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Se diamo un titolo così impegnativo a questo articolo è perché la manifestazione del 15 ottobre scorso a Roma degli indignati italiani, e soprattutto la discussione che ne è seguita nei vari canali ufficiali e non, ha sollevato una serie di questioni della massima importanza per la gente che soffre e che vuole lottare contro questa sofferenza, questioni che richiedono un’attenta riflessione.
Ma cominciamo a ricordare il contesto in cui questa manifestazione è nata. Il contesto, lo vediamo tutti, è quello di una situazione economica che ormai non tiene più da nessun lato. Il “nostro” governo, dopo aver addirittura negato fino a pochi mesi fa che ci fosse una crisi, adesso arriva finanche a parlare di crisi sistemica, insomma a dire la verità pur di scrollarsi di dosso ogni responsabilità di quello che sta succedendo. E le conseguenze sono mazzate e ancora mazzate e mazzate ancora. Così, a parte i tagli, i blocchi dello stipendio, i licenziamenti, la mancanza di futuro, quello che fa impressione in Italia è che nella cabina di regia non ci sia nessuno o, se si vuole, che alla guida della macchina Stato sia rimasto un robot impazzito. Tutto questo ha creato e sta creando una profonda insoddisfazione e una grande collera non solo nel proletariato, ma anche in molti altri strati sociali intermedi che vengono sempre più spinti verso il basso nella scala sociale, verso il proletariato stesso.
Questa è la base emotiva, sociale e politica della manifestazione del 15 ottobre e la prima cosa che dobbiamo riconoscere, contrariamente a quanto hanno fatto i vari commentatori borghesi delle varie TV di Stato o non che siano, è la grande partecipazione di massa che ha registrato questa giornata di lotta, la grandissima voglia di partecipare e di protestare che si è levata da ogni parte d’Italia. Purtroppo l’epilogo violento della manifestazione del 15 ottobre non ha permesso di valutare con esattezza l’ordine di grandezza del numero di manifestanti. Si parla di 200.000, 300.000 partecipanti, ma anche di più. In ogni caso il numero è già la testimonianza di una volontà di lotta non indifferente. Ma questa grande spinta non viene soltanto da una questione di pancia, dalle difficoltà del momento, ma anche dall’atmosfera nuova che si respira a livello internazionale. Il riemergere della lotta di classe nei vari angoli del mondo e, più recentemente, le grandi lotte che hanno attraversato i paesi del nord Africa prima e poi la Spagna e ancora la Grecia e poi Israele, ecc. ecc., stanno dando coraggio agli sfruttati del mondo intero all’idea che lottare si può, che un altro mondo è possibile.
D’altra parte il 15 ottobre è stata una Giornata Mondiale di mobilitazione per “un cambio globale” in cui erano previste manifestazioni in 900 città di 82 diversi paesi. I risultati sono stati più che positivi:
Spagna: Madrid, 200.000 persone, Barcellona, 300.000, Valencia 70.000, Siviglia e Saragozza 45.000, Granada 20.000, Bilbao e Terragona 12.000, Vigo, Alicante, Valladolid, Palma de Maiorca 10.000 ecc. Nelle Asturie un’enorme presenza, 15.000, nella zona mineraria di Mieres.
Messico: Città del Messico, 5000 persone. Altre manifestazioni di protesta a Guadalajara, Tijuana, Monterrey, Queretaro e Puebla.
Argentina: Buenos Aires, 1.000 manifestanti che si sono uniti agli acampados della provincia di Jujuy.
Cile: 20.000 a Santiago, con la partecipazione massiccia di giovani. Valparaiso, 3.000.
Ecuador: 100 participantes a Quito
Irlanda: 300 manifestanti che si sono concentrati davanti alla Banca Centrale.
USA: Nueva York 4.000 manifestanti; Miami: accampamento di indignati nei giardini del Centro del Governo; altre manifestazioni a New Orleans e a Washington.
Australia: a Sydney dopo la manifestazione (circa 5000 partecipanti), 300 partecipanti decidono di prendere il piazzale Martin Place di fronte alla Banca centrale australiana.
Gran Bretagna: a Londra 5.000 manifestanti, accampati di fronte a Saint Paul.
Marocco: a Casablanca circa 2.000, ma sono sciolti dalla polizia.
Israele: 10.000 manifestanti a Tel Aviv; altre manifestazioni a Gerusalemme, Haifa e Kiryat Shamona.
Portogallo: 20.000 persone a Lisbona, con slogan del tipo “Sono precario ma il mondo cambierà”, “Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo, la nostra lotta è internazionale”.
Grecia: piazza Sintagma completamente piena.
Polonia: 500 manifestanti a Varsavia.
Finlandia: 1000 manifestantes ad Helsinki.
Germania: 10.000 manifestanti a Berlino, 400 a Colonia, 5.000 a Francoforte
Svizzera: 500 a Zurigo, 300 a Ginevra.
Belgio: a Bruxelles varie centinaia di indignati celebrano un’assemblea trilingue.
L’azione di sabotaggio della borghesia
Ma è stato proprio il timore di questa collera crescente all’interno del proletariato che ha suggerito alla borghesia di provvedere in anticipo a bagnare le cartucce al proprio nemico di classe. Così, da una parte, c’è stata la discesa in campo di tutte le forze della sinistra borghese, dal PD ai vendoliani di SEL, da CGIL e FIOM fino ai vari sindacati di base e alle varie associazioni tipo ARCI e quant’altro è presente nella galassia della sinistra borghese. Questi vari presunti rappresentanti della classe operaia e degli sfruttati, in realtà icone vuote di ogni contenuto di classe e rappresentanti solo degli interessi delle varie parrocchie di interessi e poteri vari, si sono raccolti nel “Coordinamento15 ottobre” organizzatore della manifestazione per cercare di cavalcare la tigre, darle una rappresentanza politica in modo da contenerne e controllarne le mosse. Su un altro e diverso fronte ha lavorato lo Stato per creare, già alla vigilia della manifestazione, un’atmosfera di tensione. L’episodio di Bologna di tre giorni prima era servito perfettamente ad aizzare gli spiriti più bollenti del movimento e a portarli a Roma con un atteggiamento di sfida.
Così, una volta scesi in piazza, i vari settori di proletari, disoccupati, cassaintegrati, studenti, precari, ecc. ecc. si sono sentiti stretti tra due fuochi: da una parte dalla sinistra borghese che cercava di realizzare l’ennesima sterile sfilata, dall’altra dalla tentazione di lasciare almeno un segno tangibile della manifestazione, di fare almeno un poco male a questo sistema di padroni che vuole scaricare tutto il peso della crisi solo su chi lavora e sugli strati più deboli. Questa situazione è ben descritta dal Network Antagonista Torinese in questo interessante contributo:
“Il divieto, da parte del Ministero degli Interni e della questura della capitale, di portare l’acampada sotto i palazzi della casta ha rappresentato un gesto di chiusura e arroganza che ha determinato l’anomalia che ha accompagnato l’avvicinamento e lo sviluppo della giornata del 15 ottobre. Con una scelta insensata, il comitato organizzatore ha deciso di accettare questa imposizione, rinunciando a circondare la casta e preferendo convogliare la manifestazione altrove, allestendo un programma costituito da una serie di comizi. È inutile – per tutti – nascondere che questa scelta è stata sbagliata, apparendo incomprensibile, oltre che autoreferenziale, alla stragrande maggioranza dei partecipanti alla manifestazione. Il cartello degli organizzatori non aveva la forza politica e la rappresentatività necessarie per imporre all’indignazione italiana una deviazione dal sentimento e dalle pratiche della globalrevolution. Lo si è visto nella partecipazione residuale all’assemblea di Via Nazionale indetta dagli organizzatori il 29, così come nella presenza di massa, il 30, agli spezzoni metropolitani, precari e antagonisti che li hanno preceduti in corteo. Non riteniamo che sulle azioni prodotte in Via Cavour da gruppi di manifestanti, di diverso orientamento e dinamiche di affinità, debba concentrarsi la nostra analisi. È tuttavia chiaro che incendiare automobili lungo il percorso di una manifestazione di massa, ben sapendo che la stragrande maggioranza dei presenti è del tutto contraria a un simile atto, significa esprimere un disprezzo profondo per il corteo, attraverso un gesto che non conduce a nessuna prospettiva di allargamento del consenso e di produzione di conflitto sociale. Episodi simili hanno mostrato che l’autoreferenzialità è ben distribuita tra i soggetti politici tradizionali del movimento italiano, siano essi orientati a un avanguardismo senza seguaci o alla deriva istituzionale, e non è in grado, ad ora, di interpretare la ricchezza e le potenzialità dei soggetti che si stanno affacciando sulla scena del Mediterraneo e più in generale del pianeta”.[1]
Come si vede di fatto non c’è stata alcuna possibilità, alcuno spazio, per trovare una terza via, per tentare un processo di saldatura tra le diverse componenti presenti in piazza perché l’ulteriore evoluzione delle cose l’hanno del tutto impedito.
Gli scontri di piazza S. Giovanni
Noi non sappiamo se ci siano stati dei provocatori all’inizio di tutti gli atti di violenza, è però evidente che in tutta la prima parte del corteo gli atti di violenza prodotti da un numero esiguo di persone è stato lasciato andare avanti perché serviva a rafforzare questa atmosfera di tensione e a giustificare quello che poi ha fatto la polizia in piazza S. Giovanni, come attentamente documentato in questo post trovato su internet:
“…la nostra classe politica aveva già deciso di 'mandare tutto a puttane'. (…) C’era tensione fin dal principio. Come non ne avevo mai sentita. Giunti a Via Labicana, sembrava che la situazione potesse essere pericolosa. Così abbiamo imboccato una strada laterale per andare ad attendere che il corteo confluisse a Piazza San Giovanni. Purtroppo non è mai arrivato. Se per la via ci sono stati alcuni "black bloc" che hanno bruciato 2 vetture, la polizia lì non è intervenuta.
I fatti ai quali abbiamo assistito sono i seguenti: ¼ del corteo era arrivato in piazza. La polizia ha caricato violentemente i manifestanti (non i "black bloc"). Così mentre il resto del corteo arrivava, si è dovuto fermare senza sapere se andare avanti o indietro. Il camion dei COBAS ha chiamato al microfono la polizia, chiedendo istruzioni. Di fatto il ¼ di persone già in piazza (100 o 200.000 persone) era sotto choc, e mentre il resto del corteo arrivava, loro defluivano con espressione sconvolta e scioccata in senso opposto, scappando. Il camion è rimasto fermo a lungo, insistendo che tutti si radunassero dietro a lui perché era l’unico posto sicuro.
A quel punto la polizia caricava anche in fondo al corteo. I sindacati hanno persino chiesto al microfono che venissero fermati gli agitatori. E invece la polizia ha continuato con lacrimogeni, getti d’acqua e cariche dei furgoni a prendersela con la folla. Alla fine tutti i camion delle organizzazioni sono scappati via. La piazza era gremita di gente senza leader. Molti non volevano andarsene, anche se ormai iniziava a sembrare improbabile un qualunque comizio, o un’assemblea.
(…) I manifestanti si sono poi divisi in tre parti. I più giovani erano arrabbiati, e sono entrati massicciamente in conflitto con la polizia. (…) L’altra parte della popolazione della piazza affollava la parte antistante la basilica, un’area pedonale fatta a scaloni dove non rischiava di essere investita dai blindati che andavano via via caricando la folla a tutta birra e con i getti d’acqua accesi.
Arrampicati sulle inferriate della chiesa vedevamo queste scene di violenza ed eravamo … allibiti. Ogni tanto arrivava fino a noi una gragnola di lacrimogeni, e allora tutti si scambiavano spray di acqua, limoni, creme speciali. C’era confusione e panico. Ma per fortuna il vento li disperdeva nuovamente dopo poco. La donna che era con me, una professoressa americana 60enne, mi chiedeva se volevo andarmene. Ma io non volevo abbandonare così i miei diritti. Sarei rimasta a vedere fin dove la repressione sarebbe arrivata.
La gente era stomacata e sconvolta. Così, quando i giovani si sono rivolti con forza contro le camionette che li investivano, lanciando sampietrini a pioggia fino a far retrocedere i blindati disordinatamente (si sono persino tamponati a marcia indietro), è partito un applauso. La spirale della violenza, purtroppo, era innescata. Ed eravamo inermi ad osservare. Giungevano rinforzi. Fino a veder arrivare blindati militari. Continuavano a caricare instancabili.
Quando hanno finito di svuotare gran parte della piazza, là dove non potevano arrivare con i blindati sono scesi a piedi, in formazioni di 50 armati di manganelli e caschi, e si sono gettati sulla folla dei manifestanti più pacifici. Sembrava che l’ordine fosse stato di non permettere alla piazza di riempirsi e di disperdere fino all’ultimo gruppo di 10 persone.
Ciò che la polizia combatteva, era il diritto stesso di assembramento. È più o meno a questo punto, dopo 3 ore di beirut, che un blindato è stato colpito da una palla di carta infuocata ed ha preso fuoco. Ho temuto per un attimo che la polizia vi fosse rimasta intrappolata. Sarebbe stato un rogo. Per fortuna così non è stato.”[2]
Anche se molto lunga, riteniamo che la testimonianza di questa che sembra essere una prof della scuola sia molto eloquente. Altre testimonianze sono allegate alla fine dell’articolo. Insomma, di fronte all’impossibilità ormai acclarata per la borghesia di fornire una qualsivoglia risposta sul piano sociale alle esigenze delle masse di lavoratori, precari, giovani, disoccupati che protestano ormai da anni contro tagli e austerità e per la mancanza più assoluta di una prospettiva per tutti, una delle linee strategiche seguite sembra essere quella di spingere sempre più i dimostranti sul piano dello scontro. La borghesia, fedele al famoso messaggio di Cossiga[3] che, in una intervista del 2008, aveva suggerito la necessità di infiltrare i movimenti e comunque di lasciare sviluppare gli scontri per poi avere piena legittimazione nel successivo intervento delle forze dell’ordine, evitando in altri termini le “noie” sorte in seguito agli eventi di Genova 2001, è riuscita a far sì che una manifestazione di centinaia di migliaia di persone come quella del 15 ottobre sia finita per produrre solo un confronto fisico, militare con le forze dell’ordine.
Cos’è che determina un rapporto di forza tra sfruttati e sfruttatori?
Poiché, anche volendo immaginare la presenza di alcuni provocatori che possono avere avuto la funzione di “fomentare gli scontri”, la dinamica della risposta dura ha preso una componente importante della manifestazione, è importante che ci si ponga un quesito: cos’è che determina un rapporto di forza tra sfruttati e sfruttatori? E’ forse lo scontro fisico? E’ forse stare a seguire le direttive di sindacati e partiti e partitini di sinistra borghese? O che altro? Lasciando perdere l’ipotesi di dare ancora credito ai cosiddetti rappresentanti politici e sindacali, delle varie parrocchie che già conosciamo e su cui rimandiamo a nostri articoli precedenti, cerchiamo invece di capire in che misura la scelta dello scontro di piazza può essere pagante, cioè, come abbiamo detto, se determina un avanzamento del rapporto di forza tra sfruttati e sfruttatori. Ma prima di sviluppare dobbiamo anche ben capirci su che significa “rapporto di forza” che, a sua volta, rimanda evidentemente all’obiettivo finale che si vuole raggiungere. Quello che vediamo in giro è che la gente, qualunque comprensione abbia dei motivi per cui le cose vanno così male sul piano economico, di sicuro fa sempre più fatica a sostenere i sacrifici che le vengono imposti. Quello che dunque si produce tra la gente, tra gli sfruttati, è una sete di comprendere le cause di questa crisi, ma anche di cosa fare, in che direzione andare, come muoversi. Non è un caso che in tutti i centri di lotta del mondo, assieme alle manifestazioni anche dure che ci sono state, si sono avuti sempre momenti assembleari di discussione, di confronto, di elaborazione di una strategia di lotta comune. Non è un caso che gli ultimi avvenimenti di lotte ci stanno insegnando il nome delle varie piazze in cui si raccolgono e discutono i manifestanti di tutto il mondo: da piazza Sakarya ad Ankara a piazza Tahir, al Cairo, a Puerta del Sol a Madrid, a piazza Sintagma ad Atene, alle tende di Boulevard Rotschild a Tel Aviv, allo Zuccotti Park di New York, ecc. ecc. Ed una prima cosa che si sta capendo proprio grazie alla contemporaneità di questo movimento è che non si tratta di un problema di questo o quel paese, ma che la crisi è di tutto il mondo e che quindi non ci sono specificità nazionali, ma anzi che gli sfruttati di tutto il mondo hanno esattamente gli stessi interessi. E’ questa dunque una fase preziosa e gravida di possibili sviluppi positivi, una fase in cui i diversi settori del proletariato, le varie componenti del mondo degli sfruttati, possono riconoscersi progressivamente come parti di una stessa classe, possono misurare la propria forza attraverso la loro capacità di unirsi e di produrre un’azione sinergica, possono finalmente comprendere che la loro prima forza è l’unità e la loro capacità di marciare assieme in maniera cosciente.
Tornando dunque alla questione del rapporto di forza, crediamo che, in questa fase storica, valutare l’esito di una manifestazione, di una lotta, significhi valutare se si è riusciti ad aumentare la solidarietà, l’unità, la coscienza della classe. Nel caso della manifestazione del 15 ottobre, fermo restando che la responsabilità degli scontri è tutta delle forze dell’ordine e dunque dello Stato - che li hanno provocati ed anche preparati dal primo momento - occorre anche dire che c’erano migliaia di persone che hanno raccolto con piacere l’invito, dando luogo in piazza San Giovanni ad una violenza prematura e dunque alla fine dannosa, perché spaventa i più, li intimorisce, e permette peraltro allo Stato di avere mano libera a livello di propaganda e di repressione.
Questo non vuol dire propugnare una politica pacifista, della non violenza. Sappiamo bene che i rapporti tra borghesia e proletariato non potranno essere risolti che attraverso un processo rivoluzionario che dovrà necessariamente fare uso della violenza. La borghesia, nonostante la bancarotta del capitalismo, non lascerà mai spontaneamente il proprio dominio sulla società. Ma è altrettanto vero che la violenza non ha in sé un requisito di classe, non c’è niente di rivoluzionario nella violenza. Questa è solo uno strumento cui il proletariato deve ricorrere per portare avanti la propria rivoluzione. Per cui, anche nelle lotte attuali, la violenza non è da escludere per principio, ma occorre farvi ricorso solo quando le condizioni lo richiedano (difesa di un’assemblea, di una manifestazione da provocazioni esterne) o anche per attaccare (occupazione di sedi simbolo del potere, ecc.), a condizione però che questo sia il sentimento presente nell’insieme dei manifestanti e non sia usato “per spingere gli altri a muoversi, a svegliarsi” ed ancora che questo corrisponda alle necessità del movimento in quella fase di crescita. Ricordiamo che perfino nei mesi della rivoluzione del 1917 in Russia, Lenin e il partito bolscevico intervennero nei confronti della classe operaia russa per fermarne lo slancio insurrezionale in cui si era tuffata nei primi giorni di luglio, proprio perché la classe e la situazione politica non erano mature per quel passaggio decisivo.[4]
Per una critica della violenza prematura
Ma occorre andare avanti nella critica politica della violenza prematura perché, in tutta evidenza, non si tratta solo di una questione di tattica, ma c’è dietro anche una diversa visione politica con cui confrontarsi. Parlando con alcuni manifestanti che hanno perlomeno simpatizzato per gli atti di violenza, si avverte un senso di distacco e finanche di fastidio nei confronti dei “piccolo borghesi” che seguivano gli striscioni dei sindacati o delle varie sigle di sinistra borghese. In realtà questi erano andati a fare la “solita passeggiata” che “nulla avrebbe cambiato”, per cui nulla di male se si strappa ad altri l’iniziativa radicalizzando la manifestazione, ingaggiando lo scontro con le forze dell’ordine e stroncando il corteo. Questo tipo di visione è, a nostro avviso, profondamente sbagliata per diversi motivi.
Anzitutto perché assumersi la responsabilità di bruciare la manifestazione trasformandola in scontro con la polizia significa prendersi la delega per tutto il movimento, decidere al posto di tutti gli altri. Anche se fatto a fin di bene, con le migliori intenzioni, questa scelta è fallimentare e non potrebbe che essere tale. La classe operaia nel suo cammino storico può contare solo sulla propria unità e la propria coscienza. Pensare che una minoranza possa decidere al posto dell’insieme significa negare che la classe operaia sia la classe rivoluzionaria, perché ridotta secondo questa concezione a mera massa di manovra. Ricordiamo che questo fatale errore fu commesso proprio dal partito bolscevico dopo la vittoria della rivoluzione in Russia. Ormai il potere era stato conquistato, al posto di comando c’era Lenin e lo stato maggiore del partito che appariva come il più lucido a livello internazionale. Cosa si pretendeva di più? Eppure, proprio l’aver espropriato l’insieme della classe della sua creatività, della capacità e della facoltà di decidere, di prendere le sue iniziative politiche, fossero anche critiche nei confronti del partito, come nel tragico caso di Kronstadt, costituirono le cause dello sgonfiamento del potere sovietico e della degenerazione della situazione.
In secondo luogo e soprattutto perché si basa su una visione immediatistica della situazione: esisterebbero i rivoluzionari, quelli che hanno capito tutto - o perlomeno l’essenziale - e che sarebbero pronti all’azione, e dall’altra il “ceto medio”, i “garantiti”, i “piccolo borghesi”, ecc. che, per la loro diversa collocazione, sarebbero destinati comunque a giocare un ruolo di freno e di inerzia in qualunque movimento. Viceversa, come dimostra la storia della nostra classe, la classe matura nel tempo attraverso le sue lotte, prende coraggio ed esperienza da queste, per cui settori che si trovano più indietro rispetto ad altri acquistano fiducia proprio nella lotta, dall’esempio dei loro fratelli di classe. Proprio questo immediatismo e questo atteggiamento di snobismo rivoluzionario impedisce, ad esempio, a questa area politica di riconoscere il grande valore delle lotte che si sono combattute per mesi in Israele e che hanno visto combattere assieme israeliani assieme ai palestinesi per gli stessi obiettivi.[5]
Al contrario, là dove si è sviluppato il dibattito e lo scambio di esperienze tra i vari manifestanti, come in Spagna, attraverso le varie assemblee di piazza, i risultati non si sono fatti attendere. Gli slogan e i cartelli che si sono visti in quel paese il 15 ottobre hanno mostrato ancora una volta la creatività e la maturità della coscienza. Ecco alcuni esempi:
- Mettere in discussione la democrazia e la mistificazione elettorale: al classico “la chiamano democrazia e non lo è” è stato aggiunto in molti luoghi “è una dittatura che non si vede” “Non siamo creduloni che votano ogni quattro anni”, “Bildelberg[6] vince sempre le elezioni prima che noi votiamo”.
- La necessità di una risposta di massa contro i tagli: “Tagli al welfare, questo è il terrorismo!”, “Né disoccupazione né tagli” “E’ necessario uno sciopero generale”, “La pace sociale sta finendo”.
- Messa in discussione dei sindacati: “Comisiones e UGT al servizio del potere”, “Sindacati no, assemblee si”.
- Aspetti Internazionalisti: “Questo movimento non ha frontiere”, “Popoli del mondo, unitevi”, “Da nord a sud, da est a ovest, la lotta continua costi quel che costi” e “Per un mondo in cui possano esserci tutti”
- Riflessioni sulla prospettiva: “Contro il Capitale Rivoluzione Sociale” o “Contro il Capitale rivolta sociale”, “Non siamo né di destra, né di sinistra, noi siamo quelli di sotto contro quelli di sopra”, “Tutto il potere alle assemblee”, “Prendi la strada, liberati”, “Questo è un incubo, sogna un altro mondo” (Murcia), “Pensiamo quindi disturbiamo”, “Siamo il lievito che fa crescere la pasta” (Valencia).
Ezechiele, 25 ottobre 2011
[1] Dal Comunicato del Network Antagonista Torinese (askatasuna, murazzi,cua, ksa) sulla manifestazione del 15 ottobre www.infoaut.org.
[2] 15 Ottobre. Gli italiani sono svegli, ma saturi di questa politica. Le sottolineature sono presenti nel testo originale.
[4] “Gli operai e i soldati di Pietrogrado si sollevano massicciamente e spontaneamente esigendo che tutto il potere passi ai consigli operai, ai Soviet. Il 4 luglio, una manifestazione armata di mezzo milione di partecipanti stringe d'assedio la direzione del soviet di Pietrogrado chiamandolo a prendere il potere ma, rispondendo all'appello dei bolscevichi, la sera si disperde pacificamente. Il 5 luglio, le truppe controrivoluzionarie riprendono la capitale della Russia, dando la caccia ai bolscevichi e reprimendo gli operai più combattivi. Tuttavia, evitando una lotta prematura per il potere, l'insieme del proletariato manterrà le sue forze rivoluzionarie intatte. E' questo che permetterà alla classe operaia di trarre le lezioni essenziali da questi avvenimenti, in particolare la comprensione del carattere controrivoluzionario della democrazia borghese e della nuova sinistra capitalista: i mensceviche e i socialrivoluzionari che hanno tradito la causa dei lavoratori e dei contadini poveri e sono passati nel campo nemico. In nessun altro momento della rivoluzione russa è stato così acuto il pericolo di una disfatta decisiva del proletariato e della liquidazione del partito bolscevico come durante queste 72 drammatiche ore.”. Da CCI, 1917: la rivoluzione russa. Le “giornate di luglio”: il ruolo indispensabile del partito.
[6] Il Gruppo Bilderberg (detto anche conferenza Bilderberg o club Bilderberg) è un incontro annuale per inviti, non ufficiale, di circa 130 partecipanti, la maggior parte dei quali sono personalità influenti in campo economico, politico e bancario, da https://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Bilderberg