Non cessa l’attacco del capitale alla classe operaia

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Il 2009 si è chiuso con la dichiarazione di Marchionne, amministratore delegato della Fiat, di voler chiudere Termini Imerese buttando sul lastrico 1400 operai e con la protesta dei lavoratori siciliani soffocata dai sindacati e mistificata dai politici. La Fiat aveva dichiarato di voler spostare la produzione della Lancia Y in Polonia, dove il costo della forza lavoro è meno della metà di quello siciliano. È stato facile per la borghesia dividere i lavoratori siciliani da quelli della fabbrica della Campania di Pomigliano d’Arco, impianto anch’esso a rischio chiusura, mettendo gli uni contro gli altri. Ma un mese dopo non è solo lo stabilimento di Termini Imerese a rischio chiusura, ma buona parte degli stabilimenti Fiat in Italia perché c’è un eccesso di produzione rispetto alle richieste del mercato. Il mercato mondiale dell’auto si aspetta una caduta di oltre il 10% rispetto al 2009, visto che di fatto nei paesi europei e negli Usa è stato finora sostenuto solo dalla politica degli incentivi statali e della rottamazione. Il mercato é in espansione solo in Cina, ma per vendere lì bisogna produrre a costi bassissimi.

In questi giorni la Fiat ha chiesto la cassa integrazione per 30.000 operai per due settimane, vale a dire la chiusura di uno stabilimento come Termini Imerese per un anno! In breve ha anticipato la chiusura di questo stabilimento prevista per la fine del 2011.

All’annuncio della cassa integrazione i sindacati hanno decretato uno sciopero di 4 ore in tutti gli stabilimenti Fiat, aggiungendo il danno alla beffa! Che danno può provocare uno sciopero fatto così ad una azienda che vuole mandare a casa i lavoratori? È servito solo a far abbassare la tensione esistente tra i lavoratori, i quali sanno tutti che si prepara per loro un avvenire di inferno! A Milano, come d’altronde in altri posti, i sindacati hanno portato i lavoratori a presidiare le sedi comunali e regionali per far pressione sugli amministratori locali, per chiedere protezione ognuno per la fabbrica della propria regione!

Secondo Rinaldini, sindacalista della Fiom Cgil, “Termini Imerese non può chiudere, in Italia non esiste una sovraccapacità, anzi il nostro Paese, in Europa, è l’unico, tra quelli industrializzati, a importare auto perché se ne producono poche rispetto alla richiesta di mercato…. Faremo di tutto per impedirne la chiusura, non abbiamo timori e paure di affrontare qualsiasi tipo di lotta”; quello che non dice Rinaldini è che in Italia si producono solo auto Fiat e che non si può imporre agli italiani di acquistare auto nazionali. Il mercato è mondiale e i produttori stranieri hanno gli stessi problemi della Fiat, chi non è concorrenziale scompare dal mercato. Questo lo sanno i sindacalisti, quindi risulta sorprendente la dichiarazione di Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl: “cassa integrazione, una doccia fredda …. Quando abbiamo di fronte a noi perdite di posti di lavoro la cui difesa è l’essenza dell’azione sindacale arriveremo a tutto per scoraggiare la Fiat ad abbandonare in questo momento particolare posti di lavoro”. Che ha poi aggiunto: “Spero che da parte della Fiat ci sia un maggior senso di responsabilità perché queste docce fredde non servono a nessuno, non servono all’azienda, non servono al lavoro e non servono all’Italia”. Anche il governo, attraverso varie dichiarazioni dei ministri, si è detto meravigliato di questa notizia, aggiungendo che non ci saranno più incentivi governativi per la Fiat. Al che Marchionne ha fatto presente che se ne frega degli incentivi, mentre vuole una seria politica industriale nel settore dell’auto. Questo è il problema! L’Italia non ha fatto grosse riforme strutturali e strategiche nel settore industriale, riforme necessarie per abbassare i costi di produzione e battere la concorrenza internazionale. I problemi della Fiat non finiranno con la chiusura di uno o due stabilimenti, ma resteranno perché il problema della sovrapproduzione è insito nel meccanismo del capitalismo decadente. Molte importanti firme automobilistiche sono scomparse e molte altre scompariranno, riuscirà a sopravvivere solo chi produce a costi più basti, il che vuol dire soprattutto spremere ancor di più i lavoratori.

E non è solo la Fiat a licenziare!

Ci sono migliaia e migliaia di aziende in crisi, anche se a fare notizia quando chiudono i battenti sono solo le più grandi, mentre le piccole non ricevono neanche l’onore della cronaca. Nei giorni scorsi è ritornata sulla scena l’Alcoa, la multinazionale americana che produce alluminio e che non ha intenzione di restare in Italia perché il costo dell’energia elettrica non è concorrenziale. Nei mesi scorsi i sindacati hanno portato i lavoratori a scioperare e a manifestare contro la chiusura degli impianti in Italia, in particolare quello sardo, nei fatti a sostenere la richieste dell’Alcoa di pagare tariffe energetiche preferenziali. Questo non è bastato, l’Alcoa si aspetta di più dal governo, un po’ come la Fiat e tutte le altre aziende. In barba alle scorse politiche di liberismo economico oggi, in tempi di crisi, tutte le aziende per poter sopravvivere chiedono di continuo sovvenzioni allo Stato e una politica che porti alla riduzione dei costi delle materie prime, dei servizi, dei trasporti, … E, per fare sfogare la rabbia dei lavoratori che cominciano a vedersela brutta, i sindacati, dopo aver appoggiato le richieste aziendali di più basse tariffe elettriche, adesso cercano di polarizzare l’attenzione contro un’azienda che, essendo “straniera”, può essere accusata di tutte le nefandezze di questo mondo, cercando di compattare tutti nell’attacco alla cattiva multinazionale americana e spingendo i lavoratori ad usare le “maniere forti” come occupare l’aeroporto di Cagliari o espellere i dirigenti dai loro uffici!

Maniere forti, si dice! Ma queste iniziative non hanno nulla di forte perché servono solo ad isolare ed esasperare i lavoratori, tenendoli separati dai loro compagni di classe. Non spingono alla difesa dei comuni interessi, cioè del posto di lavoro e delle condizioni di vita. I sindacalisti portano i lavoratori davanti alle sedi comunali ma non davanti ad un’altra fabbrica o non chiamano a manifestazioni comuni di tutti i lavoratori, disoccupati, studenti, precari, etc…

Hanno paura che i lavoratori possano vedere e capire che il problema non è la chiusura di Termini Imerese, di Portovesme o dell’Omsa di Faenza, dove a rischiare il posto sono in 320, ma è il licenziamento, la precarietà, la miseria di milioni di persone. Capire che la soluzione non sta nella difesa del “proprio” posto di lavoro, ma nella difesa delle condizioni di vita di tutti i lavoratori, che solo la solidarietà e l’unione rafforza la classe operaia. Quando i lavoratori lottano uniti, i governi e la borghesia sono obbligati a cedere e a ritirare i licenziamenti, la chiusura degli impianti e i tagli salariali anche quando le finanze governative non lo permettono. La lotta di massa della classe operaia serve anche a sostenere i lavoratori delle piccole imprese, i disoccupati, che in assenza di essa spesso si chiudono nella depressione e in azioni disperate che non portano a nulla.

La borghesia vuole che i lavoratori in lotta si isolino sui tetti delle fabbriche, nell’occupazione di uffici e stabilimenti, non per niente fa di tutto per pubblicizzare questi avvenimenti! I sindacati non diranno mai che è necessaria l’unione di tutti i lavoratori, la discussione comune per poter difendere il nostro futuro, sta a noi portare avanti questa necessità.

Contro l’offensiva del capitale è necessaria una lotta unita e solidale!

Oblomov                              6 febbraio 2010

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