Solo una lotta unita e solidale consente di resistere agli attacchi

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Ormai non è più soltanto Berlusconi a ripeterci fino alla nausea che la ripresa è già cominciata, ma la maggior parte dei mezzi di informazione e dei vari organismi internazionali, dall’OCSE al FMI, che ci dicono che la recessione è ormai finita, che gli strumenti messi in atto dai vari Stati hanno consentito di frenare ed anche di cominciare a superare la crisi.

Quello che invece sta succedendo è che, per drenare risorse finanziarie, gli Stati stanno tagliando i servizi pubblici, dalle scuole agli ospedali, dai trasporti ai beni culturali, con tutte le conseguenze in termini di peggioramento dei servizi e di perdita di posti di lavoro: ormai i contratti a termine nei servizi pubblici non vengono più rinnovati e solo nella scuola, a causa dei tagli, sono 45.000 i posti cancellati quest’anno. E questo non potrà che proseguire per molti anni, vista l’entità delle risorse messe in gioco per compiere il “miracolo” dello stop al disastro e visto anche che la cosiddetta ripresa di cui si parla è così piccola e lenta che gli Stati non potranno certo contare, per diversi anni, su un aumento significativo delle entrate fiscali.

La realtà quindi è ben diversa da quella che ci prospettano, una realtà fatta di peggioramento brutale delle condizioni di vita dei lavoratori.

Con il ricatto della disoccupazione gli attacchi si moltiplicano

Nonostante il massiccio ricorso alla cassa integrazione, cresciuta nel 2009 del 400% e che ha consentito, per il momento, a molti lavoratori di non perdere il posto, anche se al prezzo di una riduzione drammatica del proprio reddito, l’aumento della disoccupazione costituisce oggi l’espressione più drammatica della crisi: le cifre ufficiali dell’ISTAT[1] parlano di 380.000 disoccupati in più dall’inizio della crisi, ma questo dato è calcolato confrontando i dati delle persone in cerca di lavoro, mentre una delle conseguenze della crisi è che molti perdono anche la speranza di trovare un lavoro e quindi smettono di cercarlo, per cui non compaiono in questo tipo di statistica; per convincersene basta confrontarlo con il numero di posti persi (per licenziamenti e chiusure di aziende): secondo un rapporto della Unioncamere, riportato su Repubblica del 28 settembre, i posti di lavoro persi nel 2009 sono 994.400, e solo una parte di questi sono compensati dalla nascita di nuovi posti. Un altro elemento che rende il dato della disoccupazione inattendibile è che molti dei posti persi non si trasformano in nuovi disoccupati a causa dei pensionamenti di una parte dei lavoratori (è quello che è successo nel caso della scuola, per esempio). E, nonostante tutte le chiacchiere sulla ripresa, il fenomeno continuerà a peggiorare, visto che si prevede che produzione industriale e PIL continueranno a diminuire per il resto del 2009 e solo nel 2010 ci dovrebbe essere una nuova crescita, ma di entità così piccola che certamente non potrà dar luogo alla creazione di nuovi posti di lavoro. Anzi, visto che molte aziende non hanno dichiarato fallimento solo perché i salari (ridotti) sono stati presi a carico dello Stato con la cassa integrazione, cosa succederà quando il periodo di cassa non potrà essere più rinnovata?

E questo fenomeno non è solo italiano, ma si ripete in tutti i paesi del mondo.

Negli Stati Uniti, dopo le perdite dell’anno scorso, in particolare nel settore dell’automobile, la previsione è che alla fine dell’anno saranno 994.000 i posti di lavoro perduti, con un salto del 72% rispetto all’anno scorso. La popolazione attiva diminuisce e, per il solo mese di luglio, sono 442.000 i lavoratori attivi in meno (e ancora altri 263.000 a settembre).

La Germania, l’ex modello di efficienza dell’Europa, è pienamente infognata nella crisi. Il numero uno tedesco dell’energia, EON, prevede, per esempio, la soppressione di 10.000 posti in Europa.

Dappertutto, per i proletari che hanno ancora la fortuna di avere un lavoro, la precarietà è diventata la regola. Il ricatto dei licenziamenti per far diminuire i salari tende ad estendersi per l’aumento della concorrenza resa ancora più aspra dalla crisi. Certe aziende cominciano ad esigere ribassi dei salari che vanno dal 20 al 40%!

E’ il caso, per esempio, dell’Atitech di Napoli, azienda della CAI in vendita dove, oltre a una riduzione degli effettivi, è prevista una diminuzione dei salari del 25% per quelli che resteranno a lavorare con il nuovo padrone (qui la CAI sta ripetendo quanto ha fatto anche con i dipendenti ex Alitalia).

In certi casi, come alla British Airways, si è arrivati perfino a chiedere ai salariati del lavoro gratuito!

In queste condizioni non è sorprendente se il numero di suicidi legati alle condizioni di lavoro aumentino, in particolare in Francia, in cui si nota “un’organizzazione del lavoro che produce da 300 a 400 suicidi all’anno e un aumento delle patologie psicologiche[2]. E quelli che resistono al ritmo della concorrenza ci perdono la salute, sopportando sempre più rischi che conducono ad incidenti sul lavoro. Ormai ci sono, nel mondo, un milione e duecentomila incidenti sul lavoro all’anno e 3000 al giorno. Gli incidenti sul lavoro fanno più morti delle guerre!

Come lottare contro gli attacchi della borghesia?

Di fronte a questa degradazione violenta delle loro condizioni di vita, i lavoratori dimostrano che stanno trovando la forza e il coraggio di battersi, anche in un contesto difficile.

Durante l’estate si sono prodotte in tutto il mondo numerose lotte[3] all’interno delle quali la questione dei licenziamenti è stata spesso l’elemento dominante. Come sempre accade però i mezzi di informazione ne hanno completamente taciuto l’esistenza (in Italia come dappertutto), ad eccezione di alcune nuove “forme di lotta” che sono cominciate ad apparire e che, piuttosto stranamente, non solo hanno riscontrato il plauso e la solidarietà dei sindacati, ma hanno ricevuto una grande risonanza anche da parte dei mass-media. E’ emblematico da questo punto di vista l’episodio della INNSE di Milano che, dopo ben 15 mesi di lotta durante i quali è stata lasciata completamente nel silenzio, ha conosciuto alla fine una grande notorietà su tutti i mezzi di comunicazione. I 49 operai della INNSE hanno espresso una grandissima prova di coraggio opponendosi con tutte le loro forze e con tutta la loro fantasia al tentativo di smantellamento della loro fabbrica, arrivando finanche a occuparla e ad autogestirla per conto proprio. Infine, di fronte alla difficoltà di averla vinta, c’è stato lo scorso 4 agosto il blitz di quattro operai e di un funzionario della Fiom che, superando lo schieramento di polizia, sono riusciti a salire su un carroponte all’interno della fabbrica minacciando anche il suicidio se non si fosse arrivati ad una soluzione della vertenza. E’ così che alla fine gli operai “hanno vinto”, riuscendo a non far chiudere la fabbrica. Questa storia dell’asserragliarsi su una gru ha avuto una tale eco mediatica e tanti elogi, finanche da parte dei padroni, che non si è tardato ad assistere a tutta una serie di episodi di lotta in cui si è cercato di ripetere l’impresa della INNSE. E’ d’obbligo chiedersi allora: sono forse queste le “nuove forme di lotta” che dovrà adottare la classe operaia? E se sì, come mai i mass-media ne fanno una tale propaganda? La nostra risposta, malgrado il coraggio e la resistenza mostrata dai lavoratori di questa fabbrica, è che questo tipo di lotta non può che portare alla sconfitta. La “vittoria” della INNSE è solo lo specchio delle allodole per invischiare decine di altre situazioni di lotta nell’impasse della lotta chiusa nella propria fabbrica, isolata da tutto il contesto del resto della classe operaia e della cittadinanza. Non è un caso che una delle debolezze più avvertite in questa lotta sia stato proprio il sentimento di isolamento provato dai lavoratori. Se si rimane chiusi nella propria fabbrica non è possibile comunicare con altri lavoratori, non è possibile allargare il fronte di lotte. Ma c’è di più. Il fatto che un gruppo di lavoratori decida di recarsi sul tetto di una fabbrica o di una gru e di imporre con la minaccia del suicidio la soluzione della vertenza significa che la lotta, piuttosto che essere presa in mano dall’insieme dei lavoratori, viene gestita direttamente da quel pugno di lavoratori a cui tutti gli altri sono costretti a guardare passivamente.

E’ per questo che alla borghesia piacciono queste lotte, perché - espressione della disperazione della classe operaia - non permettono che possa maturare solidarietà tra lavoratori proprio per il carattere chiuso e localista della lotta stessa. Non è un caso che si stia verificando tutta una serie di episodi anche a livello internazionale, come i ripetuti sequestri di manager e la minaccia di far saltare una fabbrica in caso di licenziamenti in Francia e Belgio o addirittura l’uccisione del direttore di una acciaieria minacciata di chiusura in Cina nel corso di una rivolta di un migliaio di operai metallurgici, che sono espressione di una apparente radicalità ma che di fatto portano all’isolamento delle singole lotte e dunque alla loro sconfitta.

Mentre i mezzi di informazione cercano di far credere che l’utilizzazione di questi mezzi di lotta siano l’espressione di una “radicalità” che scavalca gli apparati sindacali, che si realizza a causa della debolezza dei sindacati, la realtà è esattamente l’opposto. Sono infatti i quadri sindacali di fabbrica che non hanno smesso, in maniera discreta nei casi di maggiore illegalità come in Francia, di incoraggiare il ricorso a questo tipo di azioni. E se lo fanno, malgrado a volte le critiche dei dirigenti nazionali del sindacato, è per rinnovare l’immagine del sindacalismo, particolarmente discreditata per il sabotaggio delle lotte di questi ultimi anni, che ha permesso ai diversi governi di far passare i vari attacchi.

I sindacati, come l’insieme della borghesia, profittano del fatto che la pressione attuale della disoccupazione e dei licenziamenti in massa non favoriscono lo sviluppo di lotte di massa ma, al contrario, la dispersione delle reazioni operaie ed anche una tendenza ad una momentanea paralisi dell’insieme della classe operaia, che si limita a guardare con simpatia le reazioni esistenti. Di fronte alla chiusura delle fabbriche, l’arma dello sciopero tende a perdere la sua efficacia accentuando il sentimento di impotenza dei lavoratori. Questi si ritrovano spesso con le spalle al muro, spinti a reagire ognuno nel proprio angolo, a causa di questo disorientamento e al traumatismo legato alla perdita del posto di lavoro. Ma la borghesia potrà sempre meno utilizzare questa situazione per suscitare la divisione, o un’opposizione tra quelli che perdono il proprio lavoro e quelli che hanno il “privilegio” di conservarlo. Nonostante le attuali difficoltà che incontrano le lotte operaie, la classe non ha rinunciato a difendere i suoi interessi immediati, anche se la mancanza attuale di una prospettiva di sviluppo immediato spinge la maggior parte di esse, in particolare nei paesi sviluppati, a restare ancora sotto il controllo dei sindacati.

L’esperienza mostra alla classe operaia che essa è capace di sviluppare una riflessione collettiva animata dal bisogno di sviluppare le sue lotte. E questa riflessione, tirando le lezioni della situazione attuale, deve portare alla comprensione che solo la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi e dello sfruttamento. E’ attraverso la riconquista della sua capacità a prendere in mano le sue lotte che la classe potrà raggiungere una nuova tappa nella sua lotta contro il capitalismo. Questa prospettiva è sempre presente.

Helios (*)

(*) Adattato dall’articolo di Revolution Internationale n° 404, Seule la lutte unie et solidaire permet de résister aux attaques!

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