La lotta di classe contro la guerra imperialista. Le lotte operaie nell'Italia del 1943

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Nella storia del movimento operaio e della lotta di classe la guerra imperialista ha sempre costituito una questione fondamentale. E questo non è un caso. Nella guerra si concentra tutta la barbarie di questa società; in particolare con la decadenza storica del capitalismo, la guerra dimostra l'impossibilità di questo sistema di offrire una qualche possibilità di sviluppo all'umanità, arrivando a metterne in discussione perfino la sopravvivenza. In quanto manifestazione massima della barbarie di cui è capace il sistema capitalista, la guerra costituisce un potente fattore di presa di coscienza e di mobilitazione della classe operaia, come è stato dimostrato nel corso di questo secolo, al momento dei due conflitti mondiali.

Se la risposta del proletariato alla prima guerra mondiale è abbastanza nota, meno noti sono gli episodi di lotta di classe che non mancarono di manifestarsi anche durante la seconda guerra mondiale, in particolare in Italia. Quando gli storici e i propagandisti della borghesia ne parlano, è per cercare di dimostrare che gli scioperi del '43 in Italia costituirono l'inizio della resistenza "antifascista", e quest'anno, nel cinquantenario di quegli episodi, i sindacati italiani non hanno mancato di rilanciare questa mistificazione, con le loro "commemorazioni" nazionaliste e patriottiche.

E' alla confutazione di queste menzogne, e alla riaffermazione della capacità della classe di rispondere alla guerra imperialista sul suo proprio terreno che è dedicato questo articolo.

1943: IL PROLETARIATO ITALIANO SI OPPONE AI SACRIFICI DELLA GUERRA

In effetti già nella seconda metà del 1942, quando ancora le sorti della guerra erano tutte aperte e il fascismo sembrava saldo al potere, nelle grandi fabbriche del nord Italia ci furono scioperi sporadici contro il razionamento e per aumenti salariali. Non erano che le prime avvisaglie del malcontento che la guerra aveva creato tra le fila proletarie, per tutti i sacrifici che essa comportava.

Il 5 marzo 1943 comincia lo sciopero alla Mirafiori di Torino, nel giro di pochi giorni si allarga ad altre fabbriche coinvolgendo decine di migliaia di operai. Le rivendicazioni sono molto chiare e semplici: aumento delle razioni di viveri, aumenti salariali e... fine della guerra. Nel corso del mese le agitazioni si allargano alle grandi fabbriche di Milano, all'intera Lombardia, alla Liguria e in altre parti d'Italia.

La risposta del potere fascista fu quello del bastone e della carota: arresto degli operai più in vista ma anche concessioni rispetto alle rivendicazioni più immediate. Benché Mussolini sospettasse che dietro gli scioperi ci fossero le forze antifasciste, non poteva permettersi il lusso di far crescere la protesta operaia. E in effetti i suoi sospetti erano poco fondati, gli scioperi sono totalmente spontanei, partono dalla base operaia e dal suo malcontento contro i sacrifici della guerra, tant'è vero che agli scioperi partecipavano anche gli operai "fascisti".

"L'elemento tipico di questa azione fu il suo carattere classista che, sul piano storico, conferisce agli scioperi del 1943-44 una fisionomia propria, unitaria, tipica, anche rispetto all'azione generale condotta unitariamente dai Comitati di liberazione nazionale" (Sergio Turone: Storia del sindacato in Italia, pag. 14) (1).

"Valendomi solo del mio prestigio di vecchio organizzatore sindacale affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente" (Dichiarazione del sottosegretario Tullio Cianetti, citata nel libro di Turone, pag. 17).

Il comportamento degli operai non impressionò solo i gerarchi fascisti, ma l'intera borghesia italiana, che negli scioperi di marzo vide il rinascere dello spettro proletario, un nemico ben più pericoloso degli avversari sul campo di battaglia. Da questi scioperi la borghesia trae la consapevolezza che il regime fascista non è più adatto a contenere il malcontento operaio e prepara la sua sostituzione e la riorganizzazione delle sue forze "democratiche".

Il 25 luglio il re destituisce Mussolini, lo fa arrestare e dà l'incarico di formare un nuovo governo al maresciallo Badoglio. Una delle prime preoccupazioni di questo governo è la rifondazione dei sindacati "democratici" per creare nuovi contenitori in cui far confluire la protesta operaia che nel frattempo si era data propri organismi di conduzione e quindi era al di fuori di qualunque controllo. Il ministro delle Corporazioni (si chiamava ancora così!), Leopoldo Piccardi, fa liberare il vecchio dirigente sindacale socialista Bruno Buozzi dal confino e gli propone l'incarico di commissario alle organizzazioni sindacali. Buozzi chiede e ottiene come vice-commissari il comunista Roveda e il democristiano Quadrello. La scelta della borghesia è ben studiata, Buozzi è molto conosciuto per aver partecipato agli scioperi del 1922 (l'occupazione delle fabbriche), in cui aveva dimostrato la sua fede borghese adoperandosi per contenere la possibile crescita del movimento.

Ma gli operai non sapevano che farsene della democrazie borghese e delle sue promesse. Se avevano sfidato il regime fascista era innanzitutto perché non ne potevano più dei sacrifici imposti loro dalla guerra, e il governo Badoglio chiedeva loro di continuare a sopportarla.

Così a metà agosto '43 gli operai di Torino e Milano scendono di nuovo in sciopero chiedendo con ancora più forza di prima la fine della guerra. Le autorità locali rispondono ancora una volta con la repressione, ma più efficace di questa risultò il viaggio di Piccardi, Buozzi e Roveda al nord per incontrare i rappresentanti degli operai e convincerli a riprendere il lavoro. Prima ancora di avere rifondato le loro organizzazioni, i sindacalisti del regime "democratico" cominciano il loro sporco lavoro antioperaio!

Presi tra repressione, concessioni e promesse, gli operai ritornano al lavoro, aspettando gli eventi. Questi cambiano rapidamente. Già nel luglio gli alleati erano sbarcati in Sicilia, l'8 settembre Badoglio firma l'armistizio con gli alleati, scappa al sud insieme al re e chiede alla popolazione di continuare la guerra contro i nazifascisti. Dopo qualche manifestazione di entusiasmo, la reazione è quella di una smobilitazione disordinata. Molti soldati gettano via le divise e se ne tornano a casa, oppure si nascondono.

Gli operai, che non erano capaci di insorgere sul proprio terreno di classe, non accettano di prendere le armi contro i tedeschi e tornano al lavoro, preparandosi ad avanzare le loro rivendicazioni immediate contro i nuovi padroni dell'Italia del nord. In effetti l'Italia è divisa in due: al sud ci sono le truppe alleate e una parvenza di governo legale; al nord comandano invece di nuovo i fascisti, o per meglio dire le truppe tedesche.

Anche senza una partecipazione popolare, nei fatti la guerra continua. I bombardamenti alleati nel nord Italia si fanno ancora più duri e con essi diventano più dure le condizioni di vita degli operai. Così, nel novembre-dicembre gli operai riprendono la via della lotta, affrontando questa volta una repressione ancora più dura. Accanto agli arresti stavolta c'è una minaccia ancora più pericolosa: la deportazione in Germania.

Coraggiosamente gli operai avanzano le loro rivendicazioni. A novembre scioperano gli operai di Torino, le cui rivendicazioni vengono in buona parte accettate. All'inizio di dicembre scendono in sciopero gli operai di Milano, anche qui promesse e minacce da parte delle autorità tedesche. Significativo il seguente episodio: "Alle 11,30 arriva il generale Zimmerman il quale intima: chi non riprende il lavoro esca dallo stabilimento; chi esce è dichiarato nemico della Germania. Tutti gli operai escono dallo stabilimento" (Da un giornale clandestino del PCI, citato da Turone, pag. 47). A Genova il 16 dicembre gli operai scendono in piazza, ma questa volta le autorità tedesche usano il pugno forte: ci sono scontri con morti e feriti, scontri che proseguono sempre con la stessa durezza per tutto il mese di dicembre in tutta la Liguria.

E' questo il segnale della svolta: il movimento si è indebolito, anche a causa della divisione dell'Italia in due; i tedeschi, in difficoltà sul fronte, non possono più consentire l'interruzione della produzione e affrontano con risolutezza la questione operaia (anche perché questa comincia a presentarsi, con scioperi, all'interno della stessa Germania); infine il movimento comincia a snaturarsi, a perdere il suo carattere spontaneo e classista, grazie anche al lavorio delle forze "antifasciste" che cercano di dare alla protesta operaia il carattere di lotta "di liberazione", favoriti in questo dal fatto che numerose avanguardie operaie per sfuggire alla repressione riparano in montagna, dove vengono arruolate nelle bande partigiane. In effetti ci sono ancora scioperi nella primavera del '44 e del '45, ma ormai la classe operaia ha perso l'iniziativa.

GLI SCIOPERI DEL 1943: UNA LOTTA CLASSISTA E NON UNA GUERRA ANTIFASCISTA

La propaganda borghese cerca di presentare tutto il movimento di scioperi dal '43 al '45 come una lotta antifascista. I pochi elementi che abbiamo ricordato dimostrano che non è così. Gli operai lottano contro la guerra e i sacrifici che essa impone loro. E per farlo si scontrano contro i fascisti quando questi sono ufficialmente al potere (nel marzo), contro il governo non più fascista di Badoglio (nell'agosto), contro i nazisti quando questi sono i veri padroni del nord Italia (nel dicembre).

Quello che invece è vero è che le forze "democratiche" e della sinistra borghese, PCI in testa, fin dall'inizio cercano di snaturare il carattere classista della lotta operaia per deviarla su quello borghese della lotta patriottica e antifascista. Ed è a questo lavoro che dedicano tutti i loro sforzi: colte di sorpresa dal carattere spontaneo del movimento, le forze "antifasciste" sono costrette ad inseguirlo, cercando nel corso stesso degli scioperi di inserire le loro parole d'ordine "antifasciste" in mezzo a quelle degli scioperanti; spesso i militanti locali si mostrano incapaci di farlo, prendendosi per questo tutti i rimproveri dei dirigenti dei loro partiti. Tutti presi dalla loro logica borghese, i dirigenti di questi partiti non riescono, o hanno difficoltà, a capire che per gli operai lo scontro è sempre contro il capitale, quale che sia la forma in cui si presenta: "ricordiamo quanta fatica facemmo nei primi tempi della lotta di liberazione a far capire a operai e contadini che non avevano una formazione comunista (sic!), che capivano che bisognava lottare contro i tedeschi magari, ma che dicevano 'per noi, che siano padroni gli italiani o i tedeschi, poi non ha tanta differenza'" (E. Sereni, dirigente all'epoca del PCI, in "Il governo del CL", citato da Romolo Gobbi: Operai e resistenza, pag.34) (2).

E no, signor Sereni, gli operai capivano benissimo che il loro nemico era il capitalismo, che era contro di esso che bisognava battersi, quale che fosse la forma in cui si presentava; così come voi, borghesi come i fascisti che combattevate, capivate che era proprio questo il pericolo contro cui vi battevate!

Non siamo certo tra quelli che negano la necessità della lotta politica per una vera emancipazione del proletariato; il problema è quale politica, su quale terreno, in che prospettiva. Quella della lotta "antifascista" era una politica tutta patriottica e nazionalborghese, che non metteva in discussione il potere del capitale. Invece, anche se solo in nuce, la più semplice rivendicazione "pane e pace", se portata fino in fondo, e fu questo che gli operai italiani non furono capaci di fare, conteneva in sé la prospettiva della lotta al capitalismo, che questa pace e questo pane non era capace di concedere.

NEL 1943 LA CLASSE OPERAIA DIMOSTRA DI NUOVO LA SUA NATURA ANTAGONISTA AL CAPITALE...

"Pane e pace", una parola d'ordine semplice e immediata, che fece tremare di paura la borghesia mettendo in pericolo i suoi piani imperialisti. Pane e pace era la parola d'ordine su cui si era mosso il proletariato russo nel 1917 e a partire dalla quale aveva cominciato il suo cammino rivoluzionario che lo portò alla presa del potere nell'ottobre. Ed infatti anche nel 1943 non mancarono gruppi operai che negli scioperi del '43 avanzavano la parola d'ordine di formazione dei Soviet, ed è noto, così come è riconosciuto a volte anche dalle ricostruzioni dei partiti "antifascisti", che in buona parte degli operai la partecipazione alla resistenza era vista non in funzione patriottica ma anticapitalista.

Infine, il timore della borghesia era giustificata dal fatto che movimenti di sciopero ci furono anche in Germania nello stesso 1943 e successivamente in Grecia, Belgio, Francia e Gran Bretagna (3).

Con questi movimenti la classe operaia ritorna sulla scena sociale minacciando il potere borghese. L'aveva già fatto, vittoriosamente, nel 1917, quando la rivoluzione russa aveva costretto i contendenti a mettere fine prematuramente alla guerra mondiale, per affrontare tutti uniti il pericolo proletario che dalla Russia si andava estendendo all'intera Europa.

Come abbiamo visto, gli scioperi in Italia accelerarono la caduta del fascismo ed anche l'uscita dell'Italia dalla guerra. Con questa sua azione la classe operaia confermò anche nella seconda guerra mondiale di essere l'unica forza sociale capace di opporsi alla guerra. Contrariamente infatti al pacifismo piccolo-borghese, che manifesta per "chiedere" al capitalismo di essere meno bellicoso, la classe operaia, quando agisce sul proprio terreno di classe, mette in discussione il potere stesso del capitalismo, e quindi la sua possibilità di continuare le proprie imprese belliche.

Potenzialmente, gli scioperi del '43 contenevano la stessa minaccia del 1917: la prospettiva di un processo rivoluzionario del proletariato.

Le frazioni rivoluzionarie dell'epoca colsero, sopravvalutandola, questa possibilità e si diedero da fare per favorirla. La Frazione Italiana della Sinistra Comunista (che pubblicava prima della guerra la rivista Bilan), superando le difficoltà che aveva conosciuto all'inizio della guerra, tenne, insieme al neonato Nucleo Francese della Sinistra Comunista, una conferenza nell'agosto del 1943 a Marsiglia, sull'onda dell'analisi secondo cui gli avvenimenti italiani avevano aperto una fase prerivoluzionaria per cui era giunto il momento della "trasformazione della frazione in partito" e del ritorno in Italia per contrastare il tentativo dei falsi partiti operai di "mettere il bavaglio alla coscienza rivoluzionaria" del proletariato. Comincia così tutto un lavoro di difesa del disfattismo rivoluzionario che portò la Frazione a diffondere nel giugno del 1944 un manifesto agli operai d'Europa irreggimentati nei diversi eserciti in guerra perché fraternizzassero e rivolgessero la loro lotta contro il capitalismo, quello democratico come quello fascista.

Anche i compagni che erano rimasti in Italia si riorganizzano e, sulla base di un'analisi simile a quella di Bilan, fondano il Partito Comunista Internazionalista. Questa organizzazione comincia anch'essa un lavoro di disfattismo rivoluzionario, combattendo il patriottismo delle formazioni partigiane e propagandando la rivoluzione proletaria (4).

Dopo cinquant'anni, se non possiamo non ricordare con orgoglio il lavoro e l'entusiasmo di questi compagni (alcuni dei quali persero la vita per questo), dobbiamo però riconoscere che l'analisi che li sorreggeva era sbagliata.

...MA LA GUERRA NON E' LA SITUAZIONE MIGLIORE PER LO SVILUPPO DI UN PROCESSO RIVOLUZIONARIO

I movimenti di lotta che abbiamo ricordato, e in particolare quelli dell'Italia nel 1943, dimostrano indubbiamente il risorgere del proletariato sul proprio terreno di classe e l'inizio di un potenziale processo rivoluzionario. Tuttavia l'esito non fu lo stesso del movimento nato contro la guerra nel 1917: il movimento del 1943 in Italia non riuscì a mettere fine alla guerra come quello in Russia e poi in Germania dell'inizio del secolo, e nemmeno riuscì ad evolvere fino ad uno sbocco rivoluzionario (che solo avrebbe potuto anche mettere fine alla guerra).

Le ragioni di questa sconfitta sono diverse, alcune di ordine generale, altre specifiche della situazione in cui si svilupparono questi avvenimenti.

Innanzitutto se è vero che la guerra spinge il proletariato ad agire in modo rivoluzionario, questo avviene principalmente nei paesi vinti. Il proletariato dei paesi vincitori resta generalmente molto più sottomesso ideologicamente alla classe dominante, cosa che contrasta l'indispensabile estensione mondiale che la sopravvivenza del potere proletario richiede. Inoltre, se la lotta arriva ad imporre la pace alla borghesia, essa si priva di per ciò stesso delle condizioni straordinarie che hanno fatto nascere questa lotta. In Germania, per esempio, il movimento rivoluzionario che condusse all'armistizio del 1918 soffrì fortemente, dopo questo, della pressione di tutta una parte di soldati che tornati dal fronte non avevano che un desiderio: rientrare nelle loro famiglie, gioire di questa pace tanto desiderata e a così  caro prezzo conquistata. In realtà, la borghesia tedesca aveva tirato le lezioni della Rivoluzione in Russia in cui il proseguimento della guerra da parte del governo provvisorio, successore del regime zarista dopo il febbraio '17, aveva costituito il miglior alimento dell'ascesa rivoluzionaria in cui i soldati avevano giocato un ruolo di primo piano. Per questo il governo tedesco firmò l'armistizio con l'Intesa fin dall'11 novembre, due giorni dopo l'inizio dell'ammutinamento nella flotta da guerra a Kiel.

Dall'altro lato, questi insegnamenti del passato sono messi a profitto dalla borghesia nel periodo che precede la seconda guerra mondiale. La classe dominante si lancia nella guerra solo dopo essersi assicurata che il proletariato fosse completamente assoggettato. La sconfitta del movimento rivoluzionario degli anni venti aveva spinto il proletariato in un profondo scombussolamento, alla demoralizzazione si erano aggiunte le mistificazioni sul "socialismo in un paese solo" e sulla "difesa della patria socialista". Questo scombussolamento consente peraltro alla borghesia di fare la prova generale della guerra mondiale attraverso la guerra di Spagna, dove l'eccezionale combattività del proletariato spagnolo viene deviata sul terreno della lotta antifascista e dove lo stalinismo riesce a trascinare su questo terreno borghese anche importanti battaglioni del restante proletariato europeo.

Infine, nel corso della guerra stessa, quando nonostante questa debolezza di partenza il proletariato comincia ad agire sul proprio terreno di classe, la borghesia prende subito le sue misure.

In Italia, dove più forte era il pericolo, la borghesia, come abbiamo visto, si affretta a cambiare regime e poi alleanze. Nell'autunno del 1943 l'Italia è divisa in due, con il sud in mano agli alleati e il resto occupato dai nazisti; su consiglio di Churchill ("bisogna lasciar cuocere l'Italia nel suo brodo"), gli alleati ritardano la loro avanzata verso il nord ottenendo così due risultati: da un lato si lascia all'esercito tedesco il compito di reprimere il movimento proletario, dall'altro si consente alle forze "antifasciste" il compito di deviare questo stesso movimento dal terreno di una lotta anticapitalista a quello della lotta antifascista. Nel giro di quasi un anno questa operazione riesce, e da allora l'azione proletaria, anche se continua a rivendicare miglioramenti immediati, non è più autonoma. D'altra parte agli occhi dei proletari la continuazione della guerra è dovuta all'occupazione nazista, per cui la propaganda delle forze antifasciste ha facile gioco.

Quella della guerra partigiana come lotta popolare è in gran parte una favola, perché essa fu una guerra vera e propria organizzata dalle forze alleate e antifasciste e in cui la popolazione veniva arruolata a forza (o con l'inganno ideologico) come in qualsiasi altra guerra; è però anche vero che il fatto che fu lasciato ai nazisti il compito di reprimere il movimento proletario e di risultare i responsabili della continuazione della guerra, favorì il crescere di un odio antifascista e quindi la propaganda delle forze partigiane.

In Germania, forte dell'esperienza del primo dopoguerra, la borghesia mondiale ha condotto un'azione sistematica per evitare il ritorno di avvenimenti simili a quelli del 1918-19. In primo luogo, poco prima della fine della guerra, gli Alleati procedono a uno sterminio di massa delle popolazioni dei quartieri operai attraverso bombardamenti senza precedenti di grandi città come Amburgo o Dresda, dove, il 13 febbraio 1945, 135.000 persone (il doppio di Hiroshima) muoiono sotto le bombe. Questo obiettivo non aveva nessun valore militare (e d'altra parte le armate tedesche erano già in piena rotta): si tratta in realtà di terrorizzare ed impedire ogni organizzazione del proletariato. In secondo luogo, gli Alleati rigettano ogni proposta di armistizio fino a che non hanno occupato la totalità del territorio tedesco: essi vogliono amministrare direttamente questo territorio sapendo che la borghesia tedesca vinta rischia di non essere capace di controllare da sola la situazione. Infine, dopo la capitolazione di questa, e in stretta collaborazione con essa, gli Alleati trattengono per lunghi mesi i prigionieri di guerra tedeschi, al fine di evitare la miscela esplosiva che il loro ricongiungimento con la popolazione civile avrebbe potuto costituire.

In Polonia, nel corso della seconda metà del 1944, è l'Armata Rossa che lascia lo sporco compito di massacrare gli operai insorti a Varsavia alle forze naziste: l'Armata Rossa aspettò dei mesi a pochi chilometri da Varsavia che le truppe tedesche soffocassero la rivolta. La stessa cosa avvenne a Budapest all'inizio del 1945.

Così in tutta l'Europa la borghesia, forte dell'esperienza del 1917, e messa sull'avviso dai primi scioperi operai, non aspetta che il movimento cresca e si rafforzi: con lo sterminio sistematico, con il lavoro di deviazione delle forze staliniste e antifasciste, essa riesce a bloccare il pericolo proletario e impedirgli di crescere.

50 ANNI DOPO IL 1943 IL PROLETARIATO DEVE TRARRE LE SUE LEZIONI

Il proletariato non riuscì a bloccare la seconda guerra mondiale, nè tantomeno riuscì a sviluppare un movimento rivoluzionario. Ma come per tutte le battaglie del proletariato, le sconfitte possono essere trasformate in armi per il domani, se il proletariato ne trae le giuste lezioni. E queste lezioni, tocca in primo luogo ai rivoluzionari metterle in evidenza, identificarle con chiarezza. Un tale lavoro presuppone in particolare che essi, sulla base di una profonda assimilazione dell'esperienza del movimento operaio, non restino prigionieri degli schemi del passato, come accade ancora oggi alla maggior parte dei gruppi rivoluzionari, come Battaglia Comunista o le diverse cappelle della tendenza bordighista.

In forma molto sintetica, ecco le principali lezioni che bisogna tirare dall'esperienza di mezzo secolo del proletariato.

Contrariamente a quello che pensavano i rivoluzionari del passato, la guerra generalizzata non crea le migliori condizioni per la rivoluzione proletaria. Questo è tanto più vero oggi in cui i mezzi di distruzione esistenti renderebbero un eventuale conflitto mondiale così devastante da impedire qualsiasi possibilità di reazione proletaria.

Se c'è una lezione che i proletari devono tirare dalla loro esperienza passata è che per lottare contro la guerra oggi, essi dovranno agire prima di una guerra mondiale; durante, sarebbe troppo tardi.

Oggi, le condizioni per un nuovo conflitto mondiale non ci sono ancora: da un lato il proletariato non è irreggimentato perché la borghesia possa scatenare un tale conflitto, unica soluzione che essa conosce alla sua crisi storica. Dall'altro lato il crollo del blocco dell'est, se ha messo in moto, come la CCI ha messo in evidenza, una tendenza alla formazione di due nuovi blocchi imperialisti, si è ancora molto lontani dalla loro effettiva costituzione, e senza blocchi non ci può essere guerra mondiale.

Questo non vuol dire che la tendenza alla guerra e delle guerre vere e proprie non esistano; dalla guerra del Golfo del 1991 a quella della Yugoslavia oggi, passando per i tanti conflitti diffusi per il mondo, ce ne è abbastanza per capire come il crollo del blocco dell'est non abbia aperto un periodo di nuovo ordine mondiale, ma al contrario un periodo di instabilità crescente che può portare a un nuovo conflitto mondiale (a meno che la società non sia distrutta prima dalla decomposizione) se il proletariato non lo precederà con la sua azione rivoluzionaria. La coscienza di questa tendenza alla guerra è un fattore importante per il rafforzamento di questa possibilità rivoluzionaria.

L'altro e più potente fattore di presa di coscienza del fallimento del capitalismo è la crisi economica, una crisi economica catastrofica che non può trovare soluzione all'interno del capitalismo. L'insieme di questi due fattori creano delle condizioni migliori per la crescita rivoluzionaria della lotta proletaria. Ma questo sarà possibile se i rivoluzionari stessi sapranno abbandonare le vecchie idee del passato e adattare il loro intervento alle nuove condizioni storiche.

                                   HELIOS

1. Sergio Turone, Storia del Sindacato in Italia, editori Laterza.

2. Romolo Gobbi, Operai e Resistenza, Mussolini editore. Questo libro, benché marcato dall'impostazione consiliarista-apolitica dell'autore, mostra bene il carattere anticapitalista e spontaneo del movimento del '43; così come mostra bene, anche attraverso le ampie citazioni tratte dall'archivio del PCI, il carattere nazionalista e patriottico dell'azione del PCI in questo movimento.

3. Per altri particolari su questo periodo vedere: Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia, edizioni Quaderni Piacentini.

4. Sull'azione della Sinistra Comunista durante la guerra, vedere il nostro libro La Sinistra Comunista Italiana 1927-52, richiedibile al nostro indirizzo.

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