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Nella primavera del 2005 la CCI ha aperto un dibattito interno riguardo all’analisi economica del periodo di forte crescita seguito alla Seconda Guerra mondiale (ancora oggi chiamato “I Trenta gloriosi”). Periodo che costituisce una eccezione all’interno della fase di decadenza del capitalismo dal punto di vista delle performance economiche poiché presenta il tasso di crescita più alto di tutta la storia del capitalismo[1]. Questo dibattito è scaturito dalla messa in evidenza, già precedente, di una contraddizione tra differenti testi della CCI a proposito del ruolo giocato dalla guerra rispetto alla questione cruciale dell’insufficienza di sbocchi solvibili per l’economia capitalista. Si poneva quindi una prima questione alla nostra organizzazione: le distruzioni provocate dalla guerra permettono la creazione di nuovi sbocchi? Ma questa prima questione, una volta data una risposta negativa, ne pone automaticamente un’altra: quale spiegazione coerente può essere data ai Trenta gloriosi basandosi su fattori diversi dalle distruzioni provocate dalla Seconda guerra mondiale?
Il dibattito su queste questioni è in corso e le differenti posizioni presenti sono ancora in via di definizione. Queste ultime presentano comunque un livello di elaborazione tale da poter essere già da ora pubblicate all’esterno dell’organizzazione allo scopo di alimentare il dibattito, in particolare nell’ambito degli elementi in ricerca che si orientano verso le posizioni della Sinistra Comunista.
Anche se nella realtà gli sviluppi della crisi prima e dopo la fine dei “Trenta gloriosi” hanno largamente dimostrato che questo periodo non è che un’eccezione all’interno di un secolo di decadenza del capitalismo, l’importanza delle questioni dibattute non è però da sottovalutare. In effetti queste questioni rimandano al cuore dell’analisi marxista permettendo di comprendere sia il carattere storicamente limitato del modo di produzione capitalista, che l’entrata in decadenza di questo sistema ed il carattere insolubile della crisi attuale. In altre parole esse concernono uno dei principali fondamenti obiettivi e materiali della prospettiva rivoluzionaria del proletariato.
Il contesto del dibattito: alcune contraddizioni nella nostra analisi
La rilettura critica del nostro opuscolo La decadenza del capitalism[2] ha suscitato una riflessione all’interno della nostra organizzazione ed ha dato vita ad un dibattito contraddittorio i cui termini erano stati già posti nel movimento operaio – in particolare all’interno della Sinistra comunista – e riguardano le implicazioni economiche della guerra in fase di decadenza dl capitalismo. In effetti La decadenza del capitalismo sviluppa esplicitamente l’idea che le distruzioni provocate dalle guerre della fase di decadenza, in particolare le guerre mondiali, possono costituire uno sbocco alla produzione capitalista, quello della ricostruzione:
“… gli sbocchi si sono ristretti in modo vertiginoso. A causa di ciò il capitalismo è dovuto ricorrere alla distruzione ed alla produzione dei mezzi di distruzione come palliativo per tentare di compensare le sue perdite accelerate in ‘spazio vitale’” (capitolo: Quale sviluppo delle forze produttive?. Paragrafo: La “crescita” mondiale dopo la Seconda guerra mondiale).
“Nella distruzione massiccia in vista della ricostruzione, il capitalismo scopre un’uscita pericolosa e provvisoria, ma efficace, per i suoi nuovi problemi di sbocco. Nel corso della prima guerra le distruzioni non sono state “sufficienti” (…) Dal 1929 il capitalismo mondiale è confrontato di nuovo ad una crisi.
Come se la lezione fosse stata ritenuta, le distruzioni della Seconda guerra mondiale sono molto più importanti in intensità e in estensione (…) una guerra che, per la prima volta, si pone come scopo cosciente la distruzione sistematica del potenziale industriale esistente. La “prosperità” dell’Europa e del Giappone dopo la guerra sembra già prevista sistematicamente all’indomani della guerra (Piano Marshall, ecc.)” (Paragrafo: Il ciclo guerra-ricostruzione).
Questa idea è presente anche in alcuni testi dell’organizzazione (in particolare della Rivista Internazionale) così come presso i nostri predecessori di Bilan che in un articolo intitolato “Crisi e cicli nell’economia del capitalismo agonizzante” affermano: “Da allora il massacro andrà a costituire per la produzione capitalista un immenso sbocco che apre delle “magnifiche” prospettive (…) Se la guerra è il grande sbocco della produzione capitalista, in tempo di “pace” il militarismo (in quanto insieme delle attività che preparano la guerra) realizzerà il plus-valore da produzioni fondamentali controllate dal capitale finanziario” (Bilan n. 11, settembre 1934 – ripubblicato nella Rivista Internazionale n.103, in inglese, francese e spagnolo sul nostro sito).
Per contro altri testi dell’organizzazione, apparsi prima e dopo l’opuscolo La decadenza del capitalismo, sviluppano un’analisi opposta sul ruolo della guerra in periodo di decadenza riallacciandosi in questo al “Rapporto adottato alla Conferenza del luglio 1945 della Sinistra Comunista di Francia” (Gauche Communiste de France, GCF), secondo il quale la guerra:
“fu il mezzo indispensabile al capitalismo che gli apriva delle possibilità di sviluppo ulteriori nell’epoca in cui queste possibilità esistevano e non potevano essere aperte che attraverso la violenza. Allo stesso modo, il crollo del mondo capitalista che ha storicamente esaurito ogni possibilità di sviluppo, trova nella guerra moderna, la guerra imperialista, l’espressione di questo crollo che, senza aprire alcuna possibilità di sviluppo ulteriore per la produzione, non fa che inghiottire nell’abisso le forze produttive ed accumulare a ritmo accelerato rovine su rovine” (sottolineato da noi).
Il Rapporto sul Corso storico, adottato al 3°, congresso della CCI[3], fa riferimento esplicito a questo passaggio del testo della GCF ed all’articolo “Guerra, militarismo e blocchi imperialisti nella decadenza del capitalismo” pubblicato nel 1988[4] dove si sottolinea che: “… quello che caratterizza tutte queste guerre, così come le due guerre mondiali, è che esse non mai permesso, a differenza delle guerre del secolo scorso, alcun progresso nello sviluppo delle forze produttive, ma hanno avuto come unico risultato delle distruzioni massicce che hanno lasciato completamente esangui i paesi implicati (senza contare i terribili massacri che hanno provocato)”.
Il quadro del dibattito
Per quanto importanti siano queste questioni, dato che la risposta che ne danno i rivoluzionari partecipa direttamente alla coerenza del loro quadro politico generale, conviene tuttavia precisare che esse hanno una natura diversa da certe altre che concorrono direttamente a delimitare il campo proletario da quello della borghesia, come l’internazionalismo, il ruolo antioperaio dei sindacati, la partecipazione al gioco elettorale, ecc. In altre termini, le differenti analisi in discussione sono pienamente compatibili con la piattaforma della CCI.
Se alcune idee de La decadenza del capitalismo sono state criticate e rimesse in discussione, il metodo ed il quadro globale di analisi è quello al quale si rifà la CCI sin dal momento della scrittura di questo opuscolo e che da allora ha continuato ad arricchire[5]. Ne ricordiamo gli elementi costitutivi essenziali:
1. Il riconoscimento dell’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza con lo scoppio della Prima Guerra mondiale all’inizio del 20° secolo e del carattere d’ora in avanti insormontabile delle contraddizioni che assillano questo sistema. Si tratta qui della comprensione delle manifestazioni e delle conseguenze politiche del cambiamento del periodo come le caratterizzava il movimento operaio a quest’epoca, in particolare quando parlava a questo proposito dell’ “era di guerre e di rivoluzioni” nella quale era ormai entrato il sistema.
2. Quando si analizza la dinamica del modo di produzione capitalista su tutto un periodo, non conviene procedere ad uno studio separato dei differenti attori capitalisti (nazioni, imprese, ecc.), ma all’entità capitalista mondiale presa nel suo insieme, la quale fornisce la chiave per comprendere le specificità per ognuna delle sue parti. Questo è anche il metodo di Marx quando, studiando la riproduzione del capitale, precisa: “Per sgomberare l’analisi generale da incidenti inutili, bisogna considerare il mondo commerciale come una sola nazione” (I libro del Capitale)
3. “Contrariamente a quanto pretendono gli adoratori del capitale, la produzione capitalistica non crea automaticamente e a volontà i mercati necessari alla sua crescita. Il capitalismo si sviluppa in un mondo non capitalista, ed è in questo mondo che trova gli sbocchi che gli permettono questo sviluppo. Ma generalizzando i suoi rapporti all’insieme del pianeta e unificando il mercato mondiale, esso ha raggiunto un grado critico di saturazione degli stessi sbocchi che gli avevano permesso la formidabile espansione del 19° secolo. Inoltre, la crescente difficoltà per il capitale a trovare mercati in cui realizzare il suo plusvalore accentua la pressione verso il ribasso che viene esercitata sul suo tasso di profitto dall’accrescimento costante della proporzione tra il valore dei mezzi di produzione e quello della forza-lavoro che li mette in opera. Da tendenziale, questa caduta del tasso di profitto diventa sempre più reale, cosa che intralcia ancor più il processo di accumulazione del capitale e dunque il funzionamento dell’insieme degli ingranaggi del sistema” (Piattaforma della CCI).
4. E’ Rosa Luxemburg che, basandosi sul lavoro di Marx e criticandone quelli che lei considerava essere delle insufficienze, mette in evidenza che l’arricchimento del capitalismo, come un tutto, dipende dalle merci prodotte al suo interno e scambiate con delle economie precapitaliste, cioè quelle che praticano lo scambio mercantile ma non hanno ancora adottato il modo i produzione capitalista: “In realtà, le condizioni reali dell’accumulazione del capitale totale sono del tutto diverse da quelle del capitale singolo e della riproduzione semplice. Il problema si pone così: come si configura la riproduzione sociale nella premessa che una parte crescente del plus-valore non sia consumato dai capitalisti ma impiegata all’allargamento della produzione? Il passaggio del prodotto sociale, prescindendo dalla sostituzione del capitale costante, nel consumo dei lavoratori e dei capitalisti, è qui escluso, e questa circostanza è il punto essenziale del problema. Ma con ciò è anche escluso che capitalisti e lavoratori possano consumare essi stessi il prodotto totale. Essi possono realizzare solo il capitale variabile, la parte consumata del capitale costante e la parte consumata del plus-valore, e, in tale modo assicurare soltanto le condizioni del rinnovo della produzione sulla scala precedente. La parte da capitalizzare del plusvalore, invece, non può essere realizzata dagli stessi lavoratori e capitalisti. La realizzazione del plus-valore ai fini dell’accumulazione è dunque, in una società composta unicamente di lavoratori e capitalisti, un problema insolubile” (Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale; capitolo: La riproduzione del capitale e del suo ambiente).
La CCI fa sua questa posizione, il che non vuol dire che non possano esistere all’interno dell’organizzazione altre posizioni che criticano l’analisi economica di Rosa, come vedremo in particolare a proposito di una delle posizioni presenti nel dibattito. Del resto queste analisi sono state combattute al loro tempo non solo dalle correnti riformiste, per le quali il capitalismo non era condannato a provocare catastrofi crescenti, ma anche da alcune correnti rivoluzionarie, e non tra le minori, rappresentate in particolare da Lenin e Pannekoek, per le quali il capitalismo era diventato un modo di produzione storicamente obsoleto anche se le loro implicazioni differivano da quelle di Rosa Luxemburg.
5. Il fenomeno dell’imperialismo deriva giustamente dall’importanza che rappresenta per i paesi sviluppati l’accesso ai mercati extra-capitalisti: “L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti non capitalistici non ancora posti sotto sequestro” (Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale; capitolo: Protezionismo e accumulazione).
6. IL carattere storicamente limitato degli sbocchi extra-capitalisti costituisce il fondamento economico della decadenza del capitalismo. La Prima Guerra mondiale è l’espressione di questa contraddizione. Conclusa la ripartizione del mondo tra le grandi potenze, le potenze meno ricche di colonie per accedere ai mercati extra-capitalisti non hanno altra scelta che intraprendere una ripartizione del mondo attraverso la forza militare. L’entrata del capitalismo nella fase di declino significa che le contraddizioni che assillano questo sistema sono ormai insormontabili.
7. La messa in opera di misure di capitalismo di Stato costituisce un mezzo che la borghesia si dà nella decadenza del capitalismo per frenare, attraverso differenti palliativi, la depressione nella crisi e attenuarne le manifestazioni più brutali al fine di evitare che queste si manifestino di nuovo con la brutalità della crisi del 1929.
8. Nel periodo di decadenza il credito costituisce un mezzo essenziale attraverso il quale la borghesia tenta di far fronte all’insufficienza di sbocchi extra-capitalisti. L’accumulazione di un debito mondiale sempre meno controllabile, l’insolvibilità crescente dei differenti attori capitalisti e le minacce di destabilizzazione profonda dell’economia mondiale che ne risulta illustrano l’impasse di questo palliativo.
9. Una manifestazione tipica della decadenza del capitalismo è data, sul piano economico, dall’impennata delle spese improduttive. Queste sono la manifestazione del fatto che lo sviluppo delle forze produttive è sempre più intralciato dalle contraddizioni insormontabili del sistema: le spese militari (armamenti, operazioni militari) per far fronte all’esacerbazione mondiale delle tensioni imperialiste; le spese per mantenere ed equipaggiare le forze di repressione per fronteggiare, in ultima istanza, la lotta di classe; la pubblicità, arma di guerra commerciale per vendere su un mercato saturo, ecc. Dal punto di vista economico queste spese costituiscono una pura perdita per il capitale.
Le posizioni emerse nel dibattito
All’interno della CCI esiste una posizione che, pur essendo d’accordo con la nostra piattaforma, è in disaccordo con numerosi aspetti del contributo di Rosa Luxemburg sui fondamenti economici della crisi del capitalismo[6]. Secondo questa posizione le basi di fondo della crisi stanno nell’altra contraddizione messa in evidenza da Marx, la caduta tendenziale del tasso di profitto. Pur rigettando le concezioni (in particolare quelle bordighiste e consiliariste) che immaginano che il capitalismo può generare automaticamente ed eternamente l’espansione del suo proprio mercato alla semplice condizione che il tasso di profitto sia sufficientemente elevato, questa posizione sottolinea che la contraddizione fondamentale del capitalismo non si situa tanto nei limiti del mercato in se stessi (cioè la forma sotto la quale si manifesta la crisi), ma piuttosto in quelli che si impongono all’espansione della produzione.
Il dibattito di fondo nella discussione di questa posizione è nei fatti quello condotto in polemica con altre organizzazioni (anche se esistono delle differenze) a proposito della caduta del tasso di profitto e della saturazione dei mercati[7]. Tuttavia, come vedremo in seguito, nella discussione attuale esiste una certa convergenza tra questa posizione ed un’altra detta del “capitalismo di Stato keynesiano-fordista” che presentiamo di seguito. Queste due posizioni riconoscono l’esistenza di un mercato interno ai rapporti di produzione capitalista che ha costituito un fattore di prosperità nel corso del periodo dei “Trenta gloriosi” ed analizzano la fine di quest’ ultima come il prodotto della contraddizione “caduta tendenziale del tasso di profitto”.
Le altre posizioni che si sono espresse nel dibattito rivendicano la coerenza sviluppata da Rosa Luxemburg, accordando alla questione dell’insufficienza dei mercati extra-capitalisti un ruolo centrale nella crisi del capitalismo. E’ proprio basandosi su questo quadro di analisi che una parte dell’organizzazione ha valutato che esistevano delle contraddizioni nell’opuscolo La decadenza del capitalismo dove, pur rivendicandosi a questo quadro, si fa derivare l’accumulazione che è stata alla base della prosperità dei Trenta gloriosi dall’apertura di un mercato, quello della ricostruzione, che non ha niente di extra-capitalista.
Di fronte a questo disaccordo si è sviluppata una posizione – presentata sotto il titolo “L’economia di guerra ed il capitalismo di Stato” – che, sebbene critica riguardo ad alcuni aspetti del nostro opuscolo (rimprovera a questo in particolare una mancanza di rigore ed una assenza di riferimento al piano Marshall per spiegare la ricostruzione propriamente detta) costituisce al fondo “una difesa dell’idea che la prosperità del periodo degli anni ‘50 e ’60 è determinata dalla situazione globale dei rapporti imperialisti e l’instaurazione di un’economia di guerra permanente seguita alla seconda guerra mondiale”.
Nella parte dell’organizzazione che rimette in causa l’analisi fatta attraverso La decadenza del capitalismo della fase dei Trenta gloriosi, esistono nei fatti due interpretazioni della prosperità di questo periodo.
La prima interpretazione, presentata qui di seguito sotto il titolo “Mercati extra-capitalisti ed indebitamento”, fa suoi e valorizza questi due fattori già avanzati dall’organizzazione in diverse tappe della sua esistenza[8]. Secondo questa posizione “questi due fattori sono sufficienti a spiegare la prosperità dei Trenta gloriosi”.
La seconda interpretazione, presentata con il titolo “Il capitalismo di Stato keynesiano-fordista”, “parte dalla stessa constatazione stabilita nel nostro opuscolo sulla decadenza – la constatazione della saturazione relativa dei mercati nel 1914 rispetto ai bisogni dell’accumulazione raggiunta a livello mondiale – e sviluppa l’idea che il sistema vi ha risposto instaurando una variane di capitalismo di Stato che si basa su una tri-ripartizione forzata (keynésianismo) di forti guadagni di produttività (fordismo) a vantaggio dei profitti, dei redditi dello Stato e dei salari reali”.
L’obiettivo di questo primo articolo circa il dibattito al nostro interno sui Trenta gloriosi è di limitarsi ad una presentazione generale di questo, come abbiamo appena fatto, e di esporre sinteticamente le tre posizioni principali che hanno alimentato la discussione[9]. In seguito saranno pubblicati dei contributi più sviluppati di dibattito tra i differenti punti di vista qui evocati o altri che potranno emergere dalla discussione.
L’economia di guerra e il capitalismo di Stato
Il punto di partenza di questa posizione è stato già esplicitato dalla Sinistra comunista di Francia nel 1945. Questa considera che a partire dal 1914 i mercati extra-capitalisti che hanno fornito al capitalismo il suo necessario campo di espansione durante il suo periodo di ascesa non sono più capaci di assolvere questo ruolo: “Questo periodo storico è quello della decadenza del sistema capitalista. Cosa significa questo? La borghesia che prima della prima guerra imperialista vive e non può vivere che in un’estensione crescente della sua produzione, è arrivata ad un punto della sua storia dove non può più, nel suo insieme, realizzare questa estensione. (…) Oggi, a parte regioni lontane inutilizzabili, a parte avanzi irrisori del mondo non capitalista, insufficienti per assorbire la produzione mondiale, essa si ritrova padrona del mondo, ma non esistono più davanti a sé paesi extra-capitalisti che avrebbero potuto costituire per il suo sistema dei nuovi mercati: così il suo apogeo è anche il punto dove comincia la sua decadenza”[10].
La storia economica dopo il 1914 è quella dei tentativi della classe borghese, in diversi paesi e in diversi momenti, di superare questo problema fondamentale: come continuare ad accumulare il plus-valore prodotto dall’economia capitalista in un mondo già spartito tra le grandi potenze imperialiste ed il cui mercato è incapace di assorbire l’insieme di questo plus-valore? E poiché le potenze imperialiste possono ormai estendersi solo a spese dei loro rivali, finita una guerra bisogna prepararsi alla seguente. L’economia di guerra diventa il modo di vita permanente della società capitalista. “La produzione di guerra non ha lo scopo di risolvere un problema economico. All’origine essa è frutto della necessità per lo Stato capitalista, da una parte, di difendersi contro le classi sfruttate e mantenere il loro sfruttamento attraverso la forza, dall’altra, di assicurare sempre con la forza le sue posizioni economiche ed allargarle a spese degli altri Stati imperialisti (…) La produzione di guerra diventa così l’asse della produzione industriale ed il principale campo economico della società” (Internationalisme, “Rapporto sulla situazione internazionale”, luglio 1945).
Il periodo della Ricostruzione –i “Trenta Gloriosi” – è un momento particolare di questa storia.
E’ necessario qui sottolineare tre caratteristiche economiche mondiali del 1945:
- In primo luogo c’è l’enorme preponderanza economica e militare degli Stati Uniti, fatto raro nella storia del capitalismo. Gli Stati Uniti da soli rappresentano la metà della produzione mondiale e detengono quasi l’80% delle riserve mondiali di oro. Sono il solo paese belligerante il cui apparato produttivo è uscito indenne dalla guerra: tra il 1940 e il 1945 il suo PIL è raddoppiato. Hanno assorbito tutto il capitale accumulato dall’impero britannico durante due secoli di espansione coloniale, più buona parte di quello dell’impero francese.
- In secondo luogo, c’è una forte coscienza tra le classi dominanti del mondo occidentale del fatto che è indispensabile elevare il livello di vita della classe operaia se si vuole evitare il pericolo di disordini sociali che possono fare il gioco degli Stalinisti e dunque del blocco imperialista avversario. L’economia di guerra integra dunque un nuovo aspetto, di cui i nostri predecessori della GCF non avevano una chiara coscienza all’epoca: l’insieme delle prestazioni sociali (sanità, assegni di disoccupazione, pensioni, ecc.) che la borghesia – e soprattutto la borghesia del blocco occidentale – mette in opera a partire dall’inizio della Ricostruzione negli anni ’40.
- In terzo luogo, il capitalismo di Stato, che prima della seconda guerra mondiale aveva espresso una tendenza all’autarchia delle differenti economie nazionali, è ora inquadrato in una struttura di blocchi imperialisti che determinano le relazioni economiche tra gli Stati (sistema Bretton Woods per il blocco americano, Comecon per il blocco russo).
Durante la Ricostruzione il capitalismo di Stato conosce una evoluzione qualitativa: il peso dello Stato nell’economia nazionale diventa preponderante[11]. Anche oggi, dopo trenta anni di presunto “liberismo”, le spese dello Stato continuano a rappresentare tra il 30 ed il 60% del PIL dei paesi industrializzati.
Questo nuovo peso dello Stato rappresenta una trasformazione da quantità a qualità. Lo Stato non è più solo il “comitato esecutivo” della classe dominante ma è anche il maggiore datore di lavoro ed il maggiore mercato. Negli Stai Uniti, da esempio, il Pentagono diventa il principale datore di lavoro del paese (3-4 milioni di persone, compresi civili e militari). In quanto tale, esso gioca un ruolo critico nell’economia e permette uno sfruttamento più a fondo dei mercati esistenti. La messa in opera del sistema Bretton Woods permette anche l’instaurazione di meccanismi di credito più sofisticati e meno fragili rispetto al passato: il credito al consumo si sviluppa e le istituzioni economiche messe in piazza dal blocco americano (FMI, Banca Mondiale, GATT) permettono di evitare crisi finanziarie e bancarie.
L’enorme preponderanza economica degli Stati Uniti ha permesso alla borghesia americana di non badare a spese per assicurare il suo dominio militare rispetto al blocco russo: ha sostenuto due guerre cruenti e costose (in Corea ed in Vietnam); i piani tipo Marshall e gli investimenti all’estero hanno finanziato la ricostruzione delle economie rovinate in Europa ed in Asia (in particolare in Corea ed in Giappone). Ma questo enorme sforzo – determinato non dal funzionamento “classico” del capitalismo ma dallo scontro imperialista che caratterizza la decadenza del sistema – ha finito per rovinare l’economia americana. Nel 1958 la bilancia dei pagamenti americana è già deficitaria e nel 1970 gli Stati Uniti hanno solo il 16% delle riserve mondiali di oro. Il sistema Bretton Woods fa acqua da tutte le parti ed il mondo si immerge in una crisi dalla quale non è più uscito fino ai nostri giorni.
I mercati extra-capitalisti e l’indebitamento
Lungi dal partecipare allo sviluppo delle forze produttive su basi comparabili a quelle dell’ascesa del capitalismo, il periodo dei Trenta Gloriosi si caratterizza per un enorme spreco di plus-valore che segnala l’esistenza di intralci allo sviluppo delle forze produttive propri della cadenza di questo sistema.
La ricostruzione seguita alla Prima Guerra mondiale aprì una fase di prosperità di pochi anni durante i quali, come prima dello scoppio del conflitto, la vendita ai mercati extra-capitalisti ha costituito lo sbocco necessario all’accumulazione capitalista. In effetti, anche se il mondo era allora diviso tra le più grandi potenze industriali, i rapporti di produzione capitalisti non lo avevano ancora dominato completamente. Tuttavia, dato che la capacità di assorbimento dei mercati extra-capitalisti diventava insufficiente rispetto alla massa di merci prodotte dai paesi industrializzati, la ripresa si infrange rapidamente sullo scoglio della sovrapproduzione con la crisi del 1929.
Completamente differente fu il periodo aperto dalla ricostruzione seguita alla Seconda Guerra mondiale che supera i migliori indici economici della fase di ascesa del capitalismo. Per oltre due decenni si è avuta una crescita sostenuta basata su livelli di produttività tra i più importanti della storia del capitalismo dovuti in particolare al perfezionamento del lavoro alla catena di montaggio (fordismo), all’automatizzazione della produzione ed alla loro generalizzazione ovunque era possibile.
Ma non è sufficiente produrre delle merci, bisogna anche smaltirle sul mercato. In effetti la vendita delle merci prodotte dal capitalismo serve a coprire il rinnovo dei mezzi di produzione consumati e della forza lavoro (salario degli operai). Essa assicura dunque la riproduzione semplice del capitale (cioè senza aumento dei mezzi di produzione o di consumo), ma deve anche finanziare le spese improduttive – che vanno dalle spese per gli armamenti al mantenimento dei capitalisti, includendo anche molte altre voci sulle quali torneremo. Se poi sussiste un saldo positivo questo può rientrare nell’accumulazione del capitale. Nelle vendite effettuate annualmente dal capitalismo, la parte che può essere dedicata all’accumulazione del capitale, e che partecipa anche all’arricchimento reale di questo, è necessariamente limitata perché è il saldo di tutte le spese obbligatorie. Storicamente questa rappresenta solo una debole percentuale della ricchezza prodotta annualmente[12] e corrisponde essenzialmente alle vendite realizzate nel commercio con dei mercati extra-capitalisti (interni o esterni)[13]. Questo è effettivamente il solo mezzo che permette al capitalismo di svilupparsi (al di fuori del saccheggio, legale o no, delle risorse delle economie non capitaliste), cioè di non trovarsi in questa situazione in cui “dei capitalisti scambiano tra loro e consumano la loro produzione”, la qual cosa come dice Marx “non permette affatto una valorizzazione del capitale”: “Come sarebbe altrimenti possibile che possa far difetto la domanda per quelle stesse merci di cui il popolo ha bisogno, e come sarebbe possibile che si debba cercare questa domanda all’estero, su mercati lontani, per poter pagare agli operai del proprio paese la media dei mezzi di sussistenza necessari? Precisamente perché solo in questo nesso, specificamente capitalistico, il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede può metterlo a disposizione del consumo solo quando esso si riconverte per lui in capitale. Infine, quando si afferma che i capitalisti non hanno che da scambiare fra di loro e consumare essi stessi le loro merci, si perde di vista il carattere essenziale della produzione capitalista, il cui scopo è la valorizzazione del capitale e non il consumo”[14].
Con l’entrata in decadenza del capitalismo, i mercati extra-capitalisti sono tendenzialmente sempre più insufficienti ma non scompaiono semplicemente e la loro sopravvivenza dipende anche, come nella fase di ascesa, dai progressi dell’industria. Ora, cosa succede quando i mercati extra-capitalisti sono sempre meno capaci di assorbire le quantità crescenti di merci prodotte dal capitalismo? Il risultato è la sovrapproduzione e con essa la distruzione di una parte della produzione, a meno che il capitalismo non perviene ad utilizzare il credito come palliativo. Ma più i mercati extra-capitalisti si rarefanno e meno il credito usato come palliativo potrà essere rimborsato.
Così, lo sbocco solvibile per la crescita dei Trenta Gloriosi è stato costituito dalla combinazione dello sfruttamento dei mercati extra-capitalisti ancora esistenti all’epoca e l’indebitamento nella misura in cui i primi non bastavano più ad assorbire tutta l’offerta. Non esiste nessun altro mezzo possibile (salvo nuovi saccheggi di ricchezze extra-capitaliste) che permetta l’espansione del capitalismo, allora come in ogni altra epoca successiva. Pertanto i Trenta Gloriosi danno già il loro piccolo contributo alla formazione dell’attuale massa di debiti che non saranno mai rimborsati e che diventano una vera e propria spada di Damocle sulla testa del capitalismo.
Un’altra caratteristica dei Trenta gloriosi è il peso delle spese improduttive nell’economia. Queste costituiscono una parte importante delle spese dello Stato e aumentano considerevolmente nella maggior parte dei paesi industrializzati a partire dalla fine degli anni ’40. Questa è una conseguenza della tendenza storica allo sviluppo del capitalismo di Stato, in particolare del peso del militarismo nell’economia che si mantiene ad un livello molto alto dopo la Guerra mondiale, e delle politiche keynesiane allora praticate e destinate a sostenere artificialmente la domanda. Se una merce o un servizio è improduttivo il suo valore d’uso non permette la sua integrazione nel processo produttivo[15] per contribuire alla riproduzione semplice o allargata del capitale. Bisogna considerare improduttive anche alcune spese relative alla domanda all’interno del capitalismo non necessarie ai bisogni della riproduzione semplice o allargata. Questo fu il caso in particolare durante i Trenta gloriosi di aumenti salariali a dei tassi che si avvicinavano a volte a quelli della crescita della produttività del lavoro, aumenti di cui hanno “beneficiato” alcune categorie di lavoratori, in alcuni paesi, in applicazione delle stesse dottrine keynesiane.
In effetti, il versamento di un salario maggiore di quello che è strettamente necessario alla riproduzione della forza lavoro (così come i sussidi versati ai disoccupati o le spese improduttive dello Stato) ha per corollario lo spreco di capitali che non possono essere consacrati alla valorizzazione del capitale globale. In altri termini, il capitale destinato alle spese improduttive, quali che esse siano, è sterilizzato.
La creazione attraverso il keynesismo di un mercato interno capace di dare una soluzione immediata allo smaltimento di una produzione industriale massiccia ha potuto dare l’illusione di un ritorno duraturo alla prosperità della fase di ascesa del capitalismo. Ma poiché questo mercato era completamente staccato dai bisogni di valorizzazione del capitale, il corollario è stato la sterilizzazione di una parte significativa di capitale. La possibilità del suo mantenimento era condizionata da una congiuntura di fattori eccezionali che non poteva durare: la crescita sostenuta della produttività del lavoro che, pur finanziando le spese improduttive, fosse insufficiente ad individuare un’eccedenza tale da permettere di continuare l’accumulazione; l’esistenza di mercati solvibili – o extra-capitalisti o derivanti dall’indebitamento – che permettesse la realizzazione di questa eccedenza.
Una crescita della produttività del lavoro comparabile a quella dei Trenta gloriosi non si è mai più realizzata in seguito. In ogni caso, anche se questa fosse stata possibile, l’esaurimento tortale dei mercati extra-capitalisti e l’aver raggiunto quasi i limiti del rilancio dell’economia attraverso nuovi aumenti del debito mondiale già smisurato, rendono impossibile il ripetersi di un tale periodo di prosperità. Contrariamente all’analisi sviluppata ne La decadenza del capitalismo, il mercato della ricostruzione non è un fattore che può spiegare la prosperità dei Trenta gloriosi. Alla conclusione della Seconda Guerra mondiale, il ripristino dell'apparato produttivo non ha costituito in sé un mercato extra-capitalista né ha generato il nuovo valore. Questa prosperità fu in buona parte il risultato di un trasferimento della ricchezza già accumulata dagli Stati Uniti verso i paesi da ricostruire, poiché il finanziamento dell’operazione è stato fatto attraverso il piano Marshall che consisteva essenzialmente di donazioni del Tesoro americano. Un mercato della ricostruzione non può essere invocato neanche per spiegare la breve fase di prosperità seguita alla Prima Guerra mondiale. Per tale motivo lo schema “guerra-ricostruzione/prosperità” che, in modo empirico, ha effettivamente corrisposto alla realtà del capitalismo in decadenza, non ha tuttavia un valore di legge economica secondo la quale esisterebbe un mercato della ricostruzione che permette un arricchimento del capitalismo.
Il capitalismo di Stato keynesiano-fordista
L’analisi che facciamo delle forze motrici dei Trenta gloriosi parte da un insieme di constatazioni oggettive tra le quali le principali sono le seguenti.
Il prodotto mondiale per abitante raddoppia durante la fase ascendente del capitalismo[16] ed il tasso di crescita industriale continuerà ad aumentare per culminare alla vigilia della Prima Guerra mondiale[17]. In questo momento i mercati che gli avevano fornito il campo di espansione arrivano alla saturazione rispetto ai bisogni raggiunti dall’accumulazione a livello internazionale. E’ l’inizio della fase di decadenza segnalata dalle due guerre mondiali, la più grande crisi di sovrapproduzione di tutti i tempi (1913-33) ed un freno brutale alla crescita delle forze produttive (tanto la produzione industriale che il prodotto mondiale per abitante saranno quasi dimezzati tra il 1913 ed il 1945: rispettivamente 2,8% e 0,9% l’anno).
Ciò non impedirà al capitalismo di conoscere una formidabile crescita durante i Trenta gloriosi: il prodotto mondiale per abitante triplica, mentre la produzione industriale aumenterà più del doppio (rispettivamente 2,9% e 5,2% l’anno). Non solo questi tassi sono ben superiori a quelli del periodo ascendente, ma i salari reali aumentano con una rapidità quattro volte superiore (si moltiplicano per quattro là dove erano appena raddoppiati durante un periodo due volte più lungo tra il 1850 ed il 1913)!
Come è potuto avvenire un tale miracolo?
* né per una residua domanda extra-capitalista perché questa era già insufficiente nel 1914 ed è diminuita ancora in seguito[18];
* né per l’indebitamento statale o il deficit buggettario perché questi diminuiscono fortemente durante i Trenta gloriosi[19];
* né per il credito che aumenta sensibilmente solo con il ritorno della crisi[20];
* né per l’economia di guerra perché essa è improduttiva: i paesi più militarizzati sono i meno efficienti e viceversa;
* né per il piano Marshall il cui impatto è limitatamente importante e duraturo[21];
* né per le distruzioni della guerra perché quelle consecutive alla prima non avevano prodotto prosperità[22];
* né per il solo aumento del peso dello Stato nell’economia perché il fatto di essere raddoppiato tra le due guerre non ha avuto un tale effetto[23], nel 1960 il suo livello (19%) è inferiore a quello del 1937 ed in più comprende numerose spese improduttive.
Il “miracolo” resta da spiegare, tanto più che: (a) all’indomani della guerra le economie sono esangui; (b) il potere d’acquisto di tutti gli attori economici è al minimo; (c) questi ultimi sono tutti pesantemente indebitati; (d) l’enorme potenza acquisita dagli Stati Uniti si fonda su di una economia di guerra improduttiva e che ha grandi difficoltà di riconversione, e (e) questo “miracolo” avrà tuttavia luogo malgrado la sterilizzazione di masse crescenti di plus-valore nelle spese improduttive!
In realtà questo non è più un mistero se si combinano le analisi di Marx sulle implicazioni dei guadagni di produttività[24] e gli apporti della Sinistra Comunista sullo sviluppo del capitalismo di Stato in decadenza. In effetti questo periodo si caratterizza per:
a) Dei guadagni di produttività mai visti in tutta la storia del capitalismo, guadagni che si basano sulla generalizzazione ed il mantenimento del lavoro alla catena di montaggio (fordismo).
b) Considerevoli aumenti dei salari reali, un pieno impiego e la messa in opera di un salario indiretto costituito da diversi sussidi sociali. Del resto, i paesi dove questi aumenti sono più forti saranno quelli più efficienti e viceversa.
c) Una presa in mano da parte dello Stato di parti intere dell’economia ed un suo forte intervento nel rapporto capitale-lavoro[25].
d) Tutte queste politiche keynesiane sono state anche inquadrate su certi piani a livello internazionale attraverso l’OCSE, il GATT, il FMI, la Banca Mondiale, ecc.
e) Infine, contrariamente ad altri periodi, i Trenta gloriosi sono stati caratterizzati da una crescita auto centrata (cioè con relativamente poco scambio fra i paesi dell'OCSE ed il resto del mondo) e senza alcuna delocalizzazione nonostante i forti aumenti dei salari reali e la piena occupazione. In effetti, la mondializzazione e le delocalizzazioni sono fenomeni che arriveranno solo alla fine degli anni ’80 e soprattutto ’90.
Così, garantendo in modo costrittivo e proporzionato la tri-ripartizione dei guadagni di produttività tra i profitti, le imposte ed i salari, il capitalismo di Stato keynesiano-fordista garantirà il completamento del ciclo di accumulazione tra un'offerta calante di beni e servizi a prezzo decrescente (fordismo) ed una domanda solvibile crescente perché indicizzata su questi stessi guadagni di produttività (keynesianismo).
Essendo i mercati così garantiti, il ritorno della crisi si manifesterà con un rovesciamento al ribasso del tasso di profitto che, dopo l’esaurimento dei guadagni fordisti di produttività, diminuirà di metà tra la fine degli anni 1960 e 1982[26]. Questo abbassamento drastico della redditività del capitale spinge allo smantellamento delle politiche del dopo guerra a vantaggio di un capitalismo di Stato senza regole all’inizio degli anni ’80. Se questa svolta ha permesso un ristabilimento spettacolare del tasso di profitto, grazie alla compressione della parte salariale, la riduzione della domanda solvibile che ne deriva mantiene i tassi di accumulazione e la crescita in magro[27]. Pertanto in un contesto ormai strutturale di deboli guadagni di produttività, il capitalismo è costretto a fare pressione sui salari e le condizioni di lavoro per garantire l’aumento dei profitti, ma così facendo restringe al tempo stesso i suoi mercati solvibili.
Queste sono le radici:
a) delle sovra-capacità e della sovrapproduzione endemica;
b) dell’indebitamento sempre più sfrenato come palliativo al restringimento della domanda;
c) delle delocalizzazioni alla ricerca di mano d’opera a basso costo;
d) della mondializzazione per vendere al massimo come esportazione;
e) dell’instabilità finanziaria a ripetizione derivante dagli spostamenti speculativi di capitali che non hanno più l’occasione di procedere ad investimenti di espansione.
Oggi il tasso di crescita è ridisceso al livello di quello tra le due guerre ed un remake dei Trenta Gloriosi è ormai impossibile. Il capitalismo è condannato ad una crescente barbarie.
Non avendo ancora avuto l’occasione di essere presentate in quanto tali, le radici e le implicazioni di questa analisi saranno sviluppate ulteriormente in seguito perché è necessario un ritornare su delle nostre analisi al fine di pervenire ad una comprensione più ampia e coerente del funzionamento e dei limiti del modo di produzione capitalista[28].
Un dibattito aperto agli elementi in ricerca
Come i nostri predecessori di Bilan o della Sinistra comunista di Francia, noi non pretendiamo di essere i detentori della verità “assoluta ed eterna”[29] e siamo pienamente coscienti che i dibattiti che sorgeranno nella nostra organizzazione non possono che beneficiare di apporti e critiche costruttive che si esprimono al di fuori di essa. Per questo tutti i contributi che ci arriveranno saranno benvenuti e presi in considerazione nella nostra riflessione collettiva.
Corrente Comunista Internazionale
[1] Tra il 1950 ed il 1973 il PIL mondiale per abitante è aumentato ad un ritmo annuale vicino al 3%, mentre tra il 1870 ed il 1913 era aumentato al ritmo dell’1,3% (Maddison Angus, L’economia mondiale. OCSE, 2001, pag. 284).
[2] Raccolta di articoli della stampa della CCI pubblicata nel gennaio 1981.
[3] Terzo congresso della CCI, Rivista Internazionale n. 18, 3° trimestre 1979 (in inglese, francese e spagnolo).
[4] Rivista Internazionale n. 52, 1° trimestre 1988 (idem).
[5] Soprattutto con la pubblicazione della serie “Comprendere decadenza del capitalismo” nella Rivista Internazionale (in particolare l’articolo del n. 56) e la pubblicazione nella Rivista Internazionale n. 59 (4° trimestre 1989) della presentazione sulla situazione internazionale dell’8° congresso della CCI relativa al peso dell’indebitamento nell’economia mondiale.
[6] Il fatto che questa posizione minoritaria esiste già da molto tempo all’interno della nostra organizzazione – i compagni che la difendono attualmente la difendevano già quando sono entrati nella CCI – e permette la partecipazione all’insieme delle nostre attività, sia di intervento che i elaborazione politico-teorica, illustra la correttezza della decisione della CCI di non aver fatto della sua analisi del legame tra saturazione dei mercati e abbassamento del tasso di profitto e del rispettivo peso di questi fattori una condizione di adesione all’organizzazione.
[7] Vedi a questo proposito l’articolo “Risposta alla CWO sulla guerra nella fase i decadenza del capitalismo” pubblicato in due parti nei nn. 127 e 128 della Rivista Internazionale (inglese, francese e spagnolo).
[8] L’idea di un miglior sfruttamento dei mercati extra-capitalisti è già presente nella Decadenza del capitalismo. Essa viene ripresa e messa in evidenza nel 6° articolo della serie “Comprendere la decadenza del capitalismo” pubblicato nel n°56 della Rivista Internazionale dove viene avanzato anche il fattore indebitamento mentre il concetto di “mercato della ricostruzione” non viene ripreso.
[9] All’interno di queste tre posizioni esistono delle sfumature che non sono state espresse nel dibattito. Non possiamo renderne conto nel quadro di questo articolo, ma queste potranno essere espresse, in funzione dell’evoluzione del dibattito, in futuri contributi che pubblicheremo.
[10] Internationalisme n°1, gennaio 1945: “Tesi sulla situazione Internazionale”.
[11] Solo negli Stati Uniti le spese dello Stato federale, che rappresentavano solo il 3% del PIL nel 1930, arrivano a circa il 20% nel periodo 1950-60.
[12] A titolo d’esempio, durante il periodo 1870-1913 la vendita ai mercati extra-capitalisti doveva rappresentare una percentuale media annuale vicina al 2,3% del PIL mondiale (cifra calcolata in funzione dell’evoluzione del PIL mondiale tra queste due date. Fonte: The World Economy). Trattandosi di un valore medio è ovvio che questa cifra è inferiore a quella realmente avutasi negli anni di forte crescita come quelli prima della Prima guerra mondiale.
[13] A tale proposito per il destinatario finale poco importa se le sue vendite sono produttive o meno, come le armi.
[14] Libro III, sezione III: la legge tendenziale dell’abbassamento del tasso di profitto, Capitolo X: Lo sviluppo delle contraddizioni immanenti della legge, pletora di capitale e sovrappopolazione.
[15] Per illustrare questo fatto basta considerare la differenza d’uso finale tra, da una parte, un’arma, un annuncio pubblicitario, un corso di formazione sindacale e, dall’altra, un attrezzo, un alimento, dei corsi scolastici o universitari, delle cure mediche, ecc.
[16] Dallo 0,53% l’anno nel periodo 1820-70 all’1,3% nel periodo 1870-1913 (Angus Maddison, L’economia mondiale, OCSE, pag 284).
[17] Tasso di crescita annuale della produzione industriale mondiale:
1786-1820 2,5 %
1820-1840 2,9 %
1840-1870 3,3 %
1870-1894 3,3 %
1894-1913 4,7 %
W.W. Rostow, The World Economy, p. 662.
[18] Molto importante alla nascita del capitalismo, questo potere d’acquisto interno ai paesi sviluppati rappresentava solo dal 5 al 20% già nel 1914 e divenne marginale nel 1945: dal 2 al 12% (Peter Flora, State, Economy and Society in Western Europe 1815-1975, A Data Handbook, Vol II, Campus, 1987). Quanto all’accesso al Terzo Mondo questo è amputato di due terzi con il restringimento del mercato mondiale della Cina, del blocco dell’Est, dell’India e di diversi altri paesi sottosviluppati. Il commercio con la restante parte diminuisce della metà tra il 1952 ed il 1972 (P. Bairoch, Il Terzo Mondo nell’impasse, pag. 391-192)!
[19] I dati sono pubblicati nel n. 114.
[20] I dati sono pubblicati nel n. 121.
[21] Il piano Marshall ha avuto un impatto debole sull’economia americana: “Dopo la seconda guerra mondiale… la percentuale delle esportazioni americane in rapporto all’insieme della produzione è diminuita in misura non trascurabile. Lo stesso Piano Marshall non ha provocato in questo dominio cambiamenti considerevoli” (Fritz Sternberg, Il conflitto del secolo, pag.577) e l’autore ne deriva che ad essere determinante nella ripresa è stato quindi il mercato interno.
[22] I dati e l’argomentazione sono sviluppati nel nostro articolo del n. 128. Ci ritorneremo perché, conformemente a Marx, la svalutazione e la distruzione di capitali permette effettivamente di rigenerare il ciclo di accumulazione ed aprire nuovi mercati. Tuttavia uno studio minuzioso ci ha mostrato che se questo fattore ha potuto avere ruolo, questo è stato relativamente debole, limitato nel tempo ed all’Europa ed al Giappone.
[23] La parte di spesa pubblica totale nel PIL dei paesi dell’OCSE passa dal 9% al 21% dal 1913 al 1937 (vedi n. 114).
[24] In effetti la produttività non è che un’altra espressione della legge del valore – poiché rappresenta l’inverso del tempo di lavoro – ed è alla base dell’estrazione di plus-valore relativa così caratteristico di questo periodo.
[25] La parte della spesa pubblica nei paesi dell’OCSE diventa più del doppio tra il 1960 e il 1980: dal 19% al 45% (n. 114).
[26] Grafici nei n. 115,121 e 128.
[27] Grafici e dati nel n°121 e nell’articolo di analisi sulla crescita nell’Asia dell’Est: https://fr.internationalism.org/ICConline/2008/crise_economique_Asie_Sud_est.htm.
[28] Il lettore tuttavia potrà trovare numerosi elementi fattuali, così come alcuni sviluppi teorici nei diversi articoli apparsi nei nn. 114, 115, 121, 127,128 e nella nostra analisi della crescita nell’Asia dell’Est.
[29] “Nessun gruppo possiede in esclusiva la ‘verità assoluta ed eterna’” come diceva la Sinistra comunista di Francia. Vedi a questo proposito il nostro articolo “60 anni fa: una conferenza di rivoluzionari internazionalisti”, Rivista Internazionale n. 131.