La crisi segna il fallimento storico dei rapporti di produzione capitalista

Printer-friendly version

Da più di due anni e mezzo la borghesia annuncia la ripresa ed è poi obbligata ad ogni trimestre a rinviarne la scadenza. Da più di due anni e mezzo le stime economiche sono sistematicamente al di sotto delle previsioni costringendo la classe dominante a rivederle sempre al ribasso. Cominciata nel secondo semestre del 2000, la recessione attuale è tra le più lunghe dalla fine degli anni '60 e, se dei segni di ripresa si annunciano oltre l'atlantico, questi sono ancora lontani dall'Europa e dal Giappone. Inoltre bisogna ricordare che, se gli Stati Uniti risalgono la china, ciò è dovuto essenzialmente ad un interventismo statale tra i più vigorosi di questi ultimi quaranta anni e ad una fuga in avanti nell’indebitamento che fa temere lo scoppio di una nuova bolla speculativa, questa volta immobiliare. Per quanto riguarda l'interventismo statale che mira a sostenere l'attività economica, bisogna notare come il governo americano abbia lasciato correre senza freni il deficit di bilancio. Da attivo che era nel 2001, circa 130 miliardi di dollari, il saldo di bilancio è arrivato ad un deficit stimato a 300 miliardi nel 2003 (il 3,6% del PNL). Oggi l'ampiezza di questo deficit, come anche le sue previsioni di aumento tenuto conto del conflitto iracheno e della diminuzione delle riscossioni fiscali relative all'abbassamento delle tasse, inquietano sempre di più la classe politica e l'ambiente affaristico degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda l'indebitamento, l'abbassamento drastico dei tassi di interesse da parte della Riserva Federale ha avuto non solo per obiettivo quello di sostenere l'attività, ma ha mirato soprattutto al mantenimento della domanda di alloggi grazie alla rinegoziazione dei mutui ipotecari. L'alleggerimento del peso dei rimborsi dei prestiti immobiliari ha permesso così un sovrappiù di indebitamento concesso dalle banche. Il debito ipotecario delle case americane è così aumentato di 700 miliardi di dollari (più di due volte il deficit pubblico!). L'aumento triplicato del debito americano, dello Stato, degli alloggi ed estero spiega in che modo gli Stati Uniti hanno potuto effettuare questo salto economico più velocemente degli altri paesi. Tuttavia, tale salto potrà mantenersi solo se l’attività economica resta sostenuta nel medio termine, con il rischio di ritrovarsi come il Giappone poco più di una decina di anni, con lo scoppio di una bolla speculativa immobiliare e con un blocco dei pagamenti di fronte a tutta una serie di crediti non recuperabili.

L'Europa non può pagarsi un tale lusso poiché i suoi deficit erano già imponenti al momento dello scoppio della recessione e le conseguenze di questa ultima li hanno solo peggiorati ancora di più. La Germania e la Francia, che rappresentano il cuore economico dell'Europa, sono oggi gli ultimi della classe, con i deficit pubblici che si vanno al 3,8% per la prima ed il 4% per la seconda. Questi livelli sono già al di sopra del tetto fissato dal trattato di Maastricht (il 3%) e sottopongono questi paesi ai rimproveri della Commissione europea e alle multe previste per i contravventori. Ciò restringe alquanto le capacità dell'Europa a condurre una politica conseguente di rilancio all'altezza della posta in gioco. Inoltre, determinando l'abbassamento del Dollaro di fronte all'Euro per ridurre il loro deficit commerciale, gli Stati-Uniti vanno a pesare sul rilancio in una Europa che fa sempre più fatica a liberarsi delle eccedenze con l'esportazione. Non stupisce il fatto che i paesi dell'asse centrale europeo come la Germania, la Francia, l'Olanda e l'Italia siano in recessione e che gli altri non ne siano lontano.

Quelli che, all'epoca della caduta del muro di Berlino, hanno creduto ai discorsi della borghesia sull'avvento di una nuova era di prosperità e di apertura del "mercato dei paesi dell'Est" ne hanno solo pagato le spese. La riunificazione della Germania, lungi dal rappresentare un trampolino per il "dominio tedesco", ha costituito e costituisce ancora un pesante fardello per questo paese. La Germania che era la locomotiva dell'Europa è diventata il vagone di coda che fatica a seguire il ritmo del treno. L'inflazione è bassa e sfiora la deflazione, gli elevati tassi di interessi reali deprimono ancora di più l'attività e l'esistenza dell'Euro ormai impedisce delle politiche di svalutazione competitiva della moneta nazionale. La disoccupazione, la moderazione salariale e la recessione hanno per effetto una stagnazione del mercato interno mai vista durante i precedenti periodi di congiuntura in questo paese. Allo stesso modo, la futura integrazione dei paesi dell'Est in Europa peserà ancora più sulla congiuntura economica.

Tutto ciò ha per ineluttabile conseguenza un incremento drastico degli attacchi contro le condizioni di lavoro ed il livello di vita della classe operaia. Misure di austerità, licenziamenti massicci ed aggravamento senza precedenti dello sfruttamento sono all’ordine del giorno di tutte le borghesie nel mondo. Secondo le statistiche ufficiali, largamente sottostimate, la disoccupazione avrebbe raggiunto i 5 milioni in Germania, il 6,1% negli Stati Uniti ed i 10% in Francia alla fine del 2003. In Europa l'asse franco-tedesco, col piano Raffarin e l'agenda 2010 di Schröder, da il tono della politica che è condotta un po' dovunque: erosione del deficit di bilancio, riduzione delle tasse per gli alti redditi, facilità del diritto di licenziamento, riduzione delle indennità di disoccupazione e sussidi vari, diminuzione del rimborso delle cure sanitarie ed innalzamento dell'età pensionabile. Oggi in particolare i pensionati pagano i costi dell'austerità che distrugge definitivamente l'idea della possibile esistenza di un "ben meritato riposo" dopo una vita di duro lavoro. Negli Stati Uniti, ad esempio, col fallimento o la perdita di numerosi fondi di pensione in seguito al crac borsista, si assiste all’entrata massiccia di pensionati sul mercato del lavoro, costretti a rimettersi a lavorare per sopravvivere. La classe operaia deve far fronte ad una vasta offensiva di austerità fino all’osso, che del resto sul piano economico avrà come conseguenza il prolungamento ulteriore della recessione e quindi nuovi attacchi.

Il declino ininterrotto del tasso di crescita dalla fine degli anni '60 (Cf. Il nostro articolo "Gli orpelli della 'prosperità economica' apportati dalla crisi" nella Revue internationale n°114 ed il grafico che segue) smaschera bene l'immenso bluff saggiamente effettuato dalla borghesia durante tutti gli anni '90 sulla pretesa prosperità economica ritrovata dal capitalismo grazie alla "nuova economia", la mondializzazione e le ricette neo-liberali. Ed a ragione, la crisi non è per niente un affare di politica economica: se le ricette keynesiane degli anni '50-'60 poi neo-keynesiane degli anni '70 sono arrivate ad esaurirsi e se le ricette neo-liberali degli anni '80 e '90 non hanno potuto risolvere niente è proprio perché la crisi mondiale non è frutto di una "cattiva gestione dell'economia" ma dell'approfondirsi delle contraddizioni di fondo che caratterizzano la dinamica del capitalismo. Se la crisi non è un affare di politica economica, è ancora meno un affare di squadra governativa. Di sinistra o di destra, i governi hanno utilizzato uno dopo l'altro tutte le ricette disponibili. Gli attuali governi americano ed inglese, identificati come i più neo-liberali e pro-mondializzatori sul piano economico, sono di colori politici differenti ed utilizzano vigorosamente oggi le ricette neo-keynesiane lasciando correre i loro deficit pubblici. Allo stesso modo, a guardare più da vicino i programmi di austerità del governo Schröder (socialdemocratico-ecologista) e Raffarin (destra liberale), è facile constatare che si assomigliano come due gocce d'acqua e mettono in atto le stesse misure.

Di fronte a questa spirale di crisi e di austerità ininterrotta da più di 35 anni, una delle responsabilità maggiori dei rivoluzionari è dimostrare che essa trova le sue radici nel vicolo cieco storico del capitalismo, nell'obsolescenza di ciò che è al centro del suo rapporto di produzione fondamentale, il lavoro salariato (1). In effetti, quest'ultimo concentra contemporaneamente su di sé tutti i limiti sociali, economici e politici alla produzione del profitto capitalista e, per il modo con cui esso funziona, pone anche gli ostacoli alla realizzazione piena ed intera di questo ultimo (2). La generalizzazione del salariato fu alla base dell'espansione del capitalismo nel 19o secolo e, a partire dalla prima guerra mondiale, dell'insufficienza dei mercati solvibili rispetto alle necessità dell'accumulazione.

Contro ogni falsa spiegazione mistificatrice della crisi, è responsabilità dei rivoluzionari indicare questo vicolo cieco, mostrare come il capitalismo, anche se è stato un modo di produzione necessario e progressivo, è oggi storicamente superato e conduce l'umanità alla sua scomparsa. Come per tutte le fasi di decadenza dei modi di produzione precedenti (antico, feudale ecc.) questo vicolo cieco sta nel fatto che il rapporto sociale di produzione fondamentale è diventato troppo stretto e non è più da impulso come prima allo sviluppo delle forze produttive (3). Per la società di oggi, il salariato costituisce ormai un freno al pieno sviluppo dei bisogni dell'umanità. Solo l’abolizione di questo rapporto sociale e l'instaurazione del comunismo permetteranno all'umanità di liberarsi dalle contraddizioni che l'assalgono.

Ora, dalla caduta del muro di Berlino, la borghesia non si è fermata un solo istante nel condurre delle campagne su "l'inanità del comunismo", "l'utopia della rivoluzione" e la "diluizione della classe operaia" in una massa di cittadini la cui sola forma di azione legittima sarebbe la riforma "democratica" di un capitalismo presentato oramai come il solo orizzonte, insuperabile, dell'umanità. In questa vasta truffa ideologica, agli alter-mondialisti è stato devoluto il monopolio della contestazione. La borghesia dà loro un ruolo di primo piano come interlocutori critici privilegiati: un largo spazio è lasciato dai media alle analisi ed alle azioni di questa corrente, i loro più eminenti rappresentanti sono invitati in occasione di vertici ed altri incontri ufficiali, ecc. Ed a ragione, le tesi degli altermondialisti sono il complemento alla campagna ideologica della borghesia su "l'utopia del comunismo" dato che partono dagli stessi postulati: il capitalismo sarebbe il solo sistema possibile e la sua riforma l'unica alternativa. Per questo movimento, con l'organizzazione ATTAC in testa ed il suo consiglio "di esperti economici", il capitalismo potrebbe essere umanizzato a condizione che il "buon capitalismo regolarizzato" cacci via il "cattivo capitalismo finanziario". La crisi sarebbe la conseguenza della dérégulation neo-liberale e del dominio del capitalismo finanziario che impone la sua dittatura del 15% come rendimento obbligatorio al capitalismo industriale... tutto questo deciso in un'oscura riunione tenuta nel 1979 chiamata "il consenso di Washington". L'austerità, l'instabilità finanziaria, le recessioni, ecc. sarebbero solamente le conseguenze di questo nuovo rapporto di forze che si sarebbe stabilito in seno alla borghesia a profitto del capitale usurario. Da cui le idee di "regolamentare la finanza", "ridimensionarla" e di "indirizzare nuovamente gli investimenti verso la sfera produttiva", ecc.

In questa confusione generale sulle origini e le cause della crisi, è compito dei rivoluzionari ristabilire una comprensione chiara delle basi di questa e, soprattutto, mostrare che essa è il prodotto del fallimento storico del capitalismo. In altri termini, si tratta per essi di riaffermare in questo campo la validità del marxismo. Purtroppo, a guardare le analisi della crisi proposta dai gruppi del campo politico proletario come il PCInt. Programma Comunista o il BIPR, è facile constatare che sono lontani da una tale riaffermazione e particolarmente di non essere capaci di demarcarsi dall'ideologia corrente e sostenuta dall'alter-mondialismo. Chiaramente questi due gruppi appartengono indiscutibilmente al campo proletario e si distinguono fondamentalmente dall'area alter-mondialista per le loro denunce sulle illusioni riformistiche e per la difesa della prospettiva della rivoluzione comunista. Tuttavia la loro analisi della crisi è largamente presa in prestito dall'estremismo smesso di questa corrente.

Pezzi scelti: "I guadagni prodotti dalla speculazione sono così importanti che attraggono solo le imprese "classiche" ma anche molte altre, citiamo tra le altre, le compagnie di assicurazione o i fondi pensione di cui Enron è un eccellente esempio (…) La speculazione rappresenta il mezzo complementare, per non dire principale, per la borghesia, di appropriarsi di plusvalore (…) Una regola si è imposta, che fissa al 15% l'obiettivo minimo di rendimento per i capitali investiti nelle imprese. Per raggiungere o superare questo tasso di crescita delle azioni, la borghesia ha dovuto aumentare le condizioni di sfruttamento della classe operaia: i ritmi di lavoro sono stati intensificati, i salari reali abbassati. I licenziamenti collettivi hanno colpito centinaia di migliaia di lavoratori". (BIPR in Bilan e Perspective n°4, p.6). Possiamo già rilevare che questo è un curioso modo di porre i problemi per un gruppo che si proclama "materialista" e che considera la CCI "idealista". "Una regola si è imposta" ci dice il BIPR. Si è imposta da sola? Non faremo il torto al BIPR di attribuirgli una tale idea. È una classe, un governo o un'organizzazione umana data che ha imposto questa nuova regola; ma perché? Perché alcuni potenti di questo mondo sono improvvisamente diventati più rapaci e cattivi del solito? Perché i "cattivi" l'hanno imposto ai "buoni" (o ai "meno cattivi")?. O semplicemente perché, come considera il marxismo, le condizioni obiettive dell'economia mondiale hanno obbligato la classe dominante ad intensificare lo sfruttamento dei proletari?. Purtroppo il problema non è posto così in questo passaggio.

In più, ed è ancora più grave, questo è un discorso che potremmo leggere in qualsiasi opuscolo alter-mondialista: è la speculazione finanziaria che è diventata la principale sorgente del profitto capitalista (!), è la speculazione finanziaria che impone la sua regola del 15% alle imprese, è la speculazione finanziaria che è responsabile dell'aggravamento dello sfruttamento, dei licenziamenti massicci e dell'abbassamento degli stipendi ed è anche la speculazione finanziaria che è all'origine di un processo di deindustrializzazione e della miseria sull'insieme del pianeta "L'accumulazione dei profitti finanziari e speculativi alimenta un processo di deindustrializzazione che produce disoccupazione e miseria sull'insieme del pianeta"(idem p. 7).

In quanto al PCInt - Programma Comunista, le sue analisi non sono migliori anche se dette in termini più generali e ricoprendosi dell'autorità di Lenin: "Il capitale finanziario, le banche diventano in virtù dello sviluppo capitalista i veri attori della centralizzazione del capitale, aumentando il potere dei giganteschi monopoli. Allo stadio imperialistico del capitalismo, è il capitale finanziario che domina i mercati, le imprese, tutta la società, e questo dominio conduce esso stesso alla concentrazione finanziaria fino al punto in cui"il capitale finanziario, concentrato in poche mani ed esercitando un monopolio di fatto, preleva benefici enormi sempre crescenti sulla costituzione di ditte, le emissioni di valori, i prestiti di Stato, ecc., affermando il dominio delle oligarchie finanziarie e colpendo la società tutta intera di un tributo al profitto dei monopolisti" (Lenin, in L'imperialismo stadio supremo del capitalismo). Il capitalismo che nacque dal minuscolo capitale usurario, termina la sua evoluzione sotto forma di un gigantesco capitale usurario" (Programma Comunista n°98, p.l). Ecco di nuovo una denuncia senza appello del capitale finanziario parassitario che potrebbe piacere al più radicale degli alter mondialisti (4).

Si cercherebbe invano in questi brani una qualsiasi dimostrazione che è proprio il capitalismo come modo di produzione che ha fatto il suo tempo, che è il capitalismo come un tutto che è responsabile delle crisi, delle guerre e della miseria del mondo. Si cercherebbe invano la denuncia dell'idea centrale degli alter-mondialisti secondo la quale sarebbe il capitale finanziario il responsabile delle crisi mentre è il capitalismo come sistema che è al centro del problema. Riprendendo interi pezzi dell'argomentazione alter-mondialista, questi due gruppi del Sinistra Comunista lasciano la porta spalancata all'opportunismo teorico verso le analisi estremiste. Queste presentano la crisi come la conseguenza dell'instaurazione di un nuovo rapporto di forze che si sarebbe instaurato in seno alla borghesia tra l'oligarchia finanziaria ed i capitali industriali. Gli oligopoli finanziari avrebbero preso il sopravvento sul capitale delle imprese al momento della decisione presa a Washington di rialzare bruscamente i tassi di interesse.

In realtà, non c'è stato molto "trionfo dei banchieri sugli industriali", è la borghesia come un tutto che è passata ad una velocità superiore nella sua offensiva contro la classe operaia.

I "profitti finanziari" come base di un capitalismo usurario?

La denuncia della finanziarizzazione è oggi un tema comune a tutti gli economisti detti "critici". La spiegazione in voga tra questi "critici del capitalismo" è pretendere che il tasso di profitto è aumentato effettivamente ma che è stato confiscato dall'oligarchia finanziaria così che il tasso di profitto industriale non si è ristabilito significativamente, spiegando con ciò l'assenza di ripresa della crescita (cf. grafico sotto). È esatto che dall'inizio degli anni 80, in seguito alla decisione presa nel 1979 di aumentare i tassi di interesse, una parte importante del plusvalore estratto non è più accumulato attraverso l'autofinanziamento delle imprese ma è distribuito sotto forma di redditi finanziari. La risposta dominante a questa constatazione è presentare questa crescita della finanziarizzazione come un salasso sul profitto globale tale da impedire il suo investimento in maniera produttiva. La debolezza della crescita economica si spiegherebbe, dunque, attraverso il parassitismo della sfera finanziaria, con l'ipertrofia del "capitale usurario". Da ciò le "spiegazioni" pseudo marxiste che si appoggiano sulla debolezza di Lenin "il capitale finanziario, concentrato in poche mani ed esercitando un monopolio di fatto, preleva benefici enormi sempre crescenti sulla costituzione di ditte, le emissioni di valori, i prestiti di Stato, ecc., affermando il dominio delle oligarchie finanziarie e colpendo la società tutta intera di un tributo al profitto dei monopolisti", secondo le quali i profitti finanziari eserciterebbero un vero "salasso" sulle imprese (il famoso 15%).

Questa analisi è un ritorno all'economia volgare dove il capitale potrebbe scegliere tra l'investimento produttivo e gli spostamenti finanziari in funzione del livello del tasso di profitto dell'impresa e del tasso di interesse. Su un piano più teorico, questi approcci della finanza come elemento parassitario rinviano a due teorie del valore e del profitto.

Una, marxista, dice che il valore esiste prima ancora della sua ripartizione ed è esclusivamente prodotto nel processo di produzione attraverso lo sfruttamento della forza lavoro. Nel Libro III del Capitale, Marx precisa che il tasso di interesse è "... una parte del profitto che il capitalista attivo deve pagare al proprietario del capitale, invece di mettersela in tasca". In ciò Marx si distingue radicalmente dell'economia borghese che presenta il profitto come somma dei redditi relativi ai vari fattori (redditi del fattore lavoro, redditi del fattore capitale, redditi del fattore fondiario, ecc.). Lo sfruttamento sparisce poiché ciascuno dei fattori è remunerato secondo il suo contributo alla produzione: "per gli economisti volgari che tentano di presentare il capitale come fonte indipendente dal valore e dalla creazione di valore, questa forma è evidentemente una fortuna, poiché maschera l'origine del profitto" (Marx). Il feticismo della finanza consiste nell'illusione che la detenzione di una parte di capitale (un'azione, un Buono del Tesoro, un obbligo, ecc.) va, in senso proprio del termine, a "produrre" degli interessi. Detenere un titolo è comprarsi un diritto a ricevere una frazione del valore creato, ma ciò non crea in sé nessuno valore. È solo ed esclusivamente il lavoro che conferisce del valore a ciò che è prodotto. Il capitale, la proprietà, un'azione, un libretto di risparmio, una scorta di macchine non producono alcunché per essi stessi. Sono gli uomini che producono (5). Il capitale "riporta", come un cane da caccia riporta la selvaggina. Non crea niente, ma dà al suo proprietario il diritto ad una parte di ciò che ha creato colui che se ne è servito. In questo senso il capitale designa più un rapporto sociale che un oggetto: una parte del frutto del lavoro di alcuni finisce nelle mani di chi possiede il capitale. L'ideologia alter-mondialista inverte l'ordine delle cose confondendo l'estrazione del plusvalore con la sua ripartizione. Il profitto capitalista trae esclusivamente la sua origine dallo sfruttamento del lavoro, non esistono profitti speculativi per l'insieme della borghesia (anche se questo o quel settore particolare può guadagnarci nella speculazione); la Borsa non crea valore.

L'altra teoria, che flirta con l'economia volgare, concepisce il profitto globale come la somma di un profitto industriale da un lato e di un profitto finanziario dall’altro. Il tasso di accumulazione sarebbe debole perché il profitto finanziario sarebbe superiore al profitto industriale. È una visione ereditata dai defunti partiti stalinisti che hanno propagandato una critica "popolare" del capitalismo visto come la confisca di un profitto "legittimo" da parte di un'oligarchia parassitaria (le 200 famiglie, ecc.). L'idea è la stessa: essa si basa su un vero e proprio feticismo della finanza secondo il quale la Borsa sarebbe un mezzo per creare del valore allo stesso titolo dello sfruttamento del lavoro. In ciò risiede tutta la mistificazione sulla tassa Tobin, la regolamentazione e l'umanizzazione del capitalismo propagandato dagli alter-mondialisti. Tutto ciò che trasforma una contraddizione susseguente (la finanziarizzazione) nella contraddizione principale porta in sé il pericolo di uno scivolamento tipicamente gauchista che consiste nel separare il grano buono dal loglio: da un lato il capitalismo che investe, dall'altro quello che specula. Ciò conduce a vedere la finanziarizzazione come una specie di parassita su un corpo capitalista sano. La crisi non sparirà, anche dopo l'abolizione del "gigantesco capitale usurario" così caro a Programma Comunista. In un certo modo, insistere sulla finanziarizzazione del capitalismo conduce a sottovalutare la profondità della crisi lasciando intendere che essa prenderebbe origine dal ruolo parassita della finanza che esigerebbe tassi di profitto troppo elevati alle imprese impedendo loro di realizzare investimenti produttivi. Se fosse proprio questa la natura della crisi, allora una "eutanasia dei beneficiari delle rendite" (Keynes) basterebbe a risolverla.

Questi slittamenti gauchisti a livello di analisi portano a presentare un certo numero di dati economici che, citando delle cifre da capogiro, cercano di dimostrare questo dominio assoluto della finanza e l'enormità dei salassi che opera: "… le grandi imprese tendono ad orientare i loro investimenti verso i mercati finanziari, supposti essere più "redditizi" (...) Questo mercato fenomenale si sviluppa ad una velocità molto superiore a quella della produzione (...) Per quanto riguarda la speculazione monetaria su 1300 miliardi di dollari che si spostavano nel 1996, ogni giorno tra le differenti monete, dal 5 all’ 8% al massimo corrispondevano al pagamento di merci o di servizi venduti da un paese all'altro (è conveniente aggiungervi le operazioni di cambio non speculative). L'85% di questi 1300 miliardi corrispondevano alle operazioni quotidiane puramente speculative dunque! Le cifre vanno riviste, scommettiamo che l'85% è attualmente superato" (BIPR, Bilan e Perspective n°4, p.6). Si, esse sono state superate e l’ammontare ha raggiunto i 1500 miliardi di dollari, cioè quasi la totalità del debito del Terzo Mondo... ma queste cifre non fanno paura che agli ignoranti perché non hanno nessuno senso! In realtà questo denaro non fa che girare e le somme annunciate sono tanto più importanti quanto più la giostra va veloce. Basta immaginare una persona che converte 100 ogni mezz'ora per speculare tra le monete; alla fine delle 24 ore le transazioni totali si saranno elevate a 4800, e se specula ogni quarto d'ora le transazioni totali avranno raddoppiato... ma questa somma è puramente virtuale perché la persona possiede sempre 100, più 5 o meno 10 a secondo del suo talento nell'arte della speculazione. Purtroppo questa presentazione mediatica dei fatti, ripresa dal BIPR, rende credibili le interpretazioni della crisi come un prodotto dell'azione parassitaria della finanza.

In realtà è l'aumento della sfera finanziaria che si spiega attraverso l’aumento del plusvalore non accumulato. È la crisi di sovrapproduzione e dunque la rarefazione dei luoghi di accumulazione redditizi che genera la retribuzione di plusvalore sotto forma di redditi finanziari, e non la finanza che si oppone o si sostituisce all'investimento produttivo. La finanziarizzazione corrisponde all'aumento di una frazione del plusvalore che non riesce più ad essere reinvestita con profitto (6). La distribuzione di redditi finanziari non è automaticamente incompatibile con l'accumulazione basata sull'autofinanziamento delle imprese. Quando i profitti estratti dall'attività economica "attraggono capitale", i redditi finanziari sono reinvestiti e partecipano in modo esterno all'accumulazione delle imprese. Ciò che bisogna spiegare, non è il fatto che i profitti escono dalla porta sotto forma di distribuzione di redditi finanziari, ma che questi ultimi non ritornano per la finestra per essere reinvesti produttivamente nel circuito economico. Se una parte significativa di queste somme fosse reinvestita, ciò dovrebbe manifestarsi con un aumento del tasso di accumulazione. Se ciò non si produce è perché c'è crisi da sovrapproduzione e dunque rarefazione dei luoghi di accumulazione redditizio.

Il parassitismo finanziario è un sintomo, una conseguenza delle difficoltà del capitalismo e non la causa alla radice di queste difficoltà. La sfera finanziaria è la vetrina della crisi perché è là che nascono le bolle borsiste, i crolli monetari e le turbolenze bancarie. Ma questi sconvolgimenti sono la conseguenza di contraddizioni che hanno la loro origine nella sfera produttiva.

Che cosa è successo da una ventina anni? L'austerità e l'abbassamento degli stipendi (7) hanno permesso di ristabilire il tasso di profitto delle imprese ma questo aumento dei profitti non ha portato ad un rialzo del tasso di accumulazione (l'investimento) e dunque della produttività del lavoro. La crescita è restata così in depressione (Cf. grafico sotto). In breve, la frenata del costo salariale ha ristretto i mercati, nutrito i redditi finanziari e non il re-investimento dei profitti. Ma perché oggi c'è un così debole re-investimento mentre i profitti delle imprese sono stati ristabiliti? Perché non riparte l'accumulazione in seguito alla risalita del tasso di profitto da più di vent'anni? Marx, ed in continuità con lui Rosa Luxemburg, ci hanno insegnato che le condizioni della produzione (l'estrazione del plusvalore) sono una cosa e che le condizioni per la realizzazione di questo pluslavoro cristallizzato nelle merci prodotte ne sono un'altra. Il pluslavoro cristallizzato nella produzione diventa del plusvalore sonante e traboccante, del plusvalore accumulabile, solo se le merci prodotte vengono vendute sul mercato. È questa differenza fondamentale tra le condizioni della produzione e quelle della realizzazione che ci permette di comprendere perché non c'è legame automatico tra i tassi di profitto e la crescita.

 

 

Medie ponderate secondo il PIL per i <<G6>> (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia) Fonte: OCDE, Prospettive economiche, 2003

Il grafico sopra riassume bene l'evoluzione del capitalismo dalla Seconda Guerra mondiale. L'eccezionale fase di prosperità dopo la ricostruzione vede tutte le variabili fondamentali del profitto, dell'accumulazione, della crescita e della produttività del lavoro aumentare o fluttuare a dei livelli elevati fino alla riapparizione della crisi aperta a cavallo degli anni 1960-70. L'esaurimento dei guadagni di produttività che comincia fin dagli anni '60 trascina le altre variabili in una caduta d’insieme fino all'inizio degli anni '80. Da allora il capitalismo è in una situazione completamente inedita sul piano economico contrassegnata da una configurazione che associa un tasso di profitto elevato con una produttività del lavoro, un tasso di accumulazione e dunque un tasso di crescita mediocre. Questa divergenza tra le evoluzioni del tasso di profitto e le altre variabili da più di 20 anni non può comprendersi se non nel contesto della decadenza del capitalismo. Non è così per il BIPR che reputa oggi che il concetto di decadenza è da relegare nella pattumiera della storia: "Quale ruolo gioca dunque il concetto di decadenza sul terreno della critica dell'economia politica militante, e cioè dell'analisi approfondita dei fenomeni e delle dinamiche del capitalismo nel periodo che viviamo? Nessuno. (...) Non è col concetto di decadenza che si possono spiegare i meccanismi della crisi, né denunciare il rapporto tra la crisi e le finanziarizzazioni, il rapporto tra questa e le politiche delle superpotenze per il controllo della rendita finanziaria e delle sue fonti" (BIPR, "Elementi di riflessione sulle crisi della CCI"). Il BIPR preferisce abbandonare il concetto chiave di decadenza su cui fondava le proprie posizioni (8) per sostituirlo con i concetti in voga nel campo alter-mondialista di "finanziarizzazione" e di "rendita finanziaria" per "comprendere la crisi e le politiche delle supepotenze". Arriva anche ad affermare che "...questi concetti [in particolare quello di decadenza] sono estranei al metodo ed all'arsenale della critica dell'economia politica", idem.

Perché il quadro della decadenza è indispensabile per comprendere la crisi oggi? Perché il declino ininterrotto dei tassi di crescita dalla fine degli anni '60 in seno ai paesi dell'OCSE, con rispettivamente il 5,2%, il 3,5%, il 2,8%, 2,6% e 2,2% per i decenni '60, '70, '80, '90 e 2000-02, confermano il ritorno progressivo del capitalismo alla sua tendenza storica aperta dalla Prima Guerra mondiale. La parentesi dell'eccezionale fase di crescita (1950-75) si è definitivamente chiusa (9). Come una molla rotta che, dopo un estremo sussulto, ritrova la sua posizione di origine, il capitalismo ritorna inesorabilmente ai ritmi di crescita che prevalevano nel 1914-50. Contrariamente a ciò che gridano ai quattroventi i nostri censori, la teoria della decadenza del capitalismo non è per niente un prodotto specifico della stagnazione degli anni trenta (10). Costituisce l’essenza stessa del materialismo storico, il segreto infine trovato della successione dei modi di produzione nella storia e, a questo titolo, dà il quadro di comprensione per analizzare l'evoluzione del capitalismo e, in particolare, del periodo che si è aperto al momento della Prima Guerra mondiale. Essa ha una portata generale; è valida per tutta un'era storica e non dipende affatto da un periodo particolare o da una congiuntura economica momentanea. Del resto, anche integrando l'eccezionale fase di crescita tra il 1950 ed il 1975, due guerre mondiali, la depressione degli anni '30 e più di trentacinque anni di crisi e di austerità presentano un bilancio senza appello della decadenza del capitalismo: appena 30 - 35 anni, contando largo, di "prosperità" per 55 - 60 anni di guerra e/o di crisi economica, ed il peggio deve ancora venire. La tendenza storica al freno della crescita delle forze produttive, per dei rapporti capitalisti di produzione divenuti obsoleti costituisce la regola, il quadro che permette di comprendere l'evoluzione del capitalismo, ivi compresa l'eccezione della fase di prosperità che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale (vi ritorneremo in prossimi articoli). Invece, come per la corrente riformistica che si è lasciata imbambolare dalle performance del capitalismo della Belle Époque, è l'abbandono della teoria della decadenza che è un puro prodotto degli anni di prosperità.

Peraltro il grafico ci mostra chiaramente che il meccanismo che è alla base della risalita del tasso di profitto non è né un rifiorire della produttività del lavoro, né uno sgravio in capitale. Ciò ci permette di spazzare via anche le chiacchiere sulla pretesa "nuova rivoluzione tecnologica". Alcuni universitari, stupefatti dall'informatica e caduti nella rete delle campagne della borghesia sulla "nuova economia"... confondono la velocità del loro computer con la produttività del lavoro: non è perché il Pentium 4 gira più velocemente della prima generazione di questo processore che l'impiegato batterà duecento volte più rapidamente alla sua macchina e potrà quindi accrescere di altrettanto la produttività. Il grafico mostra chiaramente che la produttività del lavoro continua a diminuire dagli anni '60. Ed a ragione. Malgrado il ristabilimento dei profitti, il tasso d'accumulazione (gli investimenti alla base di possibili guadagni di produttività) non si è ripreso. La "rivoluzione tecnologica" esiste solamente nei discorsi delle campagne borghesi e nell'immaginazione di quelli che li bevono. Più seriamente, questa constatazione empirica del rallentamento della produttività (del progresso tecnico e dell'organizzazione del lavoro) ininterrotto dagli anni '60, contraddice l'immagine mediatica, ben ancorata nelle teste, di un cambiamento tecnologico crescente, di una nuova rivoluzione industriale che sarebbe portata oggi dall'informatica, le telecomunicazioni, Internet ed il multimediale. Come spiegare la forza di questa mistificazione che ribalta la realtà nelle nostre teste?

Innanzitutto, bisogna ricordare che i progressi di produttività all'indomani della Seconda Guerra mondiale erano ben più spettacolari di quelli che ci vengono presentati attualmente come "nuova economia". La diffusione dell'organizzazione del lavoro in tre squadre di 8 ore, la generalizzazione della catena mobile nell'industria, i veloci progressi nello sviluppo e la generalizzazione dei trasporti di ogni tipo (camion, treno, aereo, automobile, navi), la sostituzione del carbone per un petrolio più conveniente, l'invenzione delle materie plastiche e la sostituzione di queste a materiali più costosi, l'industrializzazione dell'agricoltura, la generalizzazione del raccordo all'elettricità, al gas naturale, all'acqua corrente, alla radio ed al telefono, la meccanizzazione della vita domestica con lo sviluppo dell'elettrodomestico, ecc. sono molto più spettacolari in termini di progresso di produttività di tutto ciò che apportano gli sviluppi nell'informatica e nelle telecomunicazioni. Da allora, i progressi di produttività del lavoro non hanno fatto che decrescere dai Golden Sixties.

In secondo luogo, perché viene mantenuta costantemente una confusione tra le apparizioni di nuovi beni di consumo ed i progressi di produttività. Il flusso di innovazioni, la moltiplicazione di novità per quanto straordinarie possano essere (DVD, GSM, Internet, ecc.) a livello di beni di consumo, non ricoprono il fenomeno del progresso della produttività. Quest'ultimo significa la capacità ad economizzare sulle risorse richieste per la produzione di un bene o di un servizio. L'espressione progresso tecnico deve sempre essere considerata nel senso di progresso delle tecniche di produzione e/o di organizzazione, dallo stretto punto di vista della capacità ad economizzare sulle risorse utilizzate nella fabbricazione di un bene o la prestazione di un servizio. Per quanto formidabili siano, i progressi numerici non si traducono in progressi significativi di produttività in seno al processo di produzione. Il bluff della "nuova economia" è tutto qui.

Infine, contrariamente alle affermazioni dei nostri censori che negano la realtà della decadenza e la validità degli apporti teorici di Rosa Luxemburg - e che fanno della caduta tendenziale del tasso del profitto l'alfa e l'omega dell'evoluzione del capitalismo -, il corso dell'economia dopo l'inizio degli anni '80 ci mostra chiaramente che non è perché questo tasso risale che la crescita riparte. C’è certamente un legame forte tra i tassi di profitto ed il tasso di accumulazione ma non è meccanico, né univoco: sono due variabili parzialmente indipendenti. Ciò contraddice formalmente le affermazioni di quelli che fanno dipendere obbligatoriamente la crisi da sovrapproduzione dalla caduta del tasso di profitto ed il ritorno della crescita alla sua risalita: "Questa contraddizione, la produzione del plusvalore e la sua realizzazione, appare come una sovrapproduzione di merci e dunque come causa della saturazione del mercato che si oppone al processo di accumulazione, ciò che, a sua volta mette il sistema nel suo insieme nell'impossibilità di controbilanciare la caduta del tasso di profitto. In realtà, il processo è inverso. (...) Sono il ciclo economico ed il processo di valorizzazione che rendono 'solvibile’ o ‘insolvibile’ il mercato. È partendo delle leggi contraddittorie che regolano il processo di accumulazione che si può arrivare a spiegare la 'crisi' del mercato" (Testo di presentazione di Battaglia Comunista alla prima conferenza dei gruppi della Sinistra comunista, maggio 1977). Oggi possiamo chiaramente constatare che il tasso di profitto risale da quasi una ventina di anni mentre la crescita resta depressa e la borghesia non ha mai parlato tanto di deflazione come in questo momento. Non è perché il capitalismo riesce a produrre sufficientemente profitto che crea automaticamente, attraverso questo stesso meccanismo, il mercato solvibile dove sarà capace di trasformare il pluslavoro cristallizzato nei suoi prodotti in plusvalore sonante e traboccante che gli permette di reinvestire i suoi profitti. L'importanza del mercato non dipende automaticamente dall'evoluzione del tasso di profitto: come gli altri parametri che condizionano l'evoluzione del capitalismo, il mercato è una variabile parzialmente indipendente. È la comprensione di questa differenza fondamentale tra le condizioni della produzione e quelle della realizzazione, già ben messa in evidenza da Marx ed approfondita magistralmente da Rosa Luxemburg, che ci permette di comprendere perché non c'è automatismo tra i tassi di profitto e la crescita.

Rigettando la decadenza come quadro di comprensione del periodo attuale e della crisi, individuando nella speculazione finanziaria la causa di tutte le disgrazie del mondo e sottovalutando lo sviluppo del capitalismo di Stato su tutti i piani, i due più importanti gruppi della Sinistra comunista all'infuori della CCI - Programma Comunista ed il BIPR - non possono offrire un orientamento chiaro e coerente alle lotte di resistenza della classe operaia. Basta leggere le analisi che fanno della politica della borghesia in materia di austerità e le conclusioni che traggono dalla loro analisi della crisi per rendersene conto: "Durante gli anni '50 le economie capitaliste si rimisero in rotta e la borghesia vide infine rifiorire in modo duraturo i suoi profitti. Questa espansione, che è proseguita per il decennio successivo, si è dunque appoggiata su uno sviluppato ricorso al credito e si è fatta con l'appoggio degli Stati. Essa si é tradotta innegabilmente in un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (sicurezza sociale, convenzioni collettive, innalzamento degli stipendi...). Queste concessioni fatte dalla borghesia, sotto la pressione della classe operaia, si traducono con una caduta del tasso di profitto, fenomeno in sé ineluttabile, legato alla dinamica interna del capitale. (...) Se all'inizio dello stadio dell'imperialismo, i profitti immagazzinati grazie allo sfruttamento delle colonie e dei loro popoli avevano permesso alle borghesie dominanti di garantire una certa pace sociale facendo beneficiare la classe operaia di una frazione dell'estorsione del plusvalore, oggi non è più così, dato che la logica speculativa implica una rimessa in causa di tutte le conquiste sociali strappate in decenni precedenti dai lavoratori dei 'paesi centrali' alla loro borghesia" (BIPR, in Bilan et perspectives n°4, p. da 5 a 7).

Anche qui possiamo constatare che l'abbandono del quadro della decadenza spalanca le porte alle concessioni verso le analisi gauchiste. Il BIPR preferisce ricopiare le favole dei gauchiste sulle "conquiste sociali (sicurezza sociale, convenzioni collettive, rialzo degli stipendi,...)" che sarebbero stati delle "concessioni fatte dalla borghesia sotto la pressione della classe operaia" e che "la logica speculativa" attuale rimette in causa, piuttosto che appoggiarsi sui contributi teorici tramandati dai gruppi della Sinistra comunista internazionale (Bilan, Communisme, ecc.), che analizzavano queste misure come mezzi messi in campo dalla borghesia per fare dipendere ed annettere la classe operaia allo Stato!

In effetti, nella fase ascendente del capitalismo, lo sviluppo delle forze produttive e del proletariato era insufficiente per minacciare il dominio borghese e permettere una rivoluzione vittoriosa a scala internazionale. E’ per questo motivo, anche se la borghesia ha fatto di tutto per sabotare l'organizzazione del proletariato, che quest’ultimo ha potuto, con le sue lotte accanite, costituirsi in "classe per sé" in seno al capitalismo mediante i propri organi che erano i partiti operai ed i sindacati. L'unificazione del proletariato si è realizzata mediante le lotte per strappare al capitalismo delle riforme che portassero a dei miglioramenti delle condizioni di esistenza della classe: riforme sul terreno economico e riforme nel dominio politico. Il proletariato ha acquisito, in quanto classe, il diritto di cittadinanza nella vita politica della società, o, per riprendere i termini di Marx nella Miseria della filosofia: la classe operaia ha conquistato il diritto di esistere e di affermarsi in modo permanente nella vita sociale in quanto "classe per sé", e cioè come classe organizzata con i propri luoghi di incontro quotidiano, le sue idee ed il suo programma sociale, le sue tradizioni ed anche i suoi canti.

All'epoca dell'entrata del capitalismo nella fase di decadenza nel 1914, la classe operaia ha dimostrato la sua capacità a rovesciare il dominio della borghesia costringendo questa a fermare la guerra e sviluppando un'ondata internazionale di lotte rivoluzionarie. Da questo momento, il proletariato costituisce un pericolo potenziale permanente per la borghesia. E’ per tale motivo che essa non può più tollerare che la classe nemica possa organizzarsi in modo permanente sul suo proprio terreno, possa vivere e crescere in seno alle sue proprie organizzazioni. Lo Stato estende il suo dominio totalitario su tutti gli aspetti della vita della società. Tutto è serrato dai suoi tentacoli onnipresenti. Tutto ciò che vive nella società deve sottomettersi incondizionatamente allo Stato o deve affrontarlo in una lotta mortale. Il tempo in cui il capitale poteva tollerare l'esistenza di organi proletari permanenti è superato. Lo Stato caccia dalla vita sociale il proletariato organizzato come forza permanente. "Dalla Prima Guerra mondiale, parallelamente allo sviluppo del ruolo dello Stato nell'economia, si sono moltiplicate le leggi che reggono i rapporti tra capitale e lavoro, creando un quadro ristretto di 'legalità' all’ interno del quale la lotta proletaria è circoscritta e ridotta all'impotenza" (estratto dal nostro opuscolo I sindacati contro la classe operaia). Questo capitalismo di Stato sul piano sociale significa la trasformazione di ogni vita della classe in surrogato del campo borghese. Lo Stato si è impadronito, attraverso i sindacati in certi paesi, direttamente in altri, delle diverse forme di solidarietà e di soccorso che erano state create ed adottate dalla classe operaia per tutta la seconda metà del diciannovesimo secolo (casse di sciopero, organizzazioni di soccorso in caso di malattia o di licenziamento). La borghesia ha strappato la solidarietà politica dalle mani del proletariato per trasferirla in solidarietà economica nelle mani dello Stato. Suddividendo il salario in una retribuzione diretta data dal padrone ed una retribuzione indiretta data dallo Stato, la borghesia ha consolidato potentemente la mistificazione che consiste nel presentare lo Stato come un organo al disopra delle classi, garante dell'interesse comune e della sicurezza sociale della classe operaia. La borghesia è riuscita a legare materialmente ed ideologicamente la classe operaia allo Stato. Tale era l'analisi della Sinistra italiana e della Frazione belga della Sinistra comunista internazionale a proposito delle prime casse di assicurazioni di disoccupazione e di soccorso reciproco messa in opera dallo Stato durante gli anni 30 (11).

Che cosa dice il BIPR alla classe operaia? Innanzitutto che la "logica speculativa" sarebbe responsabile della "rimessa in causa di tutte le conquiste sociali"... ed ecco di nuovo il male assoluto della 'fînanziarizzazione'! Il BIPR dimentica che la crisi e gli attacchi contro la classe operaia non hanno aspettato l'apparizione de "la logica speculativa" per abbattersi sul proletariato. Il BIPR crede veramente, come il suo scritto lascia intendere, che il futuro sorriderà alla classe operaia una volta che la "logica speculativa" sarà sradicata? Al contrario, questa mistificazione da estrema sinistra della borghesia che vuol fa credere che la lotta contro l'austerità dipenderebbe dalla lotta contro la logica speculativa è da combattere nella maniera più vigorosa possibile!

Ma c'è qualcosa di più grave! È una grossolana mistificazione fare credere al proletariato che la sicurezza sociale, le convenzioni collettive ed anche il meccanismo di rialzo dei salari attraverso l'indicizzazione o la scala mobile sarebbero delle "conquiste sociali strappate con la dura lotta". Sì, la riduzione oraria della giornata di lavoro, l'interdizione dallo sfruttamento dei bambini, l'interdizione del lavoro di notte per le donne, ecc. hanno costituito delle vere concessioni strappate dalla dura lotta della classe operaia nella fase ascendente del capitalismo. Ma le pretese "conquiste sociali", come la sicurezza sociale o le convenzioni collettive registrate nei Patti Sociali per la Ricostruzione non hanno niente da vedere con la lotta della classe operaia. Classe disfatta, esausta per la guerra, ubriaca e mistificata dal nazionalismo, drogata di euforia alla Liberazione, non è lei che, con la lotta, ha strappato queste "conquiste". È per iniziativa della stessa borghesia in seno ai governi in esilio che i Patti Sociali per la Ricostruzione sono stati elaborati mettendo in opera tutti questi meccanismi di capitalismo di Stato. È la borghesia che ha preso l'iniziativa, tra il 1943 e 1945, in piena guerra (!), di riunire tutte "le forze vive della nazione", tutti i "partner sociali", mediante riunioni tripartitiche costituite da rappresentanti del padronato, del governo e dei differenti partiti e sindacati, e cioè nella più perfetta delle concordie nazionali del movimento della Resistenza, per pianificare la ricostruzione delle economie distrutte e negoziare socialmente la difficile fase di ricostruzione. Non ci sono state "concessioni fatte dalla borghesia sotto la pressione della classe operaia" nel senso di una borghesia costretta ad accettare un compromesso di fronte ad una classe operaia mobilitata sul suo terreno e che sviluppa una strategia in rottura col capitalismo, ma dei mezzi messi in opera di concerto da tutti i componenti della borghesia (padronato, sindacato, governo) per controllare socialmente la classe operaia al fine di portare a termine la ricostruzione nazionale (12). Dobbiamo forse ricordare che è stata la borghesia, nell'immediato dopoguerra, a creare con determinazione ogni specie di sindacato, come la CFTC in Francia o la CSC in Belgio?

È evidente che i rivoluzionari denunciano ogni abuso sia sullo stipendio diretto che sullo stipendio indiretto, è evidente che i rivoluzionari denunciano gli attentati a livello di vita quando la borghesia riduce la sicurezza sociale ad un bene effimero, ma mai i rivoluzionari possono difendere il principio stesso del meccanismo messo in atto dalla borghesia per legare la classe operaia allo Stato (13)! I rivoluzionari devono denunciare al contrario le logiche ideologiche e materiali che sottendono questi meccanismi come la pretesa "neutralità dello Stato", la "solidarietà sociale organizzata dallo Stato", ecc.

Di fronte alla posta in gioco determinata dall’acuirsi generale delle contraddizioni del modo di produzione capitalista e di fronte alle difficoltà che incontra la classe operaia per far fronte a questa posta in gioco, tocca ai rivoluzionari sviluppare l'approfondimento necessario per rispondere ai nuovi problemi posti dalla storia. Ma questo approfondimento non può basarsi sulle false analisi propagandate dai settori dell’estrema sinistra dell'apparato politico della borghesia. Solo poggiandosi saldamente sul marxismo e sulle esperienze della Sinistra comunista, particolarmente sull'analisi della decadenza del capitalismo, che i rivoluzionari saranno all'altezza della loro responsabilità.

C.Mcl

1. Poiché, come scrive Marx, "Il capitale suppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato suppone il capitale. Essi sono la condizione uno dell'altro; si creano reciprocamente". (Lavoro salariato e capitale).

2. Non possiamo, nel contesto di questo articolo, ritornare su ciò che Marx ed i teorici marxisti hanno scritto sulle contraddizioni che generano la generalizzazione del lavoro salariato, e cioè la trasformazione della forza lavoro in merce. Per maggiori precisioni su questi lavori dei marxisti, rinviamo il lettore particolarmente al nostro opuscolo "La decadenza del capitalismo" come ai nostri articoli della Revue Internationale.

3. "Ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione coi rapporti di produzione esistenti o, per usare un termine giuridico, con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano mosse fino a quel momento. Da che erano forme di sviluppo delle forze produttive questi rapporti si tramutano in vincoli che frenano tali forze." (Karl Marx, Prefazione di "Introduzione alla critica dell'economia politica")

4. Malauguratamente Lenin non è qui di grande aiuto perché il suo studio sull'imperialismo, per decisivo che sia su certi aspetti dell'evoluzione del capitalismo e della posta in gioco inter-imperialista nella svolta tra il 19° ed il 20° secolo, dà un'importanza smisurata al ruolo del capitale finanziario e sfiora dei processi ben più fondamentali all'epoca come lo sviluppo del capitalismo di Stato (cf. Revue internatiionale n°19 "Sull'imperialismo" e Revue Internationale n°3 e 4 "Capitalismo di Stato e legge del valore"). Capitalismo di Stato che, contrariamente all'analisi di Hilferding-Lenin, restringerà drasticamente il potere della finanza a partire dall'esperienza della crisi del '29 per poi riaprire progressivamente le porte ad una certa libertà a partire dagli anni '80. Ciò che qui è decisivo, è che sono gli Stati-nazione che hanno diretto le cose e non l'internazionale fantasma dell'oligarchia finanziaria che avrebbe imposto il suo diktat una sera del 1979 a Washington.

5. Per convincersene basta immaginare due situazioni limite: in una tutte le macchine sono state distrutte e solo gli uomini rimangono e nell'altra tutta l'umanità è decimata e solo le macchine restano!

6. Del resto il fatto che da un bel po’ i tassi di autofinanziamento delle imprese sono superiori al 100% riduce questa tesi a nulla poiché ciò vuole dire che le imprese non hanno bisogno della finanza per finanziare i loro investimenti.

7. La parte degli stipendi nel valore aggiunto in Europa è passata dal 76% al 68% tra il 1980 ed il 1998 e, dato che le disuguaglianze salariali sono aumentate notevolmente durante lo stesso periodo, ciò significa che la diminuzione dello stipendio medio dei lavoratori è ben più conseguente di quanto lascia intravedere questa statistica.

8. Citiamo, tra l'altro, il testo del BIPR presentato alla prima conferenza dei gruppi della Sinistra comunista; estratto dal paragrafo intitolato "Crisi e decadenza": "Quando questa ha cominciato a manifestarsi il sistema capitalista ha cessato di essere un sistema progressivo, e cioè necessario allo sviluppo delle forze produttive, per entrare in una fase di decadenza caratterizzata da tentativi di risolvere le sue contraddizioni insolubili, dandosi delle nuove forme organizzative da un punto di vista produttivo (…) In effetti, l'intervento progressivo dello Stato nell'economia deve essere considerato come il segno dell'impossibilità di risolvere le contraddizioni che si accumulano all’interno dei rapporti di produzione ed è dunque il segno della sua decadenza".

9. Rinviamo il lettore alla pubblicazione del rapporto del nostro 15° Congresso internazionale sulla crisi economica nel numero 114 della Revue Internazionale che, senza togliere niente al carattere eccezionale del periodo 1950-75, demistifica innanzitutto i tassi di crescita calcolati nel periodo di decadenza e demistifica poi quelli concernenti in particolare il periodo seguito alla Seconda Guerra mondiale che è nettamente sopravvalutato.

10. * "... la teoria della decadenza, come deriva dalle concezioni di Trotsky, di Bilan, del GCF e della CCI, oggi non è più adatta alla comprensione dello sviluppo reale del capitalismo lungo tutto il ventesimo secolo, e particolarmente a partire dal 1945 (…). Per ciò che riguarda i comunisti della prima metà del secolo, ciò può spiegarsi abbastanza facilmente: gli avvenimenti che si succedono su tre decenni, tra il 1914 e 1945, sono tali (…) che sembrano dare credito alla tesi del declino storico del capitalismo e confermare le previsioni fatte; era logico non vedere nel capitalismo che un sistema in putrefazione, all’ultimo respiro e decadente" (Circolo di Parigi in "Che non fare"?, p. 31).

* "Il concetto di decadenza del capitalismo è apparso nella 3a Internazionale, dove è stato sviluppato in particolare da Trotsky (…). Trotsky precisò la sua concezione assimilando la decadenza del capitalismo ad un arresto puro e semplice della crescita delle forze produttive della società. Questa visione sembrava corrispondere abbastanza bene alla realtà della prima metà di questo secolo (…). La visione di Trotsky fu ripresa nell’essenziale dalla Sinistra italiana raggruppata in Bilan prima della 2° guerra mondiale, poi dalla Sinistra Comunista di Francia (GCF), dopo quest’ultima". (Prospettiva Internazionalista "Verso una nuova teoria della decadenza del capitalismo").

* "L'ipotesi di un 'freno irreversibile' delle forze produttive non è che la deduzione, sul piano teorico, di un'impressione generale tramandata dal periodo che lo segna tra due guerre dove l'accumulazione capitalista ha, in modo congiunturale, difficoltà a ripartire". (Comunismo o Civiltà, "Dialettica delle forze produttive e dei rapporti di produzione nella teoria comunista").

* "Dopo la Seconda Guerra mondiale, tanto i trotskisti che i comunisti di sinistra ritornano con la convinzione rinforzata che il capitalismo era decadente e sull'orlo del crollo. Considerando il periodo che esattamente era appena trascorso, la teoria non sembrava così irrealistica, il crac del 1929 era stato seguito dalla depressione durante la maggior parte degli anni '30 ed poi da un'altra guerra catastrofica (…). Adesso, mentre possiamo dire che i comunisti di sinistra hanno difeso le verità importanti dell'esperienza del 1917-21 contro la versione leninista dei trotskisti, il loro oggettivismo economico e la teoria meccanica delle crisi e del crollo, che condividono coi leninisti, li rendono incapaci di rispondere alla nuova situazione caratterizzata da un 'boom' di lunga durata (…). Dopo la Seconda Guerra mondiale il capitalismo entra in uno dei suoi periodi di maggiore espansione, con tassi di crescita non solo più alti di quelli tra le due guerre ma anche più alti di quelli del grande 'boom' del capitalismo classico..." (Auftieben,"Sulla decadenza, teoria del declino o declino della teoria").

11. Leggi "Un'altra vittoria del capitalismo: l’assistenza disoccupazione obbligatoria" in Communisme n°15, giugno 1938; così come "I sindacati operai e lo Stato" nel n°5 della stessa rivista.

12. Delle lotte sociali ci furono durante la guerra, ma anche e soprattutto nell'immediato dopoguerra, date le catastrofiche condizioni di vita. Ma in generale, tranne alcune eccezioni notevoli come nel Nord dell'Italia o nella valle della Ruhr, queste non rappresentavano nessuna minaccia reale per il capitalismo. Queste lotte erano tutte ben inquadrate, controllate e spesso spezzettate dai partiti di sinistra e dai sindacati in nome della necessaria concordia nazionale in vista della ricostruzione.

13. Ciò che è proprio incredibile è che il BIPR pone nella categoria delle "conquiste sociali" anche le "convenzioni collettive" che sono, e non potrebbe essere più chiaro, la codificazione e l'imposizione della pace sociale della borghesia nelle imprese!

Decadenza ed orientamenti per le lotte di resistenza

Il lavoro salariato al centro della crisi da sovrapproduzione

La crisi, un'espressione dell'obsolescenza dei rapporti di produzione capitalista

Geografiche: 

Patrimonio della Sinistra Comunista: 

Correnti politiche e riferimenti: 

Questioni teoriche: