Iraq, Medio Oriente, Torture: la barbarie delle grandi democrazie capitaliste

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Tutti i giorni ci sono scontri mortali in ogni città irakena. I massacri della popolazione civile si ripetono, come nel villaggio di Makredid dove una festa di matrimonio è stata bombardata facendo almeno 40 morti, per lo più donne e bambini. Le esecuzioni sommarie di ostaggi all’arma bianca da parte di gruppuscoli fanatici e armati sempre più numerosi diventano un’abitudine. Ma quello che c’è veramente di nuovo è l’apparizione, sugli schermi televisivi, della storia delle torture inflitte ai prigionieri irakeni nel carcere di Abu-Graib. E c’è da credere che le torture non riguardano solo questa prigione, e che non sono cominciate nel mese di maggio.

Di fronte a questo immenso “scandalo” che scuote tutto l’esercito americano ma anche l’insieme del governo degli Stati Uniti, la loro difesa è ridicola. Essa consiste nell’affermare che non si tratta che di casi isolati e prodotto di iniziative personali di qualche soldato perverso. Questa difesa immediata è ben presto saltata. Oggi è tutta la catena di comando americana che è sotto accusa, arrivando fino allo stesso Donald Rumsfeld, segretario di Stato per la Difesa.

L’evidente realtà della barbarie delle grandi democrazie capitaliste

Lo Stato americano è entrato per la seconda volta in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein in nome della lotta contro il terrorismo, gli Stati “canaglia” e in difesa della civilizzazione e della democrazia. Le torture inflitte ai prigionieri irakeni mettono chiaramente in luce la vera natura della democrazia. In materia di barbarie essa non ha niente da invidiare a qualsiasi altra forma di dittatura del capitale. Gli Stati Uniti non sono il primo Stato democratico ad utilizzare su larga scala la tortura. Senza dover tornare troppo indietro nel tempo, basta ricordare il ruolo giocato dalla democrazia francese in Ruanda nel 1994, con l’organizzazione cinica di genocidi e di torture che hanno portato al selvaggio massacro di un milione di persone. Ma più chiaramente ancora, durante la guerra in Indocina, poco dopo la fine della seconda Guerra Mondiale condotta in nome della lotta contro il mostro fascista, l’esercito francese non si è fatto scrupolo di fare largo uso della tortura. Tra le innumerevoli testimonianze, quella del giovane tenente colonnello Jules Roy colpisce per la sua drammatica somiglianza con quelle che ci giungono oggi dall’Iraq:

Su tutte le basi aeree, ai lati delle piste, c’erano delle baracche che venivano evitate e da cui, la notte, uscivano delle urla che facevano paura a sentirsi… Chiesi all’ufficiale che mi accompagnava di cosa si trattasse: ‘Niente, dei sospetti’. Chiesi che la si finisse. Andai alla pagoda. Entrai: c’erano file di prigionieri che passavano davanti a dei tavoli dove degli specialisti bruciavano loro i testicoli con l’elettricità” (Memorie barbare, ed. Albin Michel, 1989).

Da questo punto di vista, le torture inflitte sempre dall’esercito francese durante la guerra d’Algeria alla fine degli anni ’50 non hanno niente da invidiare a quelle praticate in Indovina. In Algeria la tortura è stata voluta dai capi dell’esercito francese, Massu, Bigeard, Graziani, che l’hanno resa un fenomeno di massa. In ogni luogo del territorio algerino c’era un ufficiale di riferimento con la funzione di torturatore, coadiuvato dalla sua squadra di parà “specializzati”. Contrariamente a quello che affermano tutti gli ideologi e gli altri difensori dell’ordine borghese, la democrazia, durante tutta la sua storia, come ogni altra forma di organizzazione del capitale, non ha mai cessato di utilizzare i mezzi più barbari per raggiungere i suoi fini. Le lacrime di coccodrillo versate dal governo francese sugli orrori perpetrati in Iraq appaiono qui chiaramente per quelle che sono: pura ipocrisia! E’ innegabile che la rivelazione delle torture compiute in Iraq implica un nuovo indebolimento della leadership americana. E’ evidente che le principali potenze rivali degli Stati Uniti avrebbero utilizzato questo indebolimento nel senso della difesa dei loro sordidi interessi nazionali. E’ a questa logica che obbedisce il rafforzamento senza precedenti della cooperazione strategica e militare tra la Francia e la Russia. La messa in atto di contatti regolari tra i loro ministri della difesa e i loro Capi di Stato maggiore, così come lo svolgimento di grosse manovre navali, sono l’espressione diretta di questa nuova politica imperialista. Ma più direttamente ancora: “La Francia ha fatto sapere la settimana scorsa, attraverso la voce del suo ministro degli Esteri, Barnier, che non avrebbe mandato soldati in Iraq, ‘né ora, né mai’” (Inserto internet di Le Monde datato 20/05/04). Finora i dirigenti francesi si erano mantenuti su tutt’altra posizione. Finora avevano affermato che per prospettare una partecipazione militare della Francia in Iraq, non poteva esserci altra strada che un ritorno dell’ONU alla testa delle operazioni. Questa soluzione è d’ora in avanti esclusa. L’imperialismo francese ha anche appena rifiutato l’invito di Colin Powell, capo della diplomazia americana, a inviare dei soldati in Iraq con l’incarico limitato di proteggere il personale dell’ONU. Quale che sia l’ampiezza dei massacri e delle torture inflitte alla popolazione irakena, le potenze rivali degli Stati Uniti non possono che gioire segretamente dell’indebolimento della leadership americana in Iraq. E, peggio ancora, esse spingeranno gli USA, a dispetto di ogni preoccupazione per la vita umana, in un logoramento sempre più profondo nel caos irakeno.

In Iraq, un caos e una barbarie senza limiti

E’ un fatto evidente, ormai visibile dovunque, che l’Iraq è un paese in pieno caos. La guerra è ormai permanente e copre tutto il paese. L’esercito americano e i suoi alleati della coalizione affondano sempre più nel pantano, manifestando una crescente perdita di controllo della situazione. Dalla caduta del regime di Saddam Hussein, del 9 aprile 2003, gli Stati Uniti precipitano sempre più, giorno dopo giorno, in una violenza che ormai riescono a controllare sempre di meno. Attentati, cattura di ostaggi e combattimenti di strada si moltiplicano. La rivolta sciita condotta dal leader Moqtadta Al Sadr continua ad estendersi malgrado gli appelli alla calma lanciati dall’ayatollah Al Sistani. L’attentato commesso il 17 maggio, che ha ucciso il presidente del governo provvisorio iracheno, è un nuovo importante rovescio per l’imperialismo americano. Esso esprime il rifiuto da parte delle diverse frazioni etniche irachene di recepire l’indirizzo politico americano, consistente nel mettere in piedi di un governo democratico iracheno agli ordini di Washington. In poco più di un anno di guerra, l’imperialismo americano si ritrova davanti un fronte del rifiuto, ieri ancora impensabile, composto dalle diverse frazioni etniche e religiose: Kurdi, Sciiti, Sunniti. Tutti oggi si oppongono alla presenza americana sul suolo iracheno. Per gli Stati Uniti non c’è più via d’uscita. G. W. Bush non può tuttavia che riaffermare che il trasferimento della sovranità sarà malgrado tutto assicurata il 30 giugno. Un presidente americano provvisorio, un primo ministro e altri ministri dovrebbero essere designati prossimamente, secondo l’amministrazione americana. L’inquietudine di fronte all’evoluzione della situazione in Iraq si manifesta attraverso la richiesta di dare più spazio agli Iracheni, in materia di sicurezza e di installazioni militari, da parte dei principali alleati di Washington. Silvio Berlusconi, recentemente in visita negli Stati Uniti, ha anche fatto sapere che aveva come progetto: “il trasferimento completo di sovranità ad un governo provvisorio iracheno per il 30 giugno, nel quadro di una nuova risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU”. Tutti questi tentativi di nominare un governo provvisorio in Iraq, mentre il paese resta militarmente occupato dagli americani, sono votati al fallimento. Questo governo non potrà avere alcuna legittimità agli occhi dell’insieme degli Iracheni, indipendentemente dalla loro etnia o religione. Questo governo apparirebbe necessariamente come una creazione americana e sarebbe senza dubbio combattuto in quanto tale. L’indebolimento accelerato della leadership americana si manifesta ugualmente attraverso un processo di sgretolamento della coalizione. Dopo la ritirata iniziata dalle truppe spagnole, paesi come l’Honduras, la Tailandia e, in Europa, la Polonia, la Danimarca e l’Olanda hanno espresso la loro crescente inquietudine e il loro eventuale progetto di ritirata pura e semplice della loro partecipazione alle forze della coalizione. J. P. Balkemende, capo di stato dei Paesi Bassi, l’11 maggio scorso, in seguito alla morte del primo soldato olandese in Iraq, ha dichiarato: “che la presenza futura e la legittimità dei 1300 soldati sul posto dipenderanno dal ruolo futuro delle Nazioni Unite in Iraq”. La situazione di caos è tale in questo paese che la borghesia americana, poco importa che si tratti di repubblicani o di democratici, è oggi nell’incapacità di tracciare una reale prospettiva per la politica americana sul terreno. In effetti, tanto la ritirata pura e semplice delle truppe, quanto il loro mantenimento sul posto, o anche un loro rafforzamento, non offre alcuna prospettiva di stabilizzazione della situazione.

La decomposizione della società capitalista, che si esprime con violenza in Medio Oriente, non può che accelerarsi nel periodo prossimo, con scontri militari e attentati suicidi sempre più irrazionali. C’è da temere in particolare, dopo l’eventuale nomina di fine giugno di un governo provvisorio filo americano in Iraq, una forte crescita della violenza che non risparmierà più nessun settore della popolazione irachena. Questo mondo capitalista in fallimento, che sprofonda così irrimediabilmente, mette in pericolo di morte non soltanto la popolazione irachena o del Medio Oriente, ma ben presto quella dell’intera umanità.

Tim (20 maggio)

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