Aprile-Maggio 2011
Dichiarandosi vivamente preoccupato per il deterioramento della situazione, la scalata della violenza e le pesanti perdite civili, (…)
Condannando la violazione flagrante e sistematica dei diritti dell’uomo, ivi compreso detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture ed esecuzioni sommarie, (…)
Considerando che gli attacchi generalizzati e sistematici commessi attualmente nella Jamahiriya arabo-libica contro la popolazione civile possono costituire dei crimini contro l'umanità, (…)
Dichiarandosi risoluto ad assicurare la protezione dei civili, (…)
Autorizza gli Stati Membri che hanno inviato al Segretario generale una notificazione a questo fine (…) a prendere ogni misura necessaria, (…) per proteggere le popolazioni (…)” (Risoluzione ONU 1973 - Libia, 17 marzo 2011).
Una volta ancora, gli alti dirigenti di questo mondo utilizzano belle formule umanitarie, fanno bei discorsi, con voce vibrante, sulla “democrazia”, la “pace” e la “sicurezza delle popolazioni”, per giustificare meglio le loro avventure imperialiste.
Così, dal 20 marzo, una “coalizione internazionale”[1] conduce in Libia un’operazione militare di grande portata, chiamata poeticamente dagli Stati Uniti “Alba dell’Odissea”. Ogni giorno, decine di aerei decollano dalle due potenti portaerei francese ed americana per sganciare tappeti di bombe su tutte le regioni dove si suppone la presenza di forze armate fedeli al regime di Gheddafi[2].
Detto con chiarezza, è guerra!
Tutti questi Stati non fanno che difendere i propri interessi… a colpi di bombe.
Evidentemente Gheddafi è un dittatore pazzo e sanguinario. Dopo settimane di arretramento di fronte alla ribellione, l’autoproclamata “Guida libica” ha saputo riorganizzare le sue truppe scelte per contrattaccare. Giorno dopo giorno, è riuscito a riguadagnare terreno, schiacciando tutto al suo passaggio, “ribelli” e popolazione. E sicuramente, quando è stata scatenata l’operazione Alba dell’Odissea, si preparava ad annegare nel loro stesso sangue gli abitanti di Bengasi.
Le sortite aeree della coalizione hanno provocato pesanti danni alle forze di repressione del regime e dunque, effettivamente, hanno evitato il massacro annunciato.
Ma chi può credere per un solo istante che questo spiegamento di forze armate abbia avuto realmente per scopo il benessere della popolazione libica?
Dov’era questa stessa coalizione quando Gheddafi nel 1996 ha fatto massacrare 1000 detenuti nella prigione Abu Salim di Tripoli? In realtà, è da quarant'anni che questo regime arresta, tortura, terrorizza, fa sparire, ammazza … in tutta impunità.
Dove era ieri questa stessa coalizione quando Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto o Buteflika in Algeria ordinavano di sparare sulla folla all’epoca dei sollevamenti di gennaio e febbraio?
E che fa oggi questa stessa coalizione di fronte ai massacri che hanno luogo nello Yemen, in Siria o in Bahrein? Oh pardon… qui non possiamo dire che essa è completamente assente: uno dei suoi membri, l’Arabia Saudita, interviene infatti per sostenere lo Stato del Bahrein… a reprimere i manifestanti! Ed i suoi complici a chiudere gli occhi.
I Sarkozy, i Cameron, gli Obama ed amici possono anche presentarsi come fieri salvatori, difensori di vedove e di orfani, ma la sofferenza dei “civili” di Bengasi è stata per loro solo un alibi per intervenire militarmente in zona a difendere i loro rispettivi sordidi interessi imperialisti. Tutti questi gangster hanno una ragione, che non ha niente a che vedere con l’altruismo, nel lanciarsi in questa crociata imperialista.
Questa volta, contrariamente alle ultime guerre, gli Stati Uniti non sono i capofila dell’operazione militare. Perché? In Libia, la borghesia americana è costretta a giocare all’equilibrista.
Da un lato, non può permettersi di intervenire massicciamente per via terrestre sul suolo libico. Ciò sarebbe percepito dall’insieme del mondo arabo come un’aggressione ed una nuova invasione. Le guerre di Iraq e dell’Afghanistan hanno in effetti rafforzato ancor più l’avversione generalizzata per “l’imperialismo americano, alleato di Israele”. Ed il cambiamento di regime in Egitto, tradizionale alleato dello Zio Sam, ha indebolito ulteriormente la sua posizione nella regione[3].
Tuttavia, non possono restare fuori dal gioco senza rischiare totalmente di compromettere il loro statuto di “combattenti per la democrazia nel mondo”. Ed evidentemente è fuori questione per loro lasciare il campo libero al tandem Francia/Gran Bretagna.
La partecipazione della Gran Bretagna ha un doppio obiettivo. Anch’essa tenta, presso i paesi arabi, di ridorare il suo blasone sbiadito dai suoi interventi in Iraq ed in Afghanistan. Ma serve anche ad abituare la propria popolazione agli interventi militari esterni che in avvenire non mancheranno di moltiplicarsi. Perciò “Salvare il popolo libico da Gheddafi” è l'occasione perfetta[4].
Il caso della Francia è un po’ differente. Si tratta del solo grande paese occidentale a godere di una certa popolarità nel mondo arabo (acquistata sotto De Gaulle) ed amplificata dal suo rifiuto a partecipare all’invasione dell’Iraq nel 2003.
Intervenendo in favore del “popolo libico”, il presidente Sarkozy sapeva perfettamente che sarebbe stato accolto a braccia spalancate dalla popolazione e che i paesi vicini avrebbero visto di buon occhio questo intervento contro un Gheddafi per loro estremamente incontrollabile ed imprevedibile. Ed infatti, a Bengasi, hanno echeggiato dei “Viva Sarkozy”, “Viva la Francia”[5]. Per una volta, lo Stato francese è riuscito ad approfittare con tempestiva opportunità della cattiva posizione americana.
Il presidente della Repubblica francese ne ha approfittato anche per effettuare dei recuperi relativi ai ripetuti spropositi del suo governo in Tunisia ed in Egitto (sostegno ai dittatori alla fine cacciati dalle rivolte sociali, consultazioni conosciute durante queste lotte tra i suoi ministri ed i regimi locali, proposta di mandare le sue forze di polizia per affiancare la repressione in Tunisia…).
Non possiamo qui dettagliare gli interessi particolari di ogni Stato della coalizione che colpisce oggi la Libia, ma una cosa è sicura: non si tratta per niente di umanesimo o di filantropia! E ciò vale anche per coloro che, reticenti, si sono astenuti dal votare la risoluzione dell’ONU o lo hanno fatto con la punta delle dita.
Per quanto riguarda Cina, Russia e Brasile, questi paesi si sono mostrati molto ostili a questo intervento semplicemente perché non hanno niente da guadagnare dalla cacciata di Gheddafi.
L’Italia ha invece tutto da perdere. Il regime attuale assicurava finora un accesso facile al petrolio ed un controllo draconiano delle frontiere. La destabilizzazione del paese può rimettere in causa tutto ciò.
La Germania di Angela Merkel oggi è ancora un nano militare. Tutte le sue forze sono impegnate in Afghanistan. Partecipare a queste operazioni avrebbe reso più chiara questa debolezza. Come scrive il giornale spagnolo El País “Assistiamo ad una riedizione del riequilibrio costante della relazione tra il gigantismo economico tedesco, che si è manifestato durante la crisi dell’euro, e la capacità politica francese che si esercita anche attraverso la potenza militare”[6].
Alla fine la Libia, come l’insieme del Medio Oriente, somiglia oggi ad un’immensa scacchiera dove le grandi potenze tentano di avanzare le loro pedine.
Perché le grandi potenze intervengono adesso?
Sono settimane che le truppe di Gheddafi avanzano verso Bengasi, il feudo dei ribelli, massacrando qualsiasi cosa che si muova sul loro passaggio. Perché i paesi della coalizione, se avevano tali interessi ad intervenire militarmente nella regione, hanno aspettato tanto?
Nei primi giorni, il vento di rivolta che ha soffiato in Libia veniva dalla Tunisia e dall’Egitto. La stessa collera contro l’oppressione e la miseria arroventava tutti gli strati sociali. Era dunque fuori discussione che le “Grandi democrazie di questo mondo” potessero sostenere realmente questo movimento sociale, malgrado i loro bei discorsi di condanna della repressione. La loro diplomazia rifiutava infatti ipocritamente ogni ingerenza e sosteneva il “diritto dei popoli a fare la loro storia”. L’esperienza insegna che: ad ogni lotta sociale la borghesia di tutti i paesi chiude gli occhi sulle più orribili repressioni, quando non dà loro direttamente man forte!
Ma in Libia, quella che inizialmente sembrava una vera rivolta di “quelli in basso”, con civili disarmati che partono coraggiosamente all’assalto dalle caserme dei militari ed incendiano i Quartier Generali dei pretesi Comitati del Popolo, si è trasformata velocemente in una sanguinosa “guerra civile” tra frazioni della borghesia. In altre parole, il movimento è scappato dalle mani degli strati non sfruttatori. La prova è che uno dei capi della ribellione e del CNT (Consiglio Nazionale di Transizione) è Al Jeleil, l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi! Quest’uomo, che sicuramente ha le mani coperte di tanto sangue quanto la sua vecchia “Guida”, ne diventa rivale. Altro indizio, mentre “i proletari non hanno patria”, questo governo provvisorio si è dato per bandiera i colori del vecchio regno della Libia. Ed infine, Sarkozy ha riconosciuto i membri del CNT come i “legittimi rappresentanti del popolo libico”.
La rivolta in Libia ha dunque preso una piega diametralmente opposta a quella delle sue grandi sorelle tunisine ed egiziane. Ciò è dipeso principalmente dalla debolezza della classe operaia di questo paese. La principale industria, il petrolio, dà possibilità di lavoro quasi esclusivamente ai lavoratori venuti dall’Europa, dal resto del Medio Oriente, dall’Asia e dall’Africa. Questi ultimi, fin dall’inizio, non hanno preso parte al movimento di contestazione sociale. Il risultato è che la piccola borghesia locale ha dato i propri colori alla lotta, da cui si spiega per esempio l’esibizione continua della bandiera nazionale. Peggio ancora! I lavoratori “stranieri”, non potendo riconoscersi in questi combattimenti, sono fuggiti. Si sono avute anche delle persecuzioni di lavoratori neri per mano delle forze “ribelli” perché, correndo voci abbastanza diffuse che certi mercenari dell’Africa nera erano stati reclutati dal regime per schiacciare le manifestazioni, il sospetto cadeva su tutti gli immigranti provenienti da quelle regioni.
Lotte operaie contro guerre imperialistiche
Questo ribaltamento di situazione in Libia ha delle conseguenze che superano largamente le sue frontiere. La repressione di Gheddafi prima e l’intervento della coalizione internazionale poi costituiscono un freno per tutti i movimenti sociali della regione. Ciò permette anche agli altri regimi dittatoriali contestati di dedicarsi senza problemi ad una sanguinosa repressione. Ed è ciò che è capitato in Bahrein, dove l’esercito saudita ha dato man forte al regime di questo paese nel reprimere violentemente le manifestazioni[7], nello Yemen, dove il 18 marzo le forze governative non hanno esitato a sparare sulla folla, provocando altri 51 morti, e più recentemente in Siria.
Detto ciò, non è del tutto certo che la Libia costituisca un punto di arresto della rivolta. Anche se la situazione libica rappresenta una pesante palla al piede del proletariato mondiale, essa, di fronte ad una collera così profonda dovuta allo sviluppo della miseria, non riesce a paralizzarlo totalmente. Nel momento in cui scriviamo sono previste manifestazioni a Riad, anche se il regime saudita ha già decretato che tutte le manifestazioni sono contro la sharia. In Egitto ed in Tunisia, dove si pretende che la “rivoluzione” abbia già trionfato, continuano scontri tra i manifestanti e lo Stato, ora “democratico” ed amministrato dalle forze che sono più o meno le stesse che hanno condotto la danza prima della destituzione dei “dittatori”. Allo stesso modo continuano manifestazioni in Marocco, malgrado l’annuncio del re Mohammed VI di passare ad una monarchia costituzionale.
Comunque sia, per tutte queste popolazioni prese sotto il giogo di terribili repressioni e talvolta sotto le bombe democratiche delle differenti coalizioni internazionali, il cielo si schiarirà veramente solo quando il proletariato dei paesi centrali, in particolare dell’Europa occidentale, svilupperà a sua volta lotte massicce e determinate. Allora, armato della sua esperienza, particolarmente rispetto alle trappole del sindacalismo e della democrazia borghese, potrà mostrare le sue capacità di autorganizzarsi ed aprire la via di una vera prospettiva rivoluzionaria, unico avvenire per tutta l’umanità.
Essere solidali con tutti coloro che oggi cadono sotto i proiettili non significa sostenere il regime di Gheddafi, né i “ribelli”, né la coalizione dell’ONU! Al contrario, bisogna denunciare tutti questi come cani imperialisti!
Essere solidali, significa scegliere il campo dell’internazionalismo proletario, lottare contro i nostri specifici sfruttatori e massacratori in tutti i paesi, partecipare allo sviluppo delle lotte operaie e della coscienza di classe ovunque nel mondo!
Pawel (25 marzo)
[1] Regno Unito, Francia, Stati Uniti in particolare, ma anche Italia, Spagna, Belgio, Danimarca, Grecia, Norvegia, Paesi Bassi, Emirati Arabi Uniti e Qatar.
[2] A voler credere ai mass-media occidentali, solo gli uomini di Gheddafi muoiono sotto queste bombe. Ricordiamoci invece che, durante la Guerra del Golfo, questi stessi media avevano anche fatto credere ad una “guerra pulita”. In realtà, nel 1991, in nome della protezione del “piccolo Kuwait” invaso dall’esercito del “macellaio” Saddam Hussein, la guerra provocò parecchie centinaia di migliaia di vittime.
[3] Anche se la borghesia americana è riuscita a limitare i danni sostenendo l’esercito per sostituire il regime maledetto dalla popolazione.
[4] Bisogna ricordare che nel 2007, a Tripoli, l’ex primo ministro britannico Tony Blair baciava calorosamente il colonnello Gheddafi, ringraziandolo della firma di un contratto con BP. Le denunce attuali del “dittatore pazzo” sono solo puro cinismo ed ipocrisia!
[5] Ricordiamo che la borghesia francese in questo caso non fa che rivoltare ancora una volta vestito, dopo aver ricevuto in pompa magna Gheddafi nel 2007. Del resto, le immagini della sua tenda piantata nel bel mezzo di Parigi hanno fatto il giro del mondo ridicolizzando ancora una volta e di più Sarkozy e la sua cricca. Ma oggi, la scena è cambiata.
[7] Anche qui, del resto, la debolezza della classe operaia favorisce queste repressioni. Il movimento è dominato in effetti dalla maggioranza sciita, sostenuta dall’Iran.
Di norma le elezioni amministrative non assumono una grande importanza in quanto si tratta del governo locale e i fronti elettorali possono essere trasversali. Queste votazioni si inseriscono però in una situazione particolarmente calda, con un governo che, portato al potere con una maggioranza schiacciante soltanto tre anni fa, sembra essere oggi alla frutta avendo perso prima l’appoggio del gruppo di Fini e ultimamente finanche l’intesa con la Lega Nord che sembrava inossidabile.
Nei fatti la situazione è cambiata moltissimo da quando Berlusconi è stato eletto in quanto tutti hanno potuto verificare che il premier non è stato assolutamente all’altezza di difendere il sistema Italia di fronte alla concorrenza internazionale nella misura in cui è stato totalmente preso dalla difesa dei suoi interessi personali che non coincidevano con quelli dello Stato. Di fronte a questa situazione, la componente più responsabile della borghesia italiana ha cercato, invano, di farlo fuori, di farlo dimettere, ma ha trovato di fronte a sé un osso duro. Berlusconi, forte della sua maggioranza parlamentare, ha stravolto di continuo le regole del gioco, bloccando uno per uno tutti i processi in cui era coinvolto con tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la modifica delle leggi in modo da prescrivere i suoi reati. Nel momento del massimo pericolo, quando si è avuto il distacco del gruppo di Fini e la messa in minoranza del suo governo alla Camera, ha dimostrato che cosa sono i deputati e i senatori in un sistema democratico: una merce! Basta pagare il giusto prezzo e li si acquista! Insomma, Berlusconi ha dimostrato che cosa è la democrazia, il parlamento, qualcosa utile solo ad approvare ciò che l’esecutivo decide. La sopravvivenza di Berlusconi passa quindi attraverso la vittoria alle prossime elezioni amministrative; se le vince, vuol dire che lui ha il diritto di fare ciò che vuole, viene sgravato da qualsiasi delitto, visto che il popolo continua a sostenerlo: vox populi, vox dei!
Ma la permanenza di Berlusconi sarebbe una vera catastrofe per la borghesia. Berlusconi non è soltanto un personaggio impresentabile, sia a livello nazionale che internazionale, essendo diventato lo zimbello di tutti, per le sue caratteristiche “umane”, per come si comporta da pagliaccio in tutte le occasioni pubbliche, ma soprattutto perché fa danni alla stessa borghesia curando, ad esempio, nelle relazioni internazionali con un Putin o un Gheddafi, più i suoi interessi personali che quelli del paese, o ancora rimandando per ben 5 mesi la nomina del nuovo ministro dello sviluppo economico in piena crisi economica solo per riservarsi il posto di governo come carta di scambio per i favori che gli occorrono. Un premier che si attornia di cosiddette escort, personaggi più o meno squallidi, che considera il personale dello Stato come dei suoi servitori, che sputa sulla magistratura, sui dipendenti statali, sul parlamento, etc. non può continuare a gestire gli affari dello Stato. Il discredito gettato sulle istituzioni borghesi e sulla democrazia è a un punto critico, tanto è vero che Napolitano è sempre più costretto a intervenire per riportare le cose al loro posto.
E’ proprio per recuperare un certo livello di credibilità per la classe politica che da più parti si levano appelli ad una correttezza in uno stato di diritto “teorico”, che sono la magistratura, un parlamento fatto di persone degne, la costituzione, il presidente della Repubblica, quegli elementi che è necessario difendere e sostenere. Più Berlusconi attacca queste istituzioni, come se fosse un rivoluzionario, più si rafforzano le campagne per difenderle.
Questa campagna politica viene portata avanti da moltissimi mesi, soprattutto da quando il premier è inciampato nel caso Ruby, in modi del tutto anomali rispetto agli anni passati. Non sono tanto i grandi partiti di centro sinistra presenti nel parlamento ad organizzarla, anzi questi sono diventati del tutto incapaci di dare una qualsiasi risposta alle esigenze dello Stato, ma i gruppi più o meno informali nati dal basso come il popolo viola o costruiti da personaggi capaci di polarizzare l’attenzione del pubblico, come i Grillo, Santoro, Travaglio,… e naturalmente alcune testate giornalistiche come La Repubblica, Il fatto quotidiano ed il Manifesto.
Il programma televisivo Anno Zero, condotto da Santoro, vede l’ascolto di milioni di persone; Travaglio è diventato la punta di diamante dell’opposizione con le sue denunce perfettamente documentate delle malefatte di Berlusconi; i blog e le pagine di Facebook ci riportano ogni giorno l’ennesima denuncia dell’ennesima escort e tutti insieme ci fanno vedere la possibilità di pulire questa società una volta fatto fuori Berlusconi.
Arrivano lettere, e-mail che ci dicono che se andiamo a votare per il SI abrogativo nei 3 referendum risolviamo il problema dell’Italia! Perché, in caso di vittoria dei SI, Berlusconi dovrà per forza dimettersi, ma non spiegano perché dovrebbe farlo visto che se ne frega anche delle accuse più infamanti e documentate. Ci bombardano con argomentazioni del tipo che è necessario raggiungere il 50% degli aventi diritto al voto altrimenti il referendum non vale, che ogni voto non dato è un voto regalato a Berlusconi. Quindi ogni cittadino deve sentirsi obbligato a partecipare alla farsa elettorale, altrimenti è colpa sua se le cose restano così in Italia. Farsa elettorale, perché è lo stesso Berlusconi che, ancora una volta, ha ben dimostrato che i referendum non servono a niente, come è emerso a proposito del nucleare dove prima è stata sospesa ogni iniziativa per ordine del governo dal 19 aprile scorso in seguito al disastro di Fukushima, per poi confessare, nel recente incontro con Sarkozy, che in realtà la sospensione delle iniziative era solo un bluff per evitare che gli italiani votassero sul nucleare in una situazione emotiva forte per gli eventi giapponesi. Come dire, va bene la democrazia, ma solo quando sono sicuro che non escano fuori delle brutte sorprese dal cappello.
D’altra parte è proprio il sistema democratico che ha partorito Berlusconi. E lui, riconoscente, ha mostrato al gran pubblico cos’è il sistema democratico, un sistema che è a disposizione solo del potere, del capitale. Che una parte della borghesia non sia in accordo con lui, con la sua strategia, nulla toglie a ciò che è la democrazia. La borghesia sta comunque sfruttando fino in fondo l’odio che Berlusconi genera in strati popolari e proletari per rafforzare la difesa di questo sistema, dei suoi meccanismi di partecipazione e delega, e in ciò sta la pericolosità della campagna referendaria in atto. La volgarità di questo sistema democratico e borghese spinge molti lavoratori a prendere le distanze dai suoi meccanismi di delega con il voto segreto infilato nell’urna mentre l’“opposizione” di sinistra fa di tutto per eliminare questa presa di coscienza con uno stillicidio di inviti ad personam sull’utilità e necessità di ritornare a far vivere il sistema democratico partecipando alle elezioni e ai referendum.
Questi inviti a “partecipare” sono tanto più pressanti nella misura in cui è sempre più manifesto che i meccanismi di delega democratica borghese sono sempre più avvertiti come inefficaci, come qualcosa che non riuscirà a cambiare la condizione di sfruttamento e pauperizzazione continua in atto; che tende a farsi strada una riflessione sul fatto che invece è necessario organizzarsi in modo autonomo e con la partecipazione attiva alle lotte, che il problema non è solo Berlusconi ma tutto il sistema borghese.
Oblomov, 1 maggio 2011
Studenti e lavoratori greci residenti a Lione, in Francia, ci hanno recentemente interpellato sulla difficile situazione dei lavoratori immigrati stabilitisi sul suolo greco. Come in tutti i paesi i lavoratori immigrati presenti lì sono ora l’obiettivo di una politica disumana. Le loro condizioni di vita spaventose li stanno semplicemente spingendo verso la morte.
E’ per questo che dal 25 gennaio al 9 marzo circa 300 lavoratori immigrati hanno fatto uno sciopero della fame ad Atene e Salonicco. Hanno chiesto diritti politici e sociali uguali a quelli dei lavoratori nati in Grecia, la loro regolarizzazione e soprattutto una vita più dignitosa. Dopo più di un mese di lotta la maggior parte di loro presenta problemi di salute forse irreversibili. Il loro “Appello degli immigrati, in sciopero della fame”, chiamato anche “l’Appello dei 300” è una testimonianza commovente. Esso mostra quale crudeltà si nasconde dietro ogni discorso dei politici sulla “necessità del controllo dei flussi migratori”. Tutti questi leader politici in giacca e cravatta o in tailleur di sartoria non sono altro che assassini. La realtà di questi uomini e donne che vivono in clandestinità e sono denunciati da tutti i ministri del mondo come “approfittatori” e persino “parassiti”, è questa: “Siamo immigrati e immigrate provenienti da tutta la Grecia. Siamo arrivati inseguiti da povertà, disoccupazione, guerre e dittature”.
Questo “Appello” sottolinea anche con forza che l’unico modo per noi, lavoratori migranti e non, per resistere all’assalto del capitalismo è la solidarietà di classe nella lotta!
D’altronde, se il governo greco ha in parte ceduto alle rivendicazioni dei 300, dando loro qualche briciola (come lo sgravio fiscale), non è certamente per carità o bontà d’animo. La classe dirigente se ne frega di vedere 300 lavoratori morire a bocca aperta per uno sciopero della fame! No, ciò che l’ha costretta a reagire è l’ondata d’indignazione e di solidarietà che ha cominciato a svilupparsi nel paese. Come hanno detto gli studenti greci che ci hanno invitati a un incontro di solidarietà con i 300 a Lione: “Ci sono state in tutto il paese molte azioni di solidarietà (riunioni, manifestazioni, striscioni, occupazioni di edifici pubblici, interventi in canali televisivi, in radio, in eventi culturali, etc.), e anche all’estero. Le pressioni create da tutti questi movimenti di solidarietà possono portare alla vittoria!”
Appello degli immigrati, in sciopero della fame (Grecia, gennaio 2011)
Se vogliamo far sentire le nostre voci, non abbiamo altra scelta. Il 25 gennaio trecento di noi hanno iniziato uno sciopero della fame. I nostri centri di lotta saranno ad Atene e Salonicco.
Siamo immigrati e immigrate provenienti da tutta la Grecia. Siamo arrivati inseguiti da povertà, disoccupazione, guerre e dittature. Le multinazionali del mondo occidentale e i loro servi politici nel nostro paese non ci lasciano altra scelta che rischiare la vita decine di volte per raggiungere la porta d’Europa. L’Occidente, che saccheggia i nostri paesi e dove il tenore di vita è infinitamente migliore (rispetto al nostro), è la nostra unica speranza di vivere come esseri umani. Siamo arrivati in Grecia (per vie legali e non) e lavoriamo per la nostra sopravvivenza e la sopravvivenza dei nostri figli. Viviamo nella galera e all’ombra dell’illegalità per il profitto dei padroni e degli organismi statali, che a loro volta sfruttano brutalmente il nostro lavoro. Ci guadagniamo il pane con il sudore della fronte sognando di ottenere un giorno la parità di diritti.
Ultimamente le nostre condizioni di vita diventano sempre più difficili. Man mano che i salari e le pensioni vengono rosicchiati e che aumentano tutti i prezzi, l’immigrato viene presentato come il responsabile, il colpevole del deterioramento e dello sfruttamento selvaggio dei lavoratori greci e dei piccoli commercianti. La propaganda fascista e razzista è già diventata la lingua ufficiale degli apparati dello Stato. La terminologia fascista è riprodotta dai media quando parlano di noi. Le loro “proposte” sono già consacrate come la politica del governo: il muro a Evros, i campi fluttuanti e l’esercito europeo nel Mar Egeo, la repressione brutale nelle città, le deportazioni di massa. Vogliono far credere ai lavoratori greci che noi siamo, all’improvviso, una minaccia per loro, e che siamo gli unici colpevoli del nuovo attacco lanciato dai loro stessi governi.
La risposta alle loro menzogne e alla loro crudeltà implacabile deve essere immediata. E tocca a noi, agli immigrati, darla. Vi facciamo fronte, con la nostra vita come arma, per porre fine all’ingiustizia che ci viene fatta. Chiediamo la messa in regola di tutti gli immigrati e di tutte le immigrate. Chiediamo gli stessi diritti politici e sociali e gli stessi obblighi dei lavoratori greci.
Chiediamo ai nostri compagni di lavoro greci e ad ogni essere umano che soffre oggi dello sfruttamento del proprio sudore, di restare al nostro fianco.
Chiediamo di sostenere la nostra lotta, per non lasciare che trionfino le loro menzogne, l’ingiustizia, il fascismo e il totalitarismo delle élite politiche ed economiche. Cioè di non permettere quello che ha prevalso nei nostri paesi e che ci ha costretto ad espatriare per rivendicare una vita dignitosa per noi e per i nostri figli.
Non abbiamo altro modo per far sentire la nostra voce e per far sentire la voce dei nostri diritti.
Il 25 gennaio, trecento (300) di noi hanno cominciato uno sciopero della fame a livello nazionale, ad Atene e Salonicco. Mettiamo in pericolo le nostre vite perché comunque non viviamo con dignità. Preferiamo morire qui piuttosto che lasciare che i nostri figli ereditino quello che noi abbiamo vissuto.
Gennaio 2011
L’assemblea degli immigrati in sciopero della fame
Per ulteriori informazioni sulla lotta dei 300 è possibile visitare:
solidarité grec (francese)
L’appel de solidarité [8] (inglese e spagnolo)
Nouvelles Hors Les Murs [9] (francese)
Contra Info [10] (multi lingue)
Occupied London (inglese)
La borghesia sapeva bene che con la crisi economica e con l’instabilità che si era creata nei paesi del Nord Africa a seguito delle rivolte popolari e poi della guerra civile in Libia, gli sbarchi sarebbero aumentati. Maroni l’aveva detto già all’inizio di marzo. Però non è stato fatto niente per preparare un’accoglienza dignitosa a queste persone. Si sono invece rimpallate le responsabilità su chi doveva occuparsene con gli altri paesi europei, che facevano finta di niente.
Se nella missione guerriera in Libia hanno litigato a chi faceva di più e a chi doveva comandare la missione, rispetto ai profughi il litigio era tra chi girava le spalle di qua e chi lo faceva di là. Quando finalmente il governo italiano si è deciso a dare dei permessi di soggiorno, almeno provvisori ai profughi, in particolare tunisini, la Francia (paese preferito dai tunisini per questione di lingua e per le parentele che hanno laggiù) ha chiuso addirittura le frontiere, alla faccia di tutti gli accordi di Schengen e di libera circolazione di merci e persone nell’Unione Europea, ennesima dimostrazione che nel capitalismo non esistono diritti, ma anche le leggi scritte vengono rinnegate senza scrupoli quando non convengono più.
Ma è davvero così terribile accogliere poche decine di migliaia di persone in Europa? Chi può credere che un’area di 300 milioni di abitanti, dove si concentra il massimo del Prodotto Interno Lordo mondiale non può reggere ed organizzare l’accoglienza di qualche decina di migliaia di persone che fuggono alla miseria e alla guerra?
C’è davvero una difficoltà economica a fare questo? Quanto costa l’attuale missione contro Gheddafi, non costa sicuramente più di un’accoglienza minima ai profughi? Ed anche in termini organizzativi, le forze schierate nel Mediterraneo per fare la guerra a Gheddafi non sarebbero state più che sufficienti per aiutare queste persone a non morire per mare e a sistemarsi in una maniera decente?
Nel capitalismo in crisi non c’è niente di logico, se non la volontà di sopravvivere di un sistema agonizzante, che per farlo non esita a passare sopra ogni senso morale. Se i profughi vengono rigettati in mare è perché questo sistema non riesce nemmeno più a sfruttarli, come ha fatto per secoli. Se potesse integrarli nell’apparato produttivo non esiterebbe ad accettarli, anche solo offrendo loro una vita da schiavi salariati, come nel settecento e nell’ottocento non esitò ad andare a prenderli con la forza in quella stessa Africa, per deportarli in un’America a corto di braccia per lo sviluppo di un capitalismo ancora in ascesa. Se potesse, oggi il capitalismo butterebbe a mare anche i propri operai, ma non può farlo senza causare una rivolta sociale, per cui si “limita” a ridurli alla fame con la disoccupazione, la cassa integrazione, i bassi salari. Nel capitalismo i proletari sono tutti immigrati, non solo nel senso che spesso sono stati costretti a lasciare i propri paesi d’origine per poter lavorare, ma perché in questo sistema essi hanno cittadinanza solo a condizione che esistano le condizioni per poterli sfruttare, in caso contrario sono degli indesiderati.
Il capitalismo non ha niente di umanitario, non lo sono certo le guerre che si combattono in Afganistan o in Libia o altrove; non lo è certo l’atteggiamento che si ha verso i profughi da queste stesse guerre o dalla fame. Quando Gheddafi era un “amico” si lasciava a lui il lavoro sporco di riprenderseli ed incarcerarli. Ora che non si può più contare su di lui li si lascia all’aperto sui moli di Lampedusa, senza letti e senza cibo, per poi rinchiuderli in tendopoli-carceri, quando solo l’esercito possiede una quantità enorme di caserme abbandonate che in un niente possono essere attrezzate come centri di accoglienza (oltre a quelli che comunque esistono, anche se adesso si chiamano CIE).
I recenti avvenimenti del Nord Africa hanno messo in evidenza l’esistenza di due mondi opposti che si manifestano e che cominciano a scontrarsi: quello del capitale che implica guerra, morte, miseria, disumanità, mancanza di prospettive, e quello del proletariato che significa solidarietà, ricerca dell’unità, lotta per assicurarsi un futuro, come si è visto nelle rivolte in questi paesi e nell’atteggiamento che i giovani tunisini hanno avuto verso i proletari stranieri fuggiti dalla Libia (ed accolti in maniera mille volte più umana di come fatto dallo Stato italiano a Lampedusa) o della popolazione lampedusana, che ha sfamato e vestito i profughi finché ha potuto.
Dallo scontro di questi due mondi dipende il futuro dell’umanità stessa.
Helios
La Commune è una pubblicazione che fa riferimento all’eredità marxista. Sul suo sito web, a metà febbraio, è stato pubblicato un articolo “Sull’Egitto e la rivoluzione” che comincia così:
“Le rivoluzioni sono in realtà molto comuni. Siamo soltanto a febbraio e ci sono state già, quest’anno, due rivoluzioni: in Tunisia e in Egitto. Altre rivoluzioni recenti riguardano la Serbia (2000), la Georgia (2003), il Kirghizistan (2005) e l’Ucraina (2005). Vi sono stati due fallimenti recenti che riguardano la Tailandia (2009), il Myanmar (ex Birmania, 2007) e l’Iran (2009). Tutte queste rivoluzioni sono state, per utilizzare il termine marxista, delle rivoluzioni politiche più che sociali. Vale a dire che esse hanno rovesciato la fazione che deteneva il potere statale rimpiazzandola con un’altra”. La distinzione che fa l’autore tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale è che “una rivoluzione sociale è quella che non cambia solo la cricca al potere ma anche il modo in cui la società è organizzata”.
La visione di Trotskij nel periodo di sconfitta
Questo orientamento, da parte di chi afferma di essere marxista, non è un caso unico. Ne La Rivoluzione tradita, Trotskij considera lo Stato della Russia e dà una prospettiva alla classe operaia. Supponendo che la burocrazia sovietica sia cacciata dal potere da un nuovo partito rivoluzionario, questo partito, provvedendo a ristabilire un regime più democratico “Non avrebbe da ricorrere a misure rivoluzionarie per quanto riguarda la proprietà. Continuerebbe e spingerebbe a fondo l’esperienza dell’economia pianificata. Dopo la rivoluzione politica, dopo il rovesciamento della burocrazia, il proletariato dovrebbe compiere nell’economia riforme importantissime, non avrebbe da fare una nuova rivoluzione sociale”. In questo passaggio, la “rivoluzione politica” vuol dire non dover “ricorrere a delle misure rivoluzionarie” - cioè non è una “rivoluzione sociale”.[1]
D’altra parte, nella stessa opera, Trotskij dice: “il rovesciamento della casta bonapartista avrà, naturalmente, delle conseguenze sociali serie, ma essa stessa non si limita ai confini della rivoluzione politica”. Questo concetto dei “confini della rivoluzione politica” si trova anche nel testo In difesa del Marxismo di Trotskij, un’opera che è una raccolta di lavori scritti negli anni 1939 e 1940. In questa opera, Trotskij vede lo Stato russo “come un complesso di istituzioni sociali che continuano a persistere nonostante il fatto che le idee della burocrazia siano adesso quasi all’opposto delle idee della Rivoluzione d’Ottobre. E’ per questo che non abbiamo rinunciato alla possibilità di rigenerare lo Stato sovietico attraverso una rivoluzione politica”. A dispetto del fatto che lo Stato russo sia stato lo strumento del mantenimento dello sfruttamento e di una schiacciante repressione della classe operaia, Trotskij pensava che questo potesse essere rigenerato attraverso il processo di “rivoluzione politica”.
I principi fondanti del marxismo sulla questione
Per trovare le basi della comprensione marxista di cosa sia una rivoluzione, bisogna partire da Marx.
Nel suo articolo del 1844 «Glosse marginali di critica all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale», firmato: un Prussiano”[2], Marx analizza la frase: «una rivoluzione sociale con un’anima politica» e conclude che “Ogni rivoluzione dissolve la vecchia società; in questo senso è sociale. Ogni rivoluzione rovescia il vecchio potere: in questo senso è politica.”Egli continua: “Quanto parafrasata e insensata è una rivoluzione sociale con un’anima politica, altrettanto è invece razionale una rivoluzione politica con un'anima sociale. La rivoluzione in generale - il rovesciamento del potere esistente e la dissoluzione dei vecchi rapporti - è un atto politico. Senza rivoluzione però il socialismo non si può attuare. Esso ha bisogno di questo atto politico, nella misura in cui ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. Ma non appena abbia inizio la sua attività organizzativa non appena emergano il suo proprio fine, la sua anima, allora il socialismo si scrolla di dosso il rivestimento politico.”[3]
E’ chiaro che pur ponendosi sempre nello stesso quadro, Marx ha preso in conto gli sviluppi storici avvenuti lungo l’arco della sua vita. La prefazione all’edizione tedesca de Il Manifesto Comunista riporta che gli avvenimenti fanno sì che alcuni dettagli del suo programma politico risultino “datati”. In particolare, l’esperienza della Comune di Parigi (citando La Guerra Civile in Francia) ha dimostrato che “la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina statale esistente e farla funzionare per i suoi obiettivi”. Lo Stato deve essere distrutto dalla classe operaia affinché questa possa compiere la trasformazione della società al livello più elevato. La Comune di Parigi “fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe degli appropriatori, la forma politica finalmente scoperta che consentiva di realizzare l’emancipazione economica dal lavoro … Il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale. La Comune doveva pertanto servire da leva per estirpare le basi economiche sulle quali si fonda l’esistenza delle classi, e quindi dell’oppressione di classe.”[4]
Vi sono stati in seguito altri sviluppi nella visione marxista del processo rivoluzionario, in particolare con Stato e rivoluzione di Lenin. Ciò che hanno di più chiaro in comune è la comprensione che una rivoluzione della classe operaia è “politica” nel senso che distrugge lo Stato dei suoi sfruttatori e “sociale” nel senso che il suo scopo è la trasformazione della società. Il “politico” e il “sociale” non sono due fenomeni separati ma le due facce di una stessa lotta. Quando una fazione capitalista ne rimpiazza un’altra in seguito ad elezioni parlamentari, quando una fazione capitalista s’impadronisce del potere grazie ad un colpo di Stato militare o quando la realtà forza la borghesia a riorganizzare il suo modo di funzionare come classe dominante, nessuno di questi casi è una “rivoluzione”. In altri termini, non si può parlare di rivoluzione se lo stato capitalista resta intatto!
Le ‘rivoluzioni’ evocate nella lista della pubblicazione La Commune non sono né delle rivoluzioni sociali né delle rivoluzioni politiche. Rimpiazzare una fazione con un’altra, dal punto di vista della classe operaia, non è affatto una rivoluzione. Per la classe operaia, la distruzione dello Stato capitalista è un momento politico essenziale nella rivoluzione sociale, una parte del processo che può condurre alla liberazione di tutta l’umanità.
Barrow (4 marzo)
Tradotto da World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna.
Durante queste manifestazioni, mentre il Dipartimento di Stato americano chiedeva a più riprese ai dirigenti arabi di dar prova di moderazione verso i manifestanti, il governatore Walker minacciava, in caso di necessità, di chiamare la Guardia Nazionale per reprimere le lotte!
Ma alcuni gruppi di vecchi militari hanno risposto che il compito della Guardia Nazionale era di intervenire di fronte alle catastrofi e non di mettersi al servizio della squadra di delinquenti del governatore. La situazione politica nel Wisconsin è fragile, con la minaccia di una crisi costituzionale. L’insieme dei 14 senatori democratici dello Stato hanno disertato l’Assemblea. In più, il sindacato e i dirigenti democratici parlano apertamente di revocare il governatore e i senatori che sostengono il suo progetto di legge. Ad ogni crisi, la politica americana somiglia sempre più ad un fumetto comico!
La crisi nel Wisconsin è stata presentata dai mezzi di informazione nazionali come il primo vero scontro di un dirigente repubblicano, sostenuto dal Tea Party, che utilizza il suo nuovo potere politico per metter su un programma ideologico di distruzione dei sindacati degli impiegati del settore pubblico, che molti membri del Tea Party e del Partito Repubblicano rimproverano per il quasi fallimento dei governi dei vari Stati americani. Questi repubblicani sostengono che è necessario adottare misure di austerità per equilibrare i bilanci dello Stato paralizzato da un enorme deficit di 137 milioni di dollari. D’altra parte i Democratici e i loro amici nei sindacati lanciano grida di indignazione verso il governatore Repubblicano e i suoi alleati nazionali. Il Tea Party fa buon uso politico di un vero dilemma finanziario per alimentare la sua ideologia antisindacale. Chi ha ragione?
E’ vero che, proprio come in Europa, anche gli Stati americani sono confrontati con l’insolvibilità. Mentre a livello centrale il governo federale può disporre ancora di una certa flessibilità (stampando più dollari), i singoli Stati non hanno questo privilegio e sono dunque confrontati con il bisogno urgente di far adottare rigide misure di austerità per equilibrare i loro bilanci e mantenerli finanziariamente affidabili sul mercato obbligazionario. Nel merito, il progetto di legge del governatore Walker sembra rispondere al bisogno vitale della borghesia di ridurre i costi della forza lavoro nello Stato e guadagnare un vantaggio durevole nei futuri negoziati limitando la portata dei prossimi contratti. Questo potrebbe costituire un modello da seguire in altri Stati nella lotta per superare la loro terribile situazione fiscale.
Tuttavia, più in generale, la borghesia è anche consapevole del rischio politico e sociale insito nel lanciare attacchi pesanti contro lavoratori già martellati da un’alta disoccupazione, dal congelamento dei salari, da licenziamenti e dal crollo del mercato immobiliare. Da qui la strategia utilizzata negli USA consistente nel lanciare degli attacchi a livello locale o a quello di un singolo Stato, piuttosto che lanciare un assalto frontale, diretto e immediato sui programmi del diritto federale. Tuttavia c’è il rischio che la legge del governatore Walker vada troppo lontano destabilizzando i sindacati, che agiscono come delle unità di polizia per controllare la collera dei lavoratori, e lo stesso Partito Democratico che si appoggia sui sindacati per il finanziamento di gran parte della sua campagna elettorale. La politica del governatore Walker rischierebbe non solo di evirare i sindacati quando la borghesia ne avrà più bisogno, ma potrebbe anche minacciare di perturbare il sistema a due partiti in un vitale “Stato oscillante” che il presidente Obama ha conquistato nel 2008.
L’anno scorso ci sono state manifestazioni in California contro i tagli al bilancio dell’istruzione e recentemente gli operai nell’Ohio hanno protestato contro un progetto di legge che avrebbe limitato la negoziazione collettiva per i lavoratori dello Stato, come avevano già fatto gli insegnanti a Indianapolis. Quando il bisogno di nuovi attacchi si fa sentire, la borghesia ha bisogno di un apparato sindacale in ordine di battaglia per contenere la combattività dei lavoratori e assicurarsi che la lotta resti sul terreno della negoziazione sui salari e sui sussidi piuttosto che minacciare lo Stato stesso.
Lo stato drammatico delle finanze del Wisconsin non è un’eccezione. Quest’anno deve far fronte a un deficit di 137 milioni di dollari e per i prossimi due anni alla modica cifra di 3,6 miliardi. L’aspetto più feroce del riassetto del bilancio statale portato avanti dal governatore Walker è che la maggior parte degli impiegati dello Stato e degli enti locali devono contribuire con la metà del costo dei loro contributi pensionistici e almeno per il 12,6% dei loro premi di assicurazione malattia. Comunque, tutto questo serve a far incassare allo Stato 30 milioni di dollari da qui alla fine di giugno, cioè solo il 10% del deficit. Il resto del progetto di legge propone di economizzare quest’anno 165 milioni di dollari attraverso il semplice rifinanziamento del debito statale. Così, i risparmi più importanti non hanno niente a che vedere con gli impiegati pubblici. Ma questo non è di conforto per i lavoratori colpiti da un aumento pesante dei contributi pensionistici e dei costi sanitari. Secondo una stima, il progetto equivale mediamente a una riduzione del 10% del reddito per gli insegnanti della città di Madison.
Dato che la negoziazione dei contratti dura in media 15 mesi, il governatore ha rifiutato di incontrare i sindacati, ha prospettato misure drastiche, minacciando di licenziamento 1500 lavoratori dello Stato se il piano non fosse stato accettato. Sembra così voler rimanere fedele alla sua reputazione di soggetto aggressivo. Dobbiamo forse pensare che si tratta di un altro caso in cui un Repubblicano si piazza all’estrema destra del suo partito smantellando i sindacati? Walker è stato chiaro in proposito: “Per noi è semplice. Siamo senza un quattrino. Non ce ne frega niente dei sindacati. Noi dobbiamo riequilibrare il bilancio”. (New York Times). Dal fronte sindacale, David Ahrens, dell’UW-Madison’s Carbone Cancer Center, contesta il carattere di urgenza della situazione, dicendo: “Il tutto sarebbe più credibile se, per cominciare, il governatore avesse avuto la preoccupazione di incontrare i sindacati”. (Wisconsin State Journal)
Lo stesso presidente Obama si è speso a favore dei sindacati con il rimborso dei 200 milioni di dollari che essi avevano speso per la sua campagna elettorale a novembre e definendo i propositi di Walker “un attacco contro i sindacati”. Invece il Presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, dell’Ohio, si è congratulato con Walker per “aver affrontato i problemi che ha davanti, che sono stati trascurati per anni a discapito dell’occupazione e della crescita economica”.
Come ci si poteva aspettare, la sinistra è corsa in difesa dei sindacati in quanto migliore difesa dei lavoratori nei momenti difficili, mentre la destra li descrive come anacronismi storici che ostacolano la crescita economica e ammazzano l’occupazione. Di fronte a questo cosa devono fare i lavoratori?
Innanzitutto è importante capire il ruolo chiave che i sindacati giocano nel quadro dell’apparato statale. Essi sono i “pompieri sociali”, che agiscono da valvola di sicurezza a livello economico e politico. I contratti collettivi, gli accordi sulle negoziazioni, che sono oggi sotto attacco, sono stati introdotti da gente come il Presidente Kennedy che ci hanno visto un interesse in termini di controllo sociale offerto dai sindacati, in particolare quando certe “vittorie” ottenute dai sindacati includevano la rinuncia agli scioperi! Alla fine degli anni 60 e 70, queste “concessioni” erano certamente più abbordabili in termini economici di quanto lo siano oggi. Quaranta anni di crisi economica hanno portato a una grande erosione del salario sociale di cui aveva goduto la generazione figlia del “boom” del dopoguerra. Ma anche se i sindacati costano in termini economici, essi sono allo stesso tempo degli strumenti efficaci per imporre l’austerità alla classe operaia. Per esempio, nel Wisconsin i sindacati “avevano già negoziato un accordo con l’amministrazione precedente di 100 milioni di dollari di tagli nelle prestazioni con una riduzione secca dei salari del 3%.”. Si percepisce chiaramente che la collera dei sindacati rispetto al progetto del governo non è tanto causata dalle riduzioni per i lavoratori che loro dovrebbero rappresentare, ma dalla prospettiva di non essere più considerati dei partner dello Stato nella gestione dell’economia. Nei fatti Marty Beil, il capo del sindacato degli impiegati pubblici del Wisconsin, ha sostenuto che il sindacato era perfettamente disposto ad accettare alcuni tagli, ma non poteva sopportare l’insolenza del governatore: “Siamo pronti ad accettare le concessioni finanziarie proposte per aiutare ad equilibrare il bilancio del nostro Stato, ma non ci lasceremo privare del nostro diritto, dato da Dio, di aderire ad un vero sindacato… non lasceremo, lo ripeto, non lasceremo che venga negato il nostro diritto alla negoziazione collettiva”. In una conferenza telefonica con la stampa, ha aggiunto “Non è una questione di soldi (…) Noi comprendiamo la necessità dei sacrifici” (Milwaukee Journal Sentinel).
Tutti i discorsi sullo smantellamento dei sindacati è in fondo un tentativo per far deviare il malcontento manifestato dai lavoratori contro gli attacchi alle loro condizioni di vita nel vicolo cieco della difesa dei sindacati stessi e della democrazia che essi dovrebbero incarnare, allontanandosi così da una lotta efficace per difendere le condizioni di vita e di lavoro. Nel movimento del Wisconsin i sindacati sono stati molto bravi rappresentandolo con l’espressione “difesa della democrazia” (da cui il legame con l’Egitto), anche se sono i loro alleati, i senatori democratici, che sembrano al momento aver ostacolato il funzionamento dell’apparato al governatore democratico borghese, abbandonando l’Assemblea. I militanti del Tea Party hanno organizzato delle contromanifestazioni in sostegno del governatore “democraticamente eletto” e per proteggere “la maggioranza dei cittadini del Wisconsin” che hanno votato per le sue azioni severe contro i sindacati. Se uno ha come obiettivo principale la “difesa della democrazia”, non è scontato sapere quale campo va a sostenere!
In un certo senso, la caccia ai senatori spariti da parte della polizia di Stato è emblematica della caccia più importante che la borghesia americana sta facendo per trovare una soluzione alla crisi economica. Poiché questa soluzione si rivela più improbabile che mai, la borghesia a tutti i livelli, federale, statale e locale, dovrà fare ricorso a nuovi attacchi contro la classe operaia. Gli impiegati, i pompieri, i lavoratori della nettezza urbana e soprattutto gli insegnanti, saranno i primi a subirli. Non è un caso né un’inclinazione ideologica della destra, se il Tea Party e i Repubblicani hanno preso di mira gli impiegati pubblici. Il progetto di legge contro i loro salari e i loro contributi è quello che avrà l’impatto più immediato sulla solvibilità finanziaria dello Stato.
Inoltre, gli attacchi contro gli impiegati pubblici non si sono limitati agli Stati governati dai Repubblicani. A New York, il governatore democratico Cuomo ha minacciato quasi 10.000 licenziamenti se i negoziati con i sindacati si bloccano, mentre il democratico Jerry Brown in California ha parlato della necessità di tagli dolorosi per risolvere i perpetui problemi di bilancio. A livello federale, il presidente Obama stesso ha congelato i salari degli impiegati federali e la sua commissione bilancio ha minacciato di licenziare il 10% degli effettivi! Nondimeno, lo zelo con il quale repubblicani del Tea Party come Walker hanno portato avanti la loro crociata contro le basi stesse di esistenza dei sindacati può avere l’effetto opposto se portato fino in fondo. Se la lotta di classe continua a svilupparsi la borghesia avrà inevitabilmente bisogno dei sindacati. Il tentativo di un governatore repubblicano novellino di far sparire i sindacati dal suo Stato è ancora un altro esempio delle difficoltà della borghesia americana a controllare il proprio apparato politico a causa della decomposizione sociale che si aggrava ogni giorno in questo sistema.
Internationalism
(organo della CCI negli USA)
[1] Il Tea Party (https://it.wikipedia.org/wiki/Boston_Tea_Party [14]) è un movimento politico populista americano che é generalmente riconosciuto come conservatore e libertario. Sostiene la necessità che i governi spendano meno e che ci siano meno tasse in modo da ridurre il debito nazionale e il deficit budgetario federale.
[2] Vedi la lettera spedita dai manifestanti egiziani ai lavoratori del Wisconsin, riportata sul forum https://napolioltre.forumfree.it/?t=54195028 [15]
Facendo leva sull’inquietudine e le riflessioni crescenti generate nella classe operaia, e nella sua nuova generazione, dalla crisi del 2007, questo editore è riuscito a fare un manga dell’opera maggiore di Karl Marx e di Friedrich Engels, Il Capitale. Vent’anni e più di ricerche e scrittura, quattro libri divisi ciascuno in parecchi volumi, più di 3000 pagine, si trovano condensati in due volumi di disegni di 190 pagine.
Non è un caso che questa pubblicazione, sia apparsa in primo luogo in Giappone. Innanzitutto perché è la terra natale del manga. Ma anche perché il Partito comunista giapponese ha superato i 400.000 aderenti nel 2008 e ne guadagna 1000 al mese, con uno slancio di sindacalizzazione che cresce presso i giovani giapponesi. Ed infatti fino ad oggi sono state vendute più di un milione di copie di questo manga.
Una tale infatuazione per questi “vecchi” Marx ed Engels, destinati regolarmente alla gogna, regolarmente denunciati come i precursori del futuro stalinismo da numerosi filosofi e da altri “teorici” socio-politici, non è insignificante. Essa, innanzitutto è direttamente emersa dalla crisi dei subprime del 2007 e dall’incapacità della borghesia e dei suoi economisti a dare una spiegazione soddisfacente di questo evento che ha gettato dappertutto decine di milioni di persone sul lastrico e nella miseria. Ci hanno ripetuto che in fondo, è stata una “sfortuna”, ma che la produzione stava per ripartire. E non è stato così. Esiste pertanto una ricerca profonda nell’insieme della classe operaia mondiale e nella sua generazione giovanile per cercare di capire e darsi delle prospettive al di fuori di questo sistema di sfruttamento che mostra ogni giorno la sua incapacità a soddisfare i bisogni umani più elementari. Questo manga su Il Capitale si sforza di rispondere a questo bisogno. Un editore francese, “Soleil Manga”, se ne è così impossessato pubblicando 50.000 esemplari, il che potrebbe sembrare strano dato che il fondatore di questa casa editrice è anche il proprietario del Racing Club di Tolone, ambito sportivo che in genere non milita per l’emancipazione politica delle masse. Il fatto è che l’interesse per Marx ed il marxismo da parte di un qualsivoglia padrone, anche se dall’animo “socialista”, non è per elevare la coscienza collettiva ma per la presenza di un mercato. Come lo era negli anni 1960 e 1970 il mercato delle opere di Mao, di Stalin, ma anche di Marx e di Engels da parte di editori maoisti come le edizioni Maspéro o di librai trotskisti come Fnac[3].
Per quanto riguarda il manga, il risultato è molto sorprendente. Contro tutte le negative aspettative da parte delle vecchie barbe che prevedevano una volgarizzazione pietosa e falsa del Capitale, il risultato, malgrado alcune note insolite come quella di un Marx presentato sotto forma di un arcangelo sceso dal cielo a predicare, o ancora un Engels che chiama Marx “Signore”, è abbastanza preciso[4].
Nel Capitolo 1, il lettore segue l’avventura di Robin, giovane caseario figlio di artigiano, che lascia l’impresa familiare per fondare una fabbrica di formaggio grazie ai sussidi di un giovane e rampante finanziatore pieno di soldi che gli presta il denaro necessario per fondare la sua impresa. In piena rivoluzione industriale (non viene specificato nel manga ma si tratta del 19° secolo), il giovane caseario passa dunque da una fabbrica artigianale e familiare ad una più grande con maggiori ambizioni. Robin scopre le responsabilità e gli arrovellamenti di un giovane padrone, la necessità di conciliare la qualità del prodotto, le scadenze di produzione, la massa salariale. Deve far fronte al suo investitore che lo spinge a sfruttare sempre più i suoi operai per produrre sempre più ed a basso costo, dunque ad aumentare i ritmi e farli lavorare più a lungo. A ciò si aggiunge il “sorvegliante” (cioè il “caposquadra”) della fabbrica, un bruto demenziale che manganella gli operai e che Robin inizialmente tenta di calmare prima di rassegnarsi a lasciarlo picchiare perché la produttività dipende da questo aguzzino. Arringati da uno di loro che prende coscienza che i padroni traggono il loro profitto dalla parte dei loro salari non pagata, gli operai abbozzano un tentativo di rivolta (per tre/quattro pagine) che viene domata dalla polizia e tutto ritorna rapidamente nei ranghi. Quello che emerge, lasciando da parte l’aspetto piuttosto moralizzatore e manicheo dell’opera, è che il capitalismo è in effetti disumano perché riduce degli individui alla miseria e che sfrutta la loro forza lavoro come nessun altro sistema precedente.
L’esempio di un piccolo padrone come Robin mostra anche che questo è uno sfruttatore non perché è una carogna (vuole solo diventare ricco) ma perché questa è la logica del sistema capitalista. E se non segue questa legge si fa schiacciare dalla concorrenza e per prospettiva ha solo quella di chiudere bottega con i debiti da pagare per il suo fallimento. Ad essere “carogne” sono invece gli investitori e, lo si vedrà nel secondo capitolo, il banchiere. Ma, per la platea questa è “attualità”.
Il capitolo 2, più teorico, vede Friedrich Engels rivolgersi direttamente al lettore in una sorta di corso magistrale illustrato. Tramite esempi viventi, vengono spiegati il “valore d’uso”, il “valore di scambio”, il “valore monetario” (il denaro) ed il “plusvalore” che “si ottiene grazie al lavoro del proletariato”, poi la sovrapproduzione ed infine le crisi capitaliste. Si tratta di una volgarizzazione del linguaggio economico che è spiegato in modo chiaro e semplice ma senza essere troppo riduttivo, avente per supporto pedagogico delle situazioni comprensibili e che non falsificano il pensiero marxista.
In questa seconda parte è ben visto e riassunto il processo che porta alla crisi. La competizione tra padroni implica l’acquisto di materiali sotto forma di macchine più moderne che costano di più e costringono ad esigere una maggiore produttività da parte degli operai ed un abbassamento dei loro salari in termini reali. Inoltre la competizione tra capitalisti spinge alla sovrapproduzione ed alla saturazione dei mercati. Il tutto provoca la crisi economica con la chiusura di fabbriche ed il licenziamento degli operai ed il fallimento di un certo numero di capitalisti. Questa logica implacabile per la quale il capitalismo non può che condurre alla crisi è affermata chiaramente: “Lo scopo della posta in gioco per i capitalisti è arrivare ad approfittare al massimo dei lavoratori per ottenere quanto più profitto possibile! E per riuscire a superare la concorrenza, vengono prodotte sempre più nuove macchine (…) Ma è a questo punto preciso che il capitalismo mostra il suo volto contraddittorio [perché] le macchine rappresentano un capitale costante che non genera valore aggiunto” e dunque fanno abbassare “il tasso di profitto [e la] redditività”, alimentando ancora di più la concorrenza e la competizione su tutto il pianeta e con esse le crisi.
Questo secondo capitolo si conclude su un appello di Marx che sale al cielo in compagnia di Engels con un’aureola sulla testa (!!!): “l’ombra nefasta del capitalismo ricopre il pianeta intero. Quest’ombra provoca degli effetti devastanti (…) Per i capitalisti, tutto si vende, tutto si acquista, tutto è buono per fare profitto. (…) Lasciate dunque parlare coloro che non vedono la realtà in faccia! Ma voi, prendete la strada della giustizia! Rimettete in discussione il capitalismo!”
Non è dunque l’avidità di alcuni sfruttatori, ma è il sistema nella sua interezza a condurre alla catastrofe permanente.
Tuttavia a quest’appello manca la reale prospettiva rivoluzionaria che non può realizzarsi realmente se non con la coscienza che le crisi finiscono per condurre al fallimento generale del sistema capitalista e con la coscienza dell’alternativa marxista “Socialismo o barbarie”. Quest’ultima non solo è assente ma il manga, per bocca di Marx, presenta le crisi come una cura di giovinezza, dura ma utile: “È innegabile che nelle società capitaliste … il panico e le crisi economiche sono moneta corrente … ma non andate a biasimare le crisi! In effetti, sono esse che vanno a ristabilire l’equilibrio tra l’offerta e la vera domanda. Ma dopo quali danni?” In fin dei conti, il capitalismo in qualche modo auto-regola le sue crisi ed in modo infinito. Ciò ha un’implicazione fondamentale: la rivolta contro questo sistema non può essere una rivoluzione ma una reazione contro l’ingiustizia, contro lo sfruttamento, ecc., una specie di volontà morale di “risanamento” o di “riforma”, senza una reale prospettiva di superamento e di abolizione del capitalismo. Ora, da oltre un secolo, questo sistema è in decadenza e mostra le espressioni del suo fallimento generalizzato, attraverso le crisi, ma anche attraverso le catastrofi in serie e tutti gli aspetti della vita quotidiana che vanno aggravandosi a ritmo accelerato, anche nei paesi “ricchi”[5].
Difficilmente si potrebbe rimproverare questa mancanza a questa edizione, che peraltro ha fatto un enorme lavoro. In compenso c’è la prefazione dell’edizione francese, firmata Olivier Besancenot. Alla mano, parlando con il tu al lettore, nell’insieme di buona fattura, ed in tutta evidenza in accordo con il Capitale, possiamo anche leggervi: “Così, il sistema capitalista produce più, senza riuscire più a vendere la sua produzione. È il marchio delle crisi di sovrapproduzione, come le conosciamo oggi”. Che lucidità! Besancenot si rivendica anche a Marx: “Marx è il fondatore della prima associazione internazionale dei lavoratori il cui scopo era rovesciare il capitalismo ed edificare il socialismo”. Ed è qui che casca l’asino. Perché l’NPA[6] il cui leader Besancenot rivendica la necessità della rivoluzione sulla base di una comprensione marxista delle leggi del capitalismo “le cui crisi a ripetizione disgregano sempre la società a più di 140 anni dalla sua apparizione [del Capitale]”, e concorda con questo manga che non si tratta di “cattiveria” o di “cupidigia” in sé dei padroni, continua a ripetere che bisogna “riformare” questo sistema; che occorre “un capitalismo dal volto umano”, “più giusto”, che bisogna perciò “nazionalizzare", rendere lo Stato più sociale … In sostanza, questo è il gioco del doppio linguaggio, quello del venditore da fiera che ti dice che ti dà due cose al prezzo di una e in realtà ti prende il doppio. Come il capitalista che pretende di pagarti il salario al giusto valore e ti sottrae di nascosto il plusvalore necessario alla sua sopravvivenza.
Mulan (24 febbraio)
[1] Manga è un termine giapponese [19] che in Giappone [20] indica i fumetti [21] in generale, mentre nel resto del mondo viene usato per indicare “storie a fumetti giapponesi”.In Giappone i fumetti hanno un ruolo culturale ed economico rilevante e sono considerati un mezzo artistico ed espressivo non meno degno della letteratura, del cinema o di altre espressioni culturali.
[2] L’onomatopea è una figura retorica [22] che riproduce, attraverso i suoni linguistici di una determinata lingua [23], il rumore [24] o il suono [25] associato a un oggetto o a un soggetto cui si vuol fare riferimento.
[3] In Italia potremmo citare Feltrinelli o Samonà e Savelli.
[4] Ha inoltre la qualità, a differenza del normale “modo d’uso” di potere essere letto da sinistra a destra, ciò che non è trascurabile per coinvolgere un pubblico più largo ed eventualmente raccogliere diverse generazioni.
[5] D’altra parte una delle debolezze di questo manga è dare ad intendere, come messaggio più che subliminale, la distinzione tra paesi poveri sfruttati e paesi popolati da “benestanti”.
[6] Nouveau Parti anticapitaliste (Nuovo Partito Anticapitalista), partito della sinistra borghese nato in Francia nel 2009.
1) rifiutare ogni sostegno elettorale, ogni collaborazione con dei partiti gestori del sistema capitalista o difensori di questa o quella forma di questo (socialdemocrazia, stalinismo, “chavismo”, ecc.);
2) mantenere un internazionalismo intransigente, rifiutando di scegliere tra questo o quel campo imperialista in ogni guerra.
Tutti quelli che difendono teoricamente e nella pratica queste posizioni essenziali devono avere la consapevolezza di appartenere ad uno stesso campo: quello della classe operaia, quello della rivoluzione.
All’interno di questo campo esistono necessariamente delle differenze di opinione e di posizione tra gli individui, i gruppi, le tendenze. E' proprio dibattendo a livello internazionale, apertamente, fraternamente, ma anche con fermezza, senza false concessioni, che i rivoluzionari riusciranno a partecipare al meglio allo sviluppo generale della coscienza proletaria. Ma per fare questo, essi devono comprendere l’origine delle difficoltà che, ancora oggi, ostacolano un tale dibattito.
Queste difficoltà sono il frutto della storia. L’ondata rivoluzionaria che, a partire dal 1917 in Russia e dal 1918 in Germania, ha messo fine alla Prima Guerra mondiale è stata vinta dalla borghesia. Una terribile controrivoluzione si è quindi abbattuta sulla classe operaia di tutti i paesi le cui le manifestazioni più mostruose sono state lo stalinismo ed il nazismo, proprio nei due paesi dove il proletariato era stato all’avanguardia della rivoluzione.
Per gli anarchici, l’attuazione da parte di un partito che si richiamava al “marxismo” di una terribile dittatura poliziesca sul paese della rivoluzione dell’Ottobre ’17, è stata considerata la conferma alle loro critiche sostenute da tempo contro le concezioni marxiste. A queste concezioni veniva rimproverato il loro “autoritarismo”, il loro “centralismo”, il fatto che non sostenevano l’abolizione immediata dello Stato all’indomani della rivoluzione, il fatto che non si davano come valore cardine il principio di Libertà. Alla fine del 19° secolo, il trionfo del riformismo e del “cretinismo parlamentare” all’interno dei partiti socialisti veniva già considerato dagli anarchici come la conferma della validità del loro rigetto di ogni partecipazione alle elezioni. È un poco la stessa cosa che si è prodotta in seguito al trionfo dello stalinismo. Per loro questo regime era la conseguenza logica de “l’autoritarismo congenito” del marxismo. In particolare, ci sarebbe stata una “continuità” tra la politica di Lenin e quella di Stalin, poiché, dopo tutto, la polizia politica ed il terrore si sono sviluppati mentre il primo era ancora in vita e anche poco dopo la rivoluzione.
Evidentemente uno degli argomenti dati per illustrare questa “continuità” è il fatto che, fin dalla primavera 1918, alcuni gruppi anarchici in Russia sono stati repressi e la loro stampa è stata imbavagliata. Ma l’argomento “decisivo” è lo schiacciamento nel sangue dell’insurrezione di Kronstadt nel marzo 1921 da parte del potere bolscevico, con Lenin e Trotsky alla sua testa. L’episodio di Kronstadt è evidentemente molto significativo perché i marinai e gli operai di questa base navale erano stati nell’ottobre ‘17 una delle avanguardie dell’insurrezione che aveva rovesciato il governo borghese e permesso la presa del potere da parte dei soviet (i consigli di operai e di soldati). Ed è giustamente questo settore tra i più avanzati della rivoluzione che si è rivoltato nel1921 con la parola d’ordine “il potere ai soviet, senza i partiti”.
La Sinistra comunista di fronte all’esperienza russa
In seno alla Sinistra comunista esiste un pieno accordo tra le sue differenti tendenze su alcuni punti essenziali:
Su questi tre punti fondamentali la Sinistra comunista si trova dunque in accordo con gli anarchici internazionalisti ma si oppone totalmente al trotskismo che considera lo Stato stalinista uno “Stato operaio degenerato”, i partiti “comunisti” “partiti operai” e che, nella sua grande maggioranza, si è arruolato nella Seconda Guerra mondiale, in particolare nei ranghi della Resistenza.
Viceversa, all’interno stesso della Sinistra comunista esistono delle notevoli differenze relative alla comprensione del processo che ha portato la rivoluzione dell’Ottobre 17 a sfociare nello stalinismo.
La corrente della Sinistra olandese (i “comunisti dei consigli” o “consiliaristi”) considera che la rivoluzione di Ottobre è stata una rivoluzione borghese che ha avuto per funzione la sostituzione del regime zarista feudale con uno Stato borghese più adattato allo sviluppo di un’economia capitalista moderna. Il partito bolscevico, che si è trovato alla testa di questa rivoluzione, è lui stesso considerato come un partito borghese di un genere particolare incaricato di attuare un capitalismo di Stato, anche se i suoi militanti e dirigenti non ne erano veramente coscienti. Così, per i “consiliaristi”, c’è proprio una continuità tra Lenin e Stalin, essendo quest’ultimo in qualche modo “l’esecutore testamentario” del primo. In questo senso, esiste una certa convergenza tra gli anarchici ed i consiliaristi ma questi ultimi non hanno però rigettato il riferimento al marxismo.
L’altra grande tendenza della Sinistra comunista, quella che si ricollega alla Sinistra comunista d’Italia, ritiene che la rivoluzione di Ottobre ed il partito bolscevico hanno avuto una natura proletaria. La cornice in cui questa tendenza inscrive la comprensione del trionfo dello stalinismo è quella dell’isolamento della rivoluzione in Russia a causa della sconfitta delle lotte rivoluzionarie negli altri paesi, in primo luogo in Germania. Ancor prima della rivoluzione di Ottobre, l’insieme del movimento operaio, e gli anarchici non facevano eccezione, considerava che se la rivoluzione non si fosse estesa a livello mondiale, sarebbe stata vinta. Il fatto storico fondamentale che ha illustrato la sorte tragica della rivoluzione russa è che questa sconfitta non è venuta dall’esterno (le armate bianche sostenute dalla borghesia mondiale sono state sconfitte) ma dall’interno per la perdita del potere da parte della classe operaia, ed in particolare di ogni controllo sullo Stato che era sorto all’indomani della rivoluzione, e per la degenerazione ed il tradimento del partito che aveva condotto la rivoluzione a causa della sua integrazione in questo Stato.
In questo quadro, i differenti gruppi che si richiamano alla Sinistra italiana non condividono le stesse analisi sulla politica dei bolscevichi durante i primi anni della rivoluzione. Per i bordighisti il monopolio del potere da parte di un partito politico, l’instaurazione di una forma di monolitismo in questo partito, l’impiego del terrore ed anche la repressione sanguinosa del sollevamento di Kronstadt non è criticabile. Al contrario, ancora oggi se ne rivendicano pienamente e per molto tempo, dato che la corrente della Sinistra italiana era conosciuta a livello internazionale essenzialmente attraverso il bordighismo, questo è servito ad allontanare gli anarchici dalle idee della Sinistra comunista.
Ma la corrente della Sinistra italiana non si riduce al bordighismo. La Frazione di Sinistra del partito comunista d‘Italia (divenuta in seguito Frazione italiana della Sinistra comunista) ha intrapreso negli anni 30 tutto un lavoro di bilancio dell’esperienza russa, (Bilan era infatti il nome della sua rivista in francese). Tra il 1945 e 1952, la Sinistra comunista di Francia (GCF, che pubblicava Internationalisme) ha continuato questo lavoro e la corrente che costituirà nel 1975 la CCI ne ha preso il testimone fin dal 1964 in Venezuela e nel 1968 in Francia.
Questa corrente (ed in parte anche quella che si ricollega al Partito comunista internazionalista in Italia), considera necessaria la critica di certi aspetti della politica dei bolscevichi fin dall’indomani della rivoluzione. In particolare molti aspetti che denunciano gli anarchici, la presa del potere da parte di un partito, il terrore e soprattutto la repressione di Kronstadt, sono considerati dalla nostra organizzazione (sulla scia di Bilan e della GCF) degli errori, vuoi delle colpe, commessi dai bolscevichi che possono perfettamente essere criticate nel quadro del marxismo e delle stesse concezioni di Lenin, in particolare quelle espresse in Stato e Rivoluzione scritto nel 1917. Questi errori trovano una spiegazione in diverse ragioni che non possiamo sviluppare qui ma che fanno parte del dibattito generale tra la Sinistra comunista e gli anarchici internazionalisti. Diciamo semplicemente che la ragione essenziale sta nel fatto che la rivoluzione russa è stata la prima (ed unica fino ad ora) esperienza storica di rivoluzione proletaria momentaneamente vittoriosa. Ma è compito dei rivoluzionari trarre gli insegnamenti da questa esperienza come ha fatto Bilan negli anni 30, per il quale “la conoscenza profonda della causa della sconfitta” era un’esigenza primordiale. “E questa conoscenza non deve temere nessun divieto e nessun ostracismo. Tirare il bilancio dagli avvenimenti dopo la guerra, significa quindi stabilire le condizioni per la vittoria del proletariato in tutti i paesi”. (Bilan n.1, novembre 1933).
Gli anarchici e la Sinistra comunista
I periodi di controrivoluzione non sono certo favorevoli all’unità, né alla cooperazione delle forze rivoluzionarie. Lo smarrimento e la dispersione che colpiscono l’insieme della classe operaia si ripercuotono anche nei ranghi dei suoi elementi più coscienti. Come è accaduto ai gruppi che hanno rotto con lo stalinismo pur rifacendosi alla rivoluzione di ottobre per i quali il dibattito non è stato facile a partire dagli anni 1920 e durante gli anni 1930, anche il dibattito tra anarchici e Sinistra comunista è stato particolarmente difficile lungo tutto il periodo di controrivoluzione.
Come abbiamo visto sopra, il fatto che la sorte della rivoluzione russa sembrava portare acqua al mulino delle sue critiche al marxismo, l’atteggiamento dominante nel movimento anarchico era il rigetto di ogni discussione con i marxisti “necessariamente autoritari” della Sinistra comunista. Tanto più che, negli anni 1930, questo movimento aveva una notorietà ben superiore rispetto a quella dei piccoli gruppi della Sinistra comunista, in particolare per il posto di primo piano occupato dagli anarchici nel proletariato di un paese, la Spagna, dove si è avuto uno degli avvenimenti storici decisivi di questo periodo.
Reciprocamente, il fatto che, in modo quasi unanime, il movimento anarchico abbia considerato gli avvenimenti della Spagna confermavano la validità delle sue concezioni, mentre la Sinistra comunista vi vedeva soprattutto la prova del loro fallimento, ha per molto tempo costituito un ostacolo ad una collaborazione con gli anarchici. Bisogna tuttavia sottolineare che Bilan si è rifiutato di porre tutti gli anarchici nello stesso sacco e questa rivista ha pubblicato, al momento del suo assassinio da parte dello stalinismo nel maggio 1937, un omaggio all’anarchico italiano Camillo Berneri che aveva intrapreso una critica senza concessioni alla politica condotta dalla direzione della CNT spagnola.
Più significativo è ancora il fatto che si sia tenuto nel 1947 una conferenza che raggruppa la Sinistra comunista italiana (il gruppo di Torino), la Sinistra comunista di Francia, la Sinistra olandese e … un certo numero degli anarchici internazionalisti! Uno di essi ha anche presieduto questa conferenza. Ciò mostra che, anche durante la controrivoluzione, certi militanti della Sinistra comunista e dell’anarchismo internazionalista erano animati da un vero spirito di apertura, una volontà di discutere e una capacità di riconoscere i criteri fondamentali che uniscono i rivoluzionari al di là delle divergenze!
Questi compagni del 1947 ci danno una lezione ed una speranza per l’avvenire.
Evidentemente le atrocità commesse dallo stalinismo nel nome, usurpato, del marxismo e del comunismo pesano ancora oggi. Creano un muro emozionale che ostacola sempre potentemente il dibattito sincero e la collaborazione leale. “La tradizione di tutte le generazioni morte [assassinate, NDLR] pesa come un incubo sul cervello dei viventi” (Marx, Il 18-Brumaire di Louis Bonaparte). Questo muro che ci inibisce può essere demolito ma non dall’oggi al domani. Tuttavia, esso comincia a sgretolarsi. Dobbiamo alimentare il dibattito che poco a poco sta nascendo sotto i nostri occhi, sforzarci di essere animati di slancio fraterno, avendo sempre in mente che tutti noi, sinceramente, stiamo lavorando per l’avvento del comunismo, per una società senza classi.
CCI (agosto 2010)
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La Sinistra comunista e l’anarchismo internazionalista: Dobbiamo discutere e collaborare.
Per Lenin: “In Europa occidentale, il sindacalismo rivoluzionario è apparso in numerosi paesi come risultato diretto ed inevitabile dell’opportunismo, del riformismo, del cretinismo parlamentare”. (Prefazione all’opuscolo di Voïnov (Lunatcharski) “Sull’atteggiamento del partito verso i sindacati” (1907). L’anarchismo che esisteva molto prima del sindacalismo rivoluzionario ma che ne è vicino, ha beneficiato anch’esso di questa evoluzione dei partiti socialisti.
Bisogna notare che in Russia sono esistiti anche parecchi gruppi usciti dal partito bolscevico che condividevano queste stesse analisi. Vedere su questo argomento il nostro opuscolo su La Sinistra comunista in Russia.
In effetti, il dibattito, la cooperazione ed il rispetto reciproco tra anarchici internazionalisti e comunisti non era in quel momento una cosa nuova.
Tra altri esempi, si può citare ciò che scriveva l’anarchica americana Emma Goldman nella sua autobiografia, pubblicata nel 1931, dieci anni dopo Kronstadt: “… il bolscevismo era una concezione sociale portata dallo spirito brillante di uomini animati dall’ardore e dal coraggio dei martiri. (…) Era della massima urgenza che gli anarchici e altri veri rivoluzionari assumessero risolutamente la difesa di questi uomini diffamati e della loro causa negli avvenimenti che precipitavano in Russia” (Living my life).
Un altro anarchico molto conosciuto, Victor Serge, in un articolo redatto nell’agosto 1920, “Gli anarchici e l’esperienza della rivoluzione russa”, ha la stessa impostazione e pur continuando a richiamarsi all’anarchismo ed a criticare certi aspetti della politica del partito bolscevico, continua a dare il suo sostegno a questo partito.
D’altro canto, i bolscevichi hanno invitato una delegazione della CNT spagnola anarco-sindacalista al 2° congresso dell’Internazionale Comunista. Hanno potuto sviluppare con questa dei dibattiti realmente fraterni e hanno invitato la CNT ad unirsi all’Internazionale.
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