Dagli albori dello Stato unitario al “patto Stato/mafia” del 1993 e oltre : LA MAFIA È SEMPRE STATA AL CENTRO DELLO STATO

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Presentazione del testo

Questo testo, che noi condividiamo nella sua impostazione e nei suoi contenuti, è stato prodotto da un nostro simpatizzante che ci segue da moltissimo tempo e che ha voluto in questo modo offrire il suo prezioso contributo all’attività dell’organizzazione. Noi non possiamo che incoraggiare questa pratica di sostegno che viene da compagni che, pur non militando. almeno nell’immediato, nella nostra organizzazione, ne condividono gli obiettivi e la politica condotta in generale. E’ quanto abbiamo espresso anche nel nostro recente articolo Come aiutare la CCI. Per quanto riguarda l’articolo, le tematiche affrontate al suo interno risultano di particolare attualità in un momento in cui l’Italia viene attraversata ancora una volta dal terrore delle bombe. Sull’analisi della strage di Brindisi torneremo appena possibile, ma intanto questo articolo ci può aiutare a ricordare cosa è e cosa è stata la mafia nella storia d’Italia e non solo.

I primi rapporti Stato/mafia

Le connivenze tra mafia e Stato hanno un’origine lontana nel tempo e hanno inizio dal periodo compreso tra la fine del regno delle Due Sicilie e l’inizio dello Stato unitario. In una condizione storica di depressione economica, legata ad un tipo di economia latifondista ed ancora semifeudale, quale si presentava in particolare l’arretrato sud Italia durante l’ultimo periodo del regno delle due Sicilie, i notabili feudali e la semi-nobiltà siciliana, per assicurare i propri interessi e la salvaguardia delle rispettive proprietà terriere, solitamente, assoldavano certi individui appartenenti ad un particolare ceto sociale: massari, fattori, gabellotti (Fonte: Wikipedia). Questi, nello svolgimento di tale lavoro, ed anche per avere loro stessi ulteriori vantaggi economici, tendevano ad ottenere dagli ultimi servi della gleba, poveri contadini e braccianti in genere, un aumento della loro produttività lavorativa.

E ciò era possibile tenendoli costantemente sotto controllo con l’uso di metodi coercitivi e violenti, avvalendosi di scagnozzi prezzolati, proprio come i bravi di manzoniana memoria. Questi, trasformandosi ben presto in gruppi semisegreti e permanenti, assunsero per l’appunto il nome di sette, confraternite e cosche. Alcuni storici attribuiscono la nascita di tale fenomeno ad una scarsa presenza dello Stato sul territorio, e ciò è vero, ma questa era soprattutto prodotta dalla depressione economica alla cui origine troviamo principalmente, come precedentemente detto, l’arretratezza economica della zona.

È da notare come queste primitive organizzazioni malavitose, che vivevano, come su detto, estorcendo gran parte dei loro privilegi economici agli sfruttati, ai braccianti o a piccoli artigiani, e spesso anche “derubando” gli stessi proprietari terrieri, nella misura in cui la stessa zona evolveva verso una certa modernizzazione, da fenomeni prettamente locali subiscono un processo di trasformazione che le porta ad acquisire una crescente ed importante dimensione nazionale ed addirittura internazionale: diventano veri e propri organismi di controllo sociale al servizio diretto dello Stato, e di conseguenza anche degli imperialismi, pur mantenendo, almeno nelle loro diramazioni più periferiche, comportamenti organizzativi da manovalanza malavitosa (cosa nostra).

Le “collusioni” tra Stato e mafia sono poi proseguite nel corso dell’Italia del XX secolo, dall’era giolittiana al fascismo, dallo sbarco degli alleati in Sicilia e fino ai nostri giorni.

Nel 1910 Gaetano Salvemini, socialista meridionalista, denunciò il malcostume politico e le gravi responsabilità del democratico socialisteggiante Giovanni Giolitti accusando quest’ultimo di essere: "Il ministro della malavita" nel suo omonimo libro (Fonte: Wikipedia).

Nella metà degli anni 20 Mussolini dichiarò guerra alla Mafia. “Io la prosciugherò come ho prosciugato le paludi pontine” afferma. Le truppe del prefetto Cesare Mori hanno proprio questo incarico in Sicilia. Ma dopo i primi successi contro i residui di un brigantaggio rurale il prefetto di ferro, come fu nominato per i suoi modi risolutivi, scontrandosi con i santuari dello stesso PNF (Partito nazionale fascista) in Sicilia, coinvolgendo anche il federale e deputato del PNF Alfredo Cucco, uno dei massimi esponenti del fascio dell’isola, verrà promosso senatore dallo stesso duce e quindi rimosso dall’incarico. Per più dettagli leggere La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano su Rivista Internazionale n°18.

Con l’entrata in guerra nel 1941, gli USA riconoscono l’importanza strategica della Mafia, che renderà effettivamente servizi molto importanti allo Stato americano durante la guerra. Dopo aver piazzato le sue carte in entrambi i campi, quando a metà del 1942 il rapporto di forze pende nettamente a favore degli Alleati, la Mafia mette le sue forze a disposizione degli Stati Uniti. Sul piano interno, impegna i suoi sindacati nello sforzo di guerra. Ma è soprattutto in Italia che mostra il suo ruolo. Durante lo sbarco del 1943 in Sicilia le truppe americane beneficiano dell’efficace sostegno della Mafia locale. Sbarcati il 10 luglio, i soldati americani fanno una vera passeggiata, incontrano poca opposizione e dopo solo sette giorni Palermo è sotto il loro controllo. Per maggiori dettagli leggere: La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano su Rivista Internazionale n°18.

Prima ancora che la seconda guerra mondiale fosse finita, quando il destino delle forze dell’Asse era già segnato, il nuovo antagonismo che si sviluppa tra gli Stati Uniti e l'URSS polarizza l'attività degli stati maggiori e dei servizi segreti. In Italia, la situazione è particolarmente delicata per gli interessi occidentali. Vi è il Partito stalinista più forte dell’Europa occidentale che esce dalla guerra con un’aureola di gloria per il suo determinante ruolo nella resistenza contro il fascismo. Mentre si preparano le elezioni del 1948, in conformità alla nuova costituzione nata con la Liberazione, aumenta l’inquietudine tra gli strateghi occidentali, perché nessuno è certo del risultato, ed una vittoria del PCI sarebbe una catastrofe. La campagna elettorale che dovrebbe santificare la nuova repubblica democratica è al suo culmine. L’apparato finanziario ed industriale, l’esercito, la polizia, che erano stati i principali sostenitori del regime fascista, si mobilitano e, di fronte al pericolo “comunista”, abbracciano la causa della difesa della democrazia occidentale. La Mafia, nel sud Italia, si impegna attivamente nella campagna elettorale, finanziando la Democrazia Cristiana, dando indicazioni di voto alla sua clientela.

Uno degli episodi più significativi di questo periodo è quello della La strage di portella delle ginestre dove lo Stato impara a far eseguire il lavoro sporco alla mafia per non compromettere la sua immagine democratica.

Il 1°maggio 1947, nell'immediato dopoguerra, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione delle terre incolte, e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI-PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa). Sulla gente in festa partirono dalle colline circostanti numerose raffiche di mitra che lasciarono sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”. Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano, colonnello dell’E.V.I.S (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia). Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento ad “elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali” (Fonte: Wikipedia).

 Da quel momento lo Stato italiano, i suoi servizi segreti con l’organizzazione clandestina GLADIO, insieme ad ambienti legati alla destra estrema ed a cosa nostra sono andati a braccetto e sotto la regia dell’imperialismo USA si sono divisi i compiti per affrontare sia problemi inerenti alla contrapposizione dell’altro blocco imperialista, l’URSS, e sia per affrontare quelli di ordine interno. Questo connubio si è protratto fino a quando non è crollato alla fine degli anni 1980 ed all’inizio degli anni 1990 il blocco dell’Est. Per maggiori dettagli leggere: La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano su Rivista Internazionale n°18.

In breve, fin dalle loro origini, se ci riferiamo all’Italia, tali organizzazioni non sono che parti organiche dello Stato, prima borbonico e poi sabaudo post unitario. Tuttavia, attribuire questo fenomeno solo al sud Italia sarebbe comunque un errore perché è la borghesia mondiale di tutte le nazioni che, costretta dal suo sistema di sfruttamento, in un modo o nell’altro, ha dovuto fare lo stesso percorso costituendo una sua componente illegale e mafiosa, come è dimostrato dall’esistenza della potente Yakuza (mafia) giapponese, quella russa, albanese, messicana, cinese, americana, ecc.

Specifica ai sistemi sociali classisti di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la mafia è inscritta nelle basi genetiche (DNA) dello Stato borghese ....

L’11 maggio del 1860 i Mille sbarcarono a Marsala e, sbaragliando la prima resistenza borbonica, avanzarono verso Palermo, che fu presa dai garibaldini il 30 maggio. Presto tutta l’isola sarà governata dalle truppe garibaldine e da notabili siculi che avevano appoggiato la loro impresa. In questa occasione, secondo lo storico Giacinto de’ Vivo, si segnalarono scorribande in tutta l’isola di camorristi armati di coltelli, pistole e persino fucili inneggiando all’Italia, Vittorio e Garibaldi.

“Nel 1860, mentre con la spedizione dei Mille si apriva la fase finale del regno delle due Sicilie, Liborio Romano, nonostante sia stato un ex carbonaro e per questo condannato al carcere e poi all’esilio, venne nominato dal re Francesco II prefetto di Polizia. Il 14 luglio 1860 Romano venne nominato ministro di polizia e, avendo capito in anticipo l'ineluttabilità della fine del regno, iniziò a prendere contatti segreti con Camillo Benso conte di Cavour e con Giuseppe Garibaldi e a preparare il traghettamento del Mezzogiorno dai Borbone ai Savoia. (fonte: Wikipedia). Risale a questo momento il coinvolgimento diretto della camorra da parte sua, «in virtù della sua organizzazione e del suo potere di controllo territoriale».[1]

“Nel suo domicilio privato [Romano] ospita l’uomo più potente della camorra di quei tempi Salvatore de Crescenzo detto Tore’ e Crescienzo. Romano convince il re a firmare alcuni decreti di amnistia ad personam per Crescienzo ed i suoi accoliti. In cambio costoro vengono arruolati nella polizia per far fronte ai gravi disordini di quei giorni. Alla fine i delinquenti si trasformano in “collaboratori di giustizia”. I ladri fanno le guardie … Quel patto Romano lo conclude subito … D’altronde quella condotta non scandalizza l’uomo politico italiano più influente in quel momento, ossia il conte Camillo Benso di Cavour. Lui manifesta espressamente il suo plauso a Romano per come si comporta da ministro della polizia a Napoli”.[2] “Sempre nel 1860 a Caserta i camorristi vengono incaricati dall’ex governatore Pizzi della gestione dell’ordine pubblico in occasione dell’arrivo in città dei garibaldini. Nelle strade di Caserta, Marcianise, e Santa Maria Capua Vetere c’erano duemila affiliati. … [dice Morosini] Se la mafia e la camorra fossero solo bande criminali non sarebbero presenti sul territorio nazionale a partire dall’unità d’Italia. La loro longevità è sintomo di alcune gravi fragilità istituzionali del nostro Paese. Le associazioni mafiose, soprattutto nelle regioni del Sud, si sono progressivamente rafforzate con la “frequentazione” di politici, amministratori, uomini delle forze dell’ordine, magistrati. Lo dicono le nostre origini[3].

In realtà era il governo che aveva bisogno della mafia, della malavita organizzata, di questo suo braccio armato illegale per difendere l’ordine pubblico del nuovo Stato unitario, come affermò coraggiosamente il parlamentare calabrese Diego Tajani in un suo clamoroso intervento denuncia tenuto alla camera il 12 giugno 1875:

“La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale. Questa è la prima verità incontrastabile. [...] L'altro insegnamento è questo: che le leggi non funzionano completamente per la mancanza di fiducia degli amministratori nell'amministrazione. Imperocché, o Signori, che cosa è mai una legge? Una legge è un pezzo di carta: essa sarà buona, sarà pessima, sarà ottima, se sono buoni, se sono pessimi, se sono ottimi i funzionari! Che le devono infondere l'anima”[4].

Alla fine del suo discorso l'aula di Montecitorio si trasforma in una bolgia. Tajani viene accerchiato dai colleghi della maggioranza. Lo vogliono aggredire. Sono inviperiti. Il deputato calabrese non si scompone. È una sfinge. Fisico asciutto e vigoroso, calvizie incipiente e occhiali sul naso, li guarda con un freddo sorriso. Il calabrese Tajani non ha paura. Punta il dito verso il governo del nuovo Stato. Lo accusa di utilizzare i mafiosi per difendere l’ordine pubblico. E parla a ragion veduta. Prima di essere eletto alla Camera, è stato per quattro anni (1868-1872) Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo. Sa tante cose su come la Destra ha governato la Sicilia agli albori dell’Italia unita, sugli strumenti utilizzati per fronteggiare il banditismo e garantire l’ordine pubblico. (Fonte: Attentato alla giustizia - Piergiorgio Morosini - Rubettino)

Un altro eclatante episodio che mette in chiaro i rapporti tra Stato e mafia è legato all’omicidio di uno stimato uomo delle istituzioni, Emanuele Notarbartolo, avvenuto il 1° febbraio del 1893 su una carrozza ferroviaria di un treno che stava percorrendo la linea Termini Imerese Palermo. Dell’omicidio fu accusato come mandante il deputato Salvatore Palizzolo, mentre come esecutori materiali furono accusati due esponenti della cosca di Villabate, Matteo Filippelli e Giuseppe Fontana. Nonostante che la testimonianza diretta del questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, ed i vari accertamenti di polizia inchiodassero al muro il mandante e gli esecutori materiali, costoro alla fine vennero assolti. Il Sangiorgi, intanto, dovette far fronte ad accuse infamanti che una certa regia di stampo governativo, attraverso la stampa dell’epoca, gli aveva lanciato contro durante appunto le fasi processuali. Chiaramente queste accuse risultarono successivamente infondate, ma intanto erano servite a rendere nulle le sue testimonianze. Tuttavia, i giudici della Corte di Appello di Palermo il 26 ottobre del 1891 assolvono Albanese per l’omicidio Termini e per gli altri reati con una motivazione alquanto discussa: “Verosimile che il Questore il quale conoscea Termini un facitore di lettere di scrocco si fosse mostrato soddisfatto della morte di lui, ed avesse fatto ogni insistenza, perché risultandone indiziata la forza pubblica oculatamente si procedesse”. (Fonte: Attentato alla giustizia - Piergiorgio Morosini - Rubettino).

Questa ricostruzione storica è essenziale per capire che, come da sempre sostenuto dalla CCI, occorre sfatare il luogo comune diffuso strumentalmente dai media borghesi secondo cui, pur ammettendo la stretta collusione che ci può essere stata o che ci sta ancora tra mafia e Stato, queste due organizzazioni restano comunque distinte. Invece mafia e Stato borghese, oggi come oggi, nel periodo di decadenza e decomposizione della società borghese, si confondono perfettamente, tanto che si fa sempre più fatica ad individuare negli apparati portanti dello Stato (politica, giustizia, interni, esercito, servizi pubblici e privati, industriali, ecc.) settori che non abbiano direttamente o indirettamente avuto rapporti organici con quella che viene in genere definita malavita organizzata (mafia/cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra o sotto qualsiasi nome la si voglia definire), o che non lo siano loro stessi in prima persona.

Come si è potuto vedere, oltre alle fonti su citate, gran parte dei riferimenti storici riportati in questo testo, sono da attribuirsi, come è segnalato ad ogni fine citazione, al libro del magistrato Piergiorgio Morosini: Attentato alla giustizia. Tuttavia, in questo suo libro ricerca, l’autore, pur dimostrando con una dettagliata ricchezza di documentazioni storiche tutta una serie di collusioni tra mafia e Stato e fin dai tempi dello Stato borbonico, resta essenzialmente - ed oserei dire ingenuamente convinto - che la mafia, per quanto possa essersi infiltrata nei gangli statali, resti qualcosa di estraneo allo Stato e che pertanto, combattuta dalle forze sane di quest’ultimo, potrebbe essere debellata e sconfitta. Ma non è così!

... di conseguenza per distruggere la mafia è necessario distruggere il capitalismo e proprio a partire dal suo Stato

In ogni società classista di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ed in particolar modo nel capitalismo, è prevalente il carattere mafioso specifico degli sfruttatori. Anche se quest’ultimo, nei periodi di prosperità economica, possa essere alquanto mascherato da certe politiche di falsa trasparenza dal forte sapore “moralistico” con cui si cerca di far passare la borghesia come un “sistema democratico libero ed uguale per tutti”. Ed è per tale motivo che la forma di dominio della borghesia risulta essere la più subdola e perniciosa organizzazione (mafiosa) di tutte le classi sociali dominanti della storia, perché non solo sfrutta gli operai, ma sa anche ostacolarne la presa di coscienza, mascherando bene la sua natura brigantesca.

La borghesia è una classe sociale che, quando ha potuto, proprio per non sporcare la propria immagine più di quanto non faccia il suo barbaro sfruttamento sulle classi subalterne, ha preferito lavare i suoi panni sporchi in famiglia. Tuttavia, oggi, questa classe non si fa troppi scrupoli a parlare diffusamente e con una certa insistenza della escalation mafiosa e della malavita organizzata nei vari settori della vita sociale italiana (politici, imprenditoriali ecc.) ed addirittura fino a vertici statali. E parla in particolare del presunto patto Stato/mafia avvenuto nel 1993, che avrebbe prodotto ingenti danni alla società civile che si sono protratti, aggravandosi ulteriormente, fino ai giorni nostri.

Intanto, questo patto ci viene presentato come un gravissimo evento, il cui contenuto può essere essenzialmente così riassunto: “Sicuramente la mafia, per continuare il suo sporco lavoro illegale, i suoi business legati ad appalti pubblici, privati ecc, si è sempre preoccupata di ricercare delle impunità in alcuni settori statali, e per certi versi, in certi periodi, le ha trovate persino negli apparati verticistici di quest’ultimo, in cambio chiaramente di appoggi elettorali, di controllo territoriale e di altri favori; tuttavia, fino ad ora, non si era mai spinta a chiedere attraverso il papello[5] un vero patto con lo Stato: quest’ultimo, in cambio della fine della strategia del terrore (1992/1993)[6] e della restaurazione di una certa stabilità politica, avrebbe dovuto impegnarsi a garantire certe impunità agli aderenti di cosa nostra e a non ostacolarne gli affari”.

E’ chiaro che “questi panni sporchi lavati pubblicamente” servono a farci intendere che, nonostante ci sia stata tra loro una presenza costante di complessi e stretti rapporti, Stato e malavita organizzata essenzialmente sono rimasti sempre e comunque distinti. Viceversa essi sono stati, come abbiamo visto sopra, intrinsecamente e funzionalmente legati fin dalla nascita dello Stato borghese, e se si arriva ad un momento di frizione come l’episodio del patto, questo bisogna vederlo solo come una delle tante espressioni delle molteplici rese dei conti tra diversi settori contrapposti della borghesia, ispirati ognuno da padrini imperialisti antagonisti, proprio come avviene tra organizzazioni malavitose quando si rompono gli equilibri sul “controllo” territoriale.

Tuttavia, questa resa dei conti del 1993 assume una particolare importanza rispetto a tutte le altre che l’hanno preceduta perché, essendo espressione di un periodo storico inedito nella storia del capitalismo mondiale, ha rappresentato un significativo avanzamento nella decomposizione dei rapporti imperialisti internazionali.

In effetti, alla fine degli anni ′80 ed all’inizio degli anni ′90, in seguito all’ennesima e gravissima crisi economica internazionale, il blocco dell’Est, detto falsamente socialista, crollava implodendo su se stesso. Ciò determinò la rottura dei vecchi equilibri imperialisti e lo sconvolgimento dei rapporti politici ad essi legati. Infatti, gli avvenimenti politici che si svolsero all’indomani di tale evento videro la borghesia europea ed in particolare quella italiana rimettere in discussione la stretta obbedienza agli USA non essendoci più il comune nemico sovietico da combattere. In Italia ciò si concretizzò innanzitutto attraverso la distruzione del vecchio quadro politico, incentrato sul partito della Democrazia Cristiana, ormai sempre più impantanato in un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti, denominato “tangentopoli”[7], ad opera di un’azione giudiziaria condotta da un pugno di magistrati che è passata alla storia con il nome di “mani pulite”[8]. Questa operazione fu stimolata, sebbene in un modo abbastanza trasversale e caotico, da quelle forze politiche che, a fatica, cercavano di ricomporsi raggruppandosi tendenzialmente intorno ad interessi filo-europei (asse franco-tedesco). In quel particolare momento storico, quest’ultime, in tal modo, si contrapponevano a quelli del rimanente partito filoamericano espresso ancora e soprattutto da quei ranghi politici ed economici ancora legati a cosa nostra. Tuttavia, questo vecchio quadro politico, che andava sempre più sgretolandosi, non avrebbe potuto svolgere quei compiti di risanamento dei conti pubblici e quelle riforme strutturali draconiane, necessarie già allora alla borghesia italiana per evitare il rischio di fallimento della propria economia. Ed, infatti, all’epoca, proprio per far digerire alla classe operaia i nuovi sacrifici richiesti dalla crisi economica, come oggi accade con il governo Monti[9], si ebbe bisogno, di un governo tecnico - governo Amato - e di un patto sociale sottoscritto da governo, sindacato e Confindustria.

In quel periodo, il partito filo-americano sembrava il più debole, dilaniato anche da una serie di eventi sorprendenti e sanguinosi. Tra questi ricordiamo alcuni tra i più significativi: l’uccisione il 12 marzo del 1992 a colpi di pistola, come regolamento di conti tra ex alleati mafiosi, dell’europarlamentare democristiano Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia, eletto a Strasburgo con circa 300.000 preferenze, ma già accusato di Mafia; l’arresto il 24 dicembre 1992 di Bruno Contrada, capo in Italia meridionale di quella componente dei servizi segreti denominata SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica), accusato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, e per questo reato condannato il 24 settembre 2011 a 10 anni di reclusione.

Sentendosi minacciato nei propri gangli vitali (politica, affari ecc.) il partito filo-americano, sotto la regia dei servizi segreti dello zio Sam (USA), approntò, attraverso la strategia delle stragi il terreno adatto per proporre il famoso patto. Questo favorì, com’è ormai noto, la nascita nel 1994 del primo governo Berlusconi.

Ora perché dunque la borghesia insiste tanto su un patto tra Stato e mafia?

C’è un’opinione artatamente diffusa dai media borghesi, secondo la quale a minare ed ad aggravare l’economia nazionale, sarebbero una parte di settori politici corrotti, imprenditori, finanzieri, lobbisti, massoni piduisti, evasori fiscali ecc., che a diversi livelli incrocerebbero i loro affari con quelli della malavita organizzata. Per cui se si riuscisse a combattere ed a sconfiggere questi mali sociali, rafforzando la partecipazione dei cittadini alle istituzioni democratiche, magari eleggendo forze politiche sane, responsabili di fronte allo Stato ed alle sue esigenze di “organo nazionale al di sopra delle parti”, sarebbe possibile dare all’azienda Italia una sterzata verso il risanamento economico e quindi sociale[10]. Ed in questo particolare momento di ennesima richiesta di sacrifici è necessariamente importante per la borghesia italiana far credere ai lavoratori occupati, ai disoccupati, ai precari, ai pensionati, ecc. che, se ci si vuole salvare, è proprio lo Stato come un tutto che deve essere liberato da questi pesanti mali che ne minano la ripresa. Ciò dovrebbe servire a rendere, insieme ad altre mistificazioni economiche (cattiva gestione dell’economia da parte dell’ultraliberismo, finanziarizzazione dell’economia, consumo oltre il consentito ecc.), più docili i lavoratori ad accettare i sacrifici ed ad evitare che essi possano comprendere che l’appello a sostenere quella parte sana dello Stato che potrebbe dare un importante contributo ad aggiustare le cose, è tutto solo trucco, al di là di reali sentimenti di buona fede che possono albergare in questo o quel servitore dello Stato. In altri termini, sfruttando i miasmi della sua decomposizione, la borghesia cerca di impedire agli sfruttati di comprendere che è il capitalismo come un tutto ad essere, lui, un vero sistema di gangster.

Che lo Stato borghese, Stato di capitalisti, sia uno strumento per far funzionare al meglio le leggi del capitale, non è più una novità per alcuno, e come tale, questo Stato, lungi dall’essere un organo sovra partes, non è altro che uno strumento di sfruttamento della classe borghese sul proletariato, e cioè su quella parte della popolazione mondiale che, pur essendo la più importante produttrice di ricchezza sociale, ne risulta la più alienata. Tuttavia, come classe dominante, organizzata in uno Stato di sfruttatori, la borghesia per governare o, più esplicitamente, per far funzionare al meglio l’organizzazione di sfruttamento sulla classe subalterna, ha bisogno di mostrarsi quanto più democratica possibile, deve cioè avere il consenso di quest’ultima, ed è per tale motivo che sostiene ancora con forza e determinazione la sua mistificatoria trappola elettorale. E ciò, oggi, è tanto più necessario in quanto quest’ultima, sotto il peso della crisi economica permanente, che spinge la società in una condizione avanzata di decomposizione, risulta sempre più screditata agli occhi dei lavoratori, come lo dimostra l’alta percentuale - circa il 40% - del cosiddetto “partito” degli astensionisti.

La borghesia non ha scelte, non può rinunciare allo Stato e pertanto lo deve riorganizzare necessariamente, anche a costo di scendere a livelli ancora più apertamente compromettenti con il malaffare organizzato. Ed, infatti, nel 1993 lo Stato e le sue istituzioni, sempre più prede di un processo di decomposizione avanzata, per mantenere ancora a galla ciò che rimaneva della loro “migliore” forma di governo, sono stati costretti a mediare con una delle espressioni più avanzate della loro decomposizione e soprattutto con quella parte di borghesia italiana ancora legata direttamente all’imperialismo USA. E ciò è stato espresso con il diretto passaggio dell’esercizio del governo, anche se ancora “sotto una forma democratica”, nelle mani di settori sociali che, per motivi storici, tradizionalmente risultavano ai margini della legalità e delle istituzioni (governo Berlusconi). Non a caso ad Arcore, residenza del presidente del consiglio Silvio Berlusconi abbiamo trovato come “stalliere” un famoso boss mafioso, Vittorio Mangano, o che al senato troviamo Marcello Dell’Utri, co-fondatore di Forza Italia e senatore poi del PDL, condannato il 29 giugno 2010 presso la Corte d'appello di Palermo a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione di tipo mafioso e che ha patteggiato anche una pena di due anni e tre mesi per frode fiscale; ed ancora un Totò Cuffaro, esponente politico dell’UDC, ex governatore della Sicilia, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e la lista potrebbe continuare ancora per un bel po’.

Però bisogna ben interpretare questi arresti e queste inquisizioni giudiziarie perché, fondamentalmente, restano espressioni degli scontri dovuti ad interessi contrapposti tra bande borghesi. Tuttavia, in un’epoca di decadenza e decomposizione avanzata, quale oggi si trova a vivere il nostro sistema sociale, è proprio vero il contrario e cioè che non esistono più settori borghesi che non ricorrono al malaffare per continuare a fare profitti. In realtà quando gli spazi dell’economia reale si chiudono (crisi da sovrapproduzione generalizzata aggravata da una caduta verticale del saggio del profitto) solo l’economia illegale può essere ancora “conveniente”, essendo legata a profitti parassitari come traffico d’armi, droga, devastazione della pubblica amministrazione, finanza illecita, speculazione edilizia, ecomafia, ecc. Pertanto, se la borghesia continua ad esistere come classe dominante, con il suo Stato, i suoi apparati e le sue istituzioni, non può che essere compromessa con il malaffare diffuso, quindi è come insieme che essa deve comportarsi da vera e propria organizzazione mafiosa. Nonostante ciò, si sforza di selezionare quei settori, quei personaggi o gruppi che, almeno nell’immediato, apparentemente risultano i meno collusi nel tentativo di ridare credibilità ad istituzioni ormai marce. Proprio come fa la chiesa quando sfrutta la “santità” di alcuni uomini (vedi per esempio Francesco d’Assisi) per ridarsi una veste divina ormai compromessa di fronte ai fedeli, così fa la borghesia che cerca di costruirsi una verginità democratica attaccando proprio la sua espressione “illegale”, anche se ogni tentativo, pur ricevendo un incerto credito iniziale, risulta sempre meno convincente. D’altra parte è quasi impossibile trovare un San Francesco nei ranghi della borghesia decadente e decomposta. È veramente difficile credere, per esempio, in un governo Monti che, mentre prepara nuovi attacchi vigorosi alle già disastrose condizioni di vita di tutti i lavoratori italiani, a Montecitorio si esprime contro l’arresto del sottosegretario di Stato all'Economia e alle Finanze del quarto Governo Berlusconi, on. Nicola Cosentino, accusato di essere il referente politico dei casalesi, gruppo camorristico campano ma con diramazioni internazionali.

Nessuna illusione per i proletari: non è combattendo affianco ad alcun settore dello Stato borghese che è possibile distruggere la mafia, la malavita organizzata, il malcostume imperante e palese tra alcuni settori politici, imprenditoriali, finanziari della borghesia ecc. per sperare che si possa uscire dalla crisi. E’ solo con lo sviluppo della nostra lotta autonoma, unita ed a livello internazionale contro gli attacchi della borghesia che noi lavoratori, precari, disoccupati, pensionati possiamo dare a tutta l’umanità una concreta prospettiva di un mondo senza crisi, senza più mafia e Stato, e soprattutto senza più classi sociali da sfruttare.

R.

[1] P. Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale, Donzelli, Milano 1993, pag. 40.

[2] Piergiorgio Morosini, Attentato alla giustizia, Rubettino.

[3] Piergiorgio Morosini, op. cit.

[4] Idem

[5] Denominazione dialettale sicula per indicare una lista di richieste, nel nostro caso, compilata da capi di cosa nostra.

[6] Tra le più note: 23 maggio 1992, attentato a Giovanni Falcone; 19 luglio 1992, attentato a Paolo Borsellino; 27 maggio 1993, bombe di via dei Georgofili a Firenze; 27 luglio 1993, bombe in via Palestro a Milano; 28 luglio 1993, bombe a Roma a S. Giovanni in Laterano e a S. Giorgio a Velabro. Per maggiori approfondimenti leggere i seguenti articoli: “Attentati di mafia: i regolamenti di conti tra capitalisti su Rivoluzione Internazionale n°77; “Stragi, mafia, Tangentopoli, massoneria: lotta tra fazioni borghesi e alleanze imperialiste su Rivoluzione Internazionale n°78; “Bombe a Roma ed a Firenze” su Rivoluzione Internazionale n°81.

[7] Tangentopoli, bombe, scandali: la sanguinosa lotta intestina della borghesia italiana. Rivoluzione Internazionale n°83.

[8] Idem.

[9] Vedere per maggiori dettagli sul ruolo dei governi tecnici l’articolo pubblicato su Rivoluzione Internazionale n°173 “Tolto Berlusconi resta la crisi e le batoste sulla pelle dei proletari”.

[10] Vedere articolo su Rivoluzione Internazionale n°163A proposito degli appelli di Saviano. Se la malavita avvelena la società”, la risposta non è più democrazia!

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