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Il giorno 22 aprile 2010, dopo 16 anni di politica di stretta alleanza, dopo quasi due anni dalla co-fondazione del PDL e a un mese circa dalla conclusione di una tornata elettorale che li ha visti stravincere su una sinistra sempre più pallida e insignificante, Berlusconi e Fini hanno dato luogo ad uno scontro storico, epocale, di quelli di cui la stampa di tutti i paesi è sempre ghiotta perché dà da scrivere per settimane e settimane. Ma cosa è mai successo? Si tratta di un dissapore momentaneo o di una spaccatura permanente? E Fini non poteva evitarla? E se no, perché si è deciso soltanto adesso? Ed infine, cambierà qualcosa, cambierà qualcosa a favore dell’Italia?
Cosa è successo
Quello che è successo è la maturazione di uno scontro le cui premesse si trovano nella storia del rapporto tra Fini e Berlusconi e a cui abbiamo già fatto cenno in precedenza:
“… la questione morale assume un’importanza tutta particolare per la borghesia. Un governo che deve far fronte ad aziende che chiudono, ad un aumento enorme della disoccupazione, ad un numero crescente di famiglie che non riescono più a sopravvivere, ad una massa enorme di giovani senza alcuna prospettiva ed al pericolo che tutto questo comporta sul piano sociale, deve essere un governo che abbia un minimo di credibilità. Non può presentarsi come una banda di faccendieri e uomini di malaffare, impegnati in faide continue per conservare il potere, di personaggi senza alcuna etica e morale. Ed è infatti da qualche tempo che Fini, da uomo politico di vecchia guardia, parla del pericolo di “disaffezione alla politica” soprattutto tra i giovani. (…)
Anche se esistono degli interventi che sembrerebbero portare di tanto in tanto serenità e pacificazione nel centro-destra (…), bisogna tener presente che mentre in un partito come la vecchia Democrazia Cristiana scontri anche durissimi tra correnti differenti venivano sempre ricomposti quando era in gioco la vita del partito, nel Pdl, che è essenzialmente l’unione contingente di forze con tradizioni politiche e un modo di fare politica abbastanza diversi, la lotta intestina tra queste rischia di mettere in gioco il partito stesso e di conseguenza la capacità della destra di governare in questo momento.” [1]
Questo lo scenario che noi abbiamo ricordato nel settembre scorso. Quello che è successo il 22 aprile, e che non si era mai visto prima, è che Fini, dopo anni di incubazione di critiche piuttosto dure rivolte all’operato di Berlusconi, le ha finalmente esternate nell’ambito della prima riunione della direzione del partito davanti ai microfoni e alle telecamere che trasmettevano in diretta a tutto il popolo italiano. La critica di Fini ha toccato ripetutamente gli aspetti più legati al dispotismo berlusconiano facendo riferimento a “gli insulti ricevuti da giornalisti lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio”[2] o alle leggi ad personam sulla giustizia[3]. Ma la critica più importante è stata quella di appiattimento sulla Lega Nord, con una politica fotocopia rispetto a quella di Bossi, articolata su una serie di punti come quello degli immigrati, che vanno comunque rispettati come persone umane, anche se clandestini, o quello del 150° anniversario dell’unità d’Italia, che viene preparato in sordina per non rabbuiare il prezioso alleato padano, o ancora quello del federalismo, “che senza alcune cautele, in tempi di vacche magre, rischia di mettere a repentaglio la coesione sociale”[4]. Ugualmente importante la preoccupazione di Fini per la credibilità dell’operato del governo: “L’ottimismo va bene, ma fra tre anni dobbiamo presentare agli elettori fatti (per cui, siccome c’è la crisi) “dobbiamo rimodulare il programma sulle cose che è possibile fare da qui alla fine della legislatura”[5].
Un dissapore momentaneo o una spaccatura permanente?
Come la stessa stampa ha lasciato intendere, quella a cui abbiamo assistito non è un malinteso passeggero ma una resa dei conti che ha lasciato segni profondi e che ha reso la convivenza dei due leader nello stesso partito di fatto insostenibile. Ma questo non significa che Fini se ne uscirà dal partito, almeno con le sue gambe, non ne ha alcun interesse. Infatti l’obiettivo reale che ha in questo momento Fini non è tanto quello di recuperare un Larussa, un Alemanno o uno Schifani, che sono ben contenti di essere passati nella squadra di Berlusconi che sa bene come ripagarli per la loro infedeltà, ma di cominciare a lavorare dall’interno del partito verso la sua base e soprattutto verso una parte non trascurabile del suo elettorato che, pur avendo votato in passato Berlusconi, si è sentito a disagio per la serie di porcate che avrebbe commesso il capo del governo e che la magistratura a più riprese gli ha attribuito. Insomma Fini cerca di coprire tutto lo spazio a destra che c’è per una destra seria e responsabile, spazio che finora era stato lasciato parzialmente coperto solo dall’UDC di Casini.
Perché Fini si è deciso soltanto adesso e non ha spaccato prima con Berlusconi?
Se Fini si è deciso solo adesso a fare questo passo è perché è stato un po’ travolto dall’irruenza di Berlusconi. La stessa fondazione del PDL è stata una pensata di Berlusconi maturata dalla sera alla mattina e sbandierata pubblicamente per la prima volta in un comizio improvvisato dal capo del governo salendo sul predellino di un’automobile in una pubblica piazza di Milano. Fini aveva solo da prendere o lasciare, e ha scelto di prendere. Ma in qualche modo Fini si è anche illuso di poter usare Berlusconi e la sua capacità di attirare consensi salendo sul suo carro, ma questo gli è costato la perdita della fedeltà di una serie di colonnelli del suo ex partito che, un po’ alla volta, si sono disaffezionati al capo storico per accostarsi sempre più a chi poteva concedere loro fette reali di potere. Ma adesso, dopo le ultime elezioni regionali, Fini non poteva più attendere. Le ragioni sono tutte nel discorso che lui ha fatto alla direzione del Pdl. E queste ragioni riguardano effettivamente la natura stessa del partito e la sua azione.
Berlusconi, Bossi, Fini, tre anime diverse e non sempre conciliabili della destra italiana
In realtà Berlusconi, Bossi e Fini rappresentano tre anime diverse della destra italiana. Berlusconi, lo abbiamo detto più volte, è un personaggio ambiguo dal passato non chiaro che è sceso in politica essenzialmente per curare i suoi affari personali e questo è l’unico dato sicuro. Il suo straripante potere economico ha forzato, una dopo l’altra, le varie regole del gioco fino a comprare, in qualche modo, i favori dei suoi vari competitori e a raggiungere una situazione di dominio pressoché incontrastato sulla scena politica italiana. La sua politica populista, la menzogna ripetuta ad oltranza come metodo di convincimento delle masse popolari, la corruzione come sistema di vita, hanno ottenuto finora risultanti devastanti per l’Italia, ma estremamente vantaggiosi per la sua gang.
Bossi è il leader di un partito che ha fatto dalla sua origine del separatismo della cosiddetta Padania la sua bandiera. Nella sostanza la Lega è una bella pensata che punta a drenare nelle regioni del nord tutta la ricchezza prodotta sul territorio italiano. In particolare il federalismo fiscale, ovvero l’idea che ogni singola regione provveda a gestire economicamente le proprie risorse, significa che, sebbene la ricchezza di una regione sia il prodotto ultimo di una serie di elementi che spesso provengono da altre parti del paese o da altri paesi, come la mano d’opera, le materie prime e gli stessi consumatori che costituiscono il mercato per le merci prodotte, il ricavato resta esclusivamente sul posto in cui si realizza il passaggio ultimo del ciclo economico. E’ esattamente la stessa logica della politica neocolonialista dove le potenze economiche hanno drenato e drenano, secondo i sacri principi del capitalismo, tutte le risorse ai paesi “emergenti” togliendo loro ogni possibilità di recuperare alcunché.
Fini è invece un ex fascista convertito alla democrazia perché ha capito in tempo che sono cambiati i tempi e che il fascismo non è più attuale. Ma, da persona che fa le cose a modo e non essendo né un arruffapopoli né tantomeno un secessionista alla Bossi, essendo anzi erede di una destra che, pur nei suoi eccessi, ha fatto della mistificazione sociale la sua bandiera, tiene sia all’unità del paese sia a basare la sua leadership sulla credibilità della sua azione politica. E non avendo il centone facile come ce l’ha Berlusconi, deve badare a fare bene i suoi passi.
Anche se il quadro che abbiamo dato è piuttosto essenziale, si capisce abbastanza bene come mentre Berlusconi può convivere tranquillamente con Bossi, e Bossi con Berlusconi, non altrettanto si può dire per Fini che risulta, sulla distanza, incompatibile sia con l’uno che con l’altro. In particolare si capisce perché Fini, nel suo discorso alla direzione del Pdl, abbia additato Bossi come l’elemento di divisione nella misura in cui Fini giustamente si preoccupa della perdita di consenso che potrà subire il Pdl, e la componente ex-AN in particolare, in seguito alla realizzazione di un federalismo fiscale che dovesse penalizzare eccessivamente le regioni del centro-sud. Tutto questo tanto più che la crisi economica non è esaurita e che i vari Stati si preparano a imporre alle loro popolazioni misure draconiane del tipo di quelle che si sta cercando di imporre in Grecia e che stanno suscitando giustamente tanta reazione.
Naturalmente è ancora troppo presto per capire cosa accadrà nel prossimo futuro. Ma di una cosa possiamo essere sicuri fin da questo momento: comunque vadano le cose, i lavoratori non ne avranno alcun vantaggio.
Ezechiele 25 aprile 2010
[1]Vedi Dietro lo scandalo di escort, festini e cocaina, gli scontri nella maggioranza governativa, su RI n°162;
[2] Corriere della Sera del 23/4/2010.
[3] “… non dobbiamo dare l’impressione che stiamo difendendo sacche di impunità, ricordati quando volevi far saltare seicentomila processi. (…)? Quello era un’amnistia mascherata …” (La Repubblica 23/04/2010).
[4] da La Repubblica del 23/4/2010.
[5] Idem.