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All'inizio degli anni ‘30, la sconfitta del proletariato si era era ormai realizzata e la rivoluzione mondiale era stata completamente schiacciata. I bagni di sangue successivi in Russia e Germania, dopo la disfatta del proletariato a Berlino nel 1919, la ricerca di capri espiatori, l'umiliazione causata dal Trattato di Versailles e la necessità di vendetta, rappresentarono un nuovo passo in avanti nella spirale di orrori del capitalismo del XX secolo.
L'emergere di un mondo campo di concentramento
Nel proclamare il "socialismo in un solo paese", il nuovo regime stalinista in Russia si preparò ad una corsa all'industrializzazione per cercare di recuperare il proprio ritardo. La pianificazione per l'industria pesante e la fabbricazione di armi portarono ad uno sfruttamento estremo. Fino alla terribile depressione del 1930, anche i paesi “vincitori" ebbero però bisogno di una manodopera occidentale a basso costo che bisognava dividere e controllare. Ma con la crisi economica e la disoccupazione di massa, i migranti e i rifugiati divennero sempre più apertamente “indesiderabili”. Pertanto il movimento migratorio cominciò ad essere frenato sempre più brutalmente a cominciare dal 1929, specialmente negli Stati Uniti[1]. Questi ultimi, che avevano stabilito delle quote, “filtravano” i migranti dividendoli e separandoli dagli altri proletari. In un tale contesto, gli spostamenti di popolazioni, quelli dei deportati e dei rifugiati, che si formarono forzatamente (durante e dopo la guerra) avvennero in condizioni terribili: spesso finendo nei campi di concentramento che cominciavano a diffondersi un po’ ovunque. Mentre la crisi e le tensioni imperialiste si stavano estendendo sempre più, la classe operaia sconfitta non riusci ad opporsi. Ciò si sarebbe tradotto in Spagna nel 1936, con l'inizio dell’inquadramento del proletariato nella guerra, in nome de “l’antifascismo”. Questa nuova guerra totale avrebbe mobilitato molto più brutalmente e massicciamente le popolazioni civili (donne, giovani, anziani) rispetto alla prima. Sarebbe stata molto più distruttiva e barbara. Lo Stato, intervenendo più direttamente su tutta la vita sociale, avrebbe aperto un'epoca da campo di concentramento, generando deportazioni, "pulizia etnica", carestie e stermini.
Deportazioni, massacri e lavori forzati
La violenza stalinista tanto brutale quanto imprevedibile, ne fu un primo esempio. Lo Stato non esitò durante le purghe ad arrestare i veri comunisti, a dare la morte al 95% dei dirigenti di una regione, a deportare intere popolazioni per il monitoraggio e il controllo del suo territorio. Negli anni 1931-1932 Stalin utilizzò con freddezza “l'arma della fame” nel tentativo di spezzare la resistenza degli Ucraini alla collettivizzazione forzata. La terribile carestia, provocata consapevolmente, fece 6 milioni di morti! In Siberia e altrove, milioni di uomini e donne vennero condannati ai lavori forzati. Nel 1935, ad esempio, 200.000 detenuti furono costretti a scavare il canale Mosca-Volga-Don e altri 150.000 il secondo percorso della Transiberiana. La collettivizzazione brutale delle campagne, dove milioni di kulaki furono deportati in zone di insediamento inospitali, i piani per l'industria pesante e lo sfruttamento a marce forzate, dove gli operai si ammazzavano di lavoro (in senso letterale), permisero di alimentare l'ossessione di Stalin di “recuperare il ritardo con i paesi capitalisti”[2]. Anche prima della sua entrata in guerra, nel 1941, lo Stato stalinista stava conducendo una vera e propria “pulizia etnica” ai suoi confini, al fine di garantire la propria sicurezza. Diverse popolazioni erano sospettate di “collaborare” con il nemico tedesco e venivano pertanto assoggettate di forza a grandi spostamenti di massa. Nel 1937 la deportazione in Asia Centrale di 170.000 coreani sulla base di soli motivi etnici, che portò a pesanti perdite, costituì la premessa di quanto sarebbe accaduto. Tra tutti gli spostamenti che seguirono, 60.000 polacchi vennero spediti nel Kazakhstan nel 1941. Diverse ondate di deportazioni ebbero luogo in seguito dopo la rottura del patto germano-sovietico, in particolare per le popolazioni di origine tedesca, soprattutto nelle repubbliche baltiche diventate apertamente “nemici del popolo”: 1,2 milioni di persone vennero esiliate da un giorno all’altro in Siberia e in Asia centrale. Tra il 1943 e il 1944 toccò alle popolazioni del Caucaso del nord (Ceceni, Ingusci, ...) e della Crimea (Tartari) essere brutalmente deportate. Molte di queste vittime affamate, criminalizzate e bandite dallo Stato “socialista” morirono durante il trasporto in carri bestiame (per mancanza di acqua, cibo e malattie come il tifo). Se la popolazione locale in generale mostrò grande solidarietà verso quei sfortunati proscritti, la propaganda ufficiale manteneva intorno a questi nuovi schiavi un clima di odio. Durante il trasporto venivano spesso colpiti da lanci di pietre accompagnati dai peggiori insulti. All'arrivo, secondo un rapporto di Beria del luglio 1944, “alcuni presidenti di kolchoz (fattorie collettive) organizzavano pestaggi allo scopo di giustificare il loro rifiuto ad assumere deportati fisicamente degradati”[3]. In queste condizioni estreme, “da dieci a quindici milioni di sovietici” vennero inviati in “campi di rieducazione attraverso il lavoro”, ufficialmente creati dal regime dagli anni ‘30[4].
In Germania, quando i nazisti salirono al potere molto tempo prima della loro attività di sterminio, i campi di concentramento moltiplicatisi sul territorio, in particolare in Polonia, erano innanzitutto dei campi di lavoro. Questa tendenza allo sviluppo di campi un po’ dappertutto (anche negli Stati democratici come la Francia e gli Stati Uniti) per i prigionieri o i rifugiati, avevano come scopo, oltre al controllo sulla popolazione, lo sfruttamento quasi gratuito di forza lavoro. Vendendo tradizionalmente la sua forza-lavoro, il proletario permette al capitalista di estrarre plusvalore, vale a dire il profitto. I termini di questo “contratto” assicurano uno sfruttamento che spinge alla massima produttività, garantendo la semplice riproduzione della forza lavoro attraverso il basso livello dei salari. Nei campi di concentramento la forza lavoro veniva sfruttata in modo quasi assoluto. In Germania, i deportati lavoravano oltre 12 ore al giorno, con qualsiasi tempo, sotto il comando dei “kapò”. Fabbriche di armi segrete o filiali di grandi aziende tedesche si trovavano nei campi di concentramento o nelle vicinanze. Queste industrie di guerra godettero del lavoro quasi gratis, abbondante e facilmente rinnovabile. La riproduzione della forza lavoro era ridotta a mera sopravvivenza del lavoratore/prigioniero, la bassissima produttività di questa forza lavoro era parzialmente compensata dai costi di manutenzione molto bassi. Il cibo era limitato al minimo vitale, così come il trasporto, spesso ridotto all’unico spostamento in una zona remota e isolata, quella del campo. Negli Stati democratici, i campi venivano utilizzati anche nell’ottica di un rafforzamento del controllo sociale da parte dello Stato nei confronti delle popolazioni prigioniere e/o lo sfruttamento della loro forza lavoro. Così, ad esempio, si comportò il governo francese di fronte all'afflusso dei rifugiati spagnoli (120.000 tra giugno e ottobre 1937, 440.000 nel 1939), questi “indesiderabili” dai “comportamenti rivoluzionari”[5]. In Nord Africa, 30.000 di essi vennero utilizzati per i lavori forzati. I rifugiati spagnoli furono ammassati sul suolo francese nei campi di internamento (le stesse autorità parlavano di “campi di concentramento”) montati frettolosamente nel sud (in particolare sulle spiagge di Roussillon). Questi rifugiati raggiunsero, ad esempio, il numero di 87.000 a Argelès, sfruttati come schiavi in condizioni spaventose, dormendo sulla sabbia, sorvegliati dai “kapò” della Guardia Repubblicana e dai fucilieri senegalesi. Tra febbraio e luglio 1939, circa 15.000 rifugiati spagnoli morirono nei campi, la maggior parte per esaurimento e per la dissenteria.
Più tardi, durante la guerra, tra i molti esempi, si potrebbero citare gli Stati Uniti che internarono dal marzo 1942 al marzo 1946 più di 120.000 persone. Si trattava di una popolazione giapponese-americana rinchiusa nei campi di concentramento al nord e ad est della California. Questi uomini vennero trattati in un modo terribile come i peggiori criminali e quelli che subiscono la xenofobia di Stato[6].
Il genocidio degli ebrei, una delle vette della barbarie capitalista
Abbiamo detto che i campi di concentramento in Germania erano innanzitutto campi di lavoro. I maggiori spostamenti di popolazione vennero fatti in direzione della Germania con la forza, attraverso misure quali il STO (servizio di lavoro obbligatorio) in Francia, saccheggi, deportazioni di massa di ebrei e raid un po’ ovunque, soprattutto in Europa. Nelle fabbriche, nell'agricoltura e l'industria mineraria, un quarto della forza lavoro era rappresentato dal lavoro forzato, in particolare nel quadro del “Generalplan Ost”. Tra 15 e 20 milioni di persone furono deportate dalla Germania nazista per far girare la sua macchina da guerra! Tale politica aumentò il numero di rifugiati in fuga dal regime e la conseguente caccia all'uomo. Negli anni ‘30, si ebbero circa 350.000 rifugiati provenienti dalla Germania nazista, 150.000 dall’Austria (dopo l'Anschluss) e dalla regione dei Sudeti (dopo l'annessione alla Germania nazista).
Dal 1942, con il progetto di “soluzione finale”, i campi di concentramento come Auschwitz-Birkenau, Chelmno, Treblinka, Belzec, Sobibor, Maidaneck ... si trasformeranno in campi di sterminio. In condizioni atroci, tra le tantissime vittime, sei milioni di ebrei arrivarono ammassati nei convogli e massacrati, la maggior parte asfissiati e bruciati in forni crematori. Il più grande contingente sinistro di vittime fu fornito dalla Polonia (3.000.000) e l’URSS (1.000.000). I campi di sterminio come quello di Auschwitz (1,2 milioni) e Treblinka (800.000) funzionavano a pieno regime. Questa barbarie è ben nota perché, dopo la guerra, è stata ampiamente esposta e sfruttata ideologicamente fino alla nausea da parte degli Alleati e utilizzata come alibi per giustificare o nascondere i propri crimini.
In realtà, una mentalità pogromista si era installata già negli anni ‘20 sancendo la sanguinosa sconfitta del proletariato e delle sue principali figure rivoluzionarie assimilate a “giudei”: “anche se molti rivoluzionari ebrei come Trotskij e Rosa Luxemburg si considerano non ebrei (...) l'Israelita appare come il foriere della sovversione, come un agente distruttivo dei valori fondamentali: patria, famiglia, proprietà, religione. L’entusiasmo di molti Ebrei verso tutte le forme dell’arte moderna o dei nuovi mezzi di espressione come il cinema, giustifica ulteriormente questa reputazione di spirito corrosivo”[7]. La sconfitta della rivoluzione permise alle grandi democrazie di vedere in Hitler né più né meno che un “baluardo” efficace “contro il bolscevismo”. Per tutti gli Stati dell’epoca l'amalgama ebreo-comunista era molto comune. Churchill stesso accusava gli ebrei di essere responsabili della rivoluzione russa: “Non c'è bisogno di esagerare il ruolo svolto nella creazione del bolscevismo e l'arrivo della Rivoluzione russa da questi ebrei internazionalisti ed in gran parte atei”[8]. L'idea di un complotto “giudaico-marxista”, inizialmente veicolato dalle “armate bianche”, maturò sulla base di un diffuso antisemitismo “è necessario sottolineare che Hitler non è all’origine di questo antisemitismo (...) dopo la Prima guerra mondiale, questo antisemitismo è presente nella maggior parte dei paesi europei”[9].
Gli ebrei finirono dunque per poter essere sistematicamente stigmatizzati, emarginati, diventare capro-espiatorio senza che ciò turbasse i dirigenti democratici, di cui alcuni, come Roosevelt, avevano già apertamente inclinazioni xenofobe ed antisemite. Gran parte degli ebrei che si trovavano in Polonia, in URSS e nei ghetti erano già stati costretti spesso a fuggire dai paesi democratici proprio per questo antisemitismo (contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, l’antisemitismo del regime di Vichy, per esempio, non è un fenomeno spontaneo, né specifico). Pertanto, nel 1935 le leggi antisemite di Norimberga poterono passare, non a caso, praticamente inosservate. Facendo degli Ebrei dei cittadini a parte ed emarginati, descrivendoli come “esseri dannosi”, fu possibile saccheggiare impunemente ed in buona coscienza le loro proprietà. Tutta questa dinamica, questo terreno nauseabondo costituirono l’alveo per la propaganda igienista e eugenista dei nazisti. Nel gennaio 1940, la “Aktion T4” in Germania con la sua programmazione metodica dell’eliminazione di handicappati fisici e mentali prefigurava già l’Olocausto. Di fronte alla tragedia che si configurava, gli Alleati rifiutarono di aiutare gli Ebrei “per non destabilizzare lo sforzo di guerra” (Churchill). Gli Alleati si sono quindi resi corresponsabili e complici di un genocidio che è stato prima di tutto un prodotto del sistema capitalistico. Ben presto i paesi democratici chiusero le porte rifiutandosi di fornire assistenza agli Ebrei, percepiti come reietti che non volevano in casa propria[10]. Ad esempio, di fronte alla repressione nazista e alle persecuzioni, il governo del Fronte Popolare in Francia si dimostrò inamovibile. Dietro la patina democratica, una circolare firmata da Roger Salengro, datata 14 agosto 1936, affermava: "non lasciar più (...) penetrare in Francia alcun emigrante tedesco e procedere alla deportazione di qualsiasi straniero, tedesco o proveniente dalla Germania, entrato dopo 5 Agosto 1936, non fornito del denaro necessario..."[11].
La barbarie è quella dei due campi imperialisti
Tutte le azioni e le misure amministrative destinate a deportare, dare la caccia e sterminare le popolazioni si rivelarono molto più imponenti, e soprattutto con conseguenze ben più drammatiche, rispetto al 1914-1918. Il numero di rifugiati/migranti divenne sproporzionato. La violenza usata - dai campi di concentramento e le camere a gas, al bombardamento a tappeto, ai gas di fosforo, dalle bombe nucleari, all'uso di armi chimiche e biologiche - fece molte vittime e causò sofferenze durature anche dopo la guerra, con una quantità innumerevole di traumi. Il bilancio è terrificante! Le distruzioni alla fine del conflitto provocarono in totale quasi 66 milioni di morti (20 milioni di soldati e 46 milioni di civili) contro i 10 milioni del 1914-1918! Alla fine della seconda guerra mondiale fu necessario reintegrare 60 milioni di persone, dieci volte di più rispetto alla prima guerra mondiale! Al centro della stessa Europa, vi furono 40 milioni sono morti. In Asia orientale e Cina più di 12 milioni di persone perirono in scontri militari diretti e in Cina si registrarono circa 95 milioni di rifugiati. Durante la guerra, dei luoghi ed alcune battaglie militari hanno visto le carneficine più grandi della storia. Giusto qualche esempio: a Stalingrado circa un milione di uomini dei due campi avversi son morti sotto un fuoco infernale. In un assedio durato circa tre anni ne sono morti 1.800. La battaglia per la presa di Berlino uccise 300.000 soldati tedeschi e russi e più di 100.000 civili. La famosa battaglia di Okinawa uccise 120.000 soldati, ma anche 160.000 civili. Le truppe giapponesi uccisero 300.000 cinesi a Nánjīng! Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, secondo lo storico Howard Zinn, fecero fino a 250.000 morti! Il terribile bombardamento americano di Tokyo, nel marzo 1945, provocò 85.000 morti. In Unione Sovietica vi furono 27 milioni di vittime. L’Ucraina perse il 20% della sua popolazione, la Polonia il 15% (per lo più ebrei). Centinaia di città in Europa vennero parzialmente devastate o quasi distrutte. In Russia furono colpite 17.00 città, 714 in Ucraina con quasi 700.00 villaggi distrutti! In Germania, il tappeto incendiario di bombe al fosforo degli Alleati e il “Bomber Command” provocarono un numero enorme di vittime, radendo al suolo le città di Dresda e Amburgo (quasi 500.00 morti). Una città come Colonia venne distrutta al 70%! Alla fine della guerra si stima che in Germania si ebbero tra i 18 e i 20 milioni di senza tetto, 10 milioni in Ucraina! Il numero di orfani di guerra è parlante: 2 milioni in Germania, più di un milione in Polonia. Circa 180.000 bambini ridotti al rango di vagabondi per le strade di Roma, Napoli e Milano.
Le sofferenze terribili causate da queste distruzioni furono accompagnate molto spesso da tremende vendette e atti barbarici sulla popolazione, che terrorizzavano civili e rifugiati. Questo fu operato dagli Alleati, tuttavia presentati come “grandi liberatori”: "l’arroganza, il fulmine della vendetta si abbatte sui sopravvissuti; la scoperta delle atrocità commesse dai vinti alimenta la buona coscienza del conquistatore”[12].
L'accumulazione di violenza generata dal capitalismo decadente, una volta liberata, produce gli scenari più atroci, quello della “purificazione etnica” e di atti di crudeltà inimmaginabili. Durante e dopo la guerra in Croazia, quasi 600.000 serbi, musulmani ed ebrei vennero uccisi dal regime ustascia che desiderava “ripulire” l'intero paese. Comunità greche furono massacrate dall'esercito bulgaro, gli ungheresi fecero lo stesso con i serbi in Vojvodina. Durante la guerra, le sconfitte vennero sempre accompagnate da tragiche migrazioni. Ad esempio, cinque milioni di tedeschi fuggirono davanti all'Armata Rossa e molti morirono a causa dei linciaggi lungo le strade. Ecco uno degli episodi “eroici” dei "liberatori", di questi “cavalieri della libertà”, che cinicamente dopo la guerra assunsero il ruolo di procuratore, nonostante i loro impuniti crimini: “non si può ancora dimenticare lo spaventoso calvario delle popolazioni tedesche dell’est all’avanzata dell'’armata rossa (...) il soldato sovietico diventa lo strumento di una volontà fredda, deliberata di sterminio (...). Colonne di rifugiati vengono schiacciati sotto i cingolati dei carri armati o mitragliati sistematicamente dall'aviazione. La popolazione di intere città è massacrata con raffinata crudeltà. Donne nude crocifisse sulla porta del fienile. Bambini ce vengono decapitati o gli viene schiacciata la testa con il calcio dei fucili, o vengono gettati vivi nelle vasche dei maiali (...). La popolazione tedesca di Praga viene massacrata con raro sadismo. Dopo essere state violentate, alle donne vengono tagliati i tendini di Achille condannandole a morire in terra nel loro stesso sangue dopo una atroce agonia. Bambini vengono mitragliati all’uscita delle scuole, buttati giù dai piani superiori degli edifici o annegati nelle fontane; in totale, più di 30.000 vittime (...) la violenza non risparmia i giovani ausiliari delle trasmissioni della Luftwaffe gettati vivi nei pagliai in fiamme. Per settimane la Vltava (Moldava) trasporta migliaia di corpi; intere famiglie sono inchiodate su delle zattere"[13].
E difficile dire quante donne furono violentate da soldati tedeschi durante la guerra. Quello che è certo è che un'altra prova attendeva le forze degli Alleati che avanzavano, occupando il territorio “liberato”: un milione di donne stuprate in Germania da parte delle truppe alleate. Solo a Berlino circa 100.000 casi. Le stime per Budapest sono dai 50.000 a 1000.00 stupri.
Quello che vogliamo sottolineare è che lungi dall'essere intervenuti per la “difesa della libertà”, gli Alleati e le grandi democrazie entrarono in guerra per difendere interessi puramente imperialistici. Se ne infischiavano completamente del destino delle popolazioni e dei profughi, fin tanto che non ne avevano il carico o non potevano servirsene per sfruttare il loro lavoro. Non fecero mai menzione della sorte degli Ebrei nella loro propaganda durante la guerra, ma negarono loro l’assistenza e, anzi, li abbandonarono nelle mani dei nazisti. Il motivo dell’entrata in guerra degli Alleati quindi fu ben diverso da quello di un desiderio di “liberazione”. Per la Francia e la Gran Bretagna si trattò in realtà di difendere “l'equilibrio europeo”. Per gli Stati Uniti di bloccare l’espansione e la minaccia dell'URSS. Per quest'ultima lo scopo era estendere la sua influenza nell'Europa occidentale. In breve, ragioni puramente strategiche, imperialiste e militari. Nulla di più classico! Non agirono per “liberare la Germania” dalla “peste nera”. Questa falsità è solo una montatura diabolica orchestrata quando furono liberati i campi. Tutto era stato già predisposto dallo stato-maggiore alleato e i suoi politici, preoccupati di nascondere i propri crimini (a meno di non essere tanto ingenui da pensare che militari e politici democratici non fanno mai propaganda!). Il fatto che la “liberazione” ha potuto porre fine alle pratiche di tortura del nemico, è soprattutto una conseguenza indiretta del raggiungimento di un obiettivo puramente militare, non è frutto di ragioni “umanitarie”.
La prova più eloquente è che dopo la guerra le grandi potenze democratiche hanno continuato a difendere i propri interessi imperialisti generando nuove vittime, massacri coloniali, nuove fratture che hanno prodotto ancora rifugiati e indigenti.
WH (18 luglio 2015)
Nei prossimi articoli affronteremo la stessa questione a partire dalla Guerra fredda sino alla caduta del muro di Berlino per arrivare ad oggi.
[1] Vedi: "Immigrazione e movimento operaio", ICConline 2015.
[2] Precisiamo che la stessa Russia stalinista era in realtà un paese capitalista, un'espressione caricaturale della tendenza al capitalismo di Stato nella decadenza di questo sistema.
[3] Isabelle Ohayon, « La déportation des peuples vers l’Asie centrale » Le XXe siècle des guerres, Editions de l’Atelier, 2004
[4] Marie Jego, Le Monde, 3 mars 2003
[5] P. J Deschodt, F. Huguenin, La République xénophobe, JC Lattès
[6] Secondo un veterano di Guadalcanal “il Giapponese non può essere considerato come un intellettuale (...), è piuttosto un animale” e un generale dei Marines ha anche affermato: “uccidere un Giapponese, è come uccidere un serpente”. Vedi Phil Masson, “Une guerre totale”, Edt. Pluriel.
[7] Ph. Masson, op cit.
[8] Illustrated Domenica Herald, 8 febbraio 1920, citato da Wikipedia
[9] Ph Masson, op. cit.
[10] Leggi la brochure “Fascisme & démocratie deux expressions de la dictature du capital » alla pagina https://fr.internationalism.org/french/brochures/introduction_fascisme_et_democratie
[11] P. J Deschodt, F. Huguenin, op.cit
[12] Ph. Masson, op. cit.
[13] Cfr Ph. Masson, op. cit.