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Pubblichiamo quest’articolo apparso sulla nostra stampa internazionale nel novembre 1991, quando il fenomeno dell’immigrazione non aveva raggiunto ancora l’intensità e la drammaticità di oggi. Eppure possiamo ritrovare nell’articolo importanti chiavi di lettura per capire la situazione di oggi, e particolarmente il diverso atteggiamento mostrato dalle borghesie dei diversi paesi nell’accogliere o nel respingere le ondate di migranti. Come spiega bene l’articolo, la classe operaia è dalle sue origini una classe di migranti e la gestione oculata dei flussi migratori ha fatto la fortuna dei vari capitalismi nazionali. Il problema dell’oggi è che una società senza futuro tende sempre più ad escludere una parte di umanità finanche dalle briciole con cui sfamarsi, per cui assistiamo alle tragedie del mare che i mass-media ci presentano come l’espressione della cattiveria di questo o quello scafista piuttosto che come la logica conseguenza del funzionamento di un sistema senz’anima, dove la legge del profitto ha completamente disumanizzato le relazioni tra gli uomini trasformandoli in merci e/o compratori di merci.
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Con il crollo del blocco dell'Est, si sono prodotte ondate gigantesche di migranti che scappano dalla miseria, dalla carestia, dai massacri e che inondano gli Stati dell'Europa occidentale, come già stiamo assistendo in Germania ed in Italia. Di fronte a questa minaccia di destabilizzazione e di estensione del caos nella vecchia Europa industrializzata, tutta la borghesia dell'Europa occidentale si sforza non solo di arginare questa “invasione” d’immigrati attraverso misure forti come la chiusura delle frontiere, ma anche di far aderire la classe operaia alla sua sinistra politica in difesa del capitale nazionale. Scatenando una gigantesca campagna anti-immigrati, che alimenta le peggiori ideologie borghesi come il razzismo, la xenofobia, il nazionalismo, il "ciascuno per sé", la classe dominante mira a un solo obiettivo: impedire al proletariato di affermare la sua solidarietà e la sua unità di classe internazionale, cercando di dividerlo tra operai immigrati ed operai autoctoni. Seminando l'illusione che questi ultimi avrebbero qualche cosa da salvaguardare, da difendere contro tutti questi miserabili venuti dell'Est o da altre parti, tutto questo martellamento ideologico si sforza di far dimenticare al proletariato che la sua condizione di immigrati fa parte dello stesso essere classe operaia, della miseria della sua condizione di classe sfruttata.
L’esodo massiccio dalle loro terre di origine di centinaia di migliaia di esseri umani che fuggono la fame e la miseria non è un fenomeno nuovo. Non è neanche un flagello specifico dei paesi sottosviluppati. L'immigrazione appartiene allo stesso sistema capitalista e risale alle origini di questo modo di produzione fondato sullo sfruttamento del lavoro salariato.
Il capitalismo si è sviluppato grazie all’immigrazione
Fin dall'alba del capitalismo, la nuova classe di produttori, il proletariato, si è costituita come una classe d’immigrati. È grazie all’immigrazione che la borghesia ha potuto sviluppare il suo sistema di sfruttamento distruggendo in primis i rapporti di produzione feudali diventati obsoleti. Così, a partire dalla fine del XV secolo, particolarmente in Gran Bretagna, “l’accumulazione primitiva” del capitale si costituisce grazie all’espropriazione dei contadini, cacciati selvaggiamente dalle loro campagne ed arruolati con la forza nelle prime manifatture.
Spossessati delle loro terre dallo sviluppo del capitalismo, costretti con il ferro e con il sangue a emigrare verso le città per vendere la loro forza-lavoro al capitale, i contadini e i piccoli artigiani, trasformandosi in proletari, diventano, da questa epoca, i primi lavoratori immigrati. Questo esodo rurale massiccio imposto dallo sviluppo selvaggio del capitale, è stato accompagnato ancora, in tutta l'Europa, da misure di repressione di una ferocia inaudita contro tutti coloro che il capitalismo nascente ha affamato deliberatamente, ridotti all'indigenza per obbligarli a sottoporsi alla schiavitù salariata. È così che Marx descriveva il terrore che il capitalismo aveva scatenato contro tutti i fuggitivi che, dopo essere stati ridotti allo stato di vagabondi erranti, venivano marchiati a fuoco, mutilati, inviati nelle galere, o semplicemente appesi per il collo per insubordinazione alle regole della dittatura capitalista:
"Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege[1], fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano ritrovarsi con altrettanta rapidità nella disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono piniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti “volontari” e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti.”[2]
È grazie a questa espropriazione brutale dei contadini e alla loro trasformazione in schiavi salariati che il capitalismo ha potuto trovare la sua prima fonte di mano d'opera. Durante tutto il periodo della sua ascesa e fino al suo apogeo alla fine del XIX secolo, questo sistema di sfruttamento si svilupperà continuamente grazie ai flussi migratori della forza lavoro. Nel più vecchio paese capitalista, la Gran Bretagna, la nuova classe dominante si è potuta affermare grazie allo sfruttamento feroce di masse di affamati venuti dalle regioni agricole, in particolare dall'Irlanda.
Di fatto, “il rapido sviluppo dell’industria britannica non avrebbe potuto effettuarsi se nella numerosa e povera popolazione dell’Irlanda l’Inghilterra non avesse avuto una riserva di cui disporre”[3]. Questo “esercito di riserva”, costituito dall’immigrazione irlandese, ha permesso al capitale britannico di introdurre nella classe operaia la concorrenza per fare abbassare i salari e aggravare ulteriormente le insopportabili condizioni di sfruttamento dei proletari.
Così, è già nel quadro dello sviluppo di ogni capitale nazionale che il fenomeno dell’immigrazione fa parte integrante, fin dall’inizio del capitalismo, della natura stessa della classe operaia. Il proletariato è, per essenza una classe di immigrati, di transfughi generati dalla sanguinosa distruzione dei rapporti di produzione feudale.
Questa immigrazione si estenderà al di là delle frontiere nazionali quando, verso la metà del XVIII secolo, il capitalismo comincerà a fare i conti con il problema della sovrapproduzione di merci nelle grandi concentrazioni industriali dell’Europa occidentale. Come affermava Marx, nel 1857 “con lo sviluppo del plus-lavoro, che costituisce la base dello sfruttamento capitalista, si sviluppa anche la sovrappopolazione, in altri termini una massa di proletari che non può continuare a vivere sullo stesso territorio ad un dato stadio dello sviluppo delle forze produttive” (“Principi di una critica dell’economia politica”).
Le crisi cicliche di sovrapproduzione che colpiscono l’Europa capitalista intorno dalla metà del XIX secolo costringeranno milioni di proletari a sfuggire alla disoccupazione e alla carestia andando in esilio verso i “nuovi mondi”. Tra il 1848 e il 1914, 50 milioni di lavoratori europei lasciano il vecchio continente per andare a vendere la loro forza di lavoro in quelle regioni, principalmente in America.
Nella stessa maniera in cui l’Inghilterra del XVI secolo ha potuto permettere lo sviluppo del capitalismo grazie all’immigrazione interna, la prima potenza capitalista mondiale attuale, gli USA, si costituirono grazie all’afflusso di decine di milioni d’immigrati venuti dall’Europa, particolarmente dall’Irlanda, dalla Gran Bretagna, dalla Germania e dai paesi dell’Europa del nord.
Fino verso il 1890, è grazie allo sfruttamento feroce dei proletari immigrati, razionalizzato dal “taylorismo”[4] del lavoro nelle fabbriche, che il capitale americano riuscirà ad affermarsi progressivamente sulla scena mondiale. Dopo il 1890, le terre e gli impieghi si ridurranno e i nuovi emigranti mediterranei e slavi senza qualifica professionale si ammucchieranno nei ghetti delle grandi città e saranno costretti ad accettare dei salari sempre più miseri per potere sopravvivere. Con l’apogeo del capitalismo, il mito dell’America dove tutti possono essere accolti finirà. Dal momento in cui il capitale americano non ha più bisogno di importare massicciamente mano d’opera per sviluppare la sua industria, la borghesia di questo paese comincia ad adottare misure discriminatorie destinate a selezionare i richiedenti asilo.
Dopo la grande ondata migratoria di proletari italiani e slavi che affluiscono negli USA alla fine del XIX secolo, la borghesia americana comincia, dal 1898, a chiudere le sue frontiere, soprattutto agli immigranti asiatici. Da allora, non sarà più possibile accogliere qualsiasi “straccione”. Occorreva che i nuovi aspiranti migranti fossero capaci di fare fruttare il capitale, mentre gli altri, gli indesiderabili, saranno respinti spietatamente e condannati a ritornare a crepare “nel loro paese d'origine”. Come riferito da un articolo del “Figaro” del 1903, “Ogni emigrante mostra i 150 franchi fissati come minimo e, se versa i due dollari dovuti al governo americano, l'uomo è ammesso... Senza denaro, niente relazioni in America e... vecchio o malato, viene rinviato da dove viene. Ma un uomo giovane, prestante, deciso, con una professione, non viene mai rifiutato, anche se privo di risorse. Questa folla brulicante di miserabili operai, operaie, contadini, domestici, commessi... questi maledetti esuli per la sfortuna della loro ingrata patria, è l'America!... Sono i loro fratelli di miseria, emigrati come loro dagli stessi paesi dopo 60 anni, che hanno fatto l'America di oggi”.
Così, è grazie all'immigrazione verso gli altri continenti di questo surplus di mano d'opera risultante dalle crisi di sovrapproduzione in Europa Occidentale che il capitalismo ha potuto estendere il suo dominio a tutto il pianeta.
L'immigrazione nel periodo di decadenza del capitalismo
Durante tutto il XX secolo, il rallentamento dei flussi migratori diventerà un segno sempre più evidente dello sprofondamento del capitalismo nel suo periodo di decadenza segnata, quest’ultima, dallo scoppio della prima guerra mondiale. Con la prima carneficina imperialista del 1914-18, le migrazioni massicce di proletari che avevano accompagnato e permesso l'ascesa del capitalismo, cominciano a declinare.
Questo declino non è l’espressione della capacità del capitalismo di offrire una stabilità ai proletari, ma è, al contrario, l’espressione di un rallentamento crescente dello sviluppo delle forze produttive. Durante gli anni antecedenti alla guerra e durante lo stesso conflitto mondiale, i sacrifici imposti ai proletari furono sufficienti a far funzionare l’economia di guerra di ogni Stato belligerante. Dopo la guerra, è grazie allo sfruttamento feroce di un proletariato esangue e battuto dalla sconfitta della prima ondata rivoluzionaria del 1917-23 che la borghesia dei paesi dell’Europa occidentale, in particolarmente quella della Germania, ha potuto ricostruire la sua economia nazionale senza fare ricorso massicciamente alla mano d’opera immigrata.
E quando negli anni 30, la crisi di sovrapproduzione generalizzata esplode brutalmente in tutti i paesi industrializzati, dall'Europa agli USA, quando si profila una nuova ed inevitabile guerra mondiale, è ancora lo sviluppo della produzione di armi che permetterà al capitalismo di soffocare l’esplosione di una disoccupazione di massa in tutti i paesi.
Con il periodo di ricostruzione del secondo dopoguerra, in particolare dagli anni ‘50, si assiste a una nuova ondata migratoria, essenzialmente nei paesi dell’Europa occidentale, accentuata anche dalla decolonizzazione. La Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Svizzera, i paesi del Benelux spalancano le loro porte agli operai degli Stati più sottosviluppati. Spagnoli, portoghesi, turchi, iugoslavi, magrebini costituiranno per questi paesi una mano d'opera a buon mercato per i bisogni della ricostruzione, permettendo al tempo di compensare l’emorragia brutale che la seconda macelleria mondiale aveva provocato nelle fila del proletariato dei paesi belligeranti. Così milioni gli operai immigrati saranno chiamati dalle grandi democrazie dell’Europa occidentale per farsi sfruttarli massicciamente fino all’eccesso, sottomettendosi ai lavori più faticosi e con salari da miseria.
Quest’ondata migratoria che torna, negli anni ‘50, nel cuore del capitalismo, non è per niente comparabile a quella che aveva interessato gli USA un secolo prima, in un’epoca in cui il capitalismo era ancora un sistema in crescita, capace di migliorare in modo duraturo le condizioni di esistenza del proletariato. Così, mentre nel XIX secolo, gli operai immigrati lasciavano la loro terra di origine con le loro famiglie nella speranza di poter trovare, grazie all’espansione capitalista nei nuovi mondi, un asilo e una certa stabilità, l’apertura delle frontiere dell’Europa occidentale ai lavoratori stranieri dopo la seconda guerra mondiale, non è stato mai altro che un mezzo di sopravvivenza transitoria per milioni di lavoratori dei paesi sottosviluppati.
La maggior parte di loro (e soprattutto gli operai magrebini o asiatici che si sono esiliati in Francia e in Gran Bretagna dopo la decolonizzazione) sono stati costretti a lasciare la loro famiglia per trovare un lavoro miserabile e precario in questi paesi “d’accoglienza”. Senza alcuna prospettiva per l’avvenire e al solo scopo di nutrire le loro donne ed i loro bambini rimasti “al paese”, essi sono stati costretti ad accettare le peggiori condizioni di lavoro e di esistenza. Senza alloggio, ammucchiati come bestiame in bidonville insalubri o dati in pasto a rapaci affittacamere, ai controlli polizieschi ed alle spedizioni punitive razziste che hanno accompagnato la guerra dell'Algeria, questa mano d'opera a buon mercato che il capitalismo occidentale ha importato dai paesi sottosviluppati per i bisogni della sua ricostruzione del dopoguerra ci riporta senza alcun dubbio alla spaventosa barbarie dell'accumulazione primitiva.
Infatti, è proprio la miseria degli operai immigrati che riassume la miseria del proletariato in quanto classe che non possiede nient’altro che la sua forza lavoro. È nella condizione disumana dell’operaio immigrato che questa forza lavoro appare chiaramente per ciò che è: una semplice merce che i negrieri borghesi hanno sempre acquistato al più basso prezzo per fare fruttare il loro capitale.
Una volta terminata la ricostruzione del secondo dopoguerra alla fine degli anni 60, i “paesi dell’accoglienza” dell'Europa occidentale segnalano “il completo” e cominciano ovunque a chiudere le loro frontiere. Dal 1963, delle misure restrittive sono adottate in Svizzera, poi in Gran Bretagna, Germania, Francia, paesi che, con il riemergere della crisi economica mondiale e della disoccupazione, decidono di bloccare totalmente l'immigrazione all'inizio degli anni 70. Ma queste misure non si fermeranno lì.
Più il capitalismo affonda nella crisi, più il proletariato nel suo insieme va a farne le spese. Nello stesso momento in cui, con le prime ondate di licenziamenti, il capitalismo va a gettare sul lastrico decine di migliaia di operai, i proletari immigrati saranno espulsi, cacciati fuori dalle frontiere dell'Europa occidentale. Davanti all'inefficacia dei "metodi dolci" di "aiuti al ritorno", è sotto il pretesto di caccia ai clandestini che ora migliaia dei lavoratori immigrati sono rinviati a forza presso i loro paesi d'origine anche con aerei o semplicemente repressi manu militari al di là delle frontiere nazionali.
Oggi che non sono loro più indispensabili, è in nome del "diritto alla terra" che tutti i governi "democratici", di destra come sinistra, li rinviano a crepare "a casa loro" dopo averli utilizzati come bestie da soma per più di due decenni. Ed è ancora con un cinismo senza pari che questa classe dominante correda le sue infami pratiche di un’immonda propaganda anti-immigrati, al solo scopo di dividere la classe operaia. Ed è così che, nel 1984, il rapporto Dalle accusava l'immigrazione di avere rallentato il ritmo del progresso tecnico nella costruzione automobile. In altre parole, i lavoratori immigrati non si sarebbero accontentati solamente di venire a mangiare il "pane dei francesi", di prendere i loro impieghi, ma sarebbero anche responsabili della perdita di competitività del capitale nazionale, dunque dell'aggravamento della crisi e della disoccupazione!
Contro la miseria capitalista generalizzata
SOLIDARIETÀ DI CLASSE DEL PROLETARIATO MONDIALE
In realtà, le campagne contro l'immigrazione che si scatenano oggi non mirano solo a dividere la classe operaia tra proletari indigeni e immigrati. Si tratta invece di un attacco diretto contro la coscienza della classe proletaria. Attraverso la sua nauseante propaganda, la borghesia cerca soprattutto di ricoprire di un velo ideologico ciò che la crescente miseria del proletariato pone sempre più apertamente a nudo: ovvero il fallimento storico, irrimediabile del modo di produzione capitalistico. Ciò che la classe dominante cerca di nascondere oggi è la sua incapacità di offrire una qualunque prospettiva all’insieme della classe operaia. L’esclusione dei lavoratori immigrati che il capitalismo condanna a morire di fame “altrove” è già il destino che questo sistema moribondo riserva a milioni di proletari autoctoni disoccupati abbandonati definitivamente alla disoccupazione. Nessuna legge “anti-immigrati” potrà mai risolvere la crisi insormontabile che sta scuotendo questo sistema in agonia. I licenziamenti di massa continueranno inesorabilmente a colpire i lavoratori, qualunque sia la loro origine. Il “diritto alla terra”, di cui ci riempiono le orecchie oggi, non è altro che il diritto dei lavoratori a morire di fame e di freddo “a casa loro”, come già testimoniato dalla massa crescente di “senza tetto” che vagano nelle grandi città. Non è l’immigrazione che è responsabili della crisi e la disoccupazione. E’ viceversa la crisi e la disoccupazione risultanti dal crollo irreversibile dell’economia mondiale che, cercando di livellare verso il basso le condizioni di esistenza del proletariato, trasformano sempre più la classe sfruttata in una classe di esclusi, di disoccupati, di senza tetto, di immigrati.
Estendendo il suo dominio a tutto il pianeta, il capitalismo ha creato una classe operaia mondiale. Finché ne ha avuto bisogno, ha ampiamente fatto ricorso alla forza lavoro degli immigrati. Oggi, il fatto che li cacci via brutalmente dalle sue frontiere, che trasformi il pianeta in una “terra di nessuno” per delle masse crescenti di lavoratori, è un'indicazione del fallimento totale di questo sistema.
Se la minaccia di “invasione” delle masse d’immigrati in fuga dallo scatenarsi del caos nei paesi dell’Est, per precipitarsi alle frontiere dell’Europa occidentale, è un incubo per la borghesia dei paesi più industrializzati, è proprio perché il capitalismo mondiale è ormai un sistema decadente. Le convulsioni che accompagnano la sua agonia possono che tradursi in un tuffo nella disoccupazione, la povertà e la fame per milioni di proletari che, da nessuna parte, troveranno una terra che li accolga per dare loro i mezzi per sopravvivere.
Così, mentre per il passato, l’immigrazione è un fenomeno perfettamente controllato da un capitalismo in piena prosperità, oggi, il panico che provoca l’afflusso di enormi ondate d’immigrati che sfuggono al suo controllo all’interno della classe dominante è solo una delle manifestazioni del decadimento di questo sistema, dell’incapacità della borghesia decadente di governare.
Se, con l'entrata del capitalismo nella sua fase finale, quella della decomposizione, l’immigrazione appare come un cancrena per la classe dominante, è proprio perché è il capitalismo stesso che è diventato un flagello per tutta l’umanità.
Di fronte alla miseria e alla barbarie di questo mondo in piena putrefazione, c’è una sola prospettiva per la classe operaia: rigettare fermamente la logica della competizione e del “ciascuno per sé” dei propri sfruttatori. Qualunque sia la sua origine, la sua lingua, il colore della pelle, il proletariato non ha alcun interesse in comune con il capitale nazionale. Non potrà difendere i suoi interessi se non sviluppando dappertutto la sua solidarietà di classe internazionale, rifiutando di lasciarsi dividere tra immigrati e lavoratori “autoctoni”. Questa solidarietà va affermata rifiutando ovunque di aderire alle campagne borghesi, che siano xenofoba o anti-razziste, sviluppando massicciamente le lotte sul suo terreno di classe, contro tutti gli attacchi che subisce ogni giorno.
Solo l'affermazione dei suoi interessi comuni, nella lotta, permetterà al proletariato di raccogliere tutte le sue forze, di affermarsi come classe mondiale solidare e unita, per abbattere il mostro del sistema capitalista prima che questo distrugga tutto il pianeta.
Avril, 1 Novembre 1991
Tradotto da Révolution Internationale, organo della CCI in Francia.
[1] Eslège agg. [dal lat. exlex -egis, comp. di ex- e lex legis «legge»] (pl. -i; talora usato come invar.). – Fuori legge, che non è sottoposto o non si assoggetta a nessuna legge sociale: popolo, società e.; sono individui eslegi; vissero lungo tempo nomadi ed eslegi. Per estens. e con sign. attenuato, di persona o comportamento che è fuori da una norma, da una consuetudine, da una tradizione. Con l’uno e con l’altro sign., anche come s. m. e f.: è un e., sono degli eslegi (o degli eslege), (https://www.treccani.it/vocabolario/eslege/).
[2] Marx, Il Capitale, Libro primo, Cap. XXIV, La cosiddetta accumulazione originaria, Editori Riuniti, pagg. 192-193.
[3] Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, “L’immigrazione irlandese”, Editori Riuniti, pag. 136.
[4] Taylorismo: organizzazione scientifica del lavoro, ideata dall'ingegnere americano F.W. Taylor (1856-1915), basata sulla razionalizzazione del ciclo produttivo secondo criteri di ottimalità economica, raggiunta attraverso la scomposizione e parcellizzazione dei processi di lavorazione nei singoli movimenti costitutivi, cui sono assegnati tempi standard di esecuzione. (https://www.treccani.it/enciclopedia/taylorismo/).