La borghesia italiana di fronte al covid-19: Cinismo e impotenza della borghesia

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Accanto alle armi di distruzione di massa la borghesia possiede quelle di distrazione di massa, e a queste fa sempre ricorso per nascondere le sue responsabilità di fronte ai disastri cui è sottoposta l’umanità.

Di fronte alla pandemia ci sono almeno due argomenti che appartengono a questo tentativo di diversione: tutte le discussioni, o le prese di posizione, sulla natura di questo virus (come se fosse la sua natura che ha comportato le conseguenze che noi tutti stiamo vivendo), e l’affermazione che l’epidemia non era prevedibile.

Che ci fosse il rischio della diffusione di nuovi virus è qualcosa che in molti avevano previsto, anche Bill Gates! Il problema è che nonostante questo le borghesie del mondo intero non si sono preparate. C’era anche una raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità di costituire scorte strategiche di dispositivi di protezione (mascherine, tute, ecc.), ma non è stato fatto!

E’ stata questa impreparazione, l’inadeguatezza delle risposte, che hanno fatto di questa pandemia la tragedia che è sotto gli occhi di tutti.

Innanzitutto lo smantellamento del sistema sanitario: la riduzione dei posti letto, la riduzione delle terapie intensive, il taglio del personale medico e infermieristico, la mancanza di mezzi di protezione per questo personale e per la popolazione in generale, di cui sono responsabili tutti i governi che si sono alternati negli ultimi 25 anni[1].

Storicamente qualsiasi paese, anche il più pacifico, sa che deve avere un esercito preparato a rispondere a un attacco, e per questo esistono le cosiddette “riserve strategiche” di armi, viveri, munizioni, ecc.

Ma di fronte all’attacco di un virus, niente mascherine, niente respiratori, niente camici, ecc.

E’ questo che ha creato il problema.

E nemmeno è vero che il governo non era informato del pericolo: la Cina, dopo aver inizialmente, colpevolmente, taciuto sulla diffusione dell’epidemia, alla fine di gennaio aveva informato il mondo sulla pericolosità del virus e sui mezzi della sua diffusione, tant’è vero che il 31 gennaio il governo italiano ha approvato un decreto legge che promulgava lo stato di emergenza, cioè quella situazione di pericolo generale che richiede e consente misure straordinarie. Ma nonostante questo, non è stato fatto niente. Anzi, si è cercato di minimizzare e di mentire sull’incapacità ad affrontare la situazione: per esempio, poiché in Italia non si producevano più mascherine, si è cominciato a dire che la loro utilità era dubbia (menzogna avallata dall’OMS).

A questo punto, di fronte a un’incapacità strutturale ad affrontare l’epidemia, la borghesia italiana ha fatto ricorso all’unico strumento possibile per ridurre il contagio, il confinamento sociale. Ma anche questo con enorme ritardo: il 4 marzo sono state chiuse le scuole, ma non i servizi e le industrie non indispensabili; l’11 marzo i bar e i ristoranti, e solo il 23 marzo le attività produttive non indispensabili. Ma nemmeno tutte: per esempio l’industria della Difesa non è stata fermata (quando la guerra in corso era sanitaria e non militare). Ci sono voluti gli scioperi spontanei in molte fabbriche di tutta Italia per spingere il governo a decretare la chiusura di tutti gli insediamenti produttivi non indispensabili. Soprattutto l’ha dovuto fare perché gli operai sono scesi in sciopero al grido di “non siamo carne da macello!”, “la nostra salute non viene dopo il vostro profitto!” e continuare a pretendere che lavorassero anche gli operai delle fabbriche non indispensabili avrebbe potuto far crescere non solo la collera, ma anche la coscienza dei lavoratori sul loro stato di merce al servizio del profitto capitalista.

E se il lockdown ha ridotto le conseguenze dell’epidemia, esso sancisce anche l’incapacità della borghesia a salvaguardare la salute della popolazione con quelli che sono i mezzi normali contro le malattie: la prevenzione, le cure e le medicine.

Ma la borghesia ha dimostrato in più occasioni la sua capacità di rivoltare a proprio favore anche le situazioni in cui si dimostra la sua incapacità ad assicurare agli sfruttati una vita sicura e decente. Così, anche in questa occasione, è scattata tutta una campagna tesa a creare una sorta di unione nazionale, un orgoglio nazionalista basato sulla menzogna che “siamo tutti nella stessa barca”, “solo uniti ce la faremo”. I tricolori ai balconi, l’inno nazionale cantato dalle finestre, e questo, come al solito, con l’appoggio dei mezzi di informazione che si sono messi al servizio di questa campagna mistificatoria: una mattina di marzo, alla stessa ora, tutte le radio “libere” hanno trasmesso contemporaneamente l’inno nazionale.

Ma le campagne mistificatorie fanno poi a pugni con la realtà, e l’ha dovuto denunciare anche un’intellettuale borghese, la sociologa Chiara Saraceno che, su Repubblica del 4 maggio 2020, scrive:

Non è vero che siamo tutti uguali di fronte al Covid 19. Non lo siamo rispetto al rischio di contagio, perché alcune professioni e condizioni di vita espongono più alcuni di altri. Riguarda, ovviamente, le professioni sanitarie, ma riguarda anche le commesse, gli addetti alle pulizie delle strade, alla raccolta dei rifiuti, i trasportatori, tutti coloro, con professioni non prestigiose e pagate relativamente poco, che nelle settimane della chiusura hanno dovuto lavorare in ‘presenza’. Non siamo uguali neppure di fronte all’esperienza del ‘restiamo a casa’, non solo perché qualcuno la casa non ce l’ha, ma anche perché la ’casa’ si declina molto diversamente e per qualcuno significa vivere stretti, talvolta in situazioni precarie. (…) Non siamo uguali neppure di fronte alla perdita di reddito e al rischio di povertà provocati dalla chiusura di gran parte delle attività produttive. Qui le disuguaglianze sono molteplici. I più a rischio sono i giovani, vuoi perché avevano più spesso contratti temporanei o precari, vuoi perché stavano per entrare nel mercato del lavoro quando tutto si è chiuso. (…)”. Non avremmo saputo dirlo meglio.

La borghesia non è solo una classe sfruttatrice, è anche una classe cinica e indifferente alla vita e alle sofferenze umane. La vita dei proletari per la borghesia è importante solo se e quando riesce a trasformarsi in lavoro produttivo, in produzione di plusvalore, che è la base del profitto capitalista. Una conferma si è avuta in questa occasione non solo con l’insistenza a voler tenere aperti i siti produttivi anche in mancanza di misure di sicurezza, ma anche nel trattamento riservato agli anziani. Nonostante che fin dall’inizio si è detto che le persone anziane erano le più a rischio se infettate, nessuna precauzione aggiuntiva è stata presa per la salvaguardia della salute di questa fetta di popolazione. Anzi, non solo è stato detto (nel pieno del contagio) che i sanitari dovevano “scegliere” chi salvare (dando la precedenza ai giovani), ma nemmeno si sono allertate le Residenze per anziani perché prendessero il massimo di precauzione per evitare i contagi. Se in queste Residenze c’è stata una vera e propria ecatombe non è un caso, né semplicemente il comportamento criminale di qualche responsabile (anche se in qualche caso è stato così), ma proprio la mancanza di considerazione per la vita di chi ormai non produce più plusvalore.

Quello che stiamo denunciando non è una specificità del governo e della borghesia italiana. I comportamenti che abbiamo descritto hanno caratterizzato tutti i paesi del mondo, a conferma che non si è trattato di mancanza di esperienza o capacità, ma di una situazione che ha alla sua base un sistema sociale in cui la vita umana viene dopo il profitto, perché la classe dominante, di fronte alla scelta se salvaguardare il proprio profitto o la salute e la vita dei proletari, non ha dubbi: sceglie il primo.

Del resto, anche le “riaperture” che si stanno effettuando in quasi tutti i paesi del mondo avvengono quando ancora il contagio non è finito, il vaccino non è pronto, né si sono testati farmaci sicuramente efficaci per la cura. Ancora una volta la parola d’ordine è “continuare a produrre” anche a costo di avere altri infettati, altri morti.

Ora il governo sta prendendo una serie di misure per far fronte al disastro economico che sta accompagnando il disastro sanitario, e qualcuno potrebbe scambiare questo come preoccupazione dello Stato per la popolazione. Non è così. Innanzitutto la principale preoccupazione del governo è sostenere l’economia, cioè il capitale nazionale (quante risorse sono destinate direttamente alle imprese, piccole o grandi che siano?). Poi è evidente che lo Stato non può non cercare di assicurare almeno un minimo di sopravvivenza sia a quei ceti a rischio povertà, per evitare che si rivoltino, sia soprattutto ai proletari che possono continuare a produrre profitto solo se sopravvivono.

Ma questo intervento economico non è né un rilancio dell’economia, né la scoperta di nuove risorse. Tutte le risorse messe a disposizione provengono da un aumento del debito statale (o da crediti dell’Europa, che si traducono comunque in debiti da restituire): il deficit per quest’anno dovrebbe schizzare al 10% del PIL (altro che il 3% di Maastricht!), portando il debito al 150% del PIL.

Naturalmente il governo dice che questo sostegno all’economia non serve solo ad evitare chiusure di fabbriche, fallimenti, licenziamenti e morti per fame, ma anche a rilanciare l’economia. Come a dire: non vi preoccupate, con questi provvedimenti ci sarà una ripresa e tutti staremo meglio anche economicamente. Chiacchiere. Doveva essere così anche con le ultime finanziarie e invece, anche prima del coronavirus la crescita è stata zero. La realtà è che l’Italia già non aveva recuperato i livelli economici di prima della crisi del 2007, e adesso non potrà che accumulare ulteriori ritardi rispetto ai suoi principali concorrenti.

Del resto il debito, l’unica risorsa a cui tutti i governi del mondo stanno ricorrendo per dare ossigeno all’economia, ha un problema: prima o poi bisogna pagarlo e per l’Italia, i cui tassi di interesse sono già più alti di quelli di altri paesi, questo diventa sempre più difficile.

Perciò non bisogna farsi illudere da queste risorse sparse a pioggia (comunque assolutamente insufficienti). Il prossimo anno, o comunque quando sarà finita l’epidemia, lo Stato tornerà a varare politiche di austerità per far fronte a quella recessione che si annuncia, peggiore di quella del 1929.

E quando si parla di austerità, parliamo dei salari dei proletari, delle spese sociali, delle pensioni, ecc., cioè delle condizioni di vita degli sfruttati.

E’ questo che bisogna aspettarsi, è a questo che bisogna prepararsi: i sacrifici fatti in questi mesi di epidemia, in termini economici ma anche di salute, non impediranno allo Stato borghese di chiederne altri, per “salvare il paese”, per “dare un futuro ai giovani”.

E se la borghesia è pronta a presentare il conto della crisi ai proletari, questi devono loro cominciare a presentare alla borghesia il conto di tutti i sacrifici fatti negli ultimi decenni.

Questi mesi di pandemia hanno dimostrato ancora una volta e in maniera lampante (e tragica) che questa in cui viviamo é una società divisa in due classi principali e dagli interessi opposti: la borghesia, la classe che ha il potere economico e politico, ma che dimostra di non  poter più assicurare non solo una vita decente ai proletari, ma addirittura la salute e la vita stessa; ed il proletariato, la classe dei lavoratori che non solo produce la gran parte della ricchezza di questa società (ricevendo in cambio solo il minimo per la propria sopravvivenza) , ma che è stato, con il suo lavoro, rischiando la propria salute, sacrificando a volte anche la propria vita, il solo a garantire che una nazione intera potesse continuare a nutrirsi e a svolgere una vita normale e l’unico vero argine alla diffusione del virus. Bisogna che i proletari ne prendano coscienza e che si preparino a porre fine a questa barbarie per offrire una nuova prospettiva all’umanità.

Helios, 04/06/2020

 

[1] Gli ospedali sono passati dai 1381 del 1998 (dato già in calo rispetto agli anni precedenti) a 1197 del 2007, per arrivare a 1000 nel 2017 (con una diminuzione percentuale di quelli pubblici rispetto a quelli privati convenzionati); i posti letto dai 311.000 del 1998 (5,8 posti ogni 1000 abitanti) ai 191.000 del 2017 (3,8 posti ogni 1000 abitanti).

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