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Pubblichiamo qui di seguito la presentazione fatta alle nostre riunioni pubbliche di dicembre su questo tema. La presentazione è basata sull’articolo, dallo stesso titolo, pubblicato sul nostro sito (https://it.internationalism.org/node/1120) che argomenta più estesamente gli elementi di analisi qui presentati. La preoccupazione di questo articolo e della presentazione che segue è fare un bilancio dei movimenti degli Indignati che si sono sviluppati in Spagna, in Grecia ed in Israele per comprendere cosa hanno rappresentato questi movimenti e quali lezioni e prospettive se ne possono trarre per le lotte future[1].
La nostra presentazione
Perché è importante fare questo bilancio?
Perché questi movimenti esprimono un fenomeno nuovo di risposta della classe operaia:
- per l’ampiezza internazionale di questi movimenti che, partiti dall’Egitto, dalla Spagna, dalla Grecia, da Israele, hanno avuto un’eco importante nel resto del mondo: dagli Stati Uniti all’Italia, dalla Germania al Messico, dal Cile all’Inghilterra, ecc.;
- per la partecipazione di massa in questi movimenti: migliaia e migliaia di proletari, occupati, disoccupati, precari e soprattutto giovani, insieme a migliaia di elementi provenienti da strati sociali in via di proletarizzazione;
- per le modalità della lotta: occupazione di una piazza per farne un centro di aggregazione e dibattito e assemblee generali;
- per la profondità della crisi economica che costringerà ancora la borghesia a colpire ulteriormente e su tutti i piani i proletari, ma anche strati sempre più ampi di popolazione, e questo non potrà che far crescere la tendenza alla reazione, non solo sui posti di lavoro, ma anche con movimenti come quelli degli Indignati.
Capire quindi di cosa sono espressione questi movimenti, quali ne sono i punti di forza e quali i punti di debolezza è essenziale per capire quali sono le prospettive per la lotta di classe.
Come possiamo fare questo bilancio?
I commenti che spesso sentiamo sono del tipo: “Tutto sommato cosa hanno ottenuto questi movimenti? Niente!”, “E’ vero, migliaia di persone sono scese in piazza, ma per cosa? Per difendere una Vera Democrazia!”, “E’ vero, si scende in piazza, ma nei fatti dietro forze politiche e sindacati camuffati”. Effettivamente questo è quello che appare se si fotografano questi movimenti, se si guardano con un’ottica immediatista ed empirica. Ma i movimenti sociali non possono essere valutati con questo metodo che è tipico di questa società. Si può comprendere a fondo un movimento sociale solo ponendolo in un quadro storico e mondiale, prendendo in esame la dinamica storica che lo ha fatto maturare e soprattutto vedendo non quello che è in un dato momento ma quello che può diventare, o meglio il terreno che può costruire, sulla base delle tendenze, delle forze e delle prospettive che esso contiene, quindi del futuro che può annunciare.
Per questo motivo vogliamo ricordare brevemente gli elementi essenziali del contesto storico e della dinamica in cui, secondo noi, vanno valutati questi movimenti.
Il primo elemento di contesto storico che dobbiamo ricordare è quello della decadenza del capitalismo[2], cioè il fatto che il capitalismo ha raggiunto il suo limite come sistema di produzione.
Il raggiungimento di questo limite pone all’ordine del giorno la necessità del superamento del sistema capitalista, cioè della rivoluzione comunista. Perché essa possa compiersi è necessario che il soggetto capace di farla, il proletariato, prenda coscienza della sua necessità e della propria capacità di costruire una società diversa. Dall’inizio della decadenza del capitalismo il proletariato si è trovato più volte a cercare di dare una svolta alla storia.
La prima è stata la Prima Guerra Mondiale, a cui ha risposto con l’ondata rivoluzionaria dal ‘17 al ‘23, che fu alla fine sconfitta. La seconda fu la grande crisi del ‘29 e successivamente il secondo olocausto mondiale dove, a causa della profonda sconfitta degli anni venti e la controrivoluzione stalinista, il proletariato non riuscì ad andare al di là di sporadiche e limitate reazioni di lotta, anzi fu anche portato a credere che la democrazia e lo Stato assistenziale fossero una sua vittoria.
Il terzo momento si ha con il riapparire della crisi economica aperta alla fine degli anni 60 dove il proletariato riprende una dinamica di lotta sul proprio terreno di classe il cui punto più altro è stato lo sciopero di massa in Polonia nell’80, dinamica che viene interrotta dal crollo del blocco dei cosiddetti paesi socialisti dell’Est[3] e la conseguente campagna sulla fine del comunismo scatenata dalla borghesia.
Una campagna che crea disorientamento nella classe e un suo vero e proprio riflusso sia sul piano della coscienza che della combattività.
Da questo riflusso il proletariato inizia ad uscirne, lentamente e con grandi difficoltà solo all’inizio del nuovo millennio con lotte sporadiche e isolate. Dal 2003 le lotte aperte si intensificano a livello internazionale con momenti particolarmente importanti (CPE in Francia e Vigo in Spagna nel 2006, lotte di massa in Egitto ne 2007, rivolta dei giovani in Grecia a partire dal 2008, …).
Importanti per la tendenza ad estendere la lotta ed a ricercare o dare la solidarietà, ad utilizzare le assemblee generali come strumento per decidere e gestire la lotta con le proprie mani, una tendenza a porsi delle domande sul futuro, sulla prospettiva, soprattutto da parte della nuova generazione.
Il movimento degli Indignati in Spagna, Israele e Grecia e le loro ripercussioni in molti altri paesi sono senz’altro una reazione all’accelerazione brutale della crisi economica, ma soprattutto sono il frutto di questa dinamica di faticosa e tortuosa, ma decisa ripresa dello scontro di classe a livello mondiale.
Se questo è il quadro storico ed internazionale, come comprendere le debolezze ed i punti di forza di questi movimenti?
La prima cosa da tenere presente è che non esistono lotte o movimenti “puri”. In ogni lotta, in ogni movimento, al di là dell’azione specifica delle forze politiche borghesi e dei sindacati, c’è sempre una lotta che si opera tra il peso dell’ideologia e delle mistificazioni borghesi nella classe e lo sforzo da parte del proletariato di liberarsi di queste ed attestare i propri principi, le proprie posizioni politiche ed i propri metodi di lotta.
Questo si traduce nei movimenti degli Indignati in una lotta tra il peso delle illusioni e delle mistificazioni borghesi tendenti a configurare un’ala “riformista e democratica” e delle posizioni ancora minoritarie di natura più propriamente proletarie che cominciano a vedere che il capitalismo non offre alcun futuro e che bisogna costruire qualcosa di nuovo.
Ma in più, bisogna tener presenti altri due elementi che caratterizzano questa fase ed in particolare questi movimenti:
- il fatto che la partecipazione del proletariato come classe non è stata dominante. I proletari vi hanno partecipato come individui, come salariati, precari, disoccupati, senza quella forza, quella coesione e quella chiarezza che dà il fatto di agire collettivamente con la consapevolezza di far parte di un’unica classe. Questo deriva da quel lungo periodo di riflusso attraversato dal proletariato di cui parlavamo prima che ha significato la perdita della propria identità di classe e della fiducia in se stesso;
- la presenza di strati sociali non proletari, ma che si stanno proletarizzando, sui quali il peso dell’ideologia democratica e delle illusioni riformistiche è ben maggiore, anche se la realtà della crisi economica li spinge a reagire scendendo in piazza e ricercando delle risposte alternative alle spiegazioni sempre più inefficaci che la borghesia propina sul perché stanno finendo in miseria.
Questi due elementi però non ci possono portare a ritenere questi movimenti interclassisti e quindi a sottovalutarne l’importanza. La presenza del proletariato va riconosciuta invece negli elementi di maturazione di coscienza e nei metodi di lotta di questi movimenti.
Quali sono gli elementi di maturazione in questi movimenti?
- La contestazione della democrazia e la fine del presunto “Stato assistenziale”. Per mantenere il suo dominio ideologico sul proletariato, la borghesia si è basata per decenni su due pilastri: la democrazia, cioè l’idea della giustizia sociale, della possibilità, illusoria in questa società, di avere tutti la possibilità di partecipare alle decisioni riguardanti la società attraverso dei propri rappresentanti, e lo “Stato sociale”, cioè l’idea di uno Stato al di sopra delle parti, che garantisce i diritti basilari della sopravvivenza: una sicurezza di fronte alla disoccupazione, la pensione, la gratuità delle cure mediche e dell’educazione, degli alloggi sociali.
La crisi economica sta smantellando ogni forma di Stato sociale e sta mettendo a nudo la vera natura e l’ipocrisia dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue forze politiche.
Alla base delle lotte in Grecia, in Spagna o in Israele c’è stata proprio l’inquietudine creata dalla soppressione dei sussidi sociali. Ed è la stessa inquietudine che adesso avvertono i proletari in Italia con i tagli della nuova finanziaria.
Così come si è manifestata l’indignazione rispetto al fatto che i ricchi e il loro personale politico siano sempre più ricchi e corrotti, che la grande maggioranza della popolazione sia trattata come una merce al servizio dei privilegi scandalosi della minoranza sfruttatrice.
E’ evidente quindi che, nonostante tutte le illusioni, le confusioni e le debolezze che ci sono ancora, questi due pilastri della borghesia iniziano nei fatti ad essere messi in discussione e, col peggiorare della crisi e le conseguenze disastrose che provocherà, questa rimessa in discussione non potrà che approfondirsi.
- Questo inizio di rimessa in discussione porta ad un altro elemento importante di questi movimenti che è l’inizio della politicizzazione: al di là delle false risposte che vengono o verranno date, è importante che grandi masse stanno iniziando a implicarsi direttamente e attivamente nelle grandi questioni della società: la natura della crisi, il ruolo dello Stato e delle sue istituzioni, la prospettiva futura. Queste questioni sono state al centro delle assemblee. E questo, nonostante il peso dell’apoliticismo ancora fortemente presente in questi movimenti, è l’inizio di un passaggio importante dalla sola lotta di difesa economica alla lotta politica di emancipazione del proletariato;
- l’entrata in lotta di nuove generazioni del proletariato con la differenza importante rispetto ai movimenti del 1968 che, mentre la gioventù di allora tendeva a ripartire da zero e considerava i più anziani come “sconfitti e imborghesiti”, oggi c’è una lotta che unisce tutte le generazioni della classe operaia.
Inoltre, l’entrata in lotta di questa nuova generazione che si pone il problema della prospettiva è un incoraggiamento formidabile per le generazioni che hanno subito il riflusso e fanno fatica a superare le loro esitazioni;
- la cultura del dibattito: questa è un’arma fondamentale per la crescita del proletariato come classe capace di costruire una nuova società, perché la determinazione delle masse proletarie a sbarazzarsi del capitalismo viene dalla chiarezza e questa non nasce per decreto, né è il frutto di un indottrinamento da parte di una minoranza detentrice della “verità”, ma è il prodotto della combinazione dell’esperienza, della lotta e in particolare del dibattito reale e costruttivo all’interno della classe. E questa cultura del dibattito è stata molto presente in questi movimenti dove tutte le questioni politiche, sociali, economiche sono state discusse in piazza, nelle assemblee, nei dibattiti improvvisati;
- il modo di considerare la questione della violenza: la borghesia ha tentato più volte di trascinare il movimento degli Indignati (soprattutto in Spagna) nella trappola degli scontri violenti contro la polizia in un contesto di dispersione e di debolezza, per poter così screditare il movimento e rendere più facile il suo isolamento. In molte situazioni queste trappole sono state evitate, come in Spagna ad esempio, non per pacifismo, ma perché appunto si è capito che non era questo il terreno per sviluppare la partecipazione alla lotta. Inoltre è iniziata ad emergere una riflessione attiva sulla questione della violenza, una riflessione necessaria perché più la crisi lascerà pochi margini di manovra alla borghesia, più questa sarà costretta a togliersi la maschera democratica e usare direttamente la violenza contro le proteste dei proletari.
Quali sono le maggiori debolezze di questi movimenti?
Come abbiamo detto prima, in questi movimenti c’è una forte presenza di un’ala democratica che spinge alla realizzazione di una “vera democrazia” e naturalmente questa presenza viene largamente sfruttata dagli apparati della borghesia per fare in modo che l’insieme del movimento si identifichi con essa.
Bisogna senz’altro combattere tutte le mistificazioni di cui quest’ala si fa portatrice, ma bisogna anche chiedersi: “Perché, nonostante l’evidenza dei fatti, l’illusione che possa esistere una “Vera democrazia” è ancora tanto forte in questi movimenti?”
A parte le considerazioni che abbiamo fatto prima, sul peso dell’ideologia borghese sulla classe e soprattutto sugli strati non proletari presenti nel movimento, c’è da fare un’ulteriore considerazione.
Oggi gli avvenimenti mettono in evidenza il fallimento del capitalismo, la necessità di distruggerlo e di costruire una nuova società. Questa è la condizione oggettiva la cui percezione si fa strada tra i proletari, ma,
- per un proletariato che dubita delle proprie capacità e che non ha recuperato la propria identità,
- per una nuova generazione di proletari che non ha ancora una propria esperienza politica ed ha difficoltà a recuperare quella delle generazioni passate, ma che soprattutto è nata quando imperava la propaganda borghese sulla scomparsa della classe operaia e della lotta di classe,
questo compito appare immane e sgomenta, e nell’immediato, quello che predomina è la tendenza ad aggrapparsi a qualcosa di più “vicino”, di più “fattibile”, cioè delle misure di “riforme” e di “democratizzazione”, anche se con tanti dubbi.
Un’altra debolezza dei movimenti degli Indignati è l’apoliticismo. Questo è frutto della delusione e del profondo scetticismo provocato dalla controrivoluzione stalinista e socialdemocratica, che porta a pensare che ogni opzione politica, comprese quelle che si richiamano al proletariato, porti necessariamente al tradimento e all’oppressione. Il pericolo maggiore dell’apoliticismo sta nel rendere possibile alle diverse forze della borghesia di camuffarsi, nascondere la loro natura ed agire nel movimento, nelle assemblee per prenderne il controllo.
Il pericolo del nazionalismo. Anche questo ha le sue radici nella perdita dell’identità di classe e della fiducia in sé, cosa che favorisce la tendenza, in un mondo ostile e pieno di incertezze, a rifugiarsi nella “comunità nazionale”. Ed anche questo sentimento viene sfruttato dalla borghesia per:
- da una parte nascondere la natura della crisi economica (come in Grecia, dove si getta la colpa dell’austerità sulla prepotenza della Germania, o come in Italia dove si stanno facendo discorsi dello stesso tipo);
- dall’altra, utilizzare i tagli nella sanità, nella scuola, ecc. per rinchiudere le proteste sul terreno nazionalistico della rivendicazione per una “buona formazione scolastica” (perché questa ci rende competitivi sul mercato mondiale) e di una “sanità al servizio di tutti i cittadini”.
Qual è la prospettiva?
Il divario tra la velocità del peggioramento della crisi e la lentezza e la debolezza del livello di politicizzazione con i quali il proletariato sta reagendo può sembrare inquietante. Ma se vediamo da cosa veniamo e cosa esprimono realmente questi movimenti, così come le lotte sui posti di lavoro che scoppiano con sempre maggior frequenza e dappertutto, riusciamo a vederne le potenzialità enormi per lo sviluppo della lotta di classe.
Uno sviluppo che certamente non è immediato, né lineare, né semplice perché il nodo centrale sta nel fatto che il proletariato si riconosca come classe e riacquisti fiducia nella propria forza, il che richiede lo sviluppo di lotte di massa su un terreno direttamente proletario.
Difficile dire come raggiungeremo questa prospettiva, ma gli elementi che abbiamo messo in evidenza dimostrano, secondo noi, che i movimenti degli Indignati hanno fatto un primo passo in questa direzione.
Anche perché questi movimenti hanno gettato il seme per la crescita di due fattori che sono indispensabili per arrivare a distruggere il capitalismo e creare una nuova società:
- la coscienza internazionalista: il movimento degli Indignati in Spagna diceva che la sua fonte d’ispirazione era stata piazza Tahrir in Egitto ed ha cercato un’estensione internazionale della lotta, anche se in modo molto confuso. Da parte loro, i movimenti in Israele ed in Grecia hanno dichiarato esplicitamente che seguivano l’esempio degli Indignati di Spagna. In tanti altri paesi questi tre movimenti sono stati presi come punti di riferimento;
- l’emergere di avanguardie proletarie che potranno costituire gli elementi di cristallizzazione di un processo di ricerca dell’autorganizzazione e della lotta intransigente, a partire da posizioni di classe per la distruzione del capitalismo, il che costituisce un’arma essenziale per le battaglie future.
[1] Su questi movimenti, le lotte proletarie più recenti e quelle passate a cui si fa riferimento nella presentazione, vedi i numerosi articoli sul nostro sito it.internationalism.org.
[2] Per approfondire il concetto di decadenza del capitalismo vedi, tra gli altri, l’articolo dell’ultima Rivista Internazionale, 146 “Per i rivoluzionari la Grande depressione conferma l’obsolescenza del capitalismo” disponibile al momento in inglese, https://en.internationalism.org/ir/146/great-depression, in spagnolo e in francese https://fr.internationalism.org/rint146/pour_les_revolutionnaires_la_grande_depression_confirme_l_obsolescence_du_capitalisme.html
[3] “Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell’est”, https://it.internationalism.org/node/578.