarà diverso nel Mali. Questa nuova guerra andrà a destabilizzare l’intera regione e aumenterà notevolmente il caos.
Una guerra imperialista
“Con me Presidente, finisce la ‘Franciafrica’”. Questa grossolana menzogna di François Hollande susciterebbe una gran risata se non implicasse nuovi cadaveri. La sinistra continua a propagandare il suo umanesimo ma, da circa un secolo, i grandi valori che ipocritamente veste servono solo a dissimulare la sua reale natura: una frazione borghese che, come tutte le altre, è pronta a tutto, a ogni crimine, per difendere l’interesse nazionale. Perché è proprio di questo che si tratta nel Mali: difendere gli interessi strategici della Francia. Come François Mitterrand che decise di intervenire militarmente in Ciad, in Iraq, in ex-Iugoslavia, in Somalia e in Ruanda, oggi François Hollande dimostra che i “socialisti” non esitano mai a difendere i propri “valori” (in altre parole gli interessi borghesi della nazione francese) con il mitra in mano.
Sin dall’inizio dell’occupazione del Nord del paese da parte degli islamici, le grandi potenze, in particolare la Francia e gli Stati Uniti, hanno manovrato per spingere i paesi della zona a impegnarsi militarmente promettendo loro finanziamenti e mezzi logistici. Ma in questo gioco di alleanze e manipolazioni, lo Stato americano è sembrato più capace riuscendo poco a poco a guadagnarne in influenza. Farsi battere nel cuore del proprio territorio di caccia era inaccettabile per la Francia. Doveva reagire e alla grande: “Nel momento delle decisioni, la Francia ha reagito utilizzando il suo ‘diritto-dovere’ di vecchia potenza coloniale. Il Mali certamente si stava avvicinando un po’ troppo agli Stati Uniti, tanto da apparire come sede ufficiosa dell’Africom, il comando militare unificato per l’Africa, instaurato nel 2007 da George Bush e consolidato in seguito da Barack Obama” (Courrier international del 17 gennaio 2013).
In realtà, in questa regione del globo, le alleanze imperialiste sono estremamente complesse e molto instabili. Gli amici di oggi possono diventare i nemici di domani quando non lo sono entrambi allo stesso tempo! Tutti sanno che l’Arabia Saudita e il Qatar, “Grandi alleati" dichiarati della Francia e degli Stati Uniti, sono anche i principali finanziatori dei gruppi islamici che agiscono nel Sahel. Non sorprende quindi leggere nelle colonne di Le Monde del 18 gennaio, che il Primo ministro del Qatar si sia pronunciato contro la guerra che la Francia ha intrapreso nel Mali mettendo in dubbio la pertinenza dell’operazione “Serval”. E che dire delle superpotenze Stati Uniti e Cina che sostengono ufficialmente la Francia per giocare meglio dietro le quinte e continuare a far avanzare le loro pedine?
La Francia impantanata da molto tempo nel Sahel
Come gli Stati Uniti in Afghanistan, la Francia ha grandi probabilità di arenarsi sul nuovo campo di guerra. L’imperialismo francese sta manifestando il suo insabbiamento nel “pantano del Mali”, e più in generale nel Sahel, a tempo indeterminato (Hollande parla di “tempo necessario”). “Se l’operazione militare si giustifica per i pericoli rappresentati dalle attività di gruppi terroristici, ben armati e sempre più fanatici, essa non è esente da rischi di impantanamento e di instabilità duratura di tutta la regione ovest-africana. Non possiamo evitare, difatti, di assimilarla alla Somalia. La violenza nel paese, in seguito ai tragici avvenimenti di Mogadiscio all’inizio degli anni 90, si è propagata in tutto il Corno d’Africa che, vent’anni dopo, non sempre ha ritrovato la sua stabilità”. (A. Bourgi, Le Monde, 15 gennaio 2013). Quest’ultima idea è significativa: la guerra in Somalia ha destabilizzato tutto il Corno d’'Africa che “vent’anni dopo, non sempre ha ritrovato la sua stabilità ". Ecco cosa sono queste pretese guerre “umanitarie” o “antiterrorismo”. Quando le “grandi democrazie” sventolano la bandiera dell’intervento militare per difendere il “benessere dei popoli”, la “morale” e la “pace”, si lasciano sempre dietro campi di rovine dove regna l’odore della morte.
Dalla Libia al Mali, dalla Costa d’Avorio all’Algeria, il caos si generalizza
“Impossibile (…) non notare che il recente colpo di Stato (nel Mali) è un effetto collaterale delle ribellioni del Nord, che sono esse stesse la conseguenza della destabilizzazione della Libia per opera di una coalizione occidentale che non prova stranamente né rimorsi né sentimenti di responsabilità. Difficile anche non notare questo harmattan (vento africano) che soffia sul Mali, dopo essere passato per i suoi vicini ivoriani, guineani, nigeriani e mauritani” (Courrier international, 11 aprile 2012). In effetti, sono stati molti i gruppi armati che si sono battuti al fianco di Gheddafi e che oggi si trovano nel Mali, e altrove, con le proprie armi dopo avere svuotato i depositi di armi libici.
Eppure, anche in Libia, la “coalizione occidentale” è intervenuta con la scusa di far regnare l’ordine e la giustizia, per il benessere del popolo libico… Oggi, gli oppressi di questa regione del mondo subiscono la stessa barbarie e il caos continua a estendersi. Con questa guerra in Mali tocca all’Algeria essere destabilizzata. Il 17 gennaio un battaglione di AQMI[1] ha catturato centinaia di persone impiegate in un sito di produzione di gas a Tigantourine. L’esercito algerino ha reagito sparando massicciamente sui rapitori e i loro ostaggi facendo dozzine di morti. Di fronte a questa carneficina, Hollande ha dichiarato, come qualsiasi guerrafondaio della classe dominante è costretto a fare oggi per difendere il proprio campo, “un paese come l’Algeria ha le risposte che mi sembrano, almeno per me, le più adeguate perché non c’era possibilità di negoziati”. Questa entrata dell’Algeria nella guerra del Sahel, salutata come si deve da un capo di Stato preso dalla logica imperialistica, dimostra in quale cerchio infernale sta sprofondando il capitalismo. In fin dei conti: “Per Algeri, quest’azione inedita sul suo territorio spinge ancor più il paese in una guerra che ha cercato con tutti i mezzi di evitare, per timore delle conseguenze all’interno alle sue frontiere.” (Le Monde, 18 gennaio 2013).
Sin dall’inizio della crisi del Mali, il potere algerino ha condotto un doppio gioco, come dimostrano due fatti significativi: da un lato “ha negoziato” apertamente con certi gruppi islamisti lasciando anche alcuni di questi si rifornissero sul suo suolo di grosse quantità di carburante durante la loro offensiva per la conquista della città di Konna in direzione di Bamako; dall’altro, Algeri ha autorizzato gli aerei francesi a sorvolare il suo spazio aereo per bombardare i gruppi jihadisti nel nord del Mali. Questa posizione contraddittoria e la facilità con la quale gli elementi dell’AQMI hanno potuto accedere al sito industriale più “protetto” del paese, mostrano il carattere decomposto degli ingranaggi dello Stato e della società. Come per gli altri Stati del Sahel, l’entrata in guerra dell’Algeria non può che accelerare il processo di decomposizione in corso.
Tutte queste guerre indicano che il capitalismo è immerso in una spirale estremamente pericolosa, che mette in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità. In modo progressivo, intere zone del globo sprofondano nel caos e la barbarie. Si mescola la ferocia dei torturatori locali (signori della guerra, capi clan, bande terroristiche…), la crudeltà degli imperialismi di second’ordine (piccoli e medi Stati), e il potere devastante delle grandi nazioni, e ognuno di questi è pronto a tutto, a ogni intrigo, a tutti i colpi bassi, a tutte le manipolazioni, a tutti i crimini, a tutte le atrocità… per difendere i propri miserabili e patetici interessi. Gli incessanti cambiamenti di alleanze danno all’insieme un’immagine di danza macabra.
Questo sistema moribondo continua a sprofondare, questi conflitti armati continuano a estendersi, arroventando sempre più vaste regioni del globo. Scegliere un campo, in nome del male minore, significa partecipare a questa dinamica che potrà avere come sbocco solo la morte dell’umanità. C’è una sola alternativa realistica, un solo modo di uscire da questo ingranaggio infernale: la lotta di massa e internazionale degli sfruttati per un mondo diverso, senza classi né sfruttamento, senza miseria né guerra.
Amina (19 gennaio)
Intanto questi ultimi, e soprattutto quelli che hanno perso il lavoro, che stanno in cassa integrazione da anni, o quelli che non riescono più a vivere con i pochi soldi che guadagnano, ma anche quelli che hanno dovuto chiudere la loro piccola attività, che hanno visto un proprio caro suicidarsi perché oberato di debiti o umiliato dalla povertà, ed ancora la stragrande maggioranza dei precari a vita o di giovani che non riescono a diventare neanche questo, tutti questi guardano a questa sceneggiata con sempre maggiore disincanto. E spesso in questi giorni si sente dire dalla gente più diversa “Ma vale la pena andare a votare?”.
Eppure il “senso civico”, l’idea che comunque non si può restare passivi, che almeno si può tentare di scegliere “il male minore”, alla fine possono prendere il sopravvento e portarci nella cabina elettorale, anche se con un nodo allo stomaco.
E’ vero, non si può rimanere inerti di fronte alla degradazione continua delle nostre condizioni di vita. Reagire è legittimo, anzi necessario. Ma è veramente mobilitandosi sul piano elettorale che possiamo far fronte a tutti questi attacchi?
La democrazia, una grande macchina per seminare illusioni
Formalmente il diritto di voto è un bene prezioso. Grazie a questo ogni cittadino ha nelle proprie mani il potere di scegliere la politica nella sua città, la sua regione, la sua nazione. È il fondamento della democrazia. Ma questo “potere” non è forse una farsa?
Ad ogni elezione sembra che si scontrino progetti differenti per il futuro della società. Adesso i vari Bersani, Vendola, ecc. ci vengono a parlare di difesa dei più deboli, di “equità sociale”, di sviluppo economico basato sull’occupazione e sulle opportunità per i giovani. Aria fritta! La politica portata avanti dalla sinistra per decenni, e che i proletari hanno pagato a proprie spese, non si differenzia affatto da quella della destra. I governi di destra del famigerato Berlusconi hanno solo continuato l’opera iniziata da Prodi e compagni di smantellamento delle pensioni e dell’assistenza sanitaria, di precarizzazione del lavoro, di aumento dei carichi di lavoro… E non poteva che essere così. Tutte queste misure erano necessarie per la competitività dell’economia nazionale. Anzi, l’ultimo governo Berlusconi è stato tolto di mezzo proprio perché non abbastanza attento e capace su questo piano quando la crisi mondiale necessitava, e necessita tuttora, misure ancora più draconiane. Cosa a cui ha provveduto il governo Monti. E chiunque vincerà queste elezioni non potrà che continuare sulla strada di Monti.
La propaganda elettorale serve appunto a nascondere questa cruda verità facendo credere nella possibilità di un’alternativa: “Sì, un’altra politica è possibile... a condizione che si voti bene”. Fandonie e fumo negli occhi! Cosa potrà essere il nuovo governo? Forse che Berlusconi, Bersani, Monti, Maroni, Ingroia, Vendola e lo stesso Grillo, con tutto il loro seguito, non appartengono alla stessa famiglia... la borghesia? Le differenze che separano i partiti borghesi sono nulla in confronto a ciò che hanno in comune: la difesa del capitale. E per difendere questo, tutti questi signori sono ben capaci di lavorare insieme, gomito a gomito, specialmente dietro le porte chiuse delle commissioni parlamentari e i più alti livelli dell’apparato statale. Quello che vediamo in Parlamento non sono che scaramucce all’interno della borghesia. I membri del Parlamento sono diventati nei fatti dei funzionari dello Stato con il compito, di volta in volta, di gesticolare in aula davanti alle telecamere per fingere indignazione rispetto a questa o quella misura, questa o quella parola “fuori posto” di un altro deputato... tutto questo per impressionare la platea e farla illudere che ci sia un’intensa vita democratica.
Nella realtà, le elezioni non offrono nessuna vera alternativa, nessuna via d’uscita. La possibilità di essere ascoltati attraverso le urne è solo un’illusione sapientemente mantenuta.
Isolato, il proletario è impotente
Se la classe operaia non ha nulla da guadagnare sul terreno elettorale, la borghesia ne esce vincente ogni volta. Trasformando i proletari in cittadini-elettori, li diluisce nella massa della popolazione, li isola gli uni dagli altri. Soli e quindi impotenti, può cercare di ficcare nel loro cervello quello che vuole.
“Tutti gli uomini sono nati liberi ed uguali davanti alla legge”, questo è inciso nel marmo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per questo ogni cittadino ha un diritto inalienabile, quello di votare. Questa ideologia può essere riassunta in una semplice equazione: un individuo = un voto. Ma il problema è proprio che questa bella affermazione di principio è solo virtuale. Nel mondo reale gli uomini sono tutt’altro che uguali. Nel mondo reale la società è divisa in classi. Sopra e dominante, con le redini in mano, c’è la borghesia; sotto, ci sono tutti gli altri strati della società e in particolare la classe operaia. In concreto questo significa che una minoranza detiene lo Stato, i capitali, i media... La borghesia può quindi imporre ogni giorno le sue idee, la sua propaganda.
Questo rullo compressore mediatico passa e ripassa sul corpo elettorale da mesi. La propaganda non si ferma un solo istante. Riviste, giornali, programmi speciali si susseguono ad un ritmo infernale caso mai (mai sia!) i lavoratori si mettano a riflettere un istante per conto loro. Questo lavaggio del cervello non è nuovo. Il primo Congresso dell’Internazionale Comunista affermava già nel 1919: “(la libertà di stampa) è illusoria, finché i migliori stabilimenti tipografici e le più grosse forniture di carta sono nelle mani dei capitalisti (...). I capitalisti danno il nome di libertà di stampa alla libertà dei ricchi di comperare la stampa, alla libertà di usare la ricchezza per creare e distorcere la cosiddetta opinione pubblica”[1].
Votando, il proletario diventa passivo e spettatore
Chi osa “confessare” che pensa di non andare più a votare perché è da anni che ci prendono in giro, che i politici sono tutti uguali e lui si rifiuta di scegliere tra peste e colera, quasi sempre si sente rispondere che non votare significa... far ritornare il fascista e dittatore Berlusconi! L’antidemocratico per eccellenza che vuole imporre solo i suoi interessi personali ed economici, infischiandosene, anzi, limitando i diritti degli altri.
Appoggiandosi sulla paura del fascismo, che plana come un’ombra lontana sulle nostre teste, la borghesia insiste instancabilmente sulla fragilità della democrazia, sulla necessità per tutti di difenderla e farla vivere. Così facendo tenta di annientare preventivamente qualsiasi idea di avanzare dei dubbi sulla questione elettorale. Il succo dell’argomentazione è semplice: anche se la democrazia non è perfetta, consente a tutti di essere ascoltati. È pertanto vietato rovinare questa possibilità.
Ma a guardare più da vicino, ancora una volta, la realtà è tutt’altra. La democrazia borghese serve da maschera alla dittatura che esercita il capitale. Votare dà l’illusione di agire. L’elettore diventa attore giusto per 3 secondi, il tempo di infilare la scheda elettorale nell’urna, un attore costretto a giocare un copione scritto da qualcun altro. Una volta eletto “il responsabile politico”, l’elettore ritorna ad essere uno spettatore.
La classe operaia deve darsi i mezzi per sviluppare un modo di vivere, di agire e di decidere collettivamente radicalmente diverso. Nella democrazia borghese, una volta ogni tot anni, la società fa finta di avere una grande discussione collettiva nella quale tutti sono coinvolti. Nella lotta, al contrario, il coinvolgimento di tutti è reale. Nelle assemblee generali autenticamente proletarie, la parola è condivisa, i dibattiti sono aperti e fraterni e, soprattutto, i delegati sono revocabili. Questa revocabilità è importante, perché significa che il potere resta nelle mani delle masse. Se il delegato non difende più l’interesse generale lo si cambia. La lotta in Polonia nel 1980 è stato un esempio eclatante di questa vita proletaria in azione, di questa volontà di agire davvero collettivamente. Quando il comitato di sciopero, costituito da delegati eletti, si riuniva la folla ascoltava da fuori, grazie a microfoni e altoparlanti, gli sviluppi delle discussioni e manifestava gridando la sua approvazione o disapprovazione! Non era immaginabile lasciare che un pugno di persone decidesse per tutti[2].
C’è quindi un abisso tra la democrazia borghese e la vita politica proletaria. Da un lato le manovre, le manipolazioni, il potere nelle mani di una minoranza dominante. Dall’altro, la solidarietà, il dibattito aperto e fraterno, il potere nelle mani delle masse! Da decenni, le elezioni si susseguono e sono sempre le stesse. Durante la campagna elettorale i candidati fanno a gara a chi promette di più, giurando con la mano sul cuore che con loro il futuro sarà migliore. Ma una volta eletti, di destra o di sinistra, tutte le loro belle parole volano via per ricadere sotto forma di attacchi brutali. Sempre la stessa politica antiproletaria, sempre la stessa austerità. Di queste “disillusioni” la classe operaia ne ha fin sopra ai capelli.
Il terreno elettorale è campo della borghesia. Su questo campo di battaglia, tutte le armi sono nelle mani della classe dominante che ne esce ogni volta vittoriosa, mentre il proletariato ne esce ogni volta sconfitto. Invece per la strada, nelle fabbriche, in assemblea generale, i lavoratori possono unirsi, organizzarsi e battersi collettivamente. La solidarietà della classe operaia è una delle chiavi per il futuro a differenza di questi miserabili pezzi di carta chiamati schede elettorali!
Pawel
(Adattato dall’articolo pubblicato da Révolution Internationale il 5 giugno 2007).
[1] “Tesi approvate al primo congresso del Comintern sulla democrazia borghese e la dittatura proletaria”, scritte da Lenin e adottate dal congresso, 4 marzo 1919, J. Degras, Storia dell’Internazionale comunista, primo tomo, Feltrinelli
[2] Leggere la nostra brochure 'Sulla Polonia' (non disponibile on-line attualmente).
Links
[1] https://it.internationalism.org/files/it/images/egypte.jpg
[2] https://libcom.org/forums/news/we-can-smell-tear-gas-rio-taksim-tahrir-29062013
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/4/55/africa
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[5] https://es.internationalism.org/content/3535/debate-proposito-de-la-huelga-general
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[7] https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[10] https://fr.internationalism.org/ri430/drame_a_port_said_en_egypte_une_provocation_policiere_pour_baillonner_la_revolte_populaire.html
[11] https://www.google.com/url?q=https://fr.internationalism.org/icconline/2011/egypte_un_changement_de_regime_n_est_pas_une_revolution.html&sa=U&ei=UHJYUZ_PLom5hAeWooCIAQ&ved=0CB8QFjAJ&client=internal-uds-cse&usg=AFQjCNFLNxBJDR6Chll-5F6BNBNJZBiYqg
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/2/35/lotte-parziali
[13] https://it.internationalism.org/files/it/images/mali-bmp.articleimage.jpg
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/2/31/linganno-parlamentare