Il mondo sulla soglia di un collasso ambientale (II). Di chi è la responsabilità?

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Nel primo articolo di questa serie sulla questione ambientale, pubblicato sulla Rivista Internazionale n°30, abbiamo sviluppato una denuncia dello stato attuale delle cose cercando di mostrare l’entità del rischio di fronte al quale si trova l’umanità intera ed in particolare i fenomeni più laceranti che esistono a livello planetario come:

  • l’incremento dell’effetto serra;
  • la produzione abnorme di rifiuti ed i problemi che derivano a livello della loro gestione;
  • la sempre maggiore diffusione di prodotti tossici con i relativi processi di crescente bioconcentrazione lungo le reti alimentari;
  • l’esaurimento delle risorse naturali e/o la loro compromissione per contaminazione.

Proseguiamo adesso con questo secondo articolo in cui cercheremo di mostrare come i problemi ambientali non possano essere attribuiti a singole persone o a singole aziende che non rispetterebbero la legge - benché esistano anche chiare responsabilità personali o aziendali - ma che è il capitalismo il vero responsabile con la sua logica del massimo profitto.

Cercheremo anche di mostrare, attraverso una serie di esempi, in che modo gli stessi meccanismi specifici del capitalismo generano i problemi sul piano ecologico, indipendentemente dalla volontà del singolo capitalista. D’altra parte, l’idea correntemente diffusa secondo la quale lo sviluppo scientifico raggiunto oggi ci metterebbe sempre più al riparo dalle catastrofi naturali e concorrerebbe in maniera decisiva ad evitare problemi di natura ambientale va decisamente smentita. Mostreremo in questo stesso articolo, riportando ampie citazioni di Bordiga, come le tecnologie capitaliste moderne non siano affatto sinonimo di sicurezza e come lo stesso sviluppo della scienza e della ricerca scientifica, non essendo determinato dal soddisfacimento dei bisogni dell’umanità, ma subordinato all’imperativo capitalista della realizzazione del massimo profitto, venga prostituito alle esigenze del capitalismo e della concorrenza sul mercato e, quando necessario, della guerra. Sarà poi compito di un terzo ed ultimo articolo analizzare le risposte date dai vari movimenti di Verdi, ecologisti, ecc. per mostrare la loro totale inefficacia - malgrado tutta la buona volontà della maggior parte di chi vi milita all’interno o di chi fa semplicemente riferimento alle loro posizioni – e per affermare al contrario che l’unica soluzione possibile, dal nostro punto di vista, è la rivoluzione comunista internazionale.

Identificazione del problema e delle sue cause

Chi o cosa è responsabile dei vari disastri ambientali? La risposta a questa domanda è della più grande importanza, non solo dal punto di vista etico e morale, ma anche e soprattutto perché l’individuazione corretta o sbagliata dell’origine del problema può condurre alternativamente o alla sua corretta soluzione oppure in un vicolo cieco. Noi proveremo anzitutto a rispondere ad una serie di luoghi comuni, di false risposte, o di risposte solo parzialmente veritiere per mostrare come ognuna di esse non riesca a individuare veramente quale sia l’origine e il responsabile della crescente degradazione ambientale a cui siamo costretti ad assistere giorno dopo giorno e per mostrare invece come tale dinamica di degradazione sia essa stessa il prodotto, non volontario e cosciente, ma oggettivamente conseguente, del sistema di produzione capitalista.

Il problema c’è, ma non è così grave come si vuole far credere!

Oggi che i governi pretendono di fare a gara a chi è più “verde”, questo discorso – che è stato dominante per decenni – non è più in genere quello che si sente dalla bocca degli uomini politici. Resta tuttavia una posizione classica nel mondo dell’imprenditoria che, di fronte a qualunque pericolo derivante dall’esercizio di una certa attività e che gravi sui lavoratori, sulla popolazione o sull’ambiente, tende a minimizzare la gravità del problema semplicemente perché lavorare in condizioni di sicurezza comporta spendere di più ed estorcere meno profitto ai lavoratori. E’ quello che si vive giorno per giorno con le centinaia di morti sul lavoro che si hanno in giro per il mondo, semplice colpa della fatalità secondo gli imprenditori, mentre invece si tratta di un prodotto autentico dello sfruttamento capitalista della forza lavoro.

Il problema esiste, ma la responsabilità è sempre di qualcun altro

La grande quantità di rifiuti prodotta dalla società attuale sarebbe, secondo alcuni, il frutto del “nostro” consumismo, piuttosto che essere più correttamente interpretata come il risultato di una politica economica che, per favorire una più competitiva commercializzazione delle merci, punta da qualche decennio a questa parte a minimizzarne i costi attraverso un uso massiccio di imballaggi[1].

O ancora l’idea che, se c’è chi inquina la terra, è perché gli manca senso civico (da cui la necessità di promuovere delle campagne di pulizia delle spiagge, dei parchi, ecc. ecc., per dare l’esempio alla popolazione intera). Da cui anche un inveire contro una parte dei governanti che non sarebbero capaci di fare rispettare le leggi sui trasporti marittimi o altro, ecc. Fino naturalmente ad approdare alla classica chicca finale secondo cui è tutta colpa della mafia con i suoi traffici di rifiuti pericolosi, come se i rifiuti pericolosi li producesse la mafia e non il mondo dell’industria che, per ridurre i costi di produzione, ricorre alla mafia come semplice esecutore dei propri affari sporchi.

La responsabilità è anche degli industriali, ma solo di quelli cattivi e avidi …

Quando infine si arriva ad un episodio come quello dell’incendio alla Thyssen Krupp di Torino del dicembre 2007, che costa la vita di 7 operai in conseguenza della totale inosservanza delle norme di sicurezza e di prevenzione antincendio, allora sembra levarsi un coro di solidarietà finanche dal mondo dell’industria, ma solo per avanzare la subdola idea secondo cui, se si producono delle catastrofi, è solo perché esistono settori dell’imprenditoria senza scrupoli che si arricchiscono a spese di altri.

Ma è proprio così? Esistono capitalisti avidi ed altri capitalisti responsabili e corretti gestori delle loro imprese?

Il sistema di produzione capitalista, unico responsabile della catastrofe ambientale

Tutte le società di sfruttamento che hanno preceduto il capitalismo hanno dato il loro contributo all’inquinamento del pianeta generato in particolare dal processo produttivo. D’altra parte alcune società che si erano spinte allo sfruttamento eccessivo delle risorse a loro disposizione, come fu probabilmente il caso degli abitanti dell’isola di Pasqua[2], sono scomparse in seguito al loro esaurimento. Tuttavia, gli elementi di degrado ambientale o sociale così prodotti non costituivano, in queste società, un pericolo significativo, suscettibile di mettere in gioco la stessa sopravvivenza del pianeta, come è il caso oggi per il capitalismo. Una ragione sta nel fatto che, avendo fatto conoscere un salto prodigioso alle forze produttive, il capitalismo ha ugualmente provocato un salto di pari livello sui fattori di degrado ambientale che ne risultano e che gravano oggi sull’insieme del globo terrestre, avendo il capitale conquistato quest’ultimo nella sua totalità. Ma non è ancora questa la spiegazione più importante poiché lo sviluppo delle forze produttive non è in sé necessariamente significativo dell’assenza di controllo su queste. Ciò che è essenzialmente in discussione è la maniera in cui queste forze produttive vengono utilizzate e gestite dalla società. Ora giustamente il capitalismo si presenta come lo stadio conclusivo di un processo storico che consacra il regno della merce, un sistema di produzione universale delle merci dove tutto è in vendita. Se la società è immersa nel caos dal dominio dei rapporti mercantili, che non implica soltanto lo stretto fenomeno dell’inquinamento ma anche l’impoverimento accelerato delle risorse del pianeta, la crescente vulnerabilità alle cosiddette calamità “naturali”, ecc., è per un insieme di ragioni che possono essere così riassunte:

  • la divisione del lavoro e, più ancora, il fatto che la produzione sotto il regno del danaro e del capitale dividono l’umanità in un’infinità di unità concorrenti;
  • il fine non è la produzione di valori d’uso ma piuttosto la produzione di valori di scambio che occorre vendere ad ogni costo, qualunque sia il prezzo pagato dall’umanità e dal pianeta, in modo da fare del profitto.

E’ questa necessità che, al di là della buona o cattiva coscienza dei singoli capitalisti, costringe questi ultimi ad adeguare la loro impresa alla logica del massimo sfruttamento della classe operaia.

Ciò conduce ad uno sperpero e ad una spoliazione enormi della forza lavoro umana e delle risorse del pianeta, come lo metteva in evidenza già Marx nel Capitale: “Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’infermità della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. (…) La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (Marx, Il Capitale, Libro primo, cap. 13, Macchine e grande industria, par. 10 Grande industria e agricoltura, Editori Riuniti, pag. 218-219).

Il colmo dell’irrazionalità e dell’assurdità della produzione capitalista sta nel fatto che non è raro trovare delle aziende che producono preparati chimici altamente inquinanti e – contemporaneamente – dei sistemi di bonifica dei terreni e delle acque dagli stessi contaminanti; case che producono sigarette e dissuasori dall’uso del fumo, altre ancora che controllano settori della produzione di armi ma che si occupano anche di prodotti farmaceutici o attrezzature mediche.

Si raggiungono qui delle punte che non si sfioravano neanche nelle società precedenti, in quanto le merci erano essenzialmente prodotte per il loro valore di uso (esse o erano utili ai loro produttori, gli sfruttati, o erano usate per la pomposità della classe dominante).

La reale natura della produzione di merci impedisce al capitalista di potersi interessare alla utilità, al tipo o alla composizione delle merci prodotte. L’unica questione che gli interessa è sapere come fare soldi con un prodotto. Questo meccanismo spiega perché molte delle merci prodotte hanno un’utilità piuttosto limitata quando non sono del tutto inutili.

Nella misura in cui la società capitalista è essenzialmente basata sulla concorrenza, anche quando i capitalisti trovano delle intese occasionali, restano sempre fondamentalmente e ferocemente concorrenti: la logica del mercato vuole infatti che la fortuna dell’uno sia favorita dalla disgrazia di altri. Ciò significa che ogni capitalista produce per sé stesso, che ognuno di loro è rivale di tutti gli altri e che non ci può essere alcuna pianificazione reale concordata tra tutti i capitalisti, a livello locale o a livello internazionale, ma solo una competizione permanente con dei vincitori e dei vinti. E in questa battaglia, uno dei perdenti è appunto la natura.

Infatti, nella scelta di quale sia il luogo dove costruire un nuovo impianto o di cosa coltivare e come in un certo appezzamento di terreno, il singolo imprenditore deve rendere conto solo ai suoi interessi immediati e non c’è spazio alcuno per considerazioni di tipo ecologico. Non vi è alcun organo centralizzato a livello internazionale che abbia l’autorità di dare un indirizzo o anche di imporre dei limiti o dei criteri da rispettare. Nel capitalismo, le decisioni sono prese solo in funzione della realizzazione del massimo profitto in modo che ogni singolo capitalista possa produrre e vendere nella maniera più vantaggiosa o nella più grande quantità o che lo Stato possa imporre al meglio ciò che fa gli interessi del capitale nazionale e dunque, globalmente, dei capitalisti del proprio paese.

Tuttavia esistono delle leggi più o meno restrittive a livello dei singoli paesi. Ma quando le misure imposte dalla legislazione sono troppo vincolanti, non è raro vedere delle imprese dislocare all’estero parte della loro produzione, in particolare in paesi dove le norme sono meno severe, per aumentare i loro ricavi. Così Union Carbide, multinazionale chimica americana, aveva impiantato una delle sue fabbriche a Bhopal, in India, senza dotarla di un sistema di refrigerazione. Nel 1984 da questa fabbrica è sfuggita una nuvola tossica di 40 tonnellate di pesticida che ha ucciso, immediatamente e negli anni seguenti, almeno 16.000 persone, provocando dei danni irrimediabili all’organismo di un milione di persone[3]. Gli stessi territori e i mari dei paesi del terzo mondo costituiscono spesso una discarica a buon mercato dove, legalmente o illegalmente, compagnie che si trovano nei paesi sviluppati inviano i loro rifiuti pericolosi o tossici, nella misura in cui costerebbe loro molto più caro sbarazzarsene nei loro paesi di origine.

Finché non vi sarà una pianificazione agricola e industriale coordinata e centralizzata a livello internazionale, che prenda in considerazione la necessaria armonizzazione delle esigenze di oggi e la salvaguardia dell’ambiente di domani, i meccanismi del capitalismo continueranno a distruggere la natura con tutte le drammatiche conseguenze che abbiamo visto.

E’ ricorrente l’abitudine di attribuire la responsabilità di ciò alle multinazionali o a un settore particolare dell’industria, in quanto le origini del problema si trovano negli “anonimi” meccanismi del mercato che spingono ogni singolo capitalista ad agire nella stessa maniera.

Ma lo Stato può porre fine a questa follia attraverso un maggiore intervento? In realtà no, perché lo Stato è capace solo di “regolare” questa anarchia. Anzi, attraverso la difesa degli interessi nazionali, lo Stato contribuisce a rafforzare questa competizione. Contrariamente alle richieste delle ONG (organizzazioni non governative) e del movimento altermondialista, non è un maggiore intervento da parte dello Stato – che d’altra parte non è mai venuto meno, malgrado certe apparenze di “liberalismo”, come confermato in maniera evidente dall’interventismo statale di fronte all’attuale accelerazione della crisi economica - che può risolvere i problemi dell’anarchia capitalista.

Quantità contro qualità

L’unica preoccupazione dei capitalisti è, come abbiamo visto, vendere le loro merci con il più alto profitto possibile. Ma è bene chiarire che non si tratta di egoismo perché questa è una regola del sistema a cui nessuna compagnia, piccola o grande che sia, può sottrarsi. Il peso crescente del costo dei macchinari nella produzione industriale implica che i grossi investimenti necessari possano essere recuperati solo dopo un gran numero di vendite. Per esempio la ditta Airbus costruttrice di aerei deve vendere almeno 600 dei suoi aerei giganti A380 prima che possa realizzare dei profitti. Analogamente le ditte costruttrici di automobili devono vendere centinaia di migliaia di automobili prima che possano saldare le spese sostenute per la costruzione dell’impianto adatto a costruirle. In breve, ogni capitalista deve vendere quanto più gli è possibile ed essere alla costante ricerca di nuovi mercati. Ma per fare questo in un mercato già saturo, deve imporsi nei confronti dei suoi concorrenti, cosa che realizza attraverso un’orgia di mezzi pubblicitari che sono l’origine di uno spreco enorme di lavoro umano e di risorse naturali come, per esempio, tutta la carta inghiottita nella produzione di migliaia di tonnellate di manifesti pubblicitari.

Queste leggi dell’economia (che spingono alla riduzione dei costi, con una conseguente riduzione della qualità della produzione e la fabbricazione in serie) implicano che il capitalista è ben lungi dal preoccuparsi della composizione dei suoi prodotti e dal chiedersi se le componenti utilizzate per produrlo possano essere pericolose. Così, benché i rischi prodotti dall’uso di combustibili fossili per la salute (causa il cancro) siano conosciuti da lungo tempo, l’industria non prende alcuna misura adeguata. I rischi per la salute relativi all’amianto erano noti da anni. Ma solo l’agonia e la morte di migliaia di operai hanno costretto l’industria a reagire negli anni successivi. Grandi quantità di alimenti sono arricchite di zucchero e sale, da glutammato monosodico, per aumentare la loro vendita indipendentemente dalle conseguenze per la salute. Una quantità incredibile di additivi alimentari viene aggiunta negli alimenti senza che siano veramente noti i rischi a cui la popolazione è sottoposta. Tuttavia è noto che molte tipologie di cancro sono dovute alla nutrizione.

Aspetti irrazionali della produzione e della vendita

Uno degli aspetti più irrazionali nel sistema attuale di produzione è il fatto che le merci viaggiano in giro per il mondo prima di arrivare sul mercato nella loro forma di prodotti finiti. Ciò non è legato alla natura delle merci o ad esigenze di produzione ma esclusivamente al fatto che la lavorazione del semilavorato è più vantaggiosa in questo o quel paese. Un esempio famoso è quello della produzione di yogurt: il latte viene trasportato attraverso le Alpi, dalla Germania verso l’Italia, dove viene trasformato in yogurt per essere poi riportato - in questa forma - dall’Italia alla Germania. Un altro esempio è quello delle automobili le cui componenti arrivano dai più diversi paesi del mondo prima di essere assemblate in una catena di montaggio. In generale, prima che un bene sia disponibile sui mercati, le sue componenti hanno già percorso migliaia di chilometri con i mezzi più diversi. Così, per esempio, gli apparecchi elettronici o quelli per uso domestico sono prodotti in Cina per i ridottissimi salari praticati in questo paese e per l’assenza pressoché totale di misure di protezione dell’ambiente, anche se, dal punto di vista tecnologico, essi potrebbero tranquillamente essere prodotti nei paesi acquirenti. Spesso i loro progetti o gli impianti per produrre questi beni sono stati inizialmente sviluppati o installati da una compagnia in un paese acquirente che ha poi chiuso i battenti per riaprirli in un altro paese dove i costi di produzione e soprattutto i salari sono più bassi.

Abbiamo ancora l’esempio dei vini, prodotti in Cile, Australia o in California e venduti sui mercati europei mentre l’uva prodotta in Europa viene portata al macero a causa della sovrapproduzione, o ancora quello delle mele che arrivano in Europa dall’Africa sebbene i coltivatori europei non sanno che fare dell’eccedenza di mele.

Così, seguendo la logica del massimo profitto e non quella della razionalità e del minimo ricorso a spese umane, energetiche e naturali, le merci vengono prodotte da qualche parte del pianeta per essere poi inviate in altre parti del mondo per essere vendute. Non c’è poi da meravigliarsi che delle merci di pari valore tecnologico, come le automobili, prodotte da diverse case nel mondo, vengano costruite in Europa per poi essere esportate in Giappone o negli Usa e che, contemporaneamente, altre automobili costruite in Giappone o in Corea, siano vendute sul mercato europeo. Questa rete di trasporti di merci - talvolta molto simili tra di loro - che si scambiano di paese solo in obbedienza alla logica del profitto e della concorrenza e dei conseguenti giochi del mercato, è qualcosa di totalmente aberrante e che ha delle conseguenze disastrose sull’ambiente. E pensare che, con una razionale pianificazione della produzione e della distribuzione, questi beni potrebbero essere disponibili senza subire questi trasporti del tutto irrazionali, che esprimono solo la follia del sistema di produzione capitalista.

L’antagonismo di fondo fra città e campagna

La distruzione dell’ambiente dovuto all’inquinamento da traffico non è un semplice fenomeno contingente poiché esso affonda le sue radici più profonde nell’antagonismo fra città e campagna. All’origine, la divisione del lavoro all’interno delle nazioni ha separato l’industria e il commercio dal lavoro agricolo. Di lì è nata l’opposizione tra città e campagna con gli antagonismi di interessi che ne risultano. Ma è sotto il capitalismo che questa opposizione raggiunge il parossismo delle sue aberrazioni[4].

Ai tempi dello sfruttamento agricolo del Medio Evo, orientato verso la produzione del necessario per il sostentamento della popolazione, vi era difficilmente la necessità di trasportare merci. All’inizio del 19° secolo, quando gli operai vivevano spesso vicino alle fabbriche o alle miniere, essi ci potevano andare a piedi. Da allora però la distanza tra il luogo del lavoro e la casa degli operai è aumentata. In aggiunta, la concentrazione di capitali in certe località (come nel caso di compagnie che aprono in certi “parchi industriali” o in altre aree sperdute per godere delle agevolazioni fiscali o di prezzi particolarmente bassi del suolo), la deindustrializzazione e la relativa esplosione della disoccupazione dovuta alla perdita di tanti posti di lavoro, ha profondamente modificato la fisionomia dei trasporti.

Così, ogni giorno, centinaia di milioni di lavoratori devono spostarsi coprendo in molti casi distanze lunghissime per raggiungere il loro posto di lavoro. Molti di loro devono utilizzare un’automobile perché spesso il trasporto pubblico non permette loro di raggiungere il posto di lavoro.

Ma c’è di più. La concentrazione di grandi masse di persone nello stesso luogo comporta una serie di ulteriori problemi che incidono ancora una volta sulla salute ambientale del territorio. La fisiologia di un aggregato di persone che arriva fino a 10-20 milioni di persone comporta l’accumulo dei relativi rifiuti (deiezioni, rifiuti, gas di scarico degli autoveicoli, delle industriale e da riscaldamento, …) in un’area che, per quanto vasta possa essere, è comunque troppo ristretta per poter diluire e smaltire questo carico ricevuto.

L’incubo della penuria alimentare e della scarsità d’acqua

Con lo sviluppo del capitalismo, l’agricoltura ha subito i più profondi cambiamenti della sua storia da più di 10.000 anni a questa parte. Ciò è avvenuto perché nel capitalismo, contrariamente ai modi di produzione precedenti in cui l’agricoltura rispondeva a dei bisogni diretti dei consumatori, gli agricoltori devono sottomettersi alle leggi del mercato mondiale, il che significa produrre col minimo di spese. Ma la necessità di aumentare la resa delle coltivazioni ha avuto delle conseguenze catastrofiche sulla qualità dei suoli.

Queste conseguenze, che sono inseparabilmente legate all’apparire di un forte antagonismo fra città e campagna, sono state già denunciate dal movimento operaio nel 19° secolo. Nelle citazioni che seguono si vede come Marx abbia tracciato il legame inseparabile tra lo sfruttamento della classe operaia e il saccheggio del suolo:

“… la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale la forza della terra viene sperperata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese (Liebig)”. (Marx, Il Capitale, Libro terzo, cap. 47, Genesi della rendita fondiaria capitalistica, Editori Riuniti, pag. 224).

Il modo di produzione capitalistico porta a compimento la rottura dell’originario vincolo di parentela che stringeva agricoltura e manifattura nella loro forma infantile e non sviluppata: Ma esso crea allo stesso tempo le premesse materiali di una sintesi nuova, superiore, cioè dell’unione fra agricoltura e industria, sulla base delle loro forme antagonisticamente elaborate. Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice storica della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale. Ma insieme essa costringe mediante la distruzione delle circostanze di quel ricambio organico, sorte per semplice spontaneità naturale, a produrre tale ricambio in via sistematica, come legge regolatrice della produzione sociale, in una forma adeguata al pieno sviluppo dell’uomo. (…) Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’infermità della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. (…) La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (Marx, Il Capitale, Libro primo, cap. 13, Macchine e grande industria, par. 10 Grande industria e agricoltura, Editori Riuniti, pag. 218-219).

L’agricoltura ha dovuto costantemente accrescere l’uso di prodotti chimici per intensificare lo sfruttamento del suolo ed estendere le aree di coltivazione. Così, nella maggior parte del pianeta, i contadini portano avanti delle colture che sarebbero impossibili senza l’apporto di grandi quantità di antiparassitari, fungicidi e fertilizzanti e senza irrigazione mentre, se piantate in altre zone, potrebbero svilupparsi senza questi mezzi o con un loro uso molto ridotto.

Piantare dell’erba medica in California, degli agrumi in Israele, del cotone intorno al lago d’Aral nell’ex Unione Sovietica, del frumento in Arabia Saudita o nello Yemen, cioè piantare delle colture in aree che non offrono le condizioni naturali per la loro crescita, si traduce in uno spreco enorme di acqua. La lista degli esempi è veramente senza fine: attualmente circa il 40% dei prodotti agricoli dipende dall’irrigazione, con la conseguenza che il 75% dell’acqua potabile disponibile sulla terra viene utilizzata in agricoltura.

Per esempio, l’Arabia Saudita ha speso una fortuna per pompare l’acqua da una falda sotterranea e rifornire un milione di ettari di terra nel deserto per coltivare frumento. Per ogni tonnellata di frumento coltivata, il governo fornisce 3000 metri cubi d’acqua - ovvero più di tre volte quanto richiesto per la coltura del frumento. E quest’acqua viene tutta da pozzi che non vengono rigenerati dalla pioggia. Un terzo di tutti gli impianti di irrigazione del mondo usano acqua di falda. E mentre queste fonti esauribili vengono prosciugate, i coltivatori nella regione indiana di Gujarat, assetati di pioggia, insistono nell’allevamento di vacche da latte, utilizzando 2.000 litri di acqua per produrre un solo litro di latte! In certe regioni della terra, la produzione di un chilogrammo di riso richiede fino a 3000 litri di acqua. Le conseguenze dell’irrigazione e dell’uso diffuso di prodotti chimici sono disastrose: salinizzazione, overdose di fertilizzanti, desertificazione, erosione dei suoli, forte riduzione dei livelli d’acqua delle falde e dunque svuotamento delle riserve di acqua potabile.

Lo spreco, l’urbanizzazione, la siccità e l’inquinamento acutizzano la crisi idrica mondiale. Milioni e milioni di litri d’acqua evaporano scorrendo in canali di irrigazione aperti. Soprattutto le aree intorno alle megalopoli, ma anche intere distese di terra, vedono i loro acquiferi scendere velocemente ed irreversibilmente di livello.

In passato la Cina era il paese dell’idrologia, la cui economia e la cui civilizzazione si erano sviluppate grazie alla sua capacità di irrigare le terre asciutte e di costruire degli argini per proteggere il paese dalle inondazioni. Ma, nella Cina di oggi, le acque del poderoso Fiume Giallo, la grande arteria del Nord, per diversi mesi l’anno non raggiungono il mare. 400 delle 660 città della Cina mancano d’acqua. Un terzo dei pozzi della Cina sono a secco. In India, il 30% delle terre coltivabili è minacciato di salinizzazione. Nel mondo intero circa il 25% delle aree agricole è minacciato di salinizzazione.

Ma la coltura di prodotti agricoli in regioni che, a causa del loro clima o per la natura del suolo, non lo permetterebbero, non è l’unica assurdità dell’agricoltura moderna. In particolare, a causa della penuria d’acqua, il controllo dei fiumi e delle dighe è diventato una questione strategica fondamentale rispetto alla quale gli Stati nazionali intervengono sconsideratamente a scapito della natura.

Più di 80 paesi già hanno segnalato una scarsità d’acqua sul loro territorio. Secondo una previsione dell’ONU, il numero di persone che dovranno vivere in condizioni di penuria d’acqua raggiungerà i 5.4 miliardi durante i prossimi 25 anni. Nonostante la disponibilità di tanta terra coltivabile, le terre realmente utilizzabili del mondo diminuiscono costantemente a causa della salinizzazione e di altri fattori. Nelle antiche società, le tribù nomadi dovevano spostarsi in altre zone quando l’acqua diventava scarsa. Nel capitalismo, nonostante la tendenza innata di questo sistema alla sovrapproduzione, mancano sia le derrate alimentari che l’acqua. Così, a causa delle molteplici devastazioni causate all’agricoltura, la penuria alimentare è un fenomeno inevitabile. A partire dal 1984, per esempio, la produzione mondiale di grano non è riuscita a stare al passo con la crescita della popolazione mondiale. Nell’arco di 20 anni infatti questa è crollata da 343kg all’anno per persona a 303kg.

Così, il fantasma che ha sempre accompagnato lo sviluppo dell’umanità dalle sue origini, l’incubo della penuria alimentare, sembra tornare alla ribalta, ma non per mancanza di terra coltivabile o per mancanza di mezzi e strumenti da usare in agricoltura, ma per l’assoluta irrazionalità nell’uso delle risorse della Terra.

Nel capitalismo, maggiore tecnologia non significa maggiore sicurezza

Se è vero che lo sviluppo scientifico e tecnologico offrono all’umanità strumenti di cui non era neanche possibile in passato immaginare l’esistenza e che permettono di prevenire incidenti e catastrofi naturali, è altrettanto vero che l’impiego di tali tecnologie costa e viene messo in opera solo se c’è un ritorno economico. Ancora una volta vogliamo sottolineare che non si tratta qui, come in altri casi, dell’atteggiamento egoista e ingordo di qualche imprenditore, ma della necessità che si pone a qualunque imprenditore o a qualunque paese di ridurre al minimo le spese di produzione di una merce o di un servizio per poter reggere alla concorrenza mondiale.

Nella nostra stampa abbiamo ripetutamente affrontato questo problema mostrando come le cosiddette catastrofi naturali non siano affatto il prodotto del caso o della fatalità, ma il risultato logico della riduzione di misure di prevenzione e di sicurezza per fare economia. Ecco, ad esempio, quello che scrivevamo a proposito della catastrofe prodotta dall’uragano Katrina nel 2005 a New Orleans:

Anche l’argomento secondo cui questa catastrofe non era prevista è un nonsenso. Da quasi 100 anni, scienziati, ingegneri e politici hanno discusso di come far fronte alla vulnerabilità di New Orleans nei confronti dei cicloni e delle inondazioni. A metà degli anni 1990, sono stati sviluppati parecchi progetti da diversi gruppi di scienziati e di ingegneri, che infine hanno portato ad una proposta nel 1998 (sotto l'amministrazione Clinton), chiamata Coast 2050. Questo progetto comprendeva il rafforzamento e la ripianificazione delle dighe esistenti, la costruzione di un sistema di chiuse e la creazione di nuovi canali che avrebbero portato delle acque piene di sedimenti per restaurare le zone paludose tampone del delta; questo progetto richiedeva un investimento di 14 miliardi di dollari per un periodo di 10 anni. Non ebbe l'approvazione di Washington, non sotto Bush ma sotto Clinton. L'anno scorso, l'esercito ha chiesto 105 milioni di dollari per i programmi di lotta contro i cicloni e le inondazioni a New Orleans, ma il governo gli ha accordato solamente 42 milioni. Nello stesso momento, il Congresso approvava un bilancio di 231 milioni di dollari per la costruzione di un ponte verso una piccola isola disabitata dell'Alaska. [5]

Abbiamo ugualmente denunciato il cinismo e le responsabilità della borghesia nei confronti del massacro di 160.000 persone avvenuto in seguito allo tsunami prodottosi il 26 dicembre del 2004.

In effetti, oggi è riconosciuto chiaramente, in modo ufficiale, che l'allerta non è stata lanciata per timore di … danneggiare il settore turistico! Altrimenti detto, oltre centocinquantamila esseri umani sono stati sacrificati per difendere dei sordidi interessi economici e finanziari.

Questa irresponsabilità dei governi è una nuova dimostrazione dello stile di vita di questa classe di squali che gestisce la vita e l'attività produttiva della società. Gli Stati borghesi sono pronti a sacrificare altrettante vite umane, se ciò è necessario, per preservare lo sfruttamento ed i profitti capitalisti.

Sono sempre gli interessi capitalisti che dettano la politica della classe dominante e - nel capitalismo – la prevenzione non è un’attività che rende, come viene riconosciuto oggi da tutti i media: “Dei paesi della regione avrebbero fino a quel momento fatto orecchio da mercante rispetto al mettere in piedi un sistema di allerta a causa degli enormi costi finanziari. Secondo gli esperti, un dispositivo di allerta costerebbe decine di milioni di dollari, ma permetterebbe di salvare decine di migliaia di vite umane (Les Échos, 30/12).[6]

Ancora possiamo fare l’esempio del petrolio che ogni anno viene sversato a mare (sversamenti intenzionali e accidentali, fonti endogene, apporto dai fiumi, ecc.): si parla di 3-4 milioni di tonnellate di petrolio all’anno. Secondo un rapporto di Legambiente: “Analizzando le cause di questi incidenti, è possibile riscontrare che per il 64% dei casi esse sono imputabili ad errore umano, il 16% a guasti meccanici ed il 10% a problemi strutturali della nave, mentre il restante 10% non è attribuibile a cause certe.[7]

Ma è facile capire che, quando si parla di errore umano - come ad esempio nei casi di incidenti ferroviari attribuiti ai macchinisti - si tratta di errori in cui incorre l’operatore perché lavora in condizioni di sfinimento estremo e di forte stress. D’altra parte, è abitudine delle compagnie petrolifere sfruttare petroliere anche vecchie e decrepite per il trasporto dell’oro nero perché, in caso di naufragio, perdono al massimo il valore di un carico di greggio, mentre acquistare una nuova imbarcazione viene a costare molto di più. Ecco perché lo spettacolo di petroliere che si spaccano a metà in vicinanza delle coste sversando tutto il loro carico nero è diventato così frequente. Mettendo tutto assieme possiamo affermare che almeno il 90% delle cause di dispersione a mare del petrolio è dovuta alla mancanza assoluta di attenzione delle compagnie petrolifere legata ancora una volta all’interesse di ridurre al minimo i costi e amplificare al massimo i margini di profitto.

Una denuncia sistematica, incisiva, profonda e articolata dei disastri prodotti dal capitalismo fu svolta da Amadeo Bordiga[8] negli anni dell’immediato dopoguerra. Nella prefazione al libro Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, che è una raccolta di articoli di Amadeo Bordiga, si può leggere:

Man mano che il capitalismo si sviluppa, poi cade in putrefazione, asservisce sempre più alle sue esigenze di sfruttamento, di dominio e di saccheggio imperialista una tecnica che potrebb’essere liberatrice, al punto da trasmetterle la sua stessa putredine e da rivolgerla contro la specie. (…) E’ in tutti i campi della vita quotidiana delle fasi “pacifiche” a noi generosamente concesse tra due massacri imperialistici o due grandi operazioni repressive, che il capitale, pungolato senza tregua dalla ricerca di un miglior saggio di profitto ammucchia, avvelena, asfissia, mutila, massacra gli individui utilizzando a tal fine una tecnica prostituita (...) Il capitalismo non è innocente neppure delle catastrofi dette “naturali”. Senza ignorare l’esistenza di forze della natura che sfuggono all’azione umana, il marxismo mostra che un buon numero di cataclismi é indirettamente provocato, o aggravato, da cause sociali (...) Non solo la civiltà borghese può essere causa diretta di queste catastrofi per la sua sete di profitto e per l’influenza predominante dell’affarismo sulla macchina amministrativa (...), ma si rivela impotente ad organizzare una protezione efficace nella misura in cui la prevenzione non è un'attività redditizia.[9]

Bordiga sfata la leggenda secondo la quale “la contemporanea società capitalistica, con il correlativo sviluppo della scienza, della tecnica e della produzione, mette[rebbe] la specie umana nelle condizioni migliori per lottare contro le difficoltà dell’ambiente naturale.[10] Infatti, aggiunge Bordiga: “se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in deflessione, è altrettanto vero che maggiore è la sua virulenza, peggiori sono le condizioni di vita della massa umana di fronte ai cataclismi naturali e storici.[11] Per dimostrare ciò, Bordiga analizza tutta una serie di disastri avvenuti in giro per il mondo dimostrando di volta in volta che alla loro base non c’è il caso o la fatalità ma la tendenza innata del capitalismo a trarre il massimo profitto investendo il meno possibile, come ad esempio nel caso del naufragio della Flying Enterprise.

La nuovissima e lussuosa nave che Carlsen faceva tenere forbita come uno specchio, e doveva fare una traversata arcisicura, era a chiglia piatta. (…) Perché mai il modernissimo cantiere della Flying ha adottato la chiglia piatta, propria del battello lacustre? Un giornale lo diceva in tutte le lettere: per ridurre il costo unitario di produzione. (…) Abbiamo qui la chiave di tutta la moderna scienza applicata. I suoi studi, le sue ricerche, i suoi calcoli, le sue innovazioni, mirano a questo: ridurre i costi, alzare i noli. Sfarzo quindi di saloni specchi ed orpelli per attirare i clienti ad alto prezzo, lesina pidocchiosa nelle strutture spinte all’estremo del cimento meccanico e della esiguità di dimensioni e di peso. Questa tendenza caratterizza tutta la moderna ingegneria, dall’edilizia alla meccanica, ossia presentare con ricchezza, per «épater le bourgeois», i complementi e le finiture che qualunque fesso sta all’altezza di ammirare (avendo anzi una apposita cultura da paccottiglia formata nei cinema e sugli illustrati in rotocalco) e scarseggiare in modo indecente nella solidità della struttura portante, invisibile e incomprensibile al profano.[12]

Che i disastri analizzati da Bordiga non abbiano delle conseguenze sul piano ecologico non cambia nulla al problema. Di fatto, attraverso questi episodi denunciati da Bordiga così come quelli esposti nella prefazione ai suoi articoli raccolti in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale di cui citiamo qualche esempio, si può immaginare senza difficoltà gli effetti prodotti dalla stessa logica capitalista quando questa si applichi nei settori aventi un impatto diretto e decisivo sull’ambiente, come per esempio la concezione e la gestione delle centrali nucleari:

Negli anni ’60, diversi aerei inglesi del tipo “Comet”, ultimo grido della tecnica più sofisticata, esplodono in pieno volo, causando la morte di tutti i passeggeri: la lunga inchiesta rivela infine che le esplosioni erano dovute allo sforzo al quale era sottoposto il metallo della cellula, troppo sottili – perché si doveva risparmiare sul metallo, sulla potenza dei reattori, sull’insieme dei costi di produzione, per accrescere il profitto. Nel 1974 l’esplosione di un “DC10” nel cielo di Ermenonville causa oltre 300 morti: si sapeva che il sistema di chiusura del bagagliaio era difettoso, ma rifarlo sarebbe costato quattrini … Ma il caso più allucinante è riferito dall’inglese “The Economist” (24-9-1977), dopo la scoperta di incrinature nel metallo di dieci aerei “Trident” e l’inspiegabile schianto al suolo di un “Boeing”: in base alla “nuova concezione” che presiede alla costruzione degli aerei da trasporto, questi non sono più sottoposti a revisione completa dopo un certo numero di ore di volo, ma si considerano “sicuri” … fino alla comparsa delle prime incrinature dovute alla “stanchezza” del metallo: li si può quindi usare “al massimo” delle loro potenzialità evitando alle compagnie aeree la perdita di quattrini, se i voli cessassero troppo presto![13]

Abbiamo già evocato, nel precedente articolo di questa serie, il caso della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986. In fondo, all’origine del disastro, è presente la stessa logica, così come nel 1979 in occasione della fusione di un reattore nucleare sull’isola di Three Mile, in Pennsylvania, negli Stati Uniti.

La scienza al servizio dello sviluppo della società capitalista

Di fatto, la comprensione del ruolo della tecnica e della scienza all’interno della società capitalista è della più grande importanza rispetto alla questione di sapere se queste possono costituire oppure no un punto di appoggio per prevenire l’avanzata di un disastro ecologico in atto e per lottare in maniera efficace da oggi contro alcune delle sue manifestazioni.

Se la tecnica è, come abbiamo visto, prostituita alle esigenze del mercato, lo saranno anche lo sviluppo della scienza e della ricerca scientifica, oppure è possibile che queste restino al di fuori di qualunque interesse di parte?

Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo partire dal riconoscere che la scienza è una forza produttiva, che il suo sviluppo permette ad una società di crescere più rapidamente, di aumentare le sue risorse. Di conseguenza, il controllo dello sviluppo scientifico non è - e non potrebbe essere - indifferente ai gestori dell’economia, a livello statale come a livello imprenditoriale. Questo è il motivo per cui alla ricerca scientifica, e ad alcuni suoi settori in particolare, vengono forniti lauti finanziamenti. La scienza non è dunque – e non potrebbe esserlo all’interno di una società di classe come il capitalismo - un settore neutro dove esisterebbe una libertà di ricerca scientifica e che sarebbe risparmiato da interessi economici, per il semplice motivo che la classe dominante ha tutto l’interesse ad asservire la scienza e il mondo scientifico ai propri interessi. Ma possiamo addirittura affermare che lo stesso sviluppo della scienza e della conoscenza – nell’epoca capitalista - non segue una propria dinamica autonoma e indipendente ma è essa stessa subordinata all’obiettivo della realizzazione del massimo profitto.

Questo fatto ha delle notevolissime conseguenze di cui ci accorgiamo solo raramente. Guardiamo ad esempio allo sviluppo della medicina moderna. Lo studio e la cura dell’uomo è frazionata in diecine di specializzazioni diverse, all’interno delle quali alla fine viene a mancare la visione d’insieme del funzionamento dell’organismo umano. Se questo avviene è perché l’obiettivo primo della medicina, nel mondo capitalista, non è quello di far vivere bene le singole persone, ma “riparare” la “macchina uomo” quando questa si guasta e rimetterla in piedi il più rapidamente possibile per farla tornare a lavorare. Non sono casuali, all’interno di questo discorso, il ricorso massiccio agli antibiotici per ogni accidente e le diagnosi che ricercano la causa dei mali sempre in qualche fattore specifico piuttosto che nelle condizioni generali di vita che gli uomini vivono in questa società.

Un’altra conseguenza della dipendenza dello sviluppo scientifico dalla logica del mondo capitalista è che la ricerca è stata sempre indirizzata verso la produzione di nuovi materiali (più resistenti, meno cari) la cui sicurezza dal punto di vista tossicologico non ha mai costituito un grosso problema … nell’immediato, mentre poco o niente viene speso nella ricerca scientifica finalizzata a rimuovere o rendere innocue le sostanze tossiche presenti in questi prodotti. Ma decenni più tardi tocca pagare il conto, generalmente in termini di intossicazioni croniche e morti di persone che erano state a contatto con detti materiali.

Ma il rapporto più forte è quello che esiste tra la ricerca scientifica e le esigenze del settore militare e la guerra in particolare. A questo livello possiamo esaminare alcuni esempi concreti che riguardano i vari rami della scienza, a partire da quella che sembrerebbe “la più pura” delle scienze, la matematica!

Nelle citazioni che seguono si può vedere fino a che punto lo sviluppo scientifico è sottoposto al controllo dello Stato e alle esigenze militari, tanto che nel II dopoguerra fioriscono un po’ dovunque “commissioni” di scienziati che lavorano segretamente per il potere militare e che, in maniera occulta, passano parte del loro lavoro ad altri scienziati ignari dello scopo ultimo delle ricerche che svolgono:

L’importanza della matematica per gli ufficiali di marina militare e di artiglieria richiedeva un’educazione matematica specifica; così, nel Settecento, il gruppo più importante che vantasse un sapere matematico almeno di base era quello degli ufficiali militari. (…) [Nella Grande Guerra] tante nuove armi venivano create o perfezionate durante la guerra – aerei, sottomarini, il sonar per combattere questi, armi chimiche. Dopo qualche esitazione da parte degli apparati militari, tanti scienziati venivano impiegati nel tentativo di fornire uno sviluppo militare, anche se non per fare scienza ma come ingegneri creativi di più alto livello. (…) Nel 1944, troppo tardi per diventare efficiente durante la Seconda Guerra, fu creato in Germania il «Matematisches Forschungsinstitut Oberwolfach». Ai matematici tedeschi non piace tanto saperlo, ma esso era una struttura molto ben pensata, che mirava a fare di tutta l’impresa matematica tedesca un’impresa «utile»: il nucleo era costituito da un piccolo gruppo di matematici che fossero ben a conoscenza dei problemi che si presentavano ai militari, e dunque in grado di localizzare problemi matematicamente risolvibili. Intorno al nucleo, altri matematici, ancora competenti e che conoscevano bene tutto l’ambiente matematico, dovevano tradurre questi problemi in problemi matematici e distribuirli in questa forma a matematici adatti (che non avevano bisogno di capire il problema militare che stava alla base, forse neanche di conoscerlo). Dopo, a risultato ottenuto, la stessa catena doveva funzionare all’incontrario.

Negli Stati Uniti, una struttura simile, anche se un po’ improvvisata, funzionava già intorno a Marston Morse durante la guerra. Nel dopoguerra, una struttura non improvvisata e del tutto analoga si trova nel «Wisconsin Army Mathematics Research Center» (…).

Il vantaggio della struttura è che permette alla macchina militare di sfruttare le competenze di molti matematici senza avere bisogno di «portarseli a letto», con tutto ciò che questo comporta – contratto, necessità di consenso e subordinazione, ecc.[14]

Nel 1943 sono stati istituti negli Stati Uniti dei gruppi di ricerca operativa espressamente impiegati per la guerra antisommergibile, il dimensionamento dei convogli navali, la scelta dei bersagli nelle incursioni aeree e l’avvistamento e intercettazione degli aerei nemici. Nel corso della seconda guerra mondiale verranno complessivamente impiegati nel Regno Unito, in Canada e in USA, oltre 700 scienziati.

Rispetto alla ricerca britannica, quella americana è caratterizzata fin dall’inizio da un uso più sofisticato della matematica e in particolare del calcolo delle probabilità e da un ricorso più frequente alla modellizazione. (…) La ricerca operativa (che diventerà negli anni cinquanta una branca autonoma della matematica applicata) muove dunque i suoi primi passi tra difficoltà strategiche e di ottimizzazione delle risorse belliche. Qual è la miglior tattica di combattimento aereo? Qual è il migliore dispiegamento di un certo numero di soldati in certi punti di attacco? Come si possono distribuire le razioni ai soldati sprecandone il meno possibile e sfamandoli adeguatamente?[15]

“ (…) Il Progetto Manhattan segnò un profondo punto di svolta, non solo perché concentrò migliaia di scienziati e tecnici di molteplici campi a lavorare su un unico progetto diretto e controllato dai militari, ma perché segnò un enorme salto anche per la ricerca fondamentale, inaugurando quella che è poi stata chiamata la Big Science (…) L’arruolamento della comunità scientifica per lavorare su un unico progetto finalizzato sotto il controllo diretto dei militari fu una misura di emergenza, ma non poteva durare a lungo, per molte ragioni (non ultima la conclamata “libertà della ricerca” da parte degli scienziati). D’altra parte, però, il Pentagono non poteva permettersi di perdere la preziosa e insostituibile cooperazione della corporazione scientifica, e qualche forma di controllo sulla sua attività: era necessario, per forza di cose, mettere a punto una strategia diversa e cambiare i termini del problema. (…) Nel 1959 venne creata, per iniziativa di un insieme di autorevoli scienziati e consulenti del governo degli Stati Uniti, un gruppo semi-permanente di esperti, che teneva riunioni periodiche di studio: esso fu chiamato “Divisione Jason”, dal nome del mitico eroe greco Giasone all’avventurosa caccia del vello d’oro con gli Argonauti. Si tratta di un gruppo elitario di una cinquantina di scienziati eminenti, tra i quali vari Premi Nobel, che si incontra ad ogni estate per alcune settimane per esaminare liberamente problemi legati alla sicurezza, alla difesa e al controllo degli armamenti posti dal Pentagono, dal Dipartimento dell’Energia o da altre agenzie federali, e forniscono rapporti dettagliati che rimangono in gran parte “classified” e spesso influenzano direttamente la politica nazionale. La Divisione Jason assunse un ruolo di primo piano con il Segretario alla Difesa Robert McNamara durante la guerra del Vietnam, quando completò tre studi particolarmente importanti, che influenzarono le concezioni e la strategia statunitensi: sull’efficacia dei bombardamenti strategici per tagliare le vie di rifornimento dei Vietcong, sulla costruzione di una barriera elettronica attraverso il Vietnam, e sulle armi nucleari tattiche. ”[16].

Gli elementi di queste lunghe citazioni ci fanno capire che la scienza è oggi una delle pietre angolari per la conservazione dello statu quo del sistema capitalista e per la definizione dei rapporti di forza al suo interno. Questo ruolo, manifestatosi pesantemente durante e dopo la II guerra mondiale, come documentato in precedenza, naturalmente non può che accrescersi con il tempo, anche se la borghesia tende sistematicamente a mascherarlo.

In conclusione, ciò che abbiamo cercato di dimostrare è come le catastrofi ecologiche ed ambientali, anche quando possono essere scatenate da fenomeni naturali, si abbattono con tanta più ferocia sulle popolazioni, ed in particolare su quelle meno agiate, in conseguenza di una scelta ben consapevole da parte delle classi dirigenti su come destinare le risorse e la stessa ricerca scientifica. L’idea che la modernizzazione, lo sviluppo scientifico e tecnologico, possano essere associati automaticamente a degrado dell’ambiente e ad un maggiore sfruttamento dell’uomo, è dunque da rigettare categoricamente. Esiste invece una grande potenzialità di sviluppo delle risorse umane non solo sul piano della produzione di beni ma, quello che più conta, sul piano della possibilità di produrre in maniera diversa, in piena armonia con l’ambiente e il benessere dell’ecosistema, di cui l’uomo stesso fa parte. Per cui la prospettiva non è quella di tornare indietro nel tempo, invocando un futile ed impossibile ritorno alle origini, in cui l’ambiente sarebbe stato maggiormente rispettato, ma quello di andare avanti su una strada diversa, quella di uno sviluppo che sia veramente in armonia con il pianeta Terra.

5 aprile 2009                       Ezechiele


[1] Vedi la prima parte di questo articolo “Disastri ambientali, inquinamento, variazioni climatiche. Il mondo sulla soglia di un collasso ambientale”, pubblicata sul n°30 della Rivista Internazionale.

[2] Idem.

[3] Idem.

[4] Il XX secolo ha visto una vera esplosione di megalopoli. All’inizio del XX secolo c’erano solo 6 città con più di 1 milione di abitanti; negli anni ’50 vi erano solo 4 città con una popolazione superiore a 5 milioni. Prima della II Guerra mondiale le megalopoli erano un fenomeno dei paesi industrializzati. Oggi il maggior numero di tali città è concentrata nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. In alcuni di questi la popolazione è aumentata di 10 volte in poche decine d’anni. Attualmente metà della popolazione mondiale vive in città, ma per l’anno 2020 saranno due terzi. Ma nessuna delle grandi città che stanno ricevendo flussi di immigrati che superano il numero di 5000 persone al giorno può realmente fare fronte a questo innaturale incremento demografico, con la conseguenza che tutti questi immigrati, non potendo essere integrati nel tessuto sociale della città, vanno a gonfiare i bassifondi delle loro cinture periferiche dove, quasi sempre, c’è mancanza totale di servizi e di infrastrutture adeguate.

[5] Uragano Katrina, il capitalismo è il responsabile della catastrofe sociale, in Rivoluzione Internazionale n°152.

[6] Citato in: Maremoto: la vera catastrofe sociale è il capitalismo, in Rivoluzione Internazionale n°139.

[8] Bordiga, leader della corrente di sinistra del PCdI (Partito Comunista d’Italia) alla cui fondazione nel 1921 aveva dato un grandissimo contributo ed espulso da questo stesso partito nel 1930 dopo il processo di stalinizzazione, partecipa nel dopoguerra alla fondazione del PCInt in Italia nel 1943.

[9] Prefazione (anonima) a Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale di Amadeo Bordiga, edizioni Iskra, pagg. 6, 7, 8 e 9.

[10] A. Bordiga, Piena e rotta della civiltà borghese, pubblicato in Battaglia Comunista n°23 del 1951 e poi in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale, edizioni iskra, pag. 19.

[11] Idem.

[12] A. Bordiga, Politica e “costruzione”, pubblicato in Prometeo, serie II, n°3-4, 1952 e poi in Drammi gialli e sinistri della decadenza sociale, edizioni iskra, pagg. 62-63.

[13] Prefazione a Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, op. cit., pagg. 7, 8 e 9.

[14] Jens Høyrup, Università di Roskilde, Danimarca, Matematica e guerra, Conferenza, Palermo, 15 maggio 2003, “Quaderni di Ricerca in Didattica”, n°13, 2003. G.R.I.M. (Department of Mathematics, University of Palermo, Italy), math.unipa.it/~grim/Hoyrup_mat_guerra_quad13.pdf.

[16] Angelo Baracca, Fisica fondamentale, ricerca e realizzazione di nuove armi nucleari, people.na.infn.it/~scud/documenti/2005Baracca_armiscienza.pdf

Questioni teoriche: