febbraio-marzo 2011
Indipendentemente dai cartelli che i manifestanti agitano, tutte queste manifestazioni hanno la loro origine nella crisi mondiale del capitalismo e nelle sue dirette conseguenze: la disoccupazione, il rialzo dei prezzi, l’austerità, la repressione e la corruzione dei governi che dirigono questi attacchi brutali contro le condizioni di vita. Sono le stesse origini della rivolta della gioventù greca contro la repressione poliziesca nel 2008, della lotta contro le “riforme” delle pensioni in Francia, delle ribellioni degli studenti in Italia e in Gran Bretagna, e di tutti gli scioperi dei lavoratori, dal Bangladesh alla Cina, dalla Spagna agli Stati Uniti.
La determinazione, il coraggio ed il senso di solidarietà che si sono visti nelle strade di Tunisi, del Cairo, di Alessandria e di numerose altre città sono una vera fonte di ispirazione. Le masse che hanno occupato la piazza Tahrir al Cairo o altri luoghi pubblici hanno respinto gli attacchi dei teppisti al soldo del regime e della polizia, hanno chiamato i soldati a solidarizzare con loro, hanno curato i loro feriti, hanno apertamente rigettato le divisioni settarie tra musulmani e cristiani, tra religiosi e laici. Nei quartieri, si sono formati dei comitati per proteggere le loro case contro i saccheggiatori manipolati dalla polizia. Decine di migliaia di persone si sono effettivamente messe in sciopero per giorni e anche per delle settimane, per poter aumentare il numero dei manifestanti.
Di fronte allo spettro di una rivolta di massa, con la prospettiva da incubo di una sua propagazione attraverso tutto il mondo arabo, ed anche oltre, la classe dirigente ha reagito nel mondo intero con le sue due armi più importanti, la repressione e la mistificazione:
A livello internazionale, la classe capitalista alterna ugualmente i suoi discorsi secondo la convenienza: alcuni, in particolare quelli di destra, e certamente quelli dei dirigenti di Israele, hanno sostenuto apertamente il regime di Mubarak come il solo bastione contro una presa di potere islamica. Ma successivamente, dopo qualche esitazione, Obama ha dato il “la” lanciando il messaggio che Mubarak doveva andare via ed anche in fretta, presentando la “transizione verso la democrazia” come la sola via possibile per le masse oppresse dell’Africa del Nord e del Medio Oriente.
I pericoli che minacciano il movimento
Questo grande movimento, che ha avuto per il momento il suo baricentro nell’Egitto, è dunque confrontato con due diversi pericoli.
Il primo è che lo spirito di rivolta sia annegato nel sangue, cosa a cui ad esempio il regime di Mubarak, per salvarsi, sarebbe arrivato applicando il pugno di ferro se la situazione non avesse superato il segno costringendo la polizia a ritirarsi dalla strada di fronte a manifestazioni di grandi masse di persone, per lasciare il posto a dei teppisti pro-Mubarak. E’ importante in questo contesto comprendere il ruolo dell’esercito, che si è presentato come una forza “neutra”, finanche come una forza scesa in campo a fianco dei manifestanti anti-Mubarak per proteggerli dalle aggressioni dei difensori del regime. Non c’è alcun dubbio che molti soldati simpatizzano per i manifestanti e non sarebbero disponibili a sparare sulle masse presenti nelle strade. D’altra parte, alcuni di loro hanno anche disertato. E’ ugualmente vero che ai vertici della gerarchia dell’esercito vi erano delle frazioni che volevano l’allontanamento di Mubarak. Ma non bisogna farsi illusioni che l’esercito dello Stato capitalista possa essere una forza neutra. La “protezione” della piazza Tahrir da parte sua è anche una specie di confinamento, un enorme accerchiamento dei dimostranti, e quando le cose si metteranno male, l’esercito sarà effettivamente utilizzato contro la popolazione sfruttata, a meno che quest’ultima non riesca a neutralizzare le truppe facendole aderire alla sua causa.
Ma qui arriviamo al secondo grave pericolo che incombe: quello che risiede nelle illusioni ampiamente diffuse sulla democrazia, nel credere che forse lo Stato potrebbe, dopo qualche riforma, essere messo al servizio del popolo, nella convinzione che “tutti gli Egiziani”, ad eccezione forse di qualche corrotto, hanno gli stessi interessi fondamentali, nel credere nella neutralità dell’esercito, nel credere che la terribile povertà alla quale è confrontata la gran parte della popolazione possa essere superata se ci sarà un parlamento funzionante e la fine del regno dispotico di un Ben Ali o di un Mubarak.
Queste illusioni, espresse ogni giorno nelle parole degli stessi manifestanti e sui loro cartelli, disarmano il vero movimento di emancipazione che non può avanzare che come movimento della classe operaia, che combatta per i suoi propri interessi, distinto da quello di altri strati sociali, e che si sviluppi su un percorso diametralmente opposto agli interessi della borghesia e di tutti i suoi partiti e fazioni. Le innumerevoli espressioni di solidarietà e di autorganizzazione che abbiamo finora visto riflettono già l’elemento veramente proletario delle rivolte sociali attuali e, come molti manifestanti l’hanno già detto, lasciano presagire una società nuova e più umana. Ma questa società nuova e migliore non può essere realizzata attraverso delle elezioni parlamentari, che faranno salire un El Baradei o i Fratelli musulmani o qualunque altra fazione borghese alla testa dello Stato. Queste fazioni, che possono essere portate al potere dalla forza delle illusioni delle masse, non esiteranno più tardi a utilizzare la repressione contro queste stesse masse.
Vi sono stati molti discorsi su una presunta “rivoluzione” in Tunisia e in Egitto, sia da parte dei principali mass-media che dell’estrema sinistra. Ma la sola rivoluzione che abbia un senso oggi è la rivoluzione proletaria, perché viviamo in un’epoca in cui il capitalismo, democratico o dittatoriale che sia, non può semplicemente offrire nulla all’umanità. Una tale rivoluzione non può riuscire che a livello internazionale, rompendo il cordone di tutte le frontiere nazionali e rovesciando tutti gli Stati-nazione. Le lotte della classe e le rivolte di massa di oggi sono certamente delle tappe sulla via di una tale rivoluzione, ma esse si scontrano con una serie di ostacoli sulla loro strada. Per raggiungere l’obiettivo della rivoluzione devono ancora prodursi dei profondi cambiamenti nell’organizzazione politica e nella coscienza di milioni di persone.
In qualche modo, la situazione attuale in Egitto rappresenta una sintesi della situazione storica dell’insieme dell’umanità. Il capitalismo è nella sua fase terminale. La classe dirigente non può offrire alcuna prospettiva per l’avvenire del mondo, ma la classe sfruttata non è ancora cosciente della sua forza, della sua prospettiva, del suo programma per la trasformazione della società. Il pericolo maggiore è che questa impasse temporanea porti alla fine a “la rovina comune delle classi in lotta”, come dice il Manifesto Comunista, in un precipitare nel caos e la distruzione. Ma la classe operaia, il proletariato, scoprirà la sua vera forza solo ingaggiandosi in delle vere lotte, è per questo che ciò che sta avvenendo attualmente nell’Africa del nord e in Medio Oriente é, malgrado tutte le debolezze ed illusioni presenti, un vero faro per i lavoratori del mondo intero.
E soprattutto è un appello ai proletari dei paesi più sviluppati, che stanno riprendendo la strada della resistenza agli attacchi, perché compiano il prossimo passo, esprimendo concretamente la loro solidarietà alle masse del “terzo mondo”, intensificando la loro lotta contro l’austerità e l’impoverimento e, così facendo, mettendo a nudo tutte le menzogne sulla libertà e la democrazia capitalista, di cui essi hanno una lunga e amara esperienza.
Il proletariato dimostra una volta di più la sua condizione di classe rivoluzionaria; tutto il mondo vibra sorpreso dagli ultimi avvenimenti in Egitto e nei paesi vicini. I borghesi piangono, si riuniscono, cospirano, chiamano i loro economisti, i loro funzionari e profeti, ma non sanno che fare di fronte alle rivolte e ai sollevamenti degli sfruttati. Migliaia e migliaia di nostri fratelli si sollevano, rompono le catene che li sottomettono alla macchina borghese e prendono la loro vita nelle proprie mani. D’altra parte non gli resta altra strada quando si guardano intorno e vedono lo stesso dolore nelle loro vite, la stessa preoccupazione per il futuro dei loro figli, l’indignazione per l’ingiustizia, e, ancora più importate, vedono che solamente loro possono cambiare la loro infame esistenza. Gli scioperi, le proteste di strada, l’occupazione di uffici, le barricate, i dibattiti spontanei, l’organizzazione di quartiere autonoma, i servizi collettivi, sono le strofe della poesia chiamata rivolta sociale.
Sappiamo bene, noi che scriviamo, che i nostri fratelli hanno sfidato il coprifuoco, i carri armati, i blindati, i candelotti lacrimogeni, il fucili, le pallottole, la polizia e i soldati. Paura della morte? Tutti i giorni ci alziamo ed esistiamo per lavorare, arricchire altri, fare quello che ci ordinano ed essere messi per strada quando ci “usuriamo”; l’unica paura che possiamo avere è passare per questo mondo e non sapere cosa significa veramente vivere. Questo è il motore della lotta ed è anche la dimostrazione che la classe lavoratrice si sta rialzando, che le pallottole non possono uccidere la speranza di un mondo nuovo e che solo noi possiamo liberare l’umanità dalla schiavitù salariata.
I quartieri del Cairo, di Suez e di Alessandria esistono per lottare, il pugno alzato è la costante di questi luoghi. Geograficamente siamo tanto lontani da questi quartieri, ma siamo tanto vicini negli interessi che stanno difendendo. Noi, una parte dei lavoratori del Perù, siamo parte di questa grande massa di sfruttati, viviamo e sentiamo lo stesso sfruttamento, la stessa miseria, lo stesso putridume di un sistema che si alimenta con la nostra vita, quella dei nostri figli, della loro innocenza, dei nostri padri, della loro fatica, dei nostri fratelli, della loro gioventù, delle nostre risate, allegria e sogni. Ma siamo anche parte della speranza, di un potere che nasce, di un pugno che si alza e colpisce, talvolta a tentoni, ma ogni volta più vicino all’obiettivo. Francia, Gran Bretagna, Italia, Grecia, Tunisia, Algeria, Cina, Bangladesh e adesso Egitto, sono parte di un gigante che comincia a rialzarsi, di un gigante che comincia a ricordarsi delle sue vecchie battaglie contro il demonio antropofago chiamato Capitalismo, e vede un futuro più promettente.
La classe sfruttatrice, i padroni di tutto, i padroni del mondo, quelli che si sono appropriati della nostra vita, vogliono farci pensare che le lotte che stiamo sviluppando sono per ottenere la democrazia, per cacciare qualche politico corrotto, per conquistare più “libertà” nel capitalismo. Cercano di farci credere che lottiamo solo per riformare lo sfruttamento e la miseria, che lottiamo non per farla finita con questo mondo borghese, per andare alla radice dei nostri problemi, ma per renderlo un “poco meglio”. Non dobbiamo consentirgli questi inganni, da qui denunciamo questi ideologi borghesi vestiti da “nostri difensori”, questi “estremisti” di sinistra, nazionalisti, socialdemocratici, che vogliono deviarci dalla nostra lotta perché vogliono dirigerci, vogliono che dedichiamo la nostra vita per portare loro al potere e continuare a vivere con la servitù e la schiavitù. Solo i lavoratori, organizzati autonomamente possono creare un nuovo potere per decidere cosa fare delle nostre vite e del mondo che solo noi facciamo muovere.
Mentre scriviamo questa presa di posizione, in Egitto si riuniscono milioni di nostri fratelli, senza paura e con il cuore aperto, l’umanità prende respiro, la sua esistenza dipende dalle nostre future lotte. In realtà non sappiamo come finirà questo processo di combattività, questa tappa della lotta storica degli sfruttati contro gli sfruttatori, non sappiamo nemmeno se il peso delle ideologie religiose e gauchiste avrà presa sui nostri fratelli. Quello che però sappiamo è che questo non finirà con una riforma, non finirà con l’uscita di qualche presidente. Ogni generazione proletaria si nutre delle lotte, prende fiducia in se stessa, nell’insieme delle lezioni che la classe ci ha lasciato. La solidarietà è stata presente e sarà presente in questo processo, solo uniti siamo forti. Comunque finirà questa battaglia, sarà un avanzamento per noi in questa guerra contro il capitale.
La nostra vittoria finale si avvicina ogni giorno, già non è tanto lontano quanto pensavamo, anche se resta da percorrere un lungo cammino. L’esempio dell’Egitto, come della Grecia, della Tunisia, alimenta lo spirito rivoluzionario e segnala il cammino che bisogna seguire; sono le scintille della grande esplosione che sarà la rivoluzione.
Da qui sentiamo il clima della lotta proletaria al Cairo, a Suez, ad Alessandria, dal Perù sentiamo questa emozione indescrivibile di sentirci vivi, di sapere che niente è stato vano, che la storia ci appartiene e che il futuro che ci aspetta sarà costruito per l’umanità libera dalla schiavitù salariata, libera dalle classi sociali, libera dallo sfruttamento.
Benché il cammino non sia chiaro e che le nostre azioni non sono ancora in grado di raggiungere l’obiettivo, quanta allegria sentiamo al sapere che ci stiamo liberando delle vecchie catene, che la classe comincia a riconoscere il suo vero nemico e quale debba essere la maniera di affrontarlo. Le armi della classe sono state massicciamente evidenziate: il Dibattito, le Assemblee, lo Sciopero, la Riflessione, la Solidarietà, la Fiducia nel Futuro, ecc.
Vogliamo finire ringraziando di tutto cuore i fratelli lavoratori che stanno lottando, siamo con loro, ci hanno riempito di felicità, hanno riempito di sangue rivoluzionario le nostre vene. Siamo vicini a voi, parte della rivoluzione mondiale di domani.
All’erta Proletari, un nuovo mondo ci aspetta.
Proletari di tutti i paesi, uniamoci!
Grupo de Esclarecimiento Comunista - G.E.C. (Gruppo di chiarificazione comunista)
https://esclarecimientocomunista.blogspot.com/ [4]
Martedì, 01 febbraio 2011
Commento della CCI:
Pubblichiamo il testo dei compagni del gruppo GEC del Perù. E’ un testo vibrante, pieno di emozioni, che esprime il calore e la solidarietà di compagni che anche se situati a migliaia di chilometri dall’Egitto sentono come proprie le lotte che si stanno svolgendo lì. “Geograficamente siamo tanto lontani da questi quartieri, ma siamo tanto vicini negli interessi che stanno difendendo.” dicono i compagni.
L’internazionalismo conseguente è la prima cosa che salutiamo in questa presa di posizione. Il proletariato ha bisogno di concepirsi come una classe unita internazionale che colpisce con una sola mano il mostro capitalista. Lo sviluppo della solidarietà internazionale, la convergenza internazionale delle minoranze rivoluzionarie, la ricerca del contatto e dell’azione comune su scala internazionale, perlomeno all’inizio, tra minoranze proletarie sono tutti contributi alla grande meta della rivoluzione mondiale alla cui esplosione contribuiscono anche i piccoli passi, apparentemente “solo teorici e di propaganda”, che stiamo facendo oggi.
Nello stesso tempo in cui manifestano il loro entusiasmo per queste lotte del proletariato, questi compagni sono lucidi rispetto al cammino ancora lungo che bisogna percorrere e rispetto ai pericoli di deviazione verso la trappola senza uscita della democrazia con cui tutta la borghesia mondiale cerca congiuntamente di ucciderle “dal di dentro”.
Non abbiamo il minimo dubbio che queste lotte che vediamo nel Magreb costituiscono un nuovo episodio nel cammino duro e difficile che il proletariato mondiale ha iniziato verso lo sviluppo di lotte di massa, che, a loro volta, gli daranno quella imprescindibile fiducia nelle sue proprie forze, una maturazione nelle sue capacità di autorganizzazione e di politicizzazione, tutti passaggi che servono per realizzare le condizioni per lo sviluppo internazionale di lotte con una prospettiva rivoluzionaria.
Si tratta di movimenti che sono partiti dal cuore stesso della gioventù proletaria, fuori dal controllo ingannevole di sindacati e partiti di opposizione; esprimono l’entrata in lotta delle nuove generazioni del proletariato; queste lotte fanno sì che il Magreb e il Medio Oriente, che fino ad ora facevano notizia solo per la barbarie della guerra, oggi sono in prima pagina per motivi diametralmente opposti: la rivolta sociale di proletari che si sollevano contro la disoccupazione incontrollata, un’inflazione che rende impossibile acquistare perfino gli alimenti di prima necessità, un’assenza totale di prospettiva per il futuro.
Allo stesso tempo non possiamo nascondere la mancanza di esperienza, le illusioni democratiche, l’assenza di organizzazioni di massa, tutte mancanze che indeboliscono e deviano il movimento e permettono alla borghesia di attaccarlo sistematicamente con il cavallo di Troia della democrazia, il rafforzamento dell’opposizione, la polarizzazione sul semplice “via Mubarak” e il silenzio quasi totale sulle rivendicazioni sociali…
Nel presentarlo come “movimento per la democrazia guidato dall’opposizione”, la borghesia vuole mostrarlo come se fosse qualche altra cosa, come “l’ultima tappa” del supposto festino che sarebbe “lo sfruttamento della democrazia”, così da cercare di nascondere che lì si sta lottando per gli stessi motivi per cui si sta lottando in Grecia, Francia, Gran Bretagna o Bangladesh: contro il deterioramento accelerato e irreversibile delle nostre condizioni di vita, contro la barbarie della crisi capitalista.
Quello che può dare un nuovo impulso alle lotte in Tunisia e in Egitto, è che le lotte operaie si sviluppino in Europa, negli USA, in Cina, che continuino ad estendersi in tutta la regione araba ed irrompano anche negli altri continenti. Di qui l’importanza vitale che ha l’iniziativa dei compagni del GEC dal “lontano Perù”. Facciamo appello a che altri gruppi e collettivi seguano il suo esempio in altri paesi.
L’acuirsi della crisi capitalista si vede senza dubbio nell’aggravamento delle condizioni di vita della classe operaia; ma se questi attacchi ci sono è perché la borghesia vede i suoi profitti messi in discussione. La crisi non è qualcosa che la classe dominante cerca con premeditazione, né tantomeno viene da fattori esterni al sistema capitalista, ma è l’espressione delle contraddizioni di questo. E questa crisi, che affligge il capitalismo dalla fine degli anni sessanta, ad ogni momento recessivo conosce una profondità maggiore che viene scaricata sui lavoratori in ogni parte del pianeta.
Intorno alla crisi la borghesia sviluppa tutto un velo ideologico che, se non le permette di evitarla, permette però di mistificare la realtà, giustificare i suoi attacchi e l’esistenza stessa del capitalismo. Un esempio maggiore di questa dinamica si nota a Cuba, dove le relazioni di produzione capitalista dominanti, che si basano sullo sfruttamento del lavoro salariato, si nascondono dietro lo statalismo e nell’uso ingannevole di un vocabolario radicale, qualificando i colpi dati agli operai come “sacrifici necessari per il socialismo”. L’aggravamento della crisi capitalista ha portato alla messa in atto di un’ondata di attacchi contro le condizioni di vita degli sfruttati cubani, che sono già così precarie. Il preteso isolamento che l’economia cubana avrebbe mantenuto di fronte alla crisi capitalista non si può più sostenere e i discorsi sul blocco economico come causa (esterna) della crisi sono ormai un argomento logorato con il quale non si può più nascondere che a Cuba, anche se non esistono individui che impersonano il capitale, questo esprime il suo dominio in quanto il capitale è innanzitutto una relazione sociale.
Licenziamenti di massa a Cuba
Lo stalinista partito cubano ha presentato un progetto chiamato “Lineamenti della politica economica e sociale” che descrive i meccanismi per ottenere – ci dicono – la “riorganizzazione dello Stato e del Governo”. La proposta è così riassunta dal giornale La Jornada: “Il documento prevede di ridurre i sussidi alla loro minima espressione; alzare le imposte; legare i salari al rendimento; esigere utili dalle imprese pubbliche, eliminando il controllo del governo; ampliare le cooperative, le microimprese, l’autoimpiego e il commercio immobiliare…” (2/12/2010). Tutti questi punti trovano le loro argomentazioni nel documento ufficiale[1] che, come ogni progetto capitalista, serve a giustificare lo sfruttamento e la necessità della sua intensificazione. Il programma annuncia che si vuole “incrementare la produttività del lavoro, alzare la disciplina e il livello di motivazione del salario e gli incentivi (…) (Sopprimendo) gratuità indebite e sussidi personali eccessivi”. Tutto questo si traduce in colpi ai salari diretti e indiretti (cure mediche, scuola…) e attraverso questo in licenziamenti di massa.
La struttura sindacale cubana, come in tutto il mondo, svolge il suo ruolo di strumento del capitale infiltrato nelle file operaie; così la Centrale dei Lavoratori di Cuba (CTC) giustifica l’annuncio del licenziamento di mezzo milione di lavoratori dicendo: “Lo Stato non può né deve continuare a mantenere imprese (…) con organici gonfiati e perdite che ostacolano l’economia, (…) generano cattive abitudini e deformano la condotta dei lavoratori”. In più, seguendo il cinismo di Fidel Castro che si divertiva col fatto che centinaia di giovani, a causa della miseria che vivono sono costrette a prostituirsi, dicendo che Cuba può vantare le prostitute più colte e sane, Salvador Valdès, leader della CTC assicura che: “Un lavoratore statale licenziato (…) ha la possibilità di realizzare attività private che gli fruttano molto di più”. E facendo un esempio, parla di come un lavoro precario genera una vita migliore: “Un ingegnere che smise di lavorare per lo Stato anni fa (…) riparando scarpe guadagna tra 70 e 100 dollari USA al mese…” (BBC Mundo, 3/02/2010).
Cuba è uno Stato operaio?
Tutte le misure descritte nei “Lineamenti della politica…” sono senza dubbio attacchi diretti contro i lavoratori che smascherano la natura borghese dello Stato cubano, nonostante che di fronte ad esso la grande maggioranza dei gruppuscoli stalinisti mantengono il silenzio; solo in qualche sito e forum di discussione (per esempio kaosenlared.com) si trovano argomenti di accaniti difensori di Stalin e Castro, che continuano ad affermare che le misure annunciate dal partito del governo cubano sono misure dolorose ma necessarie per “perfezionare la Rivoluzione e renderla strategicamente viva”. Ma se la difesa degli attacchi contro i lavoratori, per la loro rozzezza e spudoratezza non fanno che confermare che stalinismo e governo cubano sono nemici della classe operaia, in cambio gli argomenti dei trotskisti, usando un linguaggio farcito di citazioni di Marx e Trotsky per mascherare il carattere capitalista dello Stato cubano dietro un tono di apparente critica, aiutano bene la borghesia nel rafforzare la confusione nella classe operaia sull’esistenza del capitalismo in Cuba.
E’ certo che le posizioni intorno a Cuba sono tante quanti i gruppi trotskisti che ci sono, ma tutte concordano nel dichiarare che il colpo di Stato realizzato da Castro servì ad espropriare la borghesia e cambiare le relazioni economiche capitaliste, instaurando uno “Stato Operaio” che – per darci una botta di critica – chiamano “deformato”. Con questo argomento, gli uni dicono che quello che ci vuole è una “rivoluzione politica”, gli altri che dopo la caduta del blocco sovietico a Cuba si respira una svolta di apertura, che sta “restaurando” il capitalismo… e sebbene solo alcuni di loro hanno preso posizione di fronte alle minacce lanciate dal governo cubano con il suo “nuovo” piano economico, tutti si uniscono per chiamare alla difesa… non dei lavoratori, ma delle “conquiste della rivoluzione”, cioè dello statalismo. Questi argomenti, che si presentano come marxisti e critici, non sono altro che trappole ideologiche che (coscientemente o incoscientemente) servono solo alla borghesia che si impegna a macchiare la tradizione comunista presentando lo stalinismo come prodotto della lotta proletaria. Il trotskismo nasconde il carattere borghese dello stalinismo presentando certe misure come miglioramenti per gli operai (quelle chiamate “conquiste della rivoluzione”), incluso il socialismo in un solo paese, anche se lo criticano in quanto “deformato”. Così facendo si uniscono alla campagna borghese nel diffondere l’idea che il marxismo ha come obiettivo quello di costruire una società come quella cubana, in cui i lavoratori sono sottomesi a uno Stato militarizzato, repressivo e sfruttatore.
Gli attacchi contro i lavoratori cubani chiariscono che cosa esiste (ed è esistito) in questo paese, non uno “Stato operaio degenerato”, ma uno Stato capitalista che ha come unico obiettivo la difesa dell’economia nazionale per il perpetuarsi dello sfruttamento.
Tatlin / Dicembre-2010
(da Revolucion Mundial, n.120)
[1] Il documento completo si può trovare sul sito: rouslyn.files.wordpress.com/2010/11/proyecto-lineamientos-pcc.pdf
Ciò che è stato presentato da tutti i media borghesi, comprese le sue espressioni più radicali di sinistra, come un problema lavorativo limitato ad un ramo industriale italiano relativo alla sola produzione d’auto, quello della Fiat, quindi un qualcosa che non dovrebbe riguardare gli altri settori industriali, è invece un problema internazionale che riguarda l’insieme dell’economia capitalista e l’intera classe operaia.
Infatti, bisogna inquadrare i fatti di Mirafiori nel contesto di una crisi da sovrapproduzione generalizzata che attanaglia tutti gli Stati ed i padroni del mondo, dove ogni settore capitalista ed in particolare quello dell’auto, se vuole avere la speranza di rimanere a galla deve mettersi nella condizione di poter vincere l’accanita concorrenza, aumentare cioè la produzione ed a costi minimi. In altre parole abbassare ancora una volta il costo del lavoro attaccando con più vigore e maggiore cinismo i già bassi salariali della classe operaia e degradando ulteriormente le sue già ridotte condizioni di vita.
Nel caso particolare della produzione automobilistica della FIAT, dopo anni di sovvenzionamenti statali per evitare, forse, il suo fallimento definitivo (nel senso che non è più possibile salvarla attraverso un intervento diretto e massiccio dello Stato, tra cui bisogna ricordare i ripetuti incentivi statali per la rottamazione delle vecchie vetture) è arrivato alla sua guida come AD (amministratore delegato) Sergio Marchionne. Questi svela, senza troppi preamboli a tutti coloro che avevano creduto, si fa per dire, in un progetto “socialdemocratico” dei mercati, qual’è la vera natura della democrazia borghese quando si trova immersa nell’asfissia mercantile. Presentatosi all’Unione industriali Marchionne in modo arrogante ha informato le organizzazioni sindacali presenti che non avrebbe accettato nessuna trattativa per il suo piano di ristrutturazione aziendale: o lo si accettava oppure la Fiat sarebbe andata via da Mirafiori e dall’Italia. E forse questo è solo un bluff, visto i costi elevati per impiantare le stesse strutture tecnologiche in altri paesi che ne sono sprovvisti. Intanto, non bisogna credere che una tale politica economica sia il solo desiderio di Marchionne. Essa è agognata da tutta la borghesia italiana. Tuttavia, il metodo Marchionne serve da esperimento per aprire un varco più ampio nel mondo operaio nel tentativo di stravolgere, dopo Pomigliano D’Arco e Mirafiori, tutte le conquiste operaie (che ipocritamente vengono chiamate dai sindacati “diritti”) nell’intento di instaurare un nuovo rapporto tra capitale e lavoro a discapito chiaramente di tutti i lavoratori e su scala nazionale. Non a caso, dopo la chiusura della FIAT di Termini Imerese, soprattutto per una conduzione suicida della lotta da parte dei sindacati, in perfetta continuità con la trappola referendaria già imposta il 22 giugno del 2010 agli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco, Marchionne passa a Torino l’11 gennaio del 2010 imponendo ai lavoratori della Fiat Mirafiori un altro referendum per approvare il nuovo piano. In particolare in entrambi i referendum, sotto il pesante ricatto di una delocalizzazione della fabbrica all’estero, si chiede ai lavoratori di accettare il seguente accordo/ricatto:
- lavorare 6 giorni alla settimana su sette su tre turni di lavoro al giorno ed all’occorrenza arrivare anche a turni di 10 ore
- abolizione dell’indennità salariale per i nuovi assunti ed una significativa riduzione per quelli già assunti
- spacco mensa spostato a fine turno
- riduzione della pausa di lavoro da 40 a 30 minuti in una giornata di lavoro
- straordinario obbligatorio fino ad 80 ore all’anno (non pensionabile)
- in caso di fermo di produzione - chiaramente non per volontà degli operai ma per motivi esterni (per esempio mancata consegna di materiale da parte di fornitori) il recupero delle ore di lavoro perse anche durante la mezz’ora di spacco, cioè il lavoratore non potrà usufruire dopo una giornata di lavoro della mensa
- l’assenza per malattia accreditato per legge da un certificato medico, dovrà essere vagliata dall’azienda (sindacati?) ed in caso che quest’ultima, e solo lei, dovesse ritenere che l’assenza possa contenere anomalie non verranno pagati i tre giorni di malattia
- contrattazione (trattative aziendali) solo per i firmatari dei contratti ossia solo per quelle organizzazioni sindacali che ubbidiscono al padrone (sic!)
- possibilità di contratti individuali e ciò è possibile in quanto Marchionne ha posto la società aziendale fuori dalla Confindustria
- lo sciopero che possa produrre danni alla produzione sarà punito fino al licenziamento.
In quest’ultimo caso, bisogna sottolineare che la Fiom, come alcuni politici, uomini di cultura, giuristi, artisti, organici o vicini alla sinistra borghese, parlano ipocritamente di attacchi al “diritto” allo sciopero quando sanno benissimo che lo sciopero non è un diritto che la borghesia, folgorata sulla strada di Damasco da un attacco altruistico, ha concesso alla classe operaia, ma una conquista delle vecchie generazioni operaie che per imporlo ai padroni hanno sacrificato finanche la loro vita. Intanto sono stati proprio i sindacati a reintrodurre, in accordo con governi di sinistra e Confindustria, i limiti dello sciopero approfittando di un abbassamento di guardia della classe operaia (accordo Governo sindacati e Confindustria 1993 – accettazione del pacchetto Treu). Tutti questi sacrifici solo per 1.150 euro al mese, salario medio di un operaio! E’ il caso di dirlo, si tratta di una schiavitù salariale che riporta i proletari ai tempi di Valletta, come è stato sottolineato da operai anziani e da pensionati Fiat. E’ toccante la visione filmata su YouTube[1] del vecchio operaio che piange di fronte a questi attacchi fuori ai cancelli di Mirafiori durante le votazioni ed alla divisione che i sindacati determinano tra i ranghi proletari!
Intanto, sia il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, sia il ministro del welfare, Sacconi, hanno sostenuto pubblicamente la validità di un tale piano avallato anche dal “super mandrillone” Presidente del consiglio Silvio Berlusconi, che ha dichiarato, mentre si trovava in Germania, che in caso di sconfitta referendaria Marchionne avrebbe fatto bene ad andarsene dall’Italia.
I sindacati, FIOM in testa, i migliori difensori … del capitale
Fino ad ora però abbiamo parlato dei padroni, ma ora vediamo chi sono stati i suoi migliori alleati, gli artefici impagabili per la borghesia, che hanno consentito che passasse un tale attacco attraverso il “consenso degli stessi operai”. Ancora una volta dobbiamo sottolineare l’indispensabile azione mistificatoria dei guardiani degli interessi borghesi effettuata dagli specialisti della sconfitta operaia: i sindacati. Questi micidiali organismi, purtroppo ancora presenti nei ranghi operai, non solo accettano e sostengono i referendum proposti dai padroni in quanto essi rappresentano un terreno di lotta non proletario (non a caso tanto cari proprio ai partiti della sinistra borghese ed ai sui sindacati come la GGIL), ma poi con le loro divisioni attuate ad arte e distribuendosi in ruoli diversificati, UGL, CISL ed UIL schierati apertamente con Marchionne e FIOM e Cobas contro, mettono operai contro altri operai, li dividono, li disorientano, creando nella classe paura e mancanza di fiducia in se stessa. Sotto il ricatto di una “pistola puntata alla testa” esaltato anche dalla stessa propaganda sbandierata da politici di destra ma anche di sinistra (vedi le dichiarazioni di Fassino), la classe, così atomizzata, è costretta ad accettare un terreno di lotta che non le appartiene ma che è proprio della borghesia. Così ogni operaio, nel chiuso di una cabina, costretto a fare i conti con se stesso, ha davvero una notevole difficoltà a respingere il ricatto del padrone. Tuttavia, la borghesia che ben conosce la reattività operaia, temendo la possibilità di scoppi di scioperi spontanei rispetto agli attacchi portati (che comunque si sono verificati durante il periodo pre-referendario) e l’eventuale perdita di controllo da parte dei sindacati sulla classe operaia, ha avuto la necessità di selezionare un’organizzazione sindacale più dura e radicale per tenere nei ranghi gli operai più decisi e determinati nel rifiutare il ricatto padronale. La scelta, vista l’esiguità delle organizzazioni sindacali più estreme della sinistra borghese (Cobas ecc.), non poteva che cadere sulla FIOM che non a caso all’occorrenza ha sostituito Rinaldini, faccia compromessa della FIOM, con una più radicale, quella di Landini. Non dimentichiamo, infatti, che la Fiom è stata firmataria insieme alle altre sigle sindacali del pacchetto antioperaio Treu e che qualche tempo fa Rinaldini fu contestato duramente durante un comizio a Torino perché a Pomigliano la FIOM aveva fatto passare un provvedimento punitivo per le operaie più combattive lasciando passare la proposta da parte dell’azienda di “esiliarle” in zone confino come veniva per esempio considerato l’insediamento Fiat nolano[2].
Un altro aspetto del ruolo di divisione tra i ranghi operai che questo sindacato ha messo in opera anche dopo i risultati del referendum è stato quello di aver affermato che la vittoria dei si è passata per i voti di quei “traditori operai” che hanno votato si ed anche per i voti degli impiegati, come se quest’ultimi fossero per natura qualcosa di diverso dalla classe operaia! Che ci siano stati voti a favore dei si tra gli operai in tuta blu e gli altri lavoratori, che vengono definiti falsamente impiegati in quanto questi appartengono ai ranghi proletari, è innegabile. Ma la responsabilità non è dei ricattati ma di chi ha consentito questo ricatto: i sindacati compresa la Fiom. Quest’ultima, infatti, invece di accettare il referendum avrebbe dovuto lavorare in favore dell’unità della classe. Risulta evidente che quello che avrebbe potuto veramente sconfiggere Marchionne non era l’urna ma un’attivazione capillare in tutti i posti di lavoro possibili (volantinaggio, convegni, comizi, assemblee aperte a tutti) e non solo tra i metalmeccanici ma nell’indotto ed anche chiedendo solidarietà alla lotta ai tanti altri proletari in lotta come i precari, gli studenti, i ricercatori ecc. per spiegare qual è la vera posta in gioco contenuta dal modello Marchionne. Per poi proclamare uno sciopero. Invece che cosa fa? Lo proclama per il 28/01, a cose ormai chiuse e di venerdì, quando gli altri lavoratori non possono andarci e regione per regione, e in luoghi decentrati come Cassino, Pomigliano ecc.
Ma la vittoria dei Si è una sconfitta per i lavoratori?
Tuttavia, quella che sul piano numerico può rappresentare una sconfitta della classe operaia, sul piano politico non deve essere ritenuta tale. La sfida tra la classe operaia ed i padroni è ancora aperta. Infatti, è lo stesso Marchionne a dichiarare la sua delusione: per i risultati raggiunti dal referendum di Pomigliano in cui fu approvato il piano di ristrutturazione degli accordi da lui proposto con la vittoria dei si 63% e la sconfitta dei no 36 %; a maggior ragione su quelli di Mirafiori dove la vittoria dei si all’accordo/ricatto è stata del 54% (2735 si) mentre la sconfitta con i suoi 2325 ha raggiunto il 46%.
Da dove nasce questa delusione di Marchionne condivisa anche dai sindacati sostenitori del si come giustamente riferisce in un intervista Maurizio Peverati della UILM? : “loro si aspettavano qualcosa di più ma li giustifica con il fatto che forse i lavoratori non abbiano capito bene l’accordo affermando che questo è un grande accordo che rilancia innanzitutto l’auto – tiene in piedi l’indotto e dà la possibilità ai 70 mila lavoratori che ruotano attorno all’indotto di avere almeno un pò di serenità”[3]. A questo punto c’è da chiedere a questi signori com’è che non hanno indetto assemblee generali per spiegare “bene” le “delizie” di questo accordo agli operai e soprattutto perché le hanno lasciate fare (non in assemblee generali) ai vertici Fiat. In realtà i padroni insieme ai sindacati ed a tutta la borghesia italiana si aspettavano una sconfitta più netta, decisiva della classe operaia sia per avere le mani più libere e proseguire ad ampio raggio alla liberalizzazione selvaggia del costo del lavoro, ma anche per attaccare politicamente la classe inviando un messaggio molto chiaro da riprendere in altri settori e cioè: o si accettano ulteriori sacrifici o l’alternativa è il licenziamento. Dunque un messaggio ricattatorio bello e buono rivolto a tutti i proletari in vista di ulteriori attacchi che la borghesia deve fare. Infatti già stanno dicendo che in effetti la crisi non è affatto passata.
Proprio considerando il ricatto subito dalla classe da tutto un piano prestabilito dalla borghesia, l’azione perniciosa dei sindacati, un terreno di classe che non solo non le appartiene ma che addirittura le è ostile, possono mai parlare di sconfitta degli operai di Pomigliano e di Mirafiori? Assolutamente no! Bisogna considerare oltre ai no dichiarati, anche quei si che, come è stato dichiarato da moltissimi operai intervistati, erano dovuti solo al ricatto e non ad una convinzione ragionata sulle “delizie” del nuovo contratto, solo dalla paura di perdere tutto, di trovarsi con la fabbrica chiusa da un giorno all’altro senza sapere dove e come sopravvivere. E la storia ci insegna che dalla paura può nascere l’indignazione e l’indignazione di una massa di operai può rappresentare per la borghesia una bomba ad orologeria. E questo i padroni lo sanno bene. Inoltre se consideriamo in che contesto internazionale si inserisce l’episodio di Mirafiori, e cioè che ormai in ogni angolo del mondo in tutti i paesi il proletariato sta cominciando a lottare sotto i colpi della crisi economica producendo scioperi e lotte in cui cominciano a riemergere la necessità di scioperi unitari, massicci, solidali, ed anche AG, possiamo dire che anche Mirafiori, rappresenta l’indisponibilità crescente dei lavoratori ad essere trattati peggio che da schiavi. Ecco da dove nasce la preoccupazione di Marchionne, dell’intera borghesia e dei suoi cani da guardia i sindacati. E’ chiaro che i lavoratori di Pomigliano e di Mirafiori, come di altre realtà lavorative, dovranno rifiutare ogni trappola che li porta a scontrarsi su un terreno non proletario e dovranno trovare la forza di liberarsi del sindacato attuando come forme di lotta le Assemblee generali in cui possono ritrovare la forza e la loro dignità di classe sfruttata. Una classe che con le sue massicce lotte a scala internazionale possiede in se la forza di liberare, e con essa l’intera umanità, dall’oppressione del lavoro salariale e dei mercati (il capitalismo) ed essere portatrice di una nuova società in cui non ci saranno più sfruttati ne sfruttatori, né guerre né miseria.
R., 23 gennaio 2011
[1] Vedi YouTube : Lacrime davanti ai cancelli di Mirafiori https://www.youtube.com/results?search_query=Lacrime+davanti+ai+cancelli+di+Mirafiori&aq=f [6]
[2] Nola, città dell’entroterra campano.
[3] YouTube: Risultato Referendum Mirafiori FIAT 14/1/11. https://www.youtube.com/watch?v=v5LrTvFX0-U [7]
Questo sdegno non fa che accumularsi alle numerose altre frustrazioni che la stragrande parte della popolazione subisce giorno dopo giorno, determinate da disoccupazione da una parte e ricatto di licenziamento dall’altra, da buste paga in calo e precarietà e insicurezza per il futuro. Sembra veramente, anche su questo piano, non esserci limite al peggioramento delle condizioni di esistenza e di vita della classe lavoratrice. E’ per questo che la borghesia, preoccupata per il potenziale carattere esplosivo della situazione sociale, cerca continuamente di spostare l’attenzione dei proletari sui falsi piani dell’interclassismo e della democrazia, invocando una giustizia sociale e un’uguaglianza tra i cittadini che, all’interno di una società divisa in classi, non potrà mai esistere.
E’ stato così, ad esempio, con la manifestazione per la dignità delle donne, quella promossa con lo slogan “se non adesso, quando?”, con la sinistra che ne ha fatto un’occasione per tornare sulla scena e chiedere, guarda un po’, le dimissioni di Berlusconi. Così la giusta indignazione di 1 milione di donne e di uomini contro la mercificazione della donna è stata dirottata in una manifestazione per cacciare via Berlusconi.
Neanche il festival di San Remo resta immune dalla propaganda per la democrazia e dal tentativo di riscaldare nell’animo degli “italiani” un amor di patria piuttosto tiepido, con un monologo di oltre mezz’ora con cui Benigni ci ha spiegato il significato autentico dell’inno di Mameli e ricordato i sacri valori a cui ognuno di noi dovrebbe fare riferimento. E intanto il governo si “spacca” su grave problema se fare o meno un giorno di festa lavorativa per celebrare il 150° anniversario dell’unità d’Italia.
Certo! La patria, la democrazia! Ma queste parole attecchivano ed avevano un senso quando, nella fase di costituzione delle nazioni nel 19° secolo, unificando la nazione e sottraendola al dominio di una potenza straniera che la voleva solo come terra asservita ai suoi interessi, il paese poteva avere uno sviluppo proprio e dare una prospettiva anche alla sua classe proletaria, alla stessa classe degli sfruttati. Ma oggi queste stesse parole sanno di niente perché effettivamente davanti a noi c’è il buio più assoluto.
Questa mancanza di prospettiva, questa mancanza di futuro che lamenta tanto e a buon motivo la nuova generazione, è in realtà il riflesso, la conseguenza immediata della mancanza di prospettive che ha la stessa borghesia. Molti in Italia, di fronte alle enormità di Berlusconi e della sua banda, si chiedono come sia possibile che la sinistra non sia capace di profittarne, come mai non sappia esprimere il benché minimo programma di alternativa al governo attuale. Questa mancanza di opposizione, così palese in Italia, non è un caso esclusivo italiano. Lo stesso si presenta in altri paesi come la Francia, dove Sarkozy è rinomato per le sue gaffe e la sua impresentabilità quasi quanto Berlusconi, ma dove la sinistra non ha ugualmente la forza di venire allo scoperto. Facendo le dovute differenze, un problema analogo si pone per i paesi del nord Africa e del medio oriente in rivolta, dove tutti i vecchi figuri stanno saltando l’uno dopo l’altro ma dove le varie borghesie locali non sanno chi mettere al loro posto perché fondamentalmente, al di là di una pulizia di facciata, i nuovi governi non hanno nessuna nuova politica da proporre sul piano sociale ed economico se non concedere … più democrazia per tutti! Così, tornando all’Italia, gli scandali che si muovono intorno alla figura di Berlusconi fanno comodo perché riempiono il vuoto, focalizzano lo sdegno contro un personaggio o anche contro un partito, facendo apparire passabili o addirittura eroiche finanche figure come quella dell’ex fascista Fini o dell’ex democristiano Casini. Quanti in questo periodo dicono: “chiunque altro è meglio di Berlusconi”, pensando che nella politica della borghesia ci sia una gradualità, un meglio e un peggio. Ma nella politica, tanto più nella politica di oggi della borghesia, non ci sono differenze sostanziali perché, al di là della maggiore o minore decenza dell’uno o dell’altro, nessuno ha da offrirci nulla e, in Italia come nel mondo intero, un partito di opposizione che va al governo non potrebbe che proseguire nella stessa direzione del governo precedente, cioè continuare con gli attacchi a tappeto contro la classe dei lavoratori. E’ per questo che non dobbiamo farci ingannare dalla trappola della democrazia e dell’antiberlusconismo, ma denunciare e combattere tutti i partiti della borghesia, di destra come di sinistra, come nostri nemici.
Ezechiele 20 febbraio 2011
Terremoti, tempeste, ondate di calore, inondazioni ... fare un elenco di tutti questi disastri è quasi impossibile. E la lista è già lunga anche per il 2011! È il caso dell’Australia, per esempio, con le due successive ondate di tempeste che hanno martoriato il paese il 13 e il 22 marzo 2010, distruggendo molte case e impianti elettrici. E ora dai primi di gennaio, il paese conosce la peggiore inondazione degli ultimi 40 anni, descritta come “biblica” da parte delle autorità australiane. Si parla di una trentina di morti, con una zona allagata più grande di Francia e Germania messe assieme. Anche in Brasile l’anno è iniziato con piogge torrenziali che hanno ucciso più di 250 persone in 2 giorni[1]!
Così, per citare solo le principali calamità del 2010:
- Il 12 gennaio 2010 ad Haiti, un terremoto di magnitudo 7.3 ha provocato 230.000 morti, 300.000 feriti e 1,2 milioni di senza tetto, seminando caos e malattie in un paese già afflitto da povertà[2].
- Il 27 febbraio infuria la tempesta Xynthia sulla costa atlantica della Francia, lasciando 47 morti e distruggendo numerose case. Anche due vittime in Portogallo e tre in Spagna.
- In Cile, lo stesso giorno, un terremoto di magnitudo 8,8 uccide 521 persone e distrugge quasi 500.000 case.
- Nel mese di giugno in Russia si verifica un’ondata di caldo senza precedenti, con 15.000 vittime e la devastazione di molte foreste e campi di grano.
- Il 4 settembre è tocca alla Nuova Zelanda subire un terremoto di una magnitudo simile a quella di Haiti (7.1) ma questa volta la normativa antisismica è servita a limitare a due feriti gravi il numero delle vittime.
Tutti questi eventi sono particolarmente tragici e non si può che deplorarne le terribili conseguenze. E noi esprimiamo tutta la nostra solidarietà alle vittime di queste catastrofi mortali. Tuttavia, se dei fenomeni “naturali”, che siano meteorologici, geologici o altro, ne sono spesso la causa, le conseguenze disastrose che portano questi eventi non hanno nulla di naturale o inevitabile. Come viene mostrato nel nostro articolo sulla tragedia di Haiti, sono sempre gli stessi a che pagare il prezzo più alto delle conseguenze dei disastri: la classe sfruttata e i più poveri. Ricordiamoci il cinismo con cui l’amministrazione Bush tardò a fornire assistenza alle persone di New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina nell’agosto 2005.
Purtroppo il bilancio del 2010 non si ferma qui. Il capitalismo è responsabile di altre due gravi catastrofi:
• L’esplosione della piattaforma petrolifera “Deepwater” nel Golfo del Messico, il 20 aprile, che ha causato una fuoriuscita di petrolio di proporzioni precedenti nella storia già “ricca” di inquinamento dovuto all’irresponsabilità delle compagnie petrolifere e degli Stati, produttori o meno, che traggono enormi benefici dall’oro nero. Per quasi cinque mesi 780 milioni di litri di petrolio si sono riversati nel Golfo, senza contare gli 11 lavoratori uccisi nell’esplosione[3].
• Poi, in ottobre, la rottura di una diga di un impianto di trattamento della bauxite vicino Ajka in Ungheria ha causato la peggiore catastrofe ecologica che questo paese abbia mai conosciuto facendo numerose vittime. 1,1 milioni di litri di rifiuti tossici (fanghi alcalini) sono finiti nel Marcal, trasformandolo in un fiume morto. “L’elevato tasso alcalino ha ucciso tutto”, si rammarica Tibor Dobson e continuando: “Tutti i pesci sono morti e non abbiamo potuto salvare neanche la vegetazione”[4].
Per questi veri e propri disastri ecologici e umani, i cui effetti sono ancora da venire, la causa non è, ovviamente, quello che la classe dirigente vorrebbe far passare per “malefatte” quasi inevitabili di “Madre Natura”. Quest’ultima è una vittima diretta delle conseguenze della corsa al profitto del capitalismo e delle contraddizioni sempre più mostruose che genera, e con essa i 6 miliardi di persone che abitano il pianeta. Oggi per la classe dominante non conta altro che la sopravvivenza del sistema capitalista, che si chiami “democrazia” o “dittatura”. Nessuna regione del mondo ne è immune, dalle più “ricche” alle più povere. A qualunque prezzo, l’importante è che il mostro faccia profitti, e quindi che produca, fino a vomitare la sua propria sovrapproduzione. Cosa importa la vita di quelli che producono: i lavoratori. Cosa importa la vita delle popolazioni colpite duramente da questo sistema decadente. Se non sono solvibili “che crepino!” Questo è il discorso chiaro e netto che fanno i nostri sfruttatori a microfono spento, quando non sono davanti alle telecamere, le loro lacrime di coccodrillo servono a mascherare, a mala pena, la loro avida cupidigia ed a completare i loro costumi da clown umanitari che usano per giustificare i più bassi appetiti[5].
Oggi il capitalismo stringe l’umanità nella sua morsa: da un lato, distrugge il pianeta per piegarlo alle leggi della concorrenza, il che fa aumentare le catastrofi naturali, e dall’altro, impoverisce la stragrande maggioranza degli sfruttati e ci rende tutti più vulnerabili. “I fenomeni naturali non dovrebbero essere che fenomeni, per quanto spettacolari possano essere. Ma resteranno catastrofi finché le leggi capitaliste governeranno il mondo”[6]
Maxim (18 gennaio)
(da Révolution Internationale, 419)
[1] da “www.lemonde.fr [10]” del 14/01/2011. Il bilancio è di oltre 500 morti.
[3]: “Marea nera nel Golfo del Messico: il capitalismo è una catastrofe [13]”, https://it.internationalism.org/node/926 [13], Rivoluzione Internazionale n.166
[4] Dichiarazione di Tibor Dobson, capo regionale dei servizi anti-calamità. Il suo staff aveva cercato di versare gesso e acido per ridurre il tasso alcalino del fiume Marcal. Ma invano.
[5] “Haiti, l’aiuto umanitario come alibi” Révolution Internationale n.409, https://fr.internationalism.org/ri409/en_haiti_l_humanitaire_comme_alibi.html [14]
[6] Vedi il nostro articolo sull’ennesimo disastro “Coulées de boues en Amérique latine: le capitalisme est une catastrophe meurtrière permanente”, Révolution Internationale n.412, https://fr.internationalism.org/ri412/coulees_de_boues_en_amerique_latine_le_capitalisme_est_une_catastrophe_meurtriere_permanente.html [15]
Da circa tre anni alcuni elementi e gruppi anarchici e la CCI hanno fatto cadere alcune barriere cominciando a discutere in modo aperto e fraterno. L’indifferenza o il rigetto reciproco, aprioristico e sistematico, dell’anarchismo e del marxismo hanno fatto posto ad una volontà di discutere, di comprendere le posizioni dell’altro, di stabilire con onestà i punti di convergenza e di divergenza.
In Messico, questo nuovo spirito ha permesso la redazione comune di un volantino firmato da due gruppi anarchici (il GSL ed il PAM[1]) e un’organizzazione della Sinistra comunista, la CCI. In Francia, recentemente, la CNT-AIT di Tolosa ha invitato la CCI a fare la relazione introduttiva ad una delle sue riunioni pubbliche[2]. Anche in Germania cominciano ad essere stabiliti dei legami.
Sulla base di questa dinamica la CCI ha iniziato un lavoro di fondo sulla storia dell’internazionalismo all’interno dell’ambiente anarchico. Abbiamo pertanto pubblicato nel corso del 2009 una serie di articoli intitolati “Gli anarchici e la guerra”[3]. Il nostro obiettivo era dimostrare che, ad ogni conflitto imperialistico, una parte degli anarchici aveva saputo evitare la trappola del nazionalismo e difendere l’internazionalismo proletario. In questi articoli abbiamo mostrato come questi compagni avevano continuato a lavorare per la rivoluzione e per il proletariato internazionale nonostante intorno a loro si fosse scatenato lo sciovinismo e la barbarie.
Conoscendo l’importanza che la CCI dà all’internazionalismo - frontiera che delimita i rivoluzionari che lottano realmente per l’emancipazione dell’umanità da quelli che tradiscono la lotta del proletariato - si poteva vedere come questi articoli, oltre ad esprimere una critica senza concessioni agli anarchici che hanno partecipato alla guerra, fossero soprattutto un saluto agli anarchici internazionalisti!
Tuttavia la nostra intenzione non è stata ben percepita. Questa serie ha invece determinato nell’immediato una certa freddezza. Da un lato, alcuni anarchici vi hanno visto un attacco in piena regola contro il loro movimento. Dall’altro, alcuni simpatizzanti della Sinistra comunista e della CCI non hanno capito la nostra volontà di “avvicinarci agli anarchici”[4].
Al di là di grossolane sviste contenute nei nostri articoli e che hanno potuto “urtare” qualcuno[5], queste critiche apparentemente contraddittorie hanno in effetti la stessa radice. Mostrano la difficoltà a vedere, al di là delle divergenze, gli elementi essenziali che avvicinano i rivoluzionari.
Andare al di là delle etichette!
Quelli che si richiamano alla lotta per la rivoluzione vengono tradizionalmente classificati in due categorie: i marxisti e gli anarchici. Ci sono nei fatti delle divergenze molto importanti che li dividono:
- centralizzazione/federalismo;
- materialismo/idealismo;
- “periodo di transizione” o “abolizione immediata dello Stato”;
- Riconoscimento o denuncia della rivoluzione dell’Ottobre 1917 e del Partito bolscevico
- …
Tutte queste questioni sono effettivamente estremamente importanti. È nostra responsabilità non evitarle ma dibatterne apertamente. Tuttavia, per la CCI queste non delimitano “due campi”. Concretamente, la nostra organizzazione, che è marxista, ritiene di lottare per il proletariato al fianco dei militanti anarchici internazionalisti e in contrapposizione ai Partiti “comunisti” e maoisti (che si proclamano tuttavia anche loro marxisti). Perché?
In seno alla società capitalista, esistono due campi fondamentali: quello della borghesia e quello della classe operaia. Noi denunciamo e combattiamo tutte le organizzazioni politiche che appartengono al primo. Discutiamo, talvolta vivacemente ma sempre fraternamente, e proviamo a collaborare con tutti i membri del secondo. Ora, sotto la stessa etichetta “marxista” si nascondono delle organizzazioni autenticamente borghesi e reazionarie. La stessa cosa vale anche per l’etichetta “anarchico”!
Non si tratta di pura retorica. La storia pullula di esempi di organizzazioni “marxiste” o “anarchiche” che giurano mano sul cuore di difendere la causa del proletariato per meglio in realtà pugnalarlo alla schiena. Nel 1919 la socialdemocrazia tedesca si diceva “marxista” nello stesso momento in cui assassinava Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e migliaia di operai. I partiti stalinisti hanno schiacciato nel sangue le insurrezioni operaie di Berlino nel 1953 e d’Ungheria nel 1956 in nome del “comunismo” e del “marxismo”, in realtà nell’interesse del blocco imperialistico diretto dall’URSS. In Spagna, nel 1937, alcuni dirigenti della CNT partecipando al governo sono serviti da cauzione ai boia stalinisti che hanno massacrato e represso nel sangue migliaia di rivoluzionari… anarchici! Oggi, in Francia ad esempio, la stessa denominazione “CNT” raccoglie due organizzazioni anarchiche, una dalle posizioni autenticamente rivoluzionarie, la CNT-AIT, ed un’altra puramente “riformista” e reazionaria, la CNT Vignoles[6].
È dunque vitale identificare i falsi amici che si nascondono dietro le “etichette”.
Ma non bisogna cadere nella trappola inversa e credere di essere soli al mondo, i detentori esclusivi della “verità rivoluzionaria”. I militanti comunisti sono oggi ancora poco numerosi e non c’è niente di più nefasto dell’isolamento. Bisogna dunque lottare anche contro la tendenza, ancora troppo diffusa, della difesa della “propria parrocchia”, della propria “famiglia” (anarchica o marxista) e contro lo spirito bottegaio che non ha niente a che vedere con il campo della classe operaia. I rivoluzionari non sono concorrenti tra loro. Le divergenze, i disaccordi, per quanto profondi possano essere, sono una fonte di arricchimento per la coscienza di tutta la classe operaia quando sono discussi apertamente e sinceramente. Creare dei legami e discutere a livello internazionale sono necessità assolute.
Ma per fare questo bisogna saper distinguere i rivoluzionari (quelli che difendono la prospettiva del capovolgimento del capitalismo da parte del proletariato) dai reazionari (quelli che, in un modo o nell’altro, contribuiscono alla perpetuazione di questo sistema) senza focalizzarsi sulla sola etichetta “marxismo” o “anarchismo”.
Ciò che unisce i marxisti e gli anarchici internazionalisti
Per la CCI esistono dei criteri fondamentali che distinguono le organizzazioni borghesi da quelle proletarie.
Sostenere la lotta della classe operaia contro il capitalismo significa al tempo stesso combattere nell’immediato contro lo sfruttamento (negli scioperi, ad esempio) e non perdere mai di vista la prospettiva storica di questa lotta: il rovesciamento di questo sistema di sfruttamento attraverso la rivoluzione. Per fare ciò, un’organizzazione non deve mai dare il suo appoggio, in nessun modo (anche se “critico”, “tattico”, in nome del “male minore”…) ad un settore della borghesia: né alla borghesia “democratica” contro la borghesia “fascista”, né alla sinistra contro la destra, né alla borghesia palestinese contro la borghesia israeliana, ecc. Questa politica ha due implicazioni concrete:
1. Bisogna rifiutare ogni sostegno elettorale, ogni collaborazione, con i partiti che gestiscono il sistema capitalista o che difendono questa o quella forma di quest’ultimo (socialdemocrazia, stalinismo, “chavismo”, ecc.);
2. Soprattutto, rispetto ad ogni guerra, bisogna mantenere un internazionalismo intransigente, rifiutandosi di scegliere tra questo o quel campo imperialista. Durante la Prima Guerra mondiale come durante tutte le guerre imperialiste del 20° secolo, tutte le organizzazioni che, per cercare un campo da sostenere, hanno abbandonando il campo dell’internazionalismo hanno nei fatti tradito la classe operaia e sono state integrate definitivamente nel campo borghese[7].
Questi criteri, esposti qui molto brevemente, spiegano perché la CCI considera certi anarchici compagni di lotta e perché si augura di discutere e collaborare con loro mentre, parallelamente, denuncia con forza altre organizzazioni anarchiche.
Per esempio, collaboriamo con il KRAS (sezione dell’AIT anarco-sindacalista in Russia), pubblicando e salutando le sue prese di posizione internazionaliste di fronte alla guerra, in particolare quella in Cecenia. La CCI considera questi anarchici, malgrado le divergenze, come facenti parte del campo proletario. Questi si distinguono chiaramente da tutti quegli anarchici e da tutti quei “comunisti” (come quelli dei Partiti “comunisti” o maoisti o trotzkisti) che in teoria difendono l’internazionalismo ma in pratica vi si oppongono difendendo in ogni guerra un campo belligerante contro un altro. Non bisogna dimenticare che nel 1914, all’epoca dello scoppio della Prima Guerra mondiale, e nel 1917, all’epoca della Rivoluzione russa, la maggior parte dei “marxisti” della socialdemocrazia si schierarono con la borghesia contro il proletariato, mentre la CNT spagnola denunciava la guerra imperialista e sosteneva la rivoluzione! All’epoca dei movimenti rivoluzionari della fine degli anni 1910, gli anarchici ed i marxisti, che lavoravano sinceramente alla causa proletaria, si sono ritrovati fianco a fianco nella lotta nonostante i loro disaccordi. In questo periodo c’è stata anche una certa collaborazione di grande ampiezza tra i rivoluzionari marxisti (i bolscevichi, gli spartakisti tedeschi, i tribunisti olandesi, gli astensionisti italiani, ecc. che si erano staccati dalla II Internazionale che degenerava) e numerosi gruppi che si rivendicavano all’anarchismo internazionalista. Un esempio di questo processo è il fatto che un’organizzazione come la CNT abbia previsto la possibilità, alla fine rigettata, di integrarsi nella Terza Internazionale[8].
Per portare un esempio più recente, un po' ovunque nel mondo esistono gruppi anarchici e sezioni dell’AIT che di fronte agli avvenimenti attuali mantengono non solo una posizione internazionalista ma lottano anche per l’autonomia della proletariato contro tutte le ideologie e tutte le correnti della borghesia:
- questi anarchici difendono la lotta diretta e di massa come anche l’auto-organizzazione in assemblee generali ed in Consigli operai;
- rigettano ogni partecipazione alla mascherata elettorale ed ogni sostegno a qualsiasi partito politico, anche “progressista”, che partecipa a questa mascherata.
In altre parole, fanno proprio uno dei principi formulati dalla Prima Internazionale: “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, lavorando in tal modo per la lotta per la rivoluzione ed una comunità umana mondiale.
La CCI appartiene allo stesso campo di questi anarchici internazionalisti che difendono realmente l’autonomia operaia! Sì, li consideriamo come dei compagni con i quali ci auguriamo di discutere e collaborare! Sì, pensiamo anche che questi militanti anarchici hanno molto più in comune con la Sinistra comunista che non con quelli che, sotto la stessa etichetta anarchica, difendono in realtà delle posizioni nazionaliste o “riformistiche” e che quindi sono in realtà dei difensori del capitalismo, dei reazionari!
Nel dibattito che poco a poco si sta sviluppando tra tutti gli elementi e gruppi rivoluzionari ed internazionalisti del pianeta, ci saranno inevitabilmente errori, discussioni vivaci ed animate, spigolosità, malintesi e veri disaccordi. Ma i bisogni della lotta del proletariato contro un capitalismo sempre più invivibile e barbaro, la prospettiva indispensabile della rivoluzione proletaria mondiale, condizione per garantire la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta, esigono questo sforzo. E’ un dovere. E oggi, che emergono di nuovo minoranze proletarie rivoluzionarie in numerosi paesi che si richiamano o al marxismo o all’anarchismo (o che sono aperte ai due), questo dovere di discutere e collaborare deve incontrare un’adesione determinata ed entusiasta!
CCI (giugno 2010)
I prossimi articoli di questa serie tratteranno le seguenti questioni:
- Sulle nostre difficoltà a discutere ed i mezzi per superarle.
- Come coltivare il dibattito.
[1] GSL: Grupo Socialista Libertario, https://webgsl.wordpress.com [17], PAM: Proyecto Anarquista Metropolitano, proyectoanarquistametropolitano.blogspot.com.
[2] Un clima caloroso ha regnato durante tutta questa riunione. Leggi il resoconto “Réunion CNT-AIT de Toulouse du 15 avril 2010: vers la constitution d’un creuset de réflexion dans le milieu internationaliste [18], sulla pagina in francese del nostro sito.
[4] Dei compagni, in particolare, sono stati turbati dalla realizzazione di un volantino in comune GSL-PAM-CCI. Abbiamo quindi cercato di spiegare il nostro approccio in un articolo in spagnolo dal titolo “Quale è il nostro atteggiamento di fronte a dei compagni che si richiamano all’anarchismo?”, https://es.internationalism.org/node/2715 [21]
[5] In effetti alcuni compagni anarchici hanno giustamente sottolineato delle sviste, delle formulazioni imprecise ed anche degli errori storici. Vi torneremo in seguito, ma vogliamo sin da ora rettificarne due dei più grossolani:
– La serie “Gli anarchici e la guerra” afferma più volte che, all’epoca della Prima guerra mondiale, la maggioranza dell’ambiente anarchico cadde nel nazionalismo mentre solo un pugno di individui riuscì a difendere la posizione internazionalista mettendo in pericolo la propria vita. Gli elementi storici apportati nel dibattito da membri dell’AIT, e confermati dalle nostre ricerche, mostrano che in realtà una gran parte degli anarchici si è opposta alla guerra sin dal 1014 (delle volte in nome dell’internazionalismo o dell’antinazionalismo, più spesso in nome del pacifismo)
– L’errore più imbarazzante (e che finora nessuno ha sollevato) riguarda l’insurrezione di Barcellona nel maggio 1937. Infatti noi abbiamo scritto che “gli anarchici si fanno complici della repressione operata dal Fronte popolare e dal governo di Catalogna”. In realtà sono invece i militanti della CNT e della FAI a costituire la maggior parte degli operai insorti a Barcellona e che sono state le principali vittime della repressione organizzata dalle orde staliniste! Sarebbe stato più giusto denunciare la collaborazione a questo massacro da parte della direzione della CNT piuttosto che “degli anarchici”. Questo del resto è il senso della nostra posizione sulla Guerra di Spagna che difendiamo in particolare nell’articolo “Lezioni degli avvenimenti della Spagna” nella Rivista Internazionale n.3 dove vengono riportati gli articoli di Bilan (novembre 1936) su questi avvenimenti.
[6] “Vignoles” è il nome della strada dove si trova la loro sede principale.
[7] Tuttavia elementi o gruppo hanno potuto emergere da organizzazioni che erano passate nel campo borghese, ad esempio la tendenza di Munis o quella che avrebbe formato “Socialisme ou Barbarie” all’interno della “IV Internazionale” trotskysta.
A Marx premeva dimostrare, contro queste definizioni restrittive e deformate, che il comunismo non significa ridurre in generale gli uomini ad un filisteismo incolto, ma l’elevazione dell’umanità alle sue più alte capacità creatrici.
Il comunismo volgare aveva compreso con una certa correttezza che le realizzazioni culturali delle società precedenti erano basate sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ma esso le rigettava in modo erroneo mentre il comunismo di Marx cercava, al contrario, di appropriarsene e di rendere fruttuosi tutti gli sforzi culturali e, se si può utilizzare questo termine, spirituali precedenti dell’umanità, liberandoli dalle distorsioni di cui la società di classe inevitabilmente li aveva segnati. Facendo di queste realizzazioni il bene comune di tutta l’umanità, il comunismo le fonderebbe in una sintesi superiore e più universale. E’ una visione profondamente dialettica la quale, anche prima che Marx esprimesse una chiara comprensione delle forme comunitarie di società che avevano preceduto la formazione delle divisioni in classe, riconosce che l’evoluzione storica, in particolare nella sua fase finale capitalista, ha spogliato l’uomo e lo ha privato dei suoi rapporti sociali “naturali” originari. Ma il fine di Marx non è un ritorno ad una semplicità primitiva persa ma l’instaurazione cosciente dell’essere sociale dell’uomo, un accesso ad un livello superiore che integra tutti gli avanzamenti contenuti nel movimento della storia.
La produzione comunista come realizzazione della natura sociale dell’uomo
La critica di Marx del lavoro alienato presenta parecchi aspetti:
- il lavoro alienato separa il produttore dal suo prodotto: ciò che l’uomo crea con le proprie mani diventa una forza ostile che schiaccia il suo creatore; si separa il produttore dall’atto di produzione: il lavoro alienato è una forma di tortura, un’attività totalmente estranea al lavoratore. Dato che la caratteristica fondamentale umana, “l’essere generico dell’uomo” come dice Marx, è la produzione creatrice cosciente, trasformare questa in fonte di tormento, significa separare l’uomo dal suo vero essere generico;
- si separa l’uomo dall’uomo: c’è non solo una profonda separazione tra lo sfruttatore e lo sfruttato, ma anche tra gli stessi sfruttati, atomizzati in individui rivali per le leggi della concorrenza capitalista.
Nelle sue prime definizioni del comunismo, Marx tratta questi aspetti dell’alienazione sotto diverse angolazioni ma sempre con la stessa preoccupazione di mostrare che il comunismo fornisce una soluzione concreta e positiva a questi mali. Nella conclusione degli Estratti degli elementi di economia politica di James Mill, commento che scrisse nella stessa epoca dei Manoscritti, Marx spiega perché la sostituzione del lavoro salariato capitalista (che non produce che per il profitto), con il lavoro associato che produce per i bisogni umani, costituisce la base del superamento delle alienazioni enumerate in alto.
Marx ci dice di immaginare “di produrre come esseri umani: ciascuno di noi si affermerebbe doppiamente nella sua produzione, per sé stesso e per l’altro! 1) Nella mia produzione realizzerei la mia identità, la mia particolarità; lavorando proverei il godimento di una manifestazione individuale della mia vita, e, nella contemplazione dell’oggetto, avrei la gioia individuale di riconoscere la mia personalità come potere reale, concretamente percepibile e al di fuori di ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento o nel tuo impiego del mio prodotto, avrei la gioia spirituale immediata di soddisfare attraverso il mio lavoro un bisogno umano, di realizzare la natura umana e di fornire al bisogno di un altro l’oggetto della sua necessità. 3) Avrei consapevolezza di servire da mediatore tra te ed il genere umano, di essere riconosciuto e sentito da te come un complemento al tuo proprio essere e come una parte necessaria di te stesso; di essere accettato nel tuo spirito come nel tuo amore. 4) Avrei, nelle mie manifestazioni individuali, la gioia di creare la manifestazione della tua vita, cioè di realizzare e di affermare nella mia attività individuale la mia vera natura, il mio essere socievole umano. Le nostre produzioni sarebbero altrettanti specchi dove i nostri esseri risplenderebbero uno di fronte all’altro. (...) Il mio lavoro sarebbe una manifestazione libera della vita, un godimento della vita”.
Così, per Marx, gli esseri umani produrranno in modo umano solo quando ogni individuo sarà capace di realizzarsi pienamente nel suo lavoro: realizzazione che viene dal godimento attivo dell’atto produttivo; dalla produzione di oggetti che abbiano non solo un’utilità reale per altri esseri umani ma che meritano anche di essere contemplati per sé stessi, perché sono stati prodotti, per usare un’espressione dei Manoscritti, “secondo le leggi della bellezza”, del lavoro in comune con altri esseri umani, e per uno scopo comune.
Per Marx la produzione dei bisogni non ha costituito mai un semplice minimo, una soddisfazione puramente quantitativa dei bisogni elementari di nutrirsi, di alloggiare, ecc. La produzione per i bisogni è anche il riflesso della necessità per l’uomo di produrre - per l’atto di produzione in quanto attività sensuale e piacevole, in quanto celebrazione dell’energia comunitaria del genere umano. Questa è una posizione che Marx non ha mai modificato. Come scrive, per esempio, il Marx “maturo” nella Critica del Programma di Gotha (1874), quando parla di una “fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro sarà divenuto non soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza scorrono in tutta la loro pienezza...”.
Nella società futura la principale motivazione per lavorare sarà “il primo bisogno della vita”, il godimento della vita - cuore dell’attività umana e realizzazione dei desideri essenziali dell’uomo.
Superare la divisione del lavoro
Nel primo volume del Capitale Marx passa pagine e pagine a scagliarsi contro il modo in cui il lavoro della fabbrica riduce l’operaio a semplice frammento di sé stesso; contro il modo in cui trasforma gli uomini in corpo senza testa, la cui specializzazione ha ridotto il lavoro alla ripetizione delle azioni più meccaniche per intorpidire la mente. Ma questa polemica contro la divisione del lavoro si trova già nei suoi primi lavori ed è chiaro in quello che dice che per Marx non può esserci superamento dell’alienazione implicita nel sistema salariato senza che ci sia una profonda trasformazione della divisione del lavoro esistente. Un passo famoso dell’Ideologia tedesca tratta questo problema: “E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fintanto gli uomini si trovano nella società naturale, fintanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosi come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico”.
Questa meravigliosa immagine della vita quotidiana in una società comunista pienamente sviluppata utilizza evidentemente una certa licenza poetica, ma essa tratta il punto essenziale: dato lo sviluppo delle forze produttive apportato dal capitalismo, non c’è assolutamente bisogno che gli esseri umani passino gran parte della loro vita nella prigione di un unico genere di attività - soprattutto nel genere di attività che permette l’espressione solo di una minuscola parte delle capacità reali dell’individuo. Allo stesso modo, parliamo dell’abolizione della vecchia divisione tra piccole minoranze di individui che hanno il privilegio di vivere di un lavoro realmente creativo e gratificante, e la vasta maggioranza condannata all’esperienza del lavoro come alienazione della vita: “Il fatto che il talento artistico sia concentrato esclusivamente in alcuni individui e che esso sia, per questa ragione, soffocato nella gran massa delle persone è una conseguenza della divisione del lavoro. (...) in un’organizzazione comunista della società l’assoggettamento dell’artista allo spirito ristretto del luogo e della nazione sarà scomparso. Questa grettezza di spirito è un puro risultato della divisione del lavoro. Scomparirà anche l’assoggettamento dell’individuo a tale arte determinata che lo riduce al ruolo esclusivo di pittore, di scultore, ecc., in modo che, di per sé, la denominazione rifletta perfettamente la ristrettezza del suo sviluppo professionale e la sua dipendenza dalla divisione del lavoro. In una società comunista, non ci sono pittori, ma al massimo degli esseri umani che, tra le altre cose, dipingono”.
L’immagine eroica della società borghese nella sua aurora nascente è quella dell’ “Uomo del Rinascimento” - di individui come Leonardo Da Vinci che ha combinato i talenti di artista, scienziato e filosofo. Ma tali uomini non sono che esempi eccezionali, geni straordinari, in una società in cui l’arte e la scienza si basano sulla fatica spossante dell’immensa maggioranza. La visione del comunismo di Marx è quella di una società composta interamente da “Uomini del Rinascimento”.
L’emancipazione dei sensi
Le descrizioni di Marx dei fini ultimi del comunismo sono estremamente ardite, ben più di quanto possano sospettare di solito i “realisti”, perché esse non considerano solo i profondi cambiamenti che implica la trasformazione comunista (produzione per il consumo, abolizione della divisione del lavoro, ecc.); esse si addentrano anche nei cambiamenti soggettivi che il comunismo apporterà permettendo una trasformazione spettacolare della percezione e della stessa esperienza sensitiva dell’uomo.
Anche qui il metodo di Marx è partire dal problema reale, concreto, posto dal capitalismo e cercare la soluzione contenuta nelle contraddizioni presenti della società. In questo caso egli descrive il modo in cui il regno della proprietà privata riduce le capacità dell’uomo di godere veramente dei suoi sensi. Innanzitutto, questa restrizione è una conseguenza della semplice povertà materiale che smussa i sensi, riduce tutte le funzioni fondamentali della vita al loro livello animale ed impedisce agli esseri umani di realizzare la loro potenza creatrice.
Al contrario, “… i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È soltanto per la dispiegata ricchezza dell’ente umano che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio per la bellezza delle forme, in breve dei sensi capaci di godimento umano, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali... così la società formatasi produce l’uomo in questa intera ricchezza del suo essere, l’uomo ricco, e profondo, di senso universale, come sua ferma realtà”.
Ma non è solamente la privazione materiale quantificabile che restringe il libero gioco dei sensi. È qualche cosa di più profondamente inciso dalla società della proprietà privata, la società dell’alienazione. È la “stupidità” indotta da questa società che ci convince che niente “è veramente vero” finché non si lo possiede: “La proprietà privata ci ha fatti così ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc., in breve utilizzato. Sebbene la proprietà privata comprenda tutte queste immediate realizzazioni del possesso soltanto come mezzo di vita, la vita, cui servono come mezzi, è la vita della proprietà privata: lavoro e capitalizzazione. Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere”.
E di nuovo, in opposizione a ciò:
"... la soppressione effettiva della proprietà privata – cioè l’appropriazione sensibile dell’esistenza e vita umana, dell’uomo oggettivo, delle opere umane, per e attraverso l’uomo - non è da prendersi soltanto nel senso dell’immediato, unilaterale godimento, nel senso del possedere, dell’avere. L’uomo si immedesima, in guisa onnilaterale, nel suo essere onnilaterale, dunque da uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l’intuire, il sentire, il volere, l’agire, l’amare, in breve ognuno degli organi dell’individualità, come organi che sono immediatamente nella loro forma organi comuni sono, nel loro oggettivo contegno, ossia nel loro comportamento verso l’oggetto, appropriazione di questo medesimo (...) La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e queste qualità sono divenuti umani, sia soggettivamente che oggettivamente. L’occhio è divenuto occhio umano in quanto il suo oggetto è divenuto un oggetto sociale, umano, dell’uomo per l’uomo. I sensi sono quindi divenuti dei teorici immediatamente, nella loro pratica. Essi si rapportano, sì, alla cosa per amore della cosa, ma la cosa stessa è un comportamento oggettivo-umano seco stessa e con l’uomo e viceversa. Il bisogno o il godimento hanno perciò perduto la loro natura egoistica, e la natura ha perduto la sua pura utilità, dal momento che l’utile è divenuto utile umano”.
Chiaramente per Marx la sostituzione del lavoro alienato con una forma realmente umana di produzione condurrebbe ad una modifica fondamentale dello stato di coscienza dell’uomo. La liberazione della specie dal tributo paralizzante pagato alla lotta contro la penuria, il superamento dell’associazione dell’ansietà e del desiderio imposto dal dominio della proprietà privata, liberano i sensi dell’uomo dalla loro prigione e gli permettono di vedere, di comprendere e di sentire in modo nuovo. È difficile discutere di tali forme di coscienza perché non sono “semplicemente” razionali. Ma questo non vuol dire che esse siano regredite ad un livello anteriore allo sviluppo della ragione. Ciò vuol dire che sono andate al di là del pensiero razionale come è stato concepito finora in quanto attività separata ed isolata, raggiungendo una condizione nella quale “non solo nel pensare, ma con tutti i suoi sensi, l’uomo si afferma nel mondo degli oggetti”.
Un primo approccio per comprendere tali trasformazioni interne, è rifarsi allo stato di ispirazione che esiste in ogni grande opera d’arte. In questo stato di ispirazione, il pittore o il poeta, il ballerino o il cantante intravedono un mondo trasfigurato, un mondo splendente di colore e di musica, un mondo di un significato elevato che fa si che il nostro stato “normale” di percezione appare parziale, limitato ed anche irreale – il che è giusto quando si ricorda che la “normalità” è precisamente la normalità dell’alienazione. L’analogia con l’artista non è fortuita. Quando Marx scriveva i Manoscritti il suo amico più stimato era il poeta Heine e per tutta la sua vita Marx fu appassionato dalle opere di Omero, Shakespeare, Balzac ed altri grandi scrittori. Per lui tali personaggi e la loro creatività liberata costituivano dei modelli duraturi del vero potenziale dell’umanità. Come abbiamo visto, il fine di Marx era una società in cui tali livelli di creatività diventerebbero un attributo “normale” dell’uomo; ne consegue dunque che lo stato elevato della percezione dei sensi descritto nei Manoscritti diventerebbe sempre più lo stato “normale” di coscienza dell’umanità sociale.
In seguito Marx svilupperà di più l’analogia con l’attività creatrice dello scienziato che con quella dell’artista, pur conservando l’essenziale: la liberazione dalla corvée del lavoro, il superamento della separazione tra lavoro e tempo libero, producono un nuovo soggetto umano.
CDW
(da Révolution Internationale, 419)
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