Il 19 aprile scorso si è tenuta a Napoli una giornata di discussione tra compagni animati dall’esigenza di confrontarsi su questioni di fondo.
Questa iniziativa è stata promossa dalla CCI sulla base di esperienze analoghe promosse a Londra, a Bruxelles ed a Marsiglia[1] con l’intento di creare un luogo di incontro e di confronto per tutti quelli che avvertono la necessità di chiarirsi le idee su questa società e sui numerosi problemi che premono sull’insieme dei proletari e sulla nuova generazione. Avere la possibilità di ritrovarsi per discutere in un clima aperto, fraterno, dove è possibile esprimere i propri dubbi, le proprie preoccupazioni, ma anche la propria voglia di reagire di fronte allo sfacelo in cui si è costretti a vivere, è particolarmente importante oggi dove la nuova fase di ripresa della lotta di classe si manifesta non solo con la lotta aperta in vari paesi[2], ma soprattutto con l’emergere di una riflessione su quello che è questo mondo, in particolare su quale futuro ci aspetta, su quale potrebbe essere una prospettiva diversa.
La partecipazione dei compagni intervenuti è stata convinta e piena di entusiasmo. Diversi di loro hanno anche partecipato a tutta la fase preparatoria, ad esempio cercando la sala per la riunione, organizzando il buffet per il pranzo, preparando le introduzioni sui due temi, o assumendosi specifici compiti durante la riunione, come la preparazione delle conclusioni delle discussioni svolte sui due singoli temi. Tutti i compagni intervenuti hanno contribuito alle spese e, naturalmente, hanno partecipato attivamente al dibattito. La CCI ha messo a disposizione la sua esperienza politica ed organizzativa affinché la discussione potesse svilupparsi pienamente ed in maniera fruttuosa senza trascurare al contempo dei momenti conviviali per permettere ai diversi compagni di conoscersi.
I temi che i compagni, attraverso un sondaggio preventivo, hanno scelto di discutere, sono i seguenti:
Sarebbe difficile riportare per intero il dibattito. Ci limiteremo dunque a sintetizzare gli elementi essenziali emersi sui due temi in discussione, accludendo ovviamente le presentazioni delle due singole presentazioni. Aggiungeremo dunque un contributo di un compagno su una questione specifica che è sorta nella discussione a proposito del “microcredito” e un bilancio personale dello stesso compagno sulla riunione. Accludiamo infine una lettera della CCI inviata ai compagni che hanno partecipato alla riunione del 19 aprile che, per i suoi contenuti, è valida per tutti i compagni.
In conclusione l’elenco del materiale che pubblichiamo è il seguente:
[1] Vedi sul nostro sito web gli articoli: “WR Day of Study: Presentations and discussions”, “Journée d'étude du CCI en Grande-Bretagne: un débat vivant et fraternel”, “Journée de rencontre et de discussion avec le CCI d'août 2007: chercher ensemble une alternative pour cette société agonisante” e “Journée de discussion à Marseille: un débat ouvert et fraternel sur un autre monde est-il possible?”
[2] I compagni possono trovare sulle diverse pagine del nostro sito numerosi articoli sulle lotte nel mondo.
1° tema: Quale futuro ci riserva questa società? Esiste un’alternativa? E quale?
La prospettiva capitalista
La breve ma ricca introduzione[1] ha ben sintetizzato le conseguenze catastrofiche del degrado del capitalismo sui vari piani della vita economica, politica e sociale della stragrande maggioranza dell’umanità e vari interventi successivi hanno confermato questo quadro. In particolare un compagno ha ricordato come la miseria, la guerra e il degrado sociale estremo siano ormai la realtà quotidiana in molti paesi, dal Pakistan al Kosovo, dalla Somalia allo Zimbawe, e come la barbarie “arriva fino al punto che in Iran prima fucilano le donne negli stadi e poi giocano a pallone con le loro teste”. Un altro compagno ha sottolineato come tutto questo non sia il frutto di una cattiva volontà o gestione di chi comanda, ma la conseguenza della fase di declino di questo sistema: “viviamo in un mondo strangolato dal mondo finanziario internazionale, che domina il capitale industriale…. Per garantirsi il saggio di profitto il sistema raddoppia il prezzo del pane e la gente non riesce più a comprarsi un pezzo di pane …. Per sopravvivere è costretto a smantellare tutto il sistema sociale. Esiste una contraddizione tra l’umanità da una parte ed il sistema dall’altra. Tra il moderno proletariato ed il capitale attuale. Alla borghesia farebbe comodo che le cose funzionassero, ma questa è una crisi strutturale epocale o meglio l’accelerazione della crisi storica del capitalismo”. Il compagno ha aggiunto che secondo lui questa contraddizione inizia ad essere avvertita con maggiore chiarezza: “La gente si domanda ‘ma perché non siamo in grado di impedire che la metà dell’umanità muoia di fame?’ La risposta è che i mezzi per impedirlo ci sarebbero, ma quello che domina è la legge del profitto e questa consapevolezza si sta facendo strada…perché si vivono contraddizioni non più compatibili: milioni di famiglie non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e ci sono due generazioni di precari disperati”.
Come ha giustamente sottolineato un’altra compagna, non è solo sul piano economico che questo sistema ci sta stritolando: “Il denaro influenza la nostra vita, senza lavoro si muore. Ma questa società ci sta levando la cosa più importante: la dignità umana. E come? Impedendoci di pensare e spingendoci a vedere il nostro vicino, l’altro essere umano, come il nostro nemico o quello dei nostri figli, come quello che domani ci fotterà. Essendo mamma spero che ci sia un futuro per i miei figli e credo che ci dobbiamo dare da fare e riflettere su come farlo. Nella storia dell’umanità ci sono stati tentativi di ribaltare questa società. Ci sono stati anche errori. Ma non c’è alternativa, questo dobbiamo fare. Non si può vivere in una società dove si gioca a pallone con le teste delle persone”.
Altri compagni sono intervenuti nello stesso senso insistendo sul fatto che la borghesia ha “giocato” fino ad ora anche con le nostre teste facendoci illudere che una sinistra al governo potesse portare qualche beneficio per i lavoratori tanto è vero che “ancora nelle ultime elezioni molte persone hanno avuto paura che cadesse la sinistra e tornasse Berlusconi”, quando l’esperienza, secondo questi compagni, ha ampiamente dimostrato che “chiunque è andato al governo ha portato avanti sempre la stessa politica di batoste”.
Cambiare la società, ma come?
Se sulla prospettiva catastrofica che ci riserva il capitalismo è emersa una certa omogeneità di pensiero tra i partecipanti, delle opinioni diverse e dei dubbi sono invece stati espressi rispetto ad una possibile alternativa a questo stato di cose. Secondo molti dei compagni presenti l’unica alternativa possibile è abbattere il capitalismo e costruire una società basata sui reali bisogni umani: “esiste forse uno solo dei problemi dell’umanità che possa essere risolto all’interno del contesto capitalista?”, “l’umanità sarebbe in grado di costruire un mondo diverso, con la scienza e la tecnica cui si è giunti. Dovremmo da tempo essere oltre questo orizzonte sociale”. Ma come operare questo cambiamento? Su quali forze poter contare? Rispetto ad interventi che alludevano al ruolo mistificatorio di forze come Rifondazione comunista o i Verdi, due compagne hanno esplicitato i loro dubbi: “non capisco qual è questo lato positivo del fatto che la sinistra non sta in parlamento”, “se le avanguardie rivoluzionarie non sono visibili e se la sinistra borghese fa solo chiacchiere, come si divulga quest’idea di cambiamento?”. Nel rispondere a queste questioni altri compagni hanno sviluppato l’idea che, a differenza del secolo scorso, oggi il parlamento non è più un’arma di difesa o di cambiamento per i proletari perché il sistema non è più in grado di concedere dei reali miglioramenti né sul piano economico né sul piano sociale. Secondo una compagna infatti ci si deve chiedere come mai tutte le volte che la sinistra è andata al governo la nostra condizione è peggiorata: “Perché lo fanno? Sono scemi o c’è un motivo? Il motivo è che non possono darci più niente”. Secondo un altro compagno “non cambia comunque niente anche cambiando chi ci rappresenta in parlamento. Il fatto è che la crisi è tale che chiunque va al governo non può che fare certe scelte …. Non è quindi con le elezioni che si può cambiare”. Più compagni hanno inoltre insistito sull’idea che questo cambiamento bisogna farlo in prima persona, che non può essere delegato a nessuno, tanto meno alla sinistra parlamentare o radicale perché come ha detto uno di loro: “Quello che esprimono queste forze è una visione del “meno peggio”. Io non voglio il “meno peggio”. Oggi io lascio in eredità a mio figlio una società decisamente peggiore di quella che mi ha lasciato mio padre e con una prospettiva ancora peggiore. … Non è vero che [queste forze] hanno rappresentato la classe operaia ma un concetto di società che si accontenta, una visione di un capitalismo dal volto nuovo … Quel tipo di delega non funziona. Per me si è fatta chiarezza… non hanno un concetto di società diversa [dal capitalismo]”.
La conclusione di questa parte della discussione è stata dunque che il capitalismo va eliminato e sostituito con una società diversa. Questa è la prospettiva verso cui dobbiamo andare. Ma, si sono chiesti dei compagni, in attesa che si possa sviluppare la possibilità della rivoluzione, è possibile operare dei cambiamenti all’interno del capitalismo che ne attenuino gli effetti nefasti e preparino la prospettiva più generale? Tanto più che “in questa società ci viviamo e agiamo quotidianamente, e sarebbe dunque il caso di cominciare a fare qualcosa”. Ma per fare questo, ha suggerito un altro compagno, “il futuro lo dobbiamo costruire capendo anche che cosa vogliamo costruire”. In particolare questi compagni avevano in mente il desiderio di poter cominciare a costruire qualcosa di alternativo all’interno di questa società, che potesse opporsi progressivamente al capitalismo e costituire, sul piano materiale come su quello ideale, una base per la prossima società. A tale riguardo la riunione ha discusso di due diverse idee che sono state avanzate: quella del microcredito e quella delle coabitazioni.
Sulla prima idea del microcredito, un compagno ha evocato l’esperienza della banca del premio Nobel Yunus che avrebbe permesso, in Bangla Desh, di elargire credito anche agli strati più poveri della popolazione, costituendo così un possibile modello da sviluppare e propagare per assicurare, quanto meno, la sopravvivenza alle popolazioni più povere del mondo, “non perché Yunus sia meglio delle banche capitaliste, ma si potrebbe partire da qui per vedere cosa possiamo prendere di buono per poi andare avanti”.
Nell’esperienza delle coabitazioni - le co-housing, già citate nella introduzione alla discussione - una compagna vede invece “non la risposta ai problemi del capitalismo”, ma l’espressione di un “bisogno di comunità anche se surrogato”, “l’esempio di solidarietà, di un modo diverso di rapportarsi, che è quello che dovremo andare a fare nel comunismo”.
Dei compagni sono intervenuti per sottolineare che è la stessa dinamica della società che porta in sé delle potenzialità verso una prospettiva comunista che bisogna saper cogliere e sviluppare, come appunto il bisogno di comunità insito nelle co-housing, o anche il fatto che “una realtà come la precarietà - che è in sé un elemento negativo - si porta dietro delle potenzialità di sviluppo di una altra società” in quanto “libera i proletari dal legame stretto con la propria fabbrica”.
Nel merito delle singole questioni poste, pur comprendendo ed in parte condividendo molte delle preoccupazioni presenti nella discussione, altri compagni hanno espresso dei disaccordi e dei dubbi sugli esempi specifici riportati. Rispetto al microprestito di Yunus, un compagno ha sostenuto che “questo è nei fatti una sorta di auto-sfruttamento” che “serve al capitale nazionale a rastrellare risorse nelle condizioni di estrema povertà di quel paese”. Un altro ha ricordato come anche il “commercio equo e solidale” viene spacciato come un modo per sostenere i lavoratori più poveri del terzo mondo, ma in realtà non cambia in niente la loro sorte. Un’altra compagna ha detto che nel capitalismo “qualcosa di meno peggio ci può sempre essere, ma questo non risolve il problema. Il fatto è che anche noi stiamo arrivando alla situazione della povera donna del Bangla Desh che non sa come mangiare e anche noi dovremo chiedere il microprestito per sopravvivere”.
Rispetto alle coabitazioni un compagno ha risposto: “potrei essere d’accordo con la definizione della coabitazione come potenzialità, ma non come proposta tattica … soprattutto questa potenzialità deve essere collegata alla lotta di classe” nel senso che solo in un movimento ampio di scontro di classe queste potenzialità possono diventare degli elementi di avanzamento. Un altro intervento ha ricordato che le comunità agricole organizzate da Tolstoi non ebbero alcun futuro proprio perché secondo il compagno erano, come quelle di oggi, “solo associazioni di difesa, non possono essere una configurazione di socialismo”. Ad una compagna infine la coabitazione non sembrava una forma innovativa, perché “è la società che ci sta obbligando alla coabitazione”.
Data l’importanza delle due tematiche sollevate, la nostra organizzazione ha invitato i partecipanti a continuare la discussione attraverso dei contributi scritti da scambiare tra i compagni. Un compagno ha immediatamente ascoltato il nostro appello inviandoci un contributo sulla questione del microprestito che noi pubblichiamo in sequenza.[2]
2° tema: Che significa oggi classe operaia? Ha ancora un senso parlare di proletariato? E chi vi appartiene?
La discussione su questo secondo tema è stata meno sviluppata rispetto alla precedente per motivi di tempo e di stanchezza, ma probabilmente anche perché si è troppo focalizzata su di un solo aspetto della questione, “chi appartiene alla classe operaia?”, a scapito dell’aspetto politico più generale di cosa è la classe operaia e del perché essa è l’unica che potrà operare il cambiamento di società di cui si parlava nel primo punto. Una migliore definizione del tema ed un più stretto legame tra questo ed il primo tema della giornata in sede di programmazione, avrebbero potuto evitare una tale debolezza.
L’introduzione, anch’essa sintetica ma molto efficace nel riprendere gli elementi essenziali della questione[3], è stata subito ripresa da un compagno su diversi punti: “Occorre capire che la differenza tra classe operaia, cioè quella industriale, e proletariato, scompare se ci riferiamo al criterio fondamentale che è la vendita della forza lavoro. Una volta si usava di più il termine classe operaia perché il rapporto di lavoro salariato era concentrato soprattutto nel settore industriale. Oggi ci sono strati una volta intermedi tra proletariato e borghesia che sono ormai proletari per il rapporto che hanno con il capitale. Bisogna capire bene come si presenta il moderno proletariato: se facciamo riferimento agli studenti francesi, vediamo che le questioni poste, e il loro modo di organizzarsi ne dimostrano la natura proletaria. La stessa cosa la possiamo dire per la manifestazione dei precari che si è avuta a Roma nell’ottobre scorso. E sarebbe un errore grave sottovalutare il potenziale enorme che esiste in questo proletariato. Se la borghesia sviluppa tante teorie per negare l’esistenza della classe operaia, è proprio per disinnescare questo potenziale. Noi invece dobbiamo porci la questione di come si unisce questa classe, e la risposta la possiamo trovare se ci riferiamo alla storia”. Il compagno ha ricordato come la classe operaia nel ’17 in Russia abbia trovato nei Soviet la sua unità e la capacità di sviluppare la sua coscienza aggiungendo che “Il problema del proletariato è costruire la sua coscienza, ed è in questo processo che il partito può e deve giocare un ruolo. I bolscevichi inizialmente erano minoranza nei soviet, perché all’inizio la coscienza del proletariato non era ancora sviluppata fino in fondo, cosa che avvenne nei mesi successivi. Quindi la classe operaia ha in sé questa capacità e non bisogna farsi ingannare dalla situazione contingente”.
Un altro compagno ha detto che a lui, sulle prime, definire chi fa parte della classe “… sembrava inutile, perché a me, proletario da 40 anni, sembra chiaro”, ma che è invece vero che il peso della propaganda borghese fa sì che “a volte gli stessi proletari non si riconoscono tali, e bisogna spiegarglielo, per non farci dividere dalla borghesia. Il proletariato potrà essere più diffuso sul territorio rispetto a prima, almeno in occidente, ma è ancora maggioranza”.
La discussione si è quindi sviluppata animatamente su chi fa parte della classe operaia. Diverse le obiezioni e le osservazioni fatte a proposito.
Nella discussione sono stati avanzati diversi elementi di risposta:
Ciò detto, è stato ricordato che questo non significa che la classe operaia in lotta non possa e non debba cercare un dialogo con i poliziotti e con i soldati per farli riflettere sulla loro condizione e chiamarli ad unirsi alla lotta, come fecero gli operai russi durante la rivoluzione del ’17 o come hanno fatto gli studenti in Francia nel 2005 di fronte ai poliziotti mandati a sfollarli dalle università.
Un primo bilancio
Alla fine della discussione sui temi previsti è stato lasciato uno spazio perché i partecipanti potessero esprimere una prima valutazione sulla giornata, suggerire eventuali correzioni per iniziative future ed altro.
In generale tutti i compagni hanno dato un apprezzamento positivo per la giornata trascorsa, con un’insistenza particolare sull’importanza di avere opportunità come queste per poter rompere l’isolamento, incontrarsi e discutere insieme delle preoccupazioni comuni. Diversi compagni hanno quindi espresso la necessità di dare seguito a questa iniziativa con altri incontri. Un compagno ha suggerito come possibile tema “il movimento del ’68 ed i successivi 40 anni di lotta di classe”. Alcuni hanno notato che la discussione sul secondo punto era piaciuta di meno rispetto alla prima, mentre una compagna ha espresso una valutazione critica su questa seconda parte perché la questione di cosa è la classe operaia le era sembrata “troppo astratta” mentre avrebbe preferito “chiarire di più degli aspetti concreti”.
Un’altra compagna ha suggerito, per il futuro, di scegliere “più attualità e meno teoria, come primo impatto”, nel senso di partire “dalla interpretazione e spiegazione concreta di fenomeni di attualità”. Un altro compagno ha osservato che, se va senz’altro recepito questo suggerimento, è anche vero però che “almeno il primo punto è nato dall’esigenza concreta, ricordiamo i No-global, i ragazzi di Genova che si sono fatti picchiare su questo tipo di questioni”. Infine è stato osservato che bisogna stare attenti nella discussione a non dare per scontato certi termini o certi concetti. Questa preoccupazione è molto importante perché, come abbiamo detto nel nostro intervento finale “il metodo non è partire da conclusioni già bell’e fatte, ma cercare di costruire queste conclusioni man mano, partendo proprio dagli elementi che escono dalla discussione; Il contrario potrebbe scoraggiare dei compagni, soprattutto quelli che partecipano per la prima volta ad un dibattito del genere. Inoltre partire dalle questioni basilari, soffermandosi nel confronto su concetti che troppo spesso diamo per scontati, significa sviluppare un reale approfondimento politico e teorico”.
Da parte nostra, come abbiamo già espresso alla fine della riunione, il bilancio di questa giornata è molto positivo non solo per la ricchezza di elementi di riflessione che sono emersi e che potranno costituire il punto di partenza per ulteriori discussioni tra i compagni, ma anche ed in particolar modo per il clima di discussione collettiva e solidale che si è sviluppato, dove ognuno ha partecipato, esprimendo i propri dubbi e i propri disaccordi, ad una reale chiarificazione politica. Il che non significa aver raggiunto un accordo sulle questioni dibattute, né tanto meno aver dissipato tutti i dubbi e le perplessità, ma significa essenzialmente avere una visione più chiara di quali sono i reali problemi che si trova ad affrontare l’umanità.
Questa discussione ha costituito un passo in avanti in questa direzione.
La CCI, 16 agosto 2008
[1] Vedi il testo dell’introduzione “Quale futuro ci riserva questa società? Esiste un’alternativa? E quale?”, su questo sito
[2] Vedi il testo “Appunti sulla questione del microprestito”, scritto dal compagno P.
[3] Vedi il testo dell’introduzione “Che significa oggi classe operaia? Ha ancora un senso parlare di proletariato? E chi vi appartiene?”
Dalla fine degli anni ’60 ad oggi il sistema economico internazionale si trova in una diffusa fase di crisi, ma i tassi di crescita del PIL globale sono positivi dal secondo dopoguerra. Non è un paradosso se si scopre che dietro la crescita si nasconde l’ammontare crescente del debito. Un’economia basata sul debito permette agli operatori, pubblici o privati che siano, di creare liquidità e quindi di speculare. È il caso in cui il denaro genera denaro.
Oggi, essendo il capitalismo un sistema complesso, il battito d’ali di una farfalla in Brasile genera uno tsunami in Giappone. Lo abbiamo visto alla fine del 2006 con la crisi del settore edilizio negli Stati Uniti: l’insolvenza dei mutui subprime (ad alto tasso di interesse) ha innescato una reazione a catena provocando il fallimento di numerose agenzie di credito. Da allora la parola catastrofe è circolata tra politici ed economisti, e la stima delle cifre non ha smesso di aumentare. L’ultima stima che gli economisti del Fondo Monetario Internazionale fanno della perdita potenziale è 945 miliardi di dollari. (Il Sole 24 Ore, 9 Aprile 2008).
Sull’altra faccia della medaglia si trova il capitale industriale. Il sistema di produzione attuale non prevede un rapporto razionale tra i bisogni umani e le merci effettivamente prodotte. Potremmo immaginare un gruppo di imprenditori in concorrenza che cercano di produrre la stessa merce ma ad un costo minore per venderla meglio, ma per fare ciò devono aumentare le unità prodotte senza tener conto della richiesta, entrando quindi in sovrapproduzione. Si avranno così una quantità di merci invendute che peseranno sul Capitale come profitto non realizzato. Siamo in regime di completa irrazionalità, in cui vengono disattesi i reali bisogni dell’umanità per la realizzazione di un profitto cieco e pericoloso.
Un’espressione diretta dell’irrazionalità del sistema produttivo sono le trasformazioni irreversibili imposte dall’uomo al sistema Terra. Da quando l’uomo è diventato agricoltore ha sempre trasformato la terra fecondandola e rendendola rigogliosa, disegnando paesaggi e creando luoghi bellissimi. Quello che si è fatto in epoca industriale assomiglia invece ad un tentativo di avvelenamento. Un disastro ecologico rappresenterebbe per l’economia umana la scomparsa di uno dei due termini fondamentali del rapporto: la natura. Di conseguenza si avrebbe la scomparsa del secondo che è l’uomo.
La risposta politica a questa serie di problemi diventa necessaria, ma non è sufficiente. Si veda il caso del protocollo di Kyoto. Una regolamentazione tra gli Stati per l’emissione degli elementi nocivi dove i paesi più inquinanti o non firmano, gli Stati Uniti, oppure sono esonerati dagli standard perché non partecipi dell’inquinamento del primo periodo industriale, Cina e India. La realtà è che industria, energia, trasporti e abitazioni, sono settori economici che trainano gli investimenti statali e privati, ma che se dovessero adattarsi a non inquinare sarebbero puniti dalla competizione sul mercato internazionale. Senza poi contare la “borsa delle emissioni”, dove al mercato si può comprare la possibilità di inquinare.
La marea distruttiva non interessa solo l’ambiente. Con la dissoluzione del blocco dell’Est, cominciata nel 1989, è venuto a mancare quell’equilibrio tra le potenze imperialiste che reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale. Dal 1991 in poi abbiamo avuto una serie di conflitti sanguinosi, in cui gli Stati Uniti hanno tentato di affermare la loro supremazia militare nel mondo cercando, di volta in volta, l’aiuto dei vecchi alleati occidentali. Il primo tentativo si ebbe con la guerra del Golfo a cui è seguita subito dopo la carneficina dell’ex-Jugoslavia, in cui Usa, Germania, Francia e Inghilterra non ricucirono la vecchia alleanza. Di seguito si sono diffusi numerosi conflitti su tutto il pianeta (Somalia, Kosovo, Albania) in cui tutte le maggiori potenze hanno cercato di far valere i propri interessi imperialisti. Affinché gli alleati si trovassero di nuovo al fronte tutti insieme ci volle l’attentato alle Torri Gemelle del 2001. È stata un ottima scusa per invadere quella che già era stata una zona calda, l’Afghanistan, e per continuare, con lo spauracchio delle armi di distruzione di massa, in Iraq due anni dopo.
La violenza utilizzata per l’affermazione della libertà democratica è la stessa che intercorre nei rapporti umani. Le condizioni dello sfruttamento hanno reso il lavoro bestiale, agiscono su quel campo che distingueva l’uomo dall’animale invertendone completamente i termini. È nel lavoro che l’uomo potrebbe esprimere i caratteri sociali della propria specie, nel lavoro potrebbe sfruttare la propria forza in modo volontario e cosciente; ma, dato lo stato dei rapporti umani, è nel lavoro che invece diventa un appendice della macchina produttiva del Capitale, una merce speciale, che vive e soprattutto muore sul lavoro. Marx, nei “Manoscritti” giovanili, mostra come la merce suprema, il denaro, influenzi la vita umana. Questo, con la sua “potenza sovvertitrice”, agisce sull’immagine del possessore che si rispecchia nel denaro stesso e diventa ciò che può pagare. Agisce inoltre sull’individuo e sui vincoli sociali apparentemente immutabili, “muta l’amore in odio e l’odio in amore”( K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pag. 120).
Con la dissoluzione della comunità, del vivere comune, l’uomo è votato alla depressione, all’angoscia. L’isolamento sociale lede la dignità umana e la fiducia in se stessi al punto di generare la scomparsa di una prospettiva futura e far nascere un culto esasperato del presente. Si tende a negare la possibilità di un progetto capace di edificare una società superiore e si afferma una propensione relativistica che porta all’abbandono di uno spazio etico comune.
La rinuncia ad una prospettiva comune porta ad interessarsi ad una serie di progetti. Uno è l’ecologismo, che si basa sulla convinzione della possibilità di un mantenimento dello sviluppo economico compatibile con l’equità sociale e con il rispetto del pianeta. Dall’altra parte ci sono invece i sostenitori della Decrescita, secondo i quali la crescita economica comporterebbe sempre un maggiore impatto ecologico. In generale, entrambi cercano una qualità di vita migliore di quella attuale, un maggiore egualitarismo tra i membri della società: affrontano il presente in maniera problematica cercando una possibile strada per il futuro nell’ecologia.
Esistono, poi, degli episodi in cui gruppi di individui si aggregano per la coabitazione a diverse scale. In tutte le megalopoli odierne i casi di co-abitazione coatta, per far fronte a tasse ed affitti, sono molto numerosi. Non mancano però esempi di vere e proprie città di fondazione, diffuse soprattutto negli Usa, organizzate con l’intento di ottimizzare gli spazi ed alcune attività collettive. Queste intentional comunity (comunità intenzionali) si basano appunto sull’intenzione di risolvere problemi pratici che lo Stato non può risolvere. È quello che succede anche nelle periferie delle città francesi, dove gruppi di famiglie agiate si chiudono in quartieri-bunker e lasciano fuori la porta la violenza urbana.
Sono un po’ differenti gli esperimenti moderni di co-housing (co-abitazione), diffusi ormai in Europa come in America, che non assomigliano né alle comunità del socialismo-utopista (Fourier, Owen) e né tanto meno alle comunità hippie degli anni sessanta, entrambe fallimentari perché cercavano un tentativo di isolamento dalla società e dal sistema. In quelle moderne invece la pratica della coabitazione prevede la condivisione (possibile intorno alle 30 famiglie) di spazi comuni, come cucine, biblioteche, palestre, laboratori, spazi per i bambini, ecc.; pur sorgendo all’interno del sistema capitalistico come rifiuto dello stesso, ma allo stesso tempo sfruttandone i vantaggi. Le abitazioni sfruttano le tecnologie per il risparmio energetico e gli abitanti fanno la loro vita lavorativa fuori da questo tipo di unità-di-vicinato.
Viene da chiedersi se da questo tipo di esperienze possa venir fuori una soluzione in grado di abolire le odierne contraddizioni della società, e infine, che dia la possibilità di soddisfare i bisogni dell’intera popolazione del pianeta.
È sempre nelle città che compaiono altri tipi di reazioni alla patologia sociale, sintetizzabile nel non-senso della vita, un moderno nichilismo, ma che i filosofi idealisti elevano ad angoscia esistenziale. Si tratta di risposte individuali o collettive, distruttive o autodistruttive, esasperate dal carattere totalizzante di una società fondamentalmente ingiusta. Senza affrontare i pur importanti casi individuali del suicidio e dell’omicidio, o della droga, i quali hanno cifre statistiche terribilmente alte, si faranno due esempi molto vicini a noi. Il primo è la rivolta delle banlieu francesi nel 2005, dove il disagio dei giovani proletari delle periferie si e trasformato in una incondizionata violenza verso obbiettivi che nulla avevano a che vedere con la causa della loro condizione. L’incendio di automobili, l’attacco ad asili e stazioni dei pompieri quali simboli istituzionali, o peggio, i raid a scopo di rapina nelle manifestazioni degli studenti in lotta contro il CPE.
Un altro caso è l’intreccio tra la mafia e la popolazione giovanile del sud Italia. Potendo affermare che la disoccupazione è funzionale ad un sistema che non ha una domanda di lavoro costante, e inoltre, che tra i disoccupati si include il ceto dei non lavoratori (vagabondi, delinquenti, ecc.), allora al crescere della disoccupazione cresce anche la criminalità. Un area dove la disoccupazione raggiunge quote del 50% è un serbatoio dove gli eserciti criminali attingono manodopera. Comunque in entrambi i casi la violenza è frutto di un rapporto logoro instaurato tra gli uomini ed il lavoro e di conseguenza tra gli uomini e la comunità.
Di fronte a questa situazione complessiva che la maggioranza dell’umanità è costretta a vivere, di fronte alla mancanza di una prospettiva diversa dalla distruzione morale e fisica che questo sistema ci impone, come si può reagire?
È possibile prospettare una società diversa? E che tipo di società?
Per chiudere, una possibile risposta a questa serie di domande sta nella natura stessa dell’uomo, nella sua capacità di progettare, che lo distingue della bestia. Secondo Marx, l’uomo, con le sue azioni, non si limita solo a produrre un cambiamento di forma della realtà, ma realizza in essa il proprio scopo, che conosce già e che determina il suo operare, “e al quale egli deve subordinare la propria volontà” (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. V). Cos’è allora che limita l’uomo, che non gli permette di raggiungere la consapevolezza del cambiamento? Per reintegrare l’uomo nella natura, bisogna ridargli quella dignità negatagli da un sistema di sfruttamento e di appropriazione che incatena le forze potenziali dell’umanità.
19 aprile 2008, F.
Nel 1848 Marx ed Engels pubblicando il Manifesto del partito comunista indicano nella lotta delle classi il perno attorno al quale si muove da sempre la storia delle società umane:
“Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta”.
La propaganda borghese più volte si è rivolta contro questo assunto dell’analisi marxista della storia cercando di negare la sua verità. E gli avvenimenti degli ultimi anni hanno costituito un comodo trampolino di lancio da cui sferrare l’attacco ideologico contro la classe operaia. Fidando nello scoramento generale in cui il proletariato occidentale è caduto dopo il crollo dell’Unione sovietica, immediatamente presentato come la fine del comunismo, e nei rivolgimenti a cui le nuove tecnologie hanno sottoposto il sistema produttivo - rivolgimenti che hanno favorito la scomparsa delle grandi concentrazioni industriali, eccezion fatta per alcuni comparti tradizionali come quello dell’auto della petrolchimica o della cantieristica - si è voluto sostenere un mutamento delle forme sociali che vedrebbe una drastica diminuzione del proletariato. Così ad esempio dagli anni ’80 fino al recente passato abbiamo assistito al proliferare di ogni genere di teorie sul ridimensionamento della forza della classe operaia. C’è chi ha parlato di “frammentazione” dei lavoratori, chi di imborghesimento della classe e chi addirittura di “fine del lavoro”. Basti dire che, per quanto varie, ciascuna di queste teorie sottintende lo stesso identico assunto: venuto meno il ruolo centrale del proletariato, Marx è superato e non ha più senso parlare di lotta di classe.
L’idea che il proletariato, a differenza di quanto prospettato da Marx, sia in diminuzione viene sostenuta sulla base della falsa equazione tra proletariato e classe operaia industriale. Ma questa equazione è corretta? Il concetto di proletariato non coincide con quello di “classe operaia industriale”. Una classe è un gruppo di persone accomunate dal proprio rapporto con i mezzi di produzione ed il proletariato in particolare è quella classe che, non possedendo mezzi di produzione, è costretta a vendere la propria forza lavoro per vivere. Da questo punto di vista non solo il proletariato è enormemente più numeroso rispetto ai tempi di Marx, ma anche rispetto agli stessi anni ’60.
Per chiarire meglio quanto detto è opportuno rivolgere l’attenzione alla differenza che Marx pone tra il lavoro produttivo e quello improduttivo. Ricordiamo che nel sistema capitalistico i prodotti del lavoro umano assumono la forma di merci. Un prodotto in quanto merce assume un valore che non dipende dalla sua mera utilità ma dalla possibilità di essere scambiato con altre merci sul mercato. La determinazione del valore di una merce è data dalla quantità di forza lavoro occorsa per la produzione di quella merce. Una parte di questo valore viene corrisposta all’operaio sotto forma di salario, mentre l’altra costituisce il profitto del capitalista, o per meglio dire del capitale. Il lavoro produttivo è dunque quel lavoro che scambiato contro capitale produce plusvalore. Ciò significa che esso riproduce, accresciuta, la somma di valore che è stata spesa in esso, ossia che produce più lavoro di quanto ne riceve in forma di salario. Il lavoro improduttivo, invece, è lavoro che scambiato con denaro non produce un aumento del capitale. L’operaio di fabbrica, dunque è senz’altro un lavoratore produttivo. Ma che dire di tutte quelle figure, medici, insegnanti, gente impiegata nel terziario che a prima vista non sembrano direttamente collegate alla produzione di plusvalore e dunque di profitto per il capitale? Possono essere inclusi nell’alveo della classe operaia o devono restarne fuori?
Innanzitutto vorrei far notare come la differenza che intercorre tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo non è assolutamente una discriminante per dividere i proletari dalle altre classi sociali. Questa distinzione viene fatta dal punto di vista dell’accrescimento del capitale e non dal punto di vista di chi vende la propria forza lavoro. Ma quali possono essere i criteri per definire l’appartenenza alla classe operaia?
1) Bisogna arricchire direttamente un padrone per farne parte? Volgendo lo sguardo ad alcune attività lavorative ci si accorge immediatamente che la risposta ad una simile domanda deve essere negativa: gli insegnanti, gli infermieri, gli operatori di call center, anche quando non lavorano per alcun un padrone, appartengo alla classe perché a) sono costretti a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere e b) contribuiscono alla produzione complessiva della ricchezza, risultato dello sforzo di tutti i lavoratori. L’istruzione o la cura della forza lavoro sono attività assolutamente necessarie perché la produzione delle merci possa essere realizzata.
2) Tutti gli sfruttati appartengono alla classe operaia? Basta pensare ai contadini poveri molto numerosi nei paesi sottosviluppati che non posseggono la terra per rispondere negativamente anche questa volta.
3) Poliziotti e preti non sono proprietari dei loro mezzi di produzione e sono salariati, appartengono, forse, alla classe? Ovviamente no, queste figure non producono ricchezza in alcun modo, mentre svolgono un ruolo di difesa dei privilegi della classe dominante e di conservazione del suo dominio.
Riassumendo, si può dire che la classe operaia è composta da tutti quei lavoratori che vendendo la propria forza lavoro per vivere, partecipano direttamente o indirettamente alla produzione complessiva della ricchezza sociale. Ma questo non è tutto. Una classe ha senso solo se contrapposta ad un’altra, solo se posta nella condizione di partecipare attivamente al divenire della storia. Definire e comprendere cosa è la classe operaia, capire chi ne fa parte, è, dunque, una questione della massima importanza, non solo per liberarsi dalle false ideologie che tentano di distogliere il proletariato dal suo compito storico e perpetuarne, così, lo sfruttamento, ma soprattutto perché, l’identità di classe è il maggior elemento di forza della classe stessa. Vedersi come proletari, sentire di non essere soli con la propria angoscia, la propria paura per il futuro, ma sapere di appartenere ad un corpo collettivo è l’elemento fondamentale che permette di scorgere una prospettiva alternativa al capitalismo e di sviluppare le armi necessarie che seppelliranno un sistema ormai in putrefazione, ossia la solidarietà e l’unità dei proletari.
19 aprile 2008 E.
Recentemente è stato assegnato il Premio Nobel per la pace a Mohammad Junus, un banchiere-filantropo che ha inventato un modo per rendere accessibili i prestiti a coloro che, a causa della loro povertà, non possono fornire garanzie alle banche normali. Junus è effettivamente un filantropo ed effettivamente le sue iniziative hanno portato un qualche sollievo alle disperate condizioni di povertà del Bangla Desh e di alcuni altri stati asiatici. Sta tentando di estendere queste iniziative in tutti i paesi poveri.
Come funziona? Prendiamo ad esempio un prestito fatto ad una donna del Bangla Desh per consentirle di comprare un telaio per tessere tela o per fabbricare indumenti di lana. Le garanzie di restituzione del prestito sono del tutto assenti; cionondimeno Junus concede il prestito sulla parola. L'interesse richiesto è minimo, 1-2% annuo e, spesso, questi prestiti vengono concessi senza scadenza. LA donna in questione lavora a casa sua, produce, si rivolge alla stessa banca per commercializzare i suoi manufatti e, spesso, è incoraggiata a mettersi in filiera con altre donne al fine di ottenere una efficace divisione del lavoro, in quanto ciascuna di esse realizza una parte del manufatto o anche provvede ad alcune operazioni indispensabili quali il lavaggio, la stiratura, l'appretto, ecc.
Una condizione per la concessione del prestito è quella che la donna di cui parliamo divenga poi azionista della stessa banca; in effetti, se ha ricevuto un prestito, poniamo di 100 dollari, dopo avere pagato lo stesso ed il piccolo interesse, deve impegnarsi a diventare azionista per l'importo del prestito ricevuto comprando azioni della banca per altri 100 dollari che le daranno un profitto pari all'interesse pagato.
In sostanza la donna ha ricevuto dalla banca 100 dollari e ne verserà alla stessa 201, 100 n restituzione, 1 di interesse, 100 di azioni.
Il meccanismo funziona perché richiama sul capitale della banca il lavoro di centinaia di migliaia di persone, forse milioni.
In passato anche in Italia esisteva il lavoro a domicilio. Molte casalinghe aiutavano il bilancio familiare fabbricando in casa capi di abbigliamento che poi andavano alle grandi ditte; queste, molto spesso, finanziavano l'acquisto della macchina necessaria e talvolta addirittura la davano in fitto alle lavoratrici. La ragione era che costava meno produrre i capi in questo modo, non vi erano spese di gestione (stabilimenti, energia, tasse, ecc.) il lavoro era al nero, puro cottimo e basta, i prezzi li faceva solo la ditta committente, prendere o lasciare. Tuttora il sistema è ancora in vigore (le cosiddette confezioniste a domicilio) alle stesse condizioni. Si producono in tal modo guanti di pelle, capi di abbigliamento, manufatti di lana, parti da assemblare di scarpe, borse, fiori di carta, spadini per capelli, ecc. Il livelli di sfruttamento sono pressoché disumani, in quanto i lavoranti a domicilio sono vincolati a quote di produzione ed a tempi di consegna che spesso li obbligano a lavorare fino a 14 ore al giorno. Vengono retribuiti a capo con un compenso spesso irrisorio e sotto ricatto di perdere questo lavoro in qualsivoglia momento.
Forse applicati alla miseria inenarrabile del Bangla Desh anche queste condizioni posso sembrare una fortuna, ma il fatto è che i livelli di auto-sfruttamento sono intensissimi.
Tuttavia i prestiti vengono quasi sempre restituiti ed le azioni della banca quasi sempre acquistate.
Il prestito viene anche concesso per piccole attività agricole come l'acquisto di galline, di un maiale, sementi, attrezzi agricoli minuti, ecc. Qui le condizioni sono un pò diverse, ancor più favorevoli, ma di poco.
E' difficile calcolare la massa-capitali della banca di Juus, diventata una delle 10 banche più floride al mondo. In un paese povero, come si comprende, non vi è liquidità perché non vi è risparmio. Ma con questo sistema di costituisce una considerevole massa li moneta liquida, disponibile sia ad allargare il campo di controllo della banca stessa si per investimenti di altro tipo.
Junus segue la filosofia Yogi e l'insegnamento di SRi Yukteswar, che fu il maestro di Yogananda (vedi sul web): vive poveramente, non possiede ville, yacht, auto, non ostenta ricchezza, non ha amanti o vizi: il personaggio è questo. Egli è effettivamente convinto di fare del bene ai poveri del mondo: il suo orizzonte economico è comunque il capitalismo. Forse spiritualmente è l'opposto del "Banchiere anarchico" descritto in un meraviglioso racconto di Fernando Pessoa (che vi invito a leggere); tuttavia egli agisce all'interno del campo del capitale finanziario, non può essere altrimenti. Forse la situazione in parte ancora pre-capitalistica dell'economia del Bangla Desh gli fa vedere tutto questo come un progresso. Ma, raggiunta una certa dimensione, la sua finanza entra in conflitto col capitale finanziario internazionale, ed è evidente che i suoi metodi non sono estendibili a paesi ad economia più avanzata. Finora è stato tollerato "a consolazione ed a mistificazione degli oppressi", come direbbe Lenin, ma le sue iniziative in America Latina si sono arrestate, mentre sono respinte in India ed in Cina.
Il fatto è che esse, pur estraendo parecchio plusvalore, sono meno efficaci dei metodi di sfruttamento applicati nel mondo. Quest'uomo, sotto molti aspetti, ricorda Tolstoij e la sua illusione di sfuggire al capitalismo mediante l'organizzazione di piccoli villaggi agricoli comunitari.
Su richiesta dei compagni della CCI di Napoli
19 aprile 2008, P.
20 aprile 2008
Cari Compagni, un’eccellente discussione-ricerca tenuta ieri a Napoli ha posto in chiaro due questioni vitali: carattere della crisi e la morfologia sociale del moderno proletariato. Non è poco, perché si tratta di acquisire due strumenti di lavoro politico indispensabili. Un terzo elemento che è emerso dalla discussione è il riconoscimento dei processi di autoformazione di elementi, ancora allo stato embrionale, di coscienza e di organizzazione.
Orbene, da ciò conseguono alcune questioni, la prima delle quali riguarda il modo in cui diviene possibile saldare i settori del proletariato industriale tradizionale a quelli nuovi che si sono venuti formando in questa fase. Una seconda questione riguarda le forme di lotta del moderno proletariato. Una terza riguarda la forma-partito, cioè come il partito dei comunisti deve attrezzarsi per intervenire all’interno del nuovo proletariato. L'incedere della crisi recessiva, le sue devastanti conseguenze, lo sconvolgimento che ne consegue ecc. pongono urgenza a dare risposte a queste domande, sia pure sotto forma sperimentale. I quesiti, come si vede non sono affatto di mera natura tecnico-tattica, anche se questo aspetto è importantissimo. Inoltre dalla stessa discussione è emersa la necessità di adottare linguaggi e forme di comunicazioni in grado di essere chiaramente percepiti dall’attuale proletariato.
Il fondo di queste domande è la preoccupazione che, in seguito alla crisi ed alle misure sempre più dure che i governi adotteranno per scaricarla sul proletariato, si possano avere fenomeni di ribellismo che, in assenza della funzione pedagogica del partito, possano o degenerare o subire disastrose sconfitte. Inoltre, in simili circostanze, è prevedibile che si ripresentino i partiti della sinistra borghese che sono stati estromessi dal parlamento in seguito alle elezioni, sempre con lo scopo di disarticolare le lotte ed indirizzarle verso obiettivi posticci. Infine bisogna considerare che molti elementi in buona fede che hanno militato in questa sinistra e che hanno compreso in parte il suo ruolo funzionale alla strategia generale di controllo del proletariato da parte della borghesia, si trovano in uno stato di demoralizzazione e di perplessità sul quale sarebbe necessario intervenire energicamente al fine di riqualificarli e recuperarli al campo proletario. Siamo ad un nuovo "Che fare?" e bisogna rispondere.
Saluti fraterni, P.
Cari compagni, grazie a tutti voi, alla vostra partecipazione e al vostro contributo, la giornata del 19 aprile scorso è stata veramente un momento di incontro, di discussione e di confronto tra proletari, (lavoratori, futuri lavoratori o pensionati). Un momento a cui noi attribuiamo una grande importanza per i motivi che vi abbiamo già detto e che vogliamo riprendere in questa lettera a tutti voi. Oggi, lentamente, ma con sempre maggiore forza, spinti da condizioni di vita e di lavoro sempre più intollerabili, minoranze di proletari escono allo scoperto con l’intento di capire in che mondo vivono, quali sono le prospettive, chi sono i naturali alleati in una eventuale lotta da assumere, chi sono i nemici da affrontare in questa lotta. In altri termini la stessa discussione che si è sviluppata tra di voi nella giornata del 19 aprile. Dunque la prima cosa di cui dobbiamo prendere coscienza è che in quella sala noi non eravamo soli, ma eravamo virtualmente in compagnia di migliaia e migliaia di individui presenti in tutto il mondo che stanno facendo esattamente la stessa cosa. Ma ancora possiamo dire che queste migliaia di persone sono l’espressione di milioni di persone che vivono esattamente lo stesso sentimento di insofferenza e che trovano ancora qualche difficoltà per emergere dal torpore dell’ideologia borghese e dal controllo dei mass media. In altri termini dobbiamo vivere questi momenti come l’espressione di una classe che riprende consapevolezza del suo destino storico e che cerca di forgiare le sue armi autentiche, la sua unità e la sua coscienza, per affrontare la lotta storica del futuro. A tale riguardo noi vi invitiamo a dare uno sguardo a quello che succede al di fuori del nostro piccolo steccato e a prendere conoscenza non solo delle lotte ma anche di tutte le iniziative che si producono in altri paesi del mondo. In tal senso vi suggeriamo la lettura di alcuni articoli che abbiamo di recente pubblicato ma che non sono per il momento disponibili in lingua italiana. Cercheremo col tempo di fare delle traduzioni per rendere questi testi meglio fruibili.[1]
Abbiamo anche insistito, in occasione dell’incontro del 19 aprile, sul fatto che quella era una riunione vostra e che la funzione della CCI era solo di rendere possibile quella riunione e di lavorare alla sua migliore riuscita. Anche su questo pensiamo che dobbiamo esprimere una insistenza. Che significa che la CCI si dà da fare, mette in moto le sue risorse, le sue energie, per realizzare una riunione che definisce una riunione “non della CCI ma dei singoli partecipanti”? Non c’è qualcosa di strano in tutto questo? Effettivamente è alquanto inedito, nel periodo attuale, sentire cose di questo tipo e - se non fosse per la stima che i vari compagni hanno nella CCI - questa operazione risulterebbe, alla luce delle pratiche politiche a cui assistiamo oggi anche tra alcune organizzazioni di una certa sinistra, alquanto sospetta. In realtà invece questa iniziativa intende rispondere, da una parte, a quella richiesta di chiarezza politica che è stata evocata prima, dall’altra riprendere quella tradizione che è stata sempre presente nei partiti operai e che corrisponde al fatto di rendere disponibili le sedi di partito come punto di incontro per i proletari per discussioni o incontri di vario genere. Quindi il fatto che la riunione abbia avuto luogo per iniziativa della CCI risponde al fatto che, oggi come oggi, la classe è ancora intimidita, fa ancora fatica a cacciare la testa fuori dal sacco in cui l’hanno rinchiusa. Noi certamente torneremo a intraprendere tali iniziative, ma va da sé che, a mano a mano che il proletariato prenderà fiducia in sé stesso e comincerà a organizzare riunioni di sue iniziativa, queste riunioni promosse dalla CCI potranno perdere di significato fino a rendersi del tutto inutili.
Come è andata dunque questa riunione del 19 aprile? Diciamo senz’altro bene o anche benissimo, se si considera che è solo la prima esperienza di questo tipo in Italia. La riunione ha visto una fase preparatoria in cui una serie di compagni esterni alla CCI si sono implicati - assieme alla CCI - a preparare le presentazioni politiche, organizzare la scaletta della giornata, organizzare i team responsabili delle conclusioni, provvedere materialmente a preparare del cibo cucinato da consumare nella pausa pranzo della giornata. Su questi vari piani abbiamo potuto verificare la presenza di un autentico spirito militante da parte dei compagni nel senso che l’iniziativa è stata vissuta veramente come una iniziativa di tutti e il lavoro che ognuno ha svolto è stato dato a piene mani e con grande spirito di dedizione perché si avvertiva effettivamente l’importanza di quanto si stava compiendo. Naturalmente siamo anche molto soddisfatti della discussione, svolta a partire, lo ripetiamo, da presentazioni preparate da compagni non facenti parte della CCI e che, a quanto ne sappiamo, non hanno alcuna esperienza politica organizzata alle spalle. Ottime le presentazioni, ottima la discussione, che ha visto la partecipazione di tutti i partecipanti. Sulla discussione però si è notato un divario tra il primo tema e il secondo, dovuto forse in parte alla stanchezza che è subentrata ad un certo punto della giornata, ma forse, come è stato detto nelle conclusioni della CCI alla riunione, anche al fatto che il tema sulla classe operaia, per come era stato formulato nell’elenco proposto dalla CCI, poteva dare spunto ad una lettura in chiave esclusivamente sociologica e non politica. Per cui non crediamo che questa debolezza che ha avuto la discussione nella seconda parte sia da attribuire ai compagni presenti ma piuttosto ad una formulazione non felice di un tema che resta tuttavia importante.
Un elemento che noi della CCI abbiamo potuto apprezzare in questa riunione è il fatto che - grazie all’organizzazione dell’evento, che si è svolto in un posto gradevole, dove è stato possibile fare uno spuntino all’aperto nel giardino esterno con tutte le cose buone preparate dalle compagne, con delle pause durante le quali i compagni si sono potuti rilassare e chiacchierare tra di loro, concludendo il tutto con una passeggiata e una pizza per tutti - si è stabilita tra tutti un’atmosfera di cordialità e di fratellanza. Questo non è un aspetto minore nella misura in cui il proletariato, per realizzare la sua missione storica, dovrà sì realizzare la sua unità e la sua coscienza, ma questo lo potrà fare recuperando pienamente la sua identità di classe, ritrovando lo spirito di solidarietà e di fiducia reciproca che esisteva al suo interno nel XIX secolo e che è stato distrutto dallo stalinismo e dalla controrivoluzione.
Per finire: come continuare? Tanti compagni ci hanno chiesto subito di promuovere a breve un’altra riunione di questo tipo. Noi siamo orgogliosi naturalmente di come è stata recepita questa iniziativa e sicuramente promuoveremo una prossima riunione analoga a quella di aprile, anche se è preferibile aspettare ottobre prossimo per permettere una buona preparazione. Ma vogliamo pure dire che la stessa riunione del 19 aprile non è finita lì: occorre infatti che tutta la ricchezza della riunione sia pienamente sfruttata dai compagni. Come? Anzitutto ricordiamo che molti punti della discussione non sono stati del tutto sviluppati, alcune cose sono state accennate ma richiedono obiettivamente delle argomentazioni più sostanziose. Ricorderete che, durante la discussione, noi abbiamo stimolato tutti i compagni presenti a non fermarsi alle affermazioni o alle citazioni di Tizio o di Caio, ma a portare delle argomentazioni convincenti a sostegno delle diverse tesi sostenute. E’ chiaro che questo non è sempre facile sul momento, ma ciò non toglie che la discussione non possa continuare al di là di quella specifica giornata. Ad esempio ricorderete che si è sviluppata tutta una discussione sulla questione del microcredito e della banca di Yunus, discussione sulla quale c’era una difficoltà a convincersi fino in fondo per mancanza di elementi di conoscenza. E’ perciò che abbiamo chiesto al compagno che aveva portato avanti la critica al microcredito di produrre un piccolo testo da mettere a disposizione di tutti gli altri. Sulla base della discussione effettuata e di questo testo, altri compagni potranno sviluppare le loro riflessioni così che la discussione potrà continuare tramite scambio di mail. Un’altra questione su cui varrebbe la pena di tornare è quella delle coabitazioni, su cui ci sono stati degli interventi non sempre del tutto omogenei. A tal proposito sarebbe opportuno tornare sul tema a partire da una migliore definizione delle reciproche posizioni (…) A presto rivederci (…)
25 maggio 2008 Un abbraccio a tutti, i compagni della CCI.
[1] Vedi « Salut au "Comité Communiste de Réflexion" de Toulouse [3] »