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A complemento del nostro articolo sulle giornate di luglio 1917, ripubblichiamo qui di seguito degli estratti del capitolo che Trotsky consacra a questo episodio nella sua Storia della Rivoluzione russa. Dal nostro punto di vista, questi passaggi presentano un interesse maggiore: la necessità della trasmissione delle acquisizioni per le generazioni presenti e future di tirare le lezioni dell’esperienza del movimento operaio espresse nei più alti momenti della sua lotta. Ma soprattutto, mettono l’accento sulla necessità primordiale per i rivoluzionari d’analizzare con la più grande lucidità il rapporto di forza reale esistente tra le classi in un dato momento, e di valutare secondo dei criteri precisi il livello globale di maturità e di coscienza raggiunto dal proletariato nella sua lotta.
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“In un proclama dei due Comitati esecutivi sulle giornate di luglio, i conciliatori si appellarono con indignazione agli operai e ai soldati contro i manifestanti che, secondo loro, “cercavano di imporre ai vostri rappresentanti elettivi la loro volontà con la forza delle armi” (...) Concentrandosi attorno al Palazzo di Tauride, le masse gridavano al Comitato esecutivo la stessa espressione che un anonimo operaio aveva lanciato a Cernov mostrandogli il suo pugno ruvido: “Prendi il potere quando te lo danno!”. In risposta, i conciliatori fecero appello ai Cosacchi. I signori democratici preferivano iniziare una guerra civile contro il popolo piuttosto che prendere il potere senza spargimento di sangue. Le guardie bianche furono le prime a sparare. Ma l’atmosfera da guerra civile fu creata dai menscevichi e dai socialrivoluzionari.
Scontrandosi alla resistenza armata della stessaistituzione cui volevano rimettere il potere, gli operai e i soldati non ebbero più chiaro l’obiettivo. Il potente movimento di massa aveva perduto il suo asse politico. La campagna di luglio si riduceva così a una manifestazione in parte effettuata con i mezzi propri di una insurrezione armata. Ma si potrebbe dire con altrettanto fondamento che si trattò di una semi-insurrezione con un obiettivo che richiedeva metodi propri di una manifestazione. (...).
Quando all’alba del 5 luglio le truppe “fedeli” penetrarono nei locali del palazzo di Tauride, il loro comandante fece sapere che il suo distaccamento si sottometteva completamente e senza riserve al Comitato esecutivo centrale. Non una sola parola del governo! Quando la fortezza di Pietro e Paolo si arrese, la guarnigione dovette solo dichiarare di obbedire al Comitato esecutivo. Nessuno esigeva che si sottomettesse alle autorità ufficiali. Le stesse truppe provenienti dal fronte si mettevano completamente a disposizione del Comitato esecutivo. A che cosa era servito allora il sangue versato? (...)
Per quanto fosse paradossale il regime di febbraio che peraltro i conciliatori adornavano di geroglifici marxisti e populisti, i veri rapporti di classe erano abbastanza trasparenti. I piccolo-borghesi colti si appoggiavano sugli operai e sui contadini, ma fraternizzavano con i proprietari e con i grossi industriali dello zucchero. Inserendosi nel sistema sovietico, attraverso il quale le rivendicazioni della base giungevano sino al potere statale ufficiale, il Comitato esecutivo serviva anche da paravento politico per la borghesia. Le classi possidenti si “sottomettevano” al Comitato esecutivo nella misura in cui spostava il potere dalla loro parte. Le masse si sottomettevano al Comitato esecutivo nella misura in cui speravano che sarebbe divenuto l’organo del potere degli operai e dei contadini. Al palazzo di Tauride si incrociavano tendenze di classe contrastanti, che si servivano entrambe del nome del Comitato esecutivo: l’una per scarsa comprensione e per credulità, l’altra per freddo calcolo. E la posta della lotta era né più né meno questa: chi avrebbe governato il paese, la borghesia o il proletariato?
Ma se i conciliatori non volevano prendere il potere e se la borghesia non avesse avuto la forza sufficiente per mantenerlo, in luglio non avrebbero forse potuto i bolscevichi impadronirsi del timone? (...) Si sarebbero potuti anche impadronire d’autorità di alcune località di provincia. E allora, aveva ragione il partito bolscevico a rinunciare alla presa del potere? Non poteva, dopo essersi rafforzato nella capitale e in alcune regioni industriali, estendere poi il suo dominio su tutto il paese? La questione è importante.
Alla fine della guerra, niente contribuì di più alla vittoria dell’imperialismo e della reazione in Europa quanto i pochi brevi mesi di kerenskismo che esaurirono la Russia rivoluzionaria e recarono un pregiudizio incalcolabile alla sua autorità morale agli occhi degli eserciti belligeranti e delle masse lavoratrici europee, che si attendevano dalla rivoluzione una parola nuova. Se i bolscevichi avessero ridotto di quattro mesi – formidabile lasso di tempo! – le doglie del parto della rivoluzione proletaria, si sarebbero trovati con un paese meno esaurito e l’autorità della rivoluzione in Europa sarebbe stata meno compromessa. Ciò non solo avrebbe comportato enormi vantaggi per i soviet nelle trattative con la Germania, ma avrebbe anche avuto una grandissima influenza sull’andamento della guerra e della pace in Europa. La prospettiva era anche troppo allettante! Tuttavia, la direzione del partito ebbe assolutamente ragione di non impegnarsi sulla via dell’insurrezione armata.
Prendere il potere non basta. Bisogna conservarlo. Quando, in ottobre, i bolscevichi ritennero che la loro ora fosse suonata, il periodo più difficile venne dopo la presa del potere. Ci volle la massima tensione di forze da parte della classe operaia per resistere agli innumerevoli attacchi dei nemici. Nel luglio, una simile disposizione a una lotta intrepida non esisteva ancora, neppure tra gli operai di Pietrogrado. Pur avendo la possibilità di prendere il potere, lo offrivano tuttavia al Comitato esecutivo. Il proletariato della capitale che, nella sua schiacciante maggioranza era già incline ai bolscevichi, non aveva ancora reciso il cordone ombelicale che lo legava ai conciliatori. C’erano ancora non poche illusioni sulla possibilità di far tutto con le parole e con le manifestazioni, di indurre con l’intimidazione i menscevichi e i socialrivoluzionari a seguire la stessa politica dei bolscevichi.
Neppure l’avanguardia della classe operaia aveva una idea chiara delle strade da battere per giungere al potere. Lenin scriveva poco dopo: “Il vero errore commesso dal nostro partito nelle giornate del 3 e 4 luglio, ora messo in luce dagli avvenimenti, consistette solo nel fatto … che il partito credeva ancora possibile uno sviluppo pacifico delle trasformazioni politiche tramite un mutamento della politica dei soviet, mentre in realtà i menscevichi e i socialrivoluzionari si erano talmente smarriti e si erano talmente legati alla borghesia - e la borghesia era divenuta tanto controrivoluzionaria - che non si poteva più prospettare un qualsiasi sviluppo pacifico”.
Se il proletariato non era politicamente omogeneo né abbastanza risoluto, ciò valeva ancora di più per l’esercito contadino. Con il suo atteggiamento nelle giornate del 3 e 4 luglio, la guarnigione aveva senz’altro offerto ai bolscevichi la possibilità di prendere il potere. Ma nella guarnigione c’erano contingenti neutri che già verso la sera del 4 luglio si orientarono decisamente verso i partiti patriottici. Il 5 luglio, i reggimenti neutrali si schierano dalla parte del Comitato esecutivo, mentre i reggimenti favorevoli al bolscevismo cercano di assumere una tinta neutrale. Per questo, molto più che per il ritardato arrivo delle truppe dal fronte, le autorità avevano le mani legate. Se i bolscevichi, in un eccesso di ardore, si fossero impadroniti del potere il 4 luglio, la guarnigione di Pietrogrado non solo non l’avrebbe difeso, ma avrebbe impedito agli operai di difenderlo nell’eventualità certa di un colpo sferrato dal di fuori.
Ancor meno favorevole la situazione nell’esercito al fronte. La lotta per la pace e per la terra lo rendeva straordinariamente accessibile alle parole d’ordine bolsceviche, soprattutto dopo l’offensiva di giugno. Ma il cosiddetto bolscevismo spontaneo dei soldati non si identificava affatto con la fiducia in un determinato partito, nel suo Comitato centrale e nei suoi dirigenti. Le lettere dei soldati di quel periodo mettono bene in luce questo stato d’animo dell’esercito. (...) Una irritazione estrema contro le sfere dirigenti che li ingannano si unisce in queste righe a una confessione di impotenza: “Noi, non comprendiamo bene i partiti”.
Contro la guerra e il corpo degli ufficiali, l’esercito era in continua rivolta e si serviva allo scopo delle parole d’ordine del vocabolario bolscevico. Ma a insorgere per trasmettere il potere al partito bolscevico l’esercito non era ancora affatto disposto. I contingenti sicuri, destinati a schiacciare Pietrogrado, furono prelevati dal governo dalle truppe più vicine alla capitale, senza un’attiva resistenza da parte degli altri contingenti, e furono trasportati per reparti senza alcuna resistenza da parte dei ferrovieri. Scontento, ribelle, facilmente infiammabile, l’esercito restava politicamente amorfo: nelle sue file c’erano ancora troppo pochi nuclei bolscevichi consistenti, capaci di indirizzare in modo uniforme le idee e le azioni della massa gelatinosa dei soldati.
D’altra parte, i conciliatori, per contrapporre il fronte a Pietrogrado e ai contadini delle retrovie, si servivano non senza successo dell’arma avvelenata di cui la reazione aveva invano cercato di servirsi in marzo contro i soviet. I socialrivoluzionari e i menscevichi dicevano ai soldati del fronte: la guarnigione di Pietrogrado, sotto l’influenza dei bolscevichi, non viene a darvi il cambio; gli operai non vogliono lavorare per le necessità del fronte; se i contadini danno ascolto ai bolscevichi e si impadroniscono subito della terra, non ne resterà più per i combattenti. I soldati avevano ancora bisogno di un’esperienza supplementare per comprendere se il governo volesse conservare la terra per i combattenti o per i proprietari.
Tra Pietrogrado e l’esercito al fronte c’erano le province. La reazione delle province dinanzi agli avvenimenti di luglio può servire di per sé come un importantissimo criterio a posteriori per giudicare se i bolscevichi avessero avuto ragione di evitare in luglio una lotta immediata per la conquista del potere. Già a Mosca il polso della rivoluzione era assai più debole che a Pietrogrado (...)”.
Lev Trotski[1]
[1] Lev Trotsky, Storia della Rivoluzione russa. Estratti dal capitolo: I bolscevichi avrebbero potuto prendere il potere in luglio?, pagg. 600-606. Oscar Mondadori.