Ilva, Alcoa, Carbosulcis: come possiamo reagire al collasso dell’economia?

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Quest’articolo, scritto in risposta ai problemi che si pongono oggi gli operai dell’Ilva, dell’Alcoa e del Carbosulcis, è di fatto dedicato a tutti i proletari d’Italia che, in varia misura, vivono esattamente gli stessi problemi, gli stessi ricatti dei loro compagni sardi o di Taranto, anche se vissuti in situazioni meno note ma non per questo meno gravi e laceranti. Come cercheremo di dimostrare, i vari casi che sorgono in giro per l’Italia non sono la conseguenza della cattiva gestione di questo o di quello, non sono la conseguenza dell’egoismo e del menefreghismo dei padroni, cose che comunque esistono, ma sono principalmente la conseguenza di una crisi economica[1] profonda e senza uscite che investe non solo l’Italia ma il mondo intero.

ILVA: ovvero quando ti chiedono di scegliere tra il posto di lavoro e la salute!

La storia dell’impianto dell’Ilva di Taranto, grande due volte e mezzo l’intera città, è recentemente esplosa sulle pagine dei quotidiani con il sequestro senza facoltà d’uso dell’intera area a caldo dello stabilimento e gli arresti di Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa fino al maggio 2010, del figlio Nicola Riva, succedutogli nella carica, e di tre grandi dirigenti dell’impianto. La motivazione del GIP è che “chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”.

Questo impianto è nato all’insegna del massacro dei lavoratori. Massacro che è cominciato già nei primi anni ‘60, nella stessa fase di costruzione dell’impianto, con lavoratori in nero, senza controlli e senza alcun rispetto delle norme di sicurezza, grazie anche all’Italsider di allora (nata come fabbrica statale) che favoriva appalti e subappalti per tagliare tempi e costi dei lavori e disporre di manodopera sottomessa. Da allora in poi c’è stata una “lunga sequela (di morti) che avrebbe scandito la vita quotidiana della città. Già altissimo nella fase della costruzione dello stabilimento, il tasso d’infortuni, compresi i mortali, nel 1970 s’impennò a 1.694 ogni 1.000 operai: in sostanza quasi due infortuni l’anno per ogni operaio (Z. Iafrate, Omicidi bianchi: il primato Italsider, “Rassegna Sindacale”, n. 228, 1972).”[2]

Il sequestro dell’impianto è avvenuto sulla base di una perizia del Tribunale secondo cui dallo stabilimento si sarebbero diffusi “gas, vapori, sostanze aeriformi e sostanze solide (polveri ecc.), contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori operanti all’interno degli impianti e per la popolazione del vicino centro abitato di Taranto (…) con particolare, ma non esclusivo, riguardo a benzo(a)pirene, Ipa di varia natura e composizione nonché diossine, Pcb, polveri di minerali e altro”. (…) Ancora “i livelli di diossina e Pcb rinvenuti negli animali abbattuti, appartenenti alle persone offese indicate nell’ordinanza ammissiva dell’incidente probatorio del 27.10.2010, e (…) i livelli di diossina e Pcb accertati nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto, (sono) riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva”. Concludendo dunque che “all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto” non sono “osservate tutte le misure idonee ad evitare la dispersione incontrollata di fumi e polveri nocive alla salute dei lavoratori e di terzi”.[3]

E’ stata poi riscontrata, su un campione di 141 soggetti analizzati, 67 uomini e 74 donne, una media di piombo nelle urine di 10,8 mg/L mentre i valori di riferimento per la popolazione vanno da meno di 0,5 a 3,5 mg/L. Per capirci il piombo è neurotossico e cancerogeno. La stessa indagine ha riscontrato valori eccedenti anche per il cromo, con un valore medio di 0,45 mg/L contro un intervallo di riferimento di 0,05-0,32 mg/L[4].

Ancora è ormai noto che “attorno all’Ilva per un raggio di venti chilometri e’ vietato dalla Regione il pascolo libero in zone incolte perché il terreno è contaminato da diossine e policlorobifenili. Parliamo di inquinanti persistenti con effetto cancerogeno e che hanno il potere di danneggiare il dna che viene trasferito dai genitori ai figli. Dal 2008 sono state abbattute duemila pecore e capre perché contaminate da diossine e pcb e gli allevatori sono rimasti senza lavoro. Nel 2011 sono state distrutte grandi quantità di cozze, contaminate da diossine e pcb, colpendo famiglie di miticoltori che lavoravano da decenni.”[5] “A Taranto si può morire anche solo respirando all’aria aperta. I parchi minerali allo scoperto e i fumi di scarico hanno cambiato per sempre la vita di un intero quartiere, Tamburi, dove almeno una famiglia su due piange la morte di un proprio caro per tumore.”[6]

D’altra parte tutti questi elementi sono da tempo fedelmente documentati da studi scientifici prodotti da strutture dello Stato italiano, come lo studio SENTIERI (Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio da Inquinamento), pubblicato lo scorso anno dall’Istituto Superiore di Sanità col Ministero della Salute e altri enti pubblici, in cui si dice, nero su bianco, che a Taranto c’è un eccesso:

·       tra il 10% e il 15% nella mortalità generale e per tutti i tumori in entrambi i generi;

·       di circa il 30% nella mortalità per tumore del polmone, per entrambi i generi;

·       in entrambi i generi, dei decessi per tumore della pleura (…);

·       compreso tra il 50% (uomini) e il 40% (donne) di decessi per malattie respiratorie acute (…) associato a un aumento di circa il 10% nella mortalità per tutte le malattie dell’apparato respiratorio;

·       di circa il 15% tra gli uomini e 40% nelle donne della mortalità per malattie dell’apparato digerente.[7]

Ma che a Taranto si morisse di ILVA la gente lo avvertiva da tempo, ma le proteste reiterate di cittadini e lavoratori non hanno mai smosso né le autorità locali né quelle nazionali. E tuttora l’insieme dei partiti e dei sindacati continua a difendere l’idea che vada salvaguardato lo stabilimento a scapito della salute (vedi la manifestazione sindacale di luglio scorso e di marzo scorso). E non bisogna farsi ingannare dalle chiacchiere sul mantenere il funzionamento dell’Ilva risanandola che, oltre ad avere in spregio la vita umana, cercano di far credere che sia possibile un’operazione che è del tutto improponibile visto che l’impianto è ormai vecchio e poco adatto a essere rattoppato di qua o di là. A tale proposito è da notare tutto il can can che si sta facendo sull’AIA, l’Autorizzazione Integrata Ambientale di cui l’ILVA ha bisogno per poter continuare a funzionare, e la cui concessione, laddove si dovesse avere, equivarrebbe più o meno ad assegnare il bollino eco 5 ad un’automobile degli anni ’60!

Ma se c’è tanta resistenza a non mollare è perché l’ILVA rappresenta una grossa fetta dell’economia italiana. Lo sa bene la famiglia Riva che, dopo aver acquistato la fabbrica a prezzi stracciati, ne gode adesso tutti i profitti senza averci speso granché (motivo appunto dell’attuale degrado!). Lo sa bene il governo in quanto l’acciaieria di Taranto partecipa al 60% della produzione di acciaio italiano e al 3% del PIL. Così, lo stesso ministro dell’ambiente Clini, che 12 anni fa aveva dichiarato, a proposito degli impianti dell’Ilva di Cornigliano (Genova), che: La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo[8] oggi, rispetto all’ILVA di Taranto, tende addirittura a mettere in dubbio o a nascondere la verità di morte prodotta dall’acciaieria.[9]

Tra l’altro l’appoggio all’Ilva sembra sia stato favorito anche attraverso “altre vie”, che hanno fatto aprire un altro filone di indagini per corruzione per una sospetta mazzetta versata a un perito incaricato di eseguire delle indagini sulle emissioni dello stabilimento. Per questo ultimo filone di indagini, che vede coinvolti nel malaffare dell'acciaio politici e organi di controllo ambientale, a saltare all'interno del gruppo Riva è stato Girolano Archinà ormai ex responsabile delle relazioni esterne. (…) Nelle intercettazioni Archinà parla di come fosse facile azzittire (la stampa, ndr) pagandola.”[10]Io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliargli la lingua! Cioè pagare la stampa per non parlare![11].

Addirittura il governo Berlusconi è arrivato a varare una legge “salva-ILVA” (DLgs 155/2010) che, sospendendo una precedente legge che imponeva un limite alle emissioni di 1nanogrammo per ogni metro cubo del terribile e cancerogeno benzo(a)pirene nelle città con più di 150 mila abitanti, ha praticamente lasciato libertà di inquinare. “Non è un caso - conclude Marescotti di Peacelink- perché non può essere che il Governo abbia avviato l´iter del decreto salva-Ilva il 13 maggio, cioè quando l´Arpa, noi e la Regione avevamo cominciato a denunciare con forza il problema del benzoapirene a Taranto”.[12]

Di fronte a tutto questo sfacelo, la stessa cosiddetta sinistra dà segnali confusi se non addirittura di parte, come Vendola che, da buon capo di un partito che si chiama Sinistra, Ecologia, Libertà (SEL), afferma: Noi ci siamo sempre opposti sia ad un industrialismo cieco sia ad un ambientalismo fondamentalista ed isterico di chi pensa che tra i beni da tutelare non ci debba essere il bene lavoro, in una storia come quella di Taranto[13]. E’ evidente come, a fronte delle stragi provocate dall’ILVA, la dichiarazione non possa suonare che come difesa della continuazione della produzione, come richiede il ruolo istituzionale di governatore della regione Puglia ricoperto dall’ex “rivoluzionario” Vendola.

Ma la stessa Rifondazione Comunista, che non avendo vincoli istituzionali non ha neanche l’obbligo a prese di posizioni più compromettenti, non riesce ad esprimere posizioni che abbiano un minimo di concretezza: “L’alternativa (…) è una e una sola, garantita dalla nostra Costituzione: l’esproprio dell’azienda e la ri-nazionalizzazione dell’Ilva con lo Stato come protagonista diretto di un grande progetto di ammodernamento e messa a norma degli impianti.”[14] Questa posizione, che è anche del PCL di Ferrando[15], non tiene i piedi per terra e crea solo polverone, confusione. Che senso ha parlare di grande progetto di ammodernamento e messa a norma degli impianti, che aggiungerebbero altri miliardi a quelli dell’acquisto della fabbrica, quando non ci sono neanche i soldi per pagare gli stipendi a quelli che già lavorano nel settore pubblico? A meno che non si voglia seguire l’idea del PCL di Ferrando che parla addirittura di esproprio senza indennizzo, cioè un colpo di mano! Ma ci siamo resi conto che viviamo in regime capitalista? Se i proletari avessero la forza di fare tutto questo, si limiterebbero a perpetuare il loro sfruttamento facendo passare la proprietà della fabbrica da un privato a quello dello Stato? Sarebbe veramente fatica sprecata!

Per quanto riguarda i sindacati, la situazione non migliora. Se Cisl e Uil sono arrivate addirittura a fare manifestazioni a sostegno dell’azienda, cavalcando il naturale timore dei lavoratori di ritrovarsi in mezzo ad una via, la Fiom da parte sua, dopo “una prima fase, (in cui) si accodava a FIM e UILM, nella partecipazione a scioperi e blocchi stradali (sostanzialmente telecomandati dal padrone), successivamente al 2 agosto ha preso le distanze dagli altri sindacati confederali, mantenendo una posizione di “sostegno alla magistratura”.[16] Ma fondamentalmente anche la Fiom sta dalla parte del padrone, come si è visto negli interventi televisivi di Landini in cui il dirigente sindacale tendeva continuamente a spostare la responsabilità dell’inquinamento sugli altri centri industriali della città di Taranto, come se questo potesse alleggerire la responsabilità di un sindacato sul piano della connivenza col padrone.

Un quadro abbastanza interessante della situazione ci viene fornito da un esponente del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti: “«sono un lavoratore, ma sono anche un cittadino. Non posso difendere un posto di lavoro che crea morte nella mia città». Per questo, ribadisce, «Taranto non può essere rappresentata dai sindacati». E si chiede: «Dov’erano i dirigenti delle varie sigle, che ora difendono i posti di lavoro e il Pil italiano, mentre a Taranto si moriva di diossina? Perché ora scendono in piazza quando per anni non hanno mai fatto uno sciopero contro l'azienda? (…) Sono stato dirigente del sindacato dei metalmeccanici in azienda. E ho a casa un fascicolo pieno di tutte le denunce che ho presentato per far emergere la condizione di pericolo per la salute e l'ambiente creata dai fumi di questi stabilimenti. Ma poi ho dato le dimissioni, perché mi vergognavo di essere come loro. Le nostre richieste si fermavano tutte alla segreteria provinciale. Le nostre proteste trovavano un muro. Tant’è che nel 2007 mandammo una lettera a Landini in cui chiedevamo le dimissioni del segretario provinciale, ma dopo qualche giorno molti lavoratori scelsero di ritirare la firma da quella petizione.»”[17]

Ma se le forze politiche e sindacali difendono un ipocrita diritto al lavoro, che significa di fatto difesa del capitale, qual è l’alternativa proposta dagli ambientalisti? Chiusura degli impianti e riconversione dei lavoratori Ilva in lavori di bonifica! “L’opera di bonifica del terreno attorno all’Ilva e’ vastissima e richiede non meno lavoratori di quanti ne impiega oggi l’Ilva”.[18] Ancora una volta una pura illusione visto che, in un periodo di crisi, eliminare l’Ilva significa un impatto negativo che è stato valutato attorno ad oltre 8 miliardi di euro annui imputabile per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l'amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato[19], a cui naturalmente andrebbero aggiunti i costi della bonifica del territorio.

Come si vede la contrapposizione tra lavoro e salute è un non senso, è qualcosa che può solo disorientare i proletari. In realtà. L’unica soluzione al problema è uscire dalla logica del capitale. Ma che significa uscire dalla logica del capitale? Significa che dobbiamo imparare a ragionare con dei punti di vista che siano i nostri e non quelli che cercano di imporci i padroni e il loro Stato. I casi dell’Alcoa e del Carbosulcis ci possono aiutare a capire ulteriormente il problema.

Alcoa e Carbosulcis: bisogna difendere il punto di vista dei lavoratori, non quello del capitale

I casi di Alcoa e Carbosulcis sono anch’essi abbastanza noti a tutti. In entrambi i casi i lavoratori rischiano di perdere il loro lavoro: all’Alcoa perché i proprietari americani della fabbrica hanno deciso di chiudere la loro attività perché risulterebbe troppo onerosa, particolarmente per le tariffe elettriche da pagare per produrre l’alluminio per elettrolisi; stessa cosa per il Carbosulcis che è fermo al palo in attesa che la Regione sarda, proprietaria dell’azienda, produca un nuovo progetto per l’estrazione e utilizzo del carbone con contemporanea cattura e immagazzinamento nel sottosuolo del biossido di carbonio prodotto.

Ancora in entrambi i casi i lavoratori hanno dato vita a varie dimostrazioni di protesta, anche abbastanza dure: asserragliamento di 80 minatori a 400 metri di profondità con minaccia di utilizzare l’esplosivo, auto ferimento di un operaio durante una conferenza stampa in miniera e magliette con la scritta “disposti a tutto” da una parte e rabbia espressa alla manifestazione del 10 settembre scorso dove ci sono stati scontri con le forze dell’ordine con lancio di bombe carta e tondini di alluminio e il ferimento di 14 poliziotti, contestazione del responsabile economico del PD Fassina e lacerazione di tessere di partiti e sindacati in piazza, occupazione per due volte di seguito di una torre dello stabilimento Alcoa a 70 metri di altezza dall’altra parte. In entrambi i casi i lavoratori stanno lottando contro lo spettro della disoccupazione, ma la strada che viene loro indicata dai sindacati è quanto di peggio ci possa essere. Per l’Alcoa, in attesa che qualche capitalista acquisti la fabbrica in liquidazione, si chiede allo Stato di far ridurre il più possibile le tariffe elettriche per agevolare il capitalista entrante[20]. Per il Carbosulcis si preme perché l’azienda ottenga il finanziamento del “progetto integrato miniera-centrale-cattura stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo” che serve per continuare oltre il termine previsto di chiusura dell’impianto del 31 dicembre 2012 ma che, nella versione attuale, non è “economicamente sostenibile”. Insomma in entrambi i casi, seguendo le consegne sindacali, i lavoratori sono costretti ad abbracciare delle esigenze che sono quelle del capitale, non quelle degli operai, arrivando anche a vantare l’efficienza e la produttività della propria fabbrica come elemento che dovrebbe incoraggiare il prosieguo dell’attività produttiva al suo interno.

Allora sorge spontanea una domanda: se è vero che fabbriche come l’Alcoa sono così produttive, come mai restano chiuse e senza acquirenti? La risposta è semplicemente che altrove è ancora più conveniente svolgere la stessa produzione. Quando si accetta il principio che lavorare - in questo caso in miniera - è possibile solo se tornano i conti dell’azienda, si finisce completamente nelle mani della borghesia.

In conclusione, in tutti e tre i casi di Ilva, Alcoa e Carbosulcis i proletari si trovano di fronte a un bivio: seguire le consegne sindacali e rimanere ficcati nella stretta logica aziendale difendendo, senza volerlo, gli interessi del padrone, oppure seguire un cammino autonomo di difesa dei propri bisogni. Ed il primo bisogno, che ci sia o meno profitto per l’azienda o per l’economia nazionale, che ci sia o meno il posto di lavoro, è quello gridato dagli stessi lavoratori in lotta: vivere, difendere la propria dignità di essere umani, avere un futuro per sé e per i propri figli. E’ chiaro che questa seconda strada può apparire più ardua perché poco praticata, ma è l’unica che può portare a dei risultati perché è l’unica che consente l’aggregazione di altri proletari. Finché si difende la propria fabbrica, rivendicandone la produttività e l’efficienza, di fatto ci si mette in una posizione concorrenziale con altri settori proletari che caso mai vivono una situazione del tutto simile ma in una fabbrica meno (o più) efficiente. Ma il diritto a sopravvivere non può essere invocato subordinatamente all’efficienza della propria fabbrica, così come non si può cedere al ricatto di lavorare con l’intossicazione dell’Ilva pena la perdita del posto.

I lavoratori sardi e di Taranto, così come tanti altri in Italia e nel mondo, stanno dimostrando tutta la loro determinazione a lottare, ma per creare un rapporto di forza che possa realmente imporre le proprie esigenze ai padroni e allo Stato l’unica possibilità che hanno è quella di unirsi, di unire la propria lotta a quella di altre aziende o settori: minatori della Carbosulcis insieme agli operai dell’Alcoa, questi insieme a quelli dell’Ilva di Taranto, della Fiat, … per scendere insieme in piazza, per discutere in assemblea e capire quale futuro abbiamo di fronte e decidere assieme cosa fare per rafforzare ed allargare la lotta.

Questo è un percorso più difficile, ma non impossibile: nel dicembre 2009, in Turchia, gli operai della fabbrica Tekel sono confluiti ad Ankara per lottare contro i licenziamenti e la miseria imposta dalla ristrutturazione della fabbrica dal governo. Per mesi, sono rimasti mobilitati occupando le piazze, coinvolgendo la popolazione e mandando delegazioni in altre aziende per chiamare altri proletari ad unirsi alla lotta con la parola d’ordine "Operai curdi e turchi tutti insieme”. Alla manifestazione del Primo Maggio a Istanbul c’erano 350.000 persone in piazza Taskim, che hanno occupano il palco e cacciato via i sindacati[21].

E’ costruendo un simile rapporto di forza che saremo capaci di contrapporci ai ricatti e alle lusinghe di ministri e sindacati e di aprire un percorso verso la costruzione di una società diversa.

Tommaso & Ezechiele, 19 settembre 2012

 

[1] Vedi La catastrofe economica mondiale è inevitabile su Rivista Internazionale n°33.

[2] Il lavoro o la vita. Taranto, l’Ilva e la logica del profitto, www.micromega.net.

[3] Taranto i periti del tribunale "Inquinamento, è colpa dell'Ilva" https://bari.repubblica.it/cronaca/2012/01/27/news/ilva-28885863/index.html?ref=search.

[4] E’ stata riscontrata la presenza del piombo nelle urine dei tarantini, https://www.pressenza.com/it/2012/07/10204/.

[6] "Taranto, la città dei veleni".

[9] Ilva di Taranto: il ministro dell’Ambiente insulta e nega i dati sulle morti, www.valigiablu.it/ilva-di-taranto-il-ministro-clini-insulta-e-nega-i-dat....

[10] Il destino di Taranto nelle mani dello Stato, affaritaliani.libero.it/cronache/destino-taranto170812.html?refresh_ce.

[11] "ILVA, una favola noir", beppegrillo.it.

[13] "Ilva, Vendola: “Contro industrialismo cieco e ambientalismo isterico”".

[15] Speciale Ilva di Taranto: no alla contrapposizione diritto alla salute - diritto al lavoro!, https://marcherosse.blogspot.it/2012/08/speciale-ilva-di-taranto-no-alla.html.

[16] "Taranto: espropriare i padroni delle ferriere!"

[17] "Dov’erano i sindacati mentre all’Ilva si moriva di diossina?

[19] Passera: "La chiusura dell'Ilva costerebbe oltre 8 miliardi".

[20] Nel caso dell’Alcoa ci si mettono anche i sedicenti “comunisti italiani” che la girano a lotta nazionalista contro i profittatori americani: Il vero problema è l’immobilismo del Governo e della Regione Sardegna che consentono, in casa propria, di dettare legge alla multinazionale americana. Altro che sovranismo, la Regione Sardegna è schiava di questi squallidi briganti a stelle e strisce.” Corona (PdCI-Fds): “Gli americani di Alcoa come degli avvoltoi. Il Governo e la Regione schiavi di questi squallidi briganti”, .

[21] Vedi gli articoli “Turchia: Solidarietà con la resistenza degli operai della Tekel contro il governo ed i sindacati!”, https://it.internationalism.org/node/918; “Dalla Turchia: Se i sindacati sono dalla nostra parte, perché ci sono 15.000 poliziotti antisommossa fra noi e loro?”, https://it.internationalism.org/node/930; “Giro in Europa di una delegazione di lavoratori della Tekel (Turchia): trasmettere l’esperienza della lotta di classe”, https://it.internationalism.org/node/1004.

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