Obama presidente degli Stati Uniti: è sempre la borghesia che vince le elezioni

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In occasione dell’elezione di Obama come 44° presidente degli Stati Uniti, a nessuno sono sfuggite le scene di tripudio che si sono svolte a Chicago, a New York ma anche in Africa e in tutta Europa. Queste esplosioni di gioia, riprese da tutti i mezzi di comunicazione a livello mondiale, ricordano lo spettacolo di folla danzante a piazza della Bastiglia a Parigi la sera del 10 maggio del 1981 in Francia dopo l’elezione di Mitterrand. Ma questo fenomeno di “obamania” supera largamente il caso precedente. Questo incoronamento di un Nero alla Casa Bianca, che il mondo intero applaude, viene a concludere con un’apoteosi la superproduzione “hollywoodiana” di una campagna elettorale americana di cui i mass-media ci hanno rimpinzato da due anni a questa parte e attraverso i vari stadi delle elezioni primarie, alla televisione, per internet, nei giornali, … Essa svela un enorme macchinario tipico di ogni elezione “all’americana” montato con una grande quantità di mezzi tecnologici e finanziari. La “bella storia dello zio Sam” del nuovo idolo Obama e della sua irresistibile ascesa, con saga familiare incorporata, che vuole essere l’incarnazione del sogno americano che ritrova lo spirito pioniere delle origini, non è altro che polvere negli occhi. Questa è invece il prodotto puro di una gigantesca operazione di marketing. Questa campagna è costata una vera fortuna, proprio quando lo Stato americano è immerso nella crisi e la maggior parte delle banche, così come le grandi imprese del paese sono sul bordo del baratro. Obama ci viene presentato come un salvatore non solo degli Stati Uniti ma del mondo intero e del capitalismo … Perché tutto questo?

Anzitutto questo ha permesso di ricredibilizzare il gioco elettorale e il ritorno sulla scena della mistificazione “democratica” allo scopo di mascherare provvisoriamente il fallimento del capitalismo, per gli Stati Uniti come per il mondo intero. Questa elezione non si appoggia solo sul sostegno unanime di tutta la borghesia (tutti i capi di Stato senza eccezione si sono pubblicamente rallegrati di questa elezione e si sono caldamente felicitati nei confronti dell’“eroe eletto”) ma ha anche condotto verso le urne milioni di Americani diseredati, così come neri o membri di minoranze di immigrati che non avevano mai preso parte ad un voto nella loro vita. Queste elezioni hanno fatto montare un’enorme ondata di speranze di cambiamento delle loro condizioni di vita miserabile per milioni di sfruttati e di oppressi grazie ad una gigantesca operazione pubblicitaria che vanta il miraggio della “unione nazionale”, così cara alla borghesia. Quest’ultima ha preparato il terreno per ottenere un risultato equivalente ad un maremoto: occorreva aumentare il prestigio degli Stati Uniti intorno ad un candidato ideale, giovane, dinamico, capace di unire e per giunta nero: Obama.

Questa vittoria riguarda soltanto la borghesia e, contrariamente a quanto vorrebbero farci credere, non è di nessuna “comunità nera” né degli strati più poveri della società e neanche delle pretese “classi medie”. Infatti non cambierà in niente la sorte delle diecine di milioni di proletari e di sfruttati che, più che mai, non raccoglieranno che ulteriore “sangue, sudore e lacrime”, secondo la vecchia espressione consacrata da Churchill. Non cambierà la mostruosità del mondo capitalista. Con la vittoria d' Obama occorreva soprattutto “cancellare” l’immagine catastrofica degli Stati Uniti dopo gli otto anni di presidenza Bush (definito come il peggiore presidente della storia degli Stati Uniti): fare credere alla rinascita, al cambiamento, sostituire l’equipe dei “neo-con repubblicani” superati dagli eventi e segnati dal fallimento delle loro “dottrine ultra-liberali”. Il “campo democratico” aveva ben compreso questo bisogno di cambiare look all’imperialismo americano permettendosi, in occasione delle primarie, di eliminare la candidatura di Hillary Clinton che, benché facesse balenare un’altra “novità assoluta”, una donna presidente degli Stati Uniti, ha puntato troppo sulla sua esperienza di vecchia volpe dell’apparato e della politica, essendo incapace di suscitare uno slancio suscettibile di incanalare un’aspirazione profonda ad un rinnovo del personale politico. Inoltre, sull’altro fronte, quello dei “repubblicani”, si è fatto di tutto per non vincere con la coppia Mc Cain-Palin, con la scelta di un vecchio arnese di 72 anni, “eroe” del Vietnam, un uomo del passato, non del futuro, rapidamente “affondato” da una parte dalla sua appartenenza allo stesso “campo repubblicano” di Bush (nonostante le distanze prese nei confronti di quest’ultimo) e soprattutto confrontato con i suoi limiti (i suoi spropositi continui di uomo superato rispetto al crack finanziario ed economico). Infine, la scelta come vice di un’ultra-reazionaria, “creazionista”, completamente non credibile, ha costituito un vero elemento di dissuasione. Le adesioni massicce e spettacolari alla causa di Obama nello stesso campo repubblicano (come, tra i più famosi, quello dell’ex-responsabile della difesa nazionale in occasione della guerra in Iraq durante il mandato di Bush padre, Colin Powell) sono stati ugualmente elementi determinanti che esprimono un cambiamento di strategia della borghesia americana più cosciente delle sfide del periodo.

Questo cambio di facciata degli USA sottolinea la capacità di adattamento di una grande potenza declinante che, per preservare la sua credibilità e rompere il pericoloso isolamento nel suo dominio imperialista, deve cessare di apparire sempre nello stesso ruolo di grande gendarme cattivo del mondo. E’ una mossa necessaria per convincere il mondo intero a condividere il peso della crisi. Nel capitalismo, “non vi è un salvatore supremo, né Dio, né Cesare, né tribuno, il mondo deve cambiare le sue basi …”[1]. La “folle speranza” suscitata da “l’effetto Obama” non può che condurre ad una terribile e rapidissima disillusione. Con l’effetto boomerang degli attacchi, dei fallimenti, della disoccupazione, della miseria, della prosecuzione della politica guerriera, della recessione e dell’indebitamento che bussano alla porta, il ritorno alla realtà sarà duro. Questo tentativo di “cambiare pelle” non può comunque salvare la pelle del capitalismo, né impedire agli Stati Uniti d’essere la prima potenza ad essere travolta drammaticamente nella peggiore crisi mondiale di questo sistema. Solo lo sviluppo internazionale della lotta di classe può offrire una reale speranza per l’avvenire dell’umanità.

W (21 novembre)



[1] Citazione dal testo dell’inno dell’Internazionale.

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