3. Il lento procedere della lotta di classe

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La dinamica della lotta di classe è una dinamica internazionale, per cui gli elementi che caratterizzano la situazione italiana non devono essere visti in sé, ma come articolazione del processo di scontro di classe in corso a livello internazionale che vede, in questo momento, la Spagna e il movimento degli indignati come l’espressione la più elevata della lotta di classe. Ciò detto, la nostra attenzione si soffermerà non solo sugli aspetti che confermano l’appartenenza dell’Italia a questa dinamica internazionale, ma anche su quelli che ne caratterizzano le differenze. In particolare occorre rispondere ad un quesito: perché in Italia, nonostante degli attacchi economici giunti ormai ad un livello decisamente sostenuto, la risposta resta ancora così debole e dispersa?

Le risposte, anch’esse non esclusive per la situazione italiana, possono essere varie e cercheremo di analizzarle nei paragrafi che seguono cercando alla fine di tirare delle conclusioni.

3.1 Livelli espressi dalle lotte e azione della borghesia

Dall’autunno 2010 ad oggi l’Italia è stata attraversata da una serie di lotte che hanno investito un po’ tutte le categorie e tutti i settori:

“(…) i precari della scuola, di fronte ad un vero e proprio licenziamento di massa che non ha dato luogo a nessuna protesta sindacale, a nessun intervento di quelle forze politiche che si dicono progressiste e di sinistra, si sono organizzati da soli, promuovendo la loro lotta con i mezzi che potevano utilizzare visto che a loro, senza posto di lavoro, non è concesso nemmeno scioperare. Sono state le manifestazioni di piazza che questi lavoratori hanno scelto per portare avanti la lotta: presidii davanti agli uffici scolastici provinciali o davanti al ministero, occupazione di questi uffici, manifestazioni di strada. Collegati fra loro tramite internet e le assemblee cittadine, i precari hanno cercato innanzitutto di far conoscere la loro situazione e le loro rivendicazioni, con manifestazioni anche clamorose, come lo sciopero della fame, effettuato in diverse città, o il blocco dello stretto di Messina, che ha visto la partecipazione di migliaia di lavoratori sulle due sponde dello stretto. Accanto a questo, i precari hanno cercato la solidarietà degli altri lavoratori della scuola, e quella dei genitori degli alunni, chiamati a manifestare con i precari in difesa di una scuola dove i loro figli possano vivere in condizioni più decenti e non stipati in 35 in aule che non li possono contenere.”[1]

Le lotte degli studenti universitari, con un’interessante eco nel mondo dei ricercatori e dei precari nonché delle scuole superiori, sono tornate ancora una volta, fragorose e vivissime come sempre, a riempire le cronache delle ultime settimane, innescate dalla discussione in parlamento sul cosiddetto decreto Gelmini, ma alimentate nel profondo dalla ricerca di un futuro che è stato negato a tutta l’attuale generazione di giovani.”[2]

Ed ancora la miriade di lotte nelle singole fabbriche e aziende, come quella di Pioltello, Milano, le Ceramiche Ricchetti di Mordano/Bologna, la ditta di trasporti CEVA di Cortemaggiore/Piacenza, le Cooperative di trasporto di Bergamo, la Elnagh di Trivolzio, Pavia, l’ex-ILA di Porto Vesme, Carbonia Iglesias, le Ferrovie dello Stato, l’Iribus di Valle Ufita, Avellino, la FIAT di Termini Imerese, l’Innova Service, la Jabil, ex Siemens Nokia, Cassina de’ Pecchi, Milano, i precari della ricerca dell’Ospedale Gaslini di Genova, la petroliera Marettimo Mednav, a Trapani, le 29 operaie in cassa integrazione della Tacconi, Latina, i Magazzini del “Gigante” di Basiano ecc. ecc.

Come si vede esiste un potenziale di lotta incredibile, con lotte a volte commoventi e sempre di grande valore. Ci sono decine di migliaia di proletari che sono riscaldati al colore rosso vivo sul piano della lotta, ma che esprimono la loro combattività nel chiuso del loro posto di lavoro. Infatti il minimo comune denominatore di tutte le lotte citate, e di tante altre non citate ma che esistono sul territorio, è la presenza di:

  • presidi agli ingressi dei posti di lavoro, per bloccare l’attività della fabbrica e per impedire ai “crumiri” di entrare;
  • una sorveglianza della fabbrica, che in caso di una sua chiusura diventa anche una sua occupazione con l’intento di impedire un suo eventuale smantellamento (come alla Elnagh di Trivolzio,…);
  • una solidarietà espressa da proletari e cittadini generici che portano soldi, alimenti e il proprio sostegno personale;
  • costituzione di casse di solidarietà per sostenere i proletari colpiti da licenziamenti o da decurtazioni per le numerose giornate di sciopero.

Anche se tutto questo esprime certamente un grande potenziale di lotta, il fatto che tutto ciò non vada oltre la dimensione della propria fabbrica - cosa favorita particolarmente dalla logica sindacale - diventa a lungo andare una trappola. Non è un caso se in tanti casi i lavoratori, intenti a fare settimane e mesi di lotte estenuanti ai cancelli delle proprie fabbriche o sui tetti o le ciminiere di una fabbrica, lamentino il fatto di rimanere inascoltati da altri proletari. Per evitare questo occorre ribaltare la logica della lotta, bisogna uscire dalla propria fabbrica mandando delle delegazioni in altre fabbriche, in altri posti di lavoro. La solidarietà è un’arma essenziale della lotta di classe, ma non è qualcosa che funziona a senso unico. La solidarietà significa un mutuo sostegno tra diversi settori della classe in lotta e tra gli stessi proletari.

Per spiegare perché la risposta proletaria resta ancora così debole e dispersa, come prima cosa possiamo ricordare la forza e la profondità degli attacchi contro le condizioni di vita dei lavoratori. Come è stato ricordato poco prima, l’attuale governo è quello che sta portando avanti l’attacco più profondo contro le condizioni di vita della gran parte della popolazione in Italia. Questo attacco sta già portando centinaia di migliaia di famiglie sul baratro della povertà assoluta (vedi storia degli esodati, dei licenziati, la crescente precarietà del lavoro, ecc. ecc.). Un elemento già ricordato in passato e che continua ad avere un’influenza oggi è probabilmente l’ambiguità con cui l’attuale governo Monti è entrato in scena. In realtà questo governo è stato presentato come quello che rompeva con il berlusconismo, quello che toglieva dalle leve del potere gli irresponsabili che avevano fatto arrivare lo spread ad oltre 400 e che nel frattempo si davano alla pazza gioia nei festini notturni. Bisogna anche dire che al cambio della guardia c’è stato chi ha festeggiato, tra i proletari, al nuovo governo, segno di quanto male abbia fatto non solo Berlusconi, ma soprattutto l’antiberlusconismo come campagna mediatica tendente ad attribuire ad un solo uomo, ad un solo partito o ad una sola parte politica, tutte le responsabilità della situazione attuale!

Un altro aspetto da tenere in conto è la politica condotta dalla borghesia nei confronti delle aziende in crisi o destinate a fallire. Per evitare di doversi confrontare con l’insieme dei dipendenti di quell’azienda si è adottata, tutte le volte che era possibile e che tornava utile al capitale, la politica dello “spezzatino, cioè lo smembramento in più aziende diverse tra cui una viene caricata di tutti i debiti e di tutti gli esuberi di manodopera, mentre le altre, alleggerite da questi problemi, vengono rilanciate sul mercato. E’ questo ad esempio il caso dell’Agile srl ex Eutelia dove, come viene giustamente denunciato dagli stessi lavoratori implicati, si è trovata la maniera di «licenziare 9000 persone senza che nessuno se ne accorga!!!»”[3]

All’interno di questo discorso un’annotazione particolare va fatta sul caso FIAT, la più grossa industria italiana ormai anch’essa di molto alleggerita in Italia in seguito alla politica dal pugno di ferro adottata dall’a.d. Marchionne. La FIAT sta infatti spostando gli interessi economici e produttivi dell’azienda sempre più al di fuori dell’Italia liberandosi dei pesi morti, come la fabbrica di Termini Imerese in Sicilia, la FIAT CNH di Imola e la Irisbus di Avellino. Il caso Fiat è emblematico perché questa industria, in Italia, è un simbolo sia per la borghesia che per le lotte proletarie e vincere o perdere su questo piano ha delle ripercussioni importanti per il resto dello scontro di classe. E’ perciò che le vicende che sono accadute in questa grossa azienda che dava lavoro in Italia a quasi 120.000 persone contro le 24.000[4] di oggi, sono così importanti. L’attacco di Marchionne ha teso essenzialmente a far passare, con le buone o con le cattive, le esigenze dell’azienda, imponendo una serie di aut aut ai lavoratori senza precedenti, come nel caso di Arese, dove ha imposto con la forza del ricatto un contratto di fame ai lavoratori, pena lo smantellamento dello stabilimento, o la sua decisione di uscire da Confindustria per avere le mani più libere per fare quello che più gli piaceva. In questo, va detto, ha avuto una buona sponda da parte del sindacato che ha portato i lavoratori a scontrarsi contro le manovre padronali con uno strumento del tutto inadeguato per la lotta di classe come il referendum. In più con la solita divisione delle parti con CISL; UIL e CGIL nazionale a favore della firma dell’accordo e la FIOM con tutti i sindacatini “alternativi” a votare contro. L’epilogo della sconfitta non poteva essere più bruciante![5]

A parte gli elementi sopra riportati, esistono ancora due elementi usati dalla borghesia in Italia per controllare la lotta di classe che sono piuttosto specifici di questo paese. Questi elementi sono l’uso della violenza e del terrorismo come surrogato della lotta di classe e quello del sindacalismo di base.

3.2 L’uso della violenza come surrogato della lotta di classe

Questo primo elemento ha radici molto lontane che affondano nella storia di quello che fu il partito stalinista più forte di tutto l’occidente, il cosiddetto Partito “Comunista” (sic) Italiano. Questo partito, fondato nel 1921 a Livorno con Bordiga alla guida, subì, come tutti gli altri partiti dell’epoca, un’involuzione che lo portò a tradire completamente gli interessi della classe operaia e a passare dalla parte della borghesia. Così il partito ormai stalinizzato del secondo dopoguerra non aveva nulla a che fare con quello rivoluzionario fondato da Bordiga. Ma l’intermezzo della guerra ed il periodo controrivoluzionario non permisero al proletariato di riconoscere il tradimento in questo partito che mantenne ancora a lungo l’illusione su una sua natura rivoluzionaria anche grazie all’ambiguità con cui mostrava un’immagine democratica da una parte e, dall’altra, l’immagine di una organizzazione comunque pronta alla rivoluzione. Il ruolo del democratico e del responsabile fu assunto da Togliatti, reduce dalla Mosca di Stalin, mentre quella del rivoluzionario che nascondeva le armi per l’ora X era Pietro Secchia di cui ricordiamo queste parole:

Un partito comunista, un partito rivoluzionario deve avere due organizzazioni, una larga articolata di massa visibile a tutti, ed una ristretta segreta. Questo anche in tempi della più ampia democrazia e legalità perché non si può mai fare affidamento sui piani del nemico...” Secchia (in A.P.S., p. 587)[6]

Secchia non era un personaggio qualunque, ma uno che all’epoca competeva con Togliatti per la leadership del partito. Chiamato dallo stesso Togliatti a dirigere la commissione d'organizzazione, segnò subito un cambiamento. “Alla fine del 1945, quando si celebra a Roma il V Congresso del Pci, gli iscritti al partito sono già più che triplicati rispetto all'aprile. Sono 1.800.000, organizzati in 7000 sezioni e 30.000cellule; al VI Congresso nel 1948, gli iscritti sono 2.250.000 e le cellule sono diventate 50.000.”[7]

Queste due anime convivono nel partito senza che la seconda, quella lottarmatista, si esprima in maniera esplicita. E’ solo quando nel partito ci si rende conto che la politica di Togliatti, ormai inserito nelle istituzioni in qualità di ministro della giustizia, si muove esclusivamente sul piano della democrazia, una parte degli ex partigiani che non avevano consegnato le loro armi dopo il 25 aprile ripresero ad usarle in modo solitario e irregolare.

“Regolamenti di conti, duri e feroci, liquidazione fisica di fascisti e repubblichini avvennero, e numerosi ben dopo il 25 aprile del 1945. A Milano, lo abbiamo già raccontato, ancora alla fine di maggio venivano raccolti, ogni mattina all'alba, alla periferia, cadaveri di sconosciuti fucilati durante la notte. In Emilia, nelle province dove la lotta partigiana aveva avuto un forte connotato di classe, vennero eliminati nel corso dell'estate del 1945, signorotti fascisti e proprietari terrieri. (…) Ma nessun tribunale riuscì mai a dimostrare, nonostante tutti i tentativi fatti, una qualche responsabilità di dirigenti o organizzazioni del Pci. (…) Ma c'è senza dubbio anche un'altra storia del Pci, più segreta, fatta di appoggio e simpatia per questi piccoli gruppi armati. Non altrimenti si spiega l'avvio clandestino, verso i paesi dell'Est, della maggior parte degli imputati di quei processi quando condannati in contumacia. (…) La vicenda della Volante Rossa è da questo punto di vista esemplare, anche per la struttura che si dà, negli anni tra il 1945 e il 1949, in un singolare intreccio di attività legale e illegale, di normali attività sportive e ricreative e di operazioni terroristiche. Può accadere così che alcuni che fanno parte della Volante in quanto circolo ricreativo non sappiano nulla delle attività illegali del suo nucleo più ristretto cui involontariamente offrono copertura. E se è certo che molti dirigenti Pci di Milano conoscono questa attività segreta della Volante Rossa, è altrettanto certo che la maggior parte degli iscritti al Pci a Milano e in Italia ne sono totalmente all'oscuro (…). Quante sono le esecuzioni da addebitare alla Volante Rossa? E impossibile darne una cifra anche approssimativa: alcune furono azioni clamorose e in qualche modo "firmate", di altre sparizioni non fu possibile indicare la responsabilità. "Andavamo a prendere l'individuo" racconta un testimone che resta anonimo "lo portavamo dalle parti del campo Giuriati, perché allora lì era tutto prato e la mattina passava l'obitorio a ritirarlo." Alcuni fascisti vennero eliminati con una gita in barca sul Lago Maggiore; i cadaveri vennero poi ritrovati con una pietra al collo assicurata con un cavo di ferro.”[8]

In realtà questa componente del PCI fu successivamente lentamente emarginata perché di fatto il PCI, agendo in un paese che era stato assegnato dalla Conferenza di Yalta[9] al blocco occidentale e dunque alla tutela degli USA, non poteva permettersi di lanciarsi in avventure particolari. Tutt’al più poteva seguire di farsi uno spazio attraverso le elezioni, ma con il vincolo di rimanere comunque minoranza parlamentare! Ma la cosa importante è che è rimasta in questo partito, soprattutto nella tradizione orale, questa idea che il partito conservava le armi da qualche parte e il disappunto che non fossero utilizzate in questa o quella occasione. Come si vede la genesi del terrorismo è tutta interna alle istituzioni borghesi e in particolare a quel PCI che ci ha regalato oggi personaggi come Giorgio Napolitano, attuale presidente della repubblica, e tanti altri padri della repubblica democratica fondata sul lavoro … e soprattutto su tanto sangue!

Di conseguenza, quando nei primi anni ’70, con il riflusso del poderoso movimento dell’autunno caldo, una serie di elementi proletari vengono presi dallo sconforto e si chiedono cosa fare per contrastare il declino del movimento, ritenendo che la violenza abbia intrinsecamente un contenuto di classe, non trovano nulla di meglio che riprendere il cammino abbandonato dal vecchio PCI di cui tutto il brigatismo si sente orfano. Come si vede le debolezze che si manifestano nella classe operaia hanno sempre delle radici ed è importante risalire a queste radici per poterle estirpare una volta per tutte.

Come è noto la nostra posizione sul lottarmatismo o brigatismo, comunque lo si voglia chiamare, è del tutto negativo. Naturalmente proviamo tristezza per tutti quei proletari che, pur con grande coraggio e spirito altruistico, nel corso del tempo sono caduti in questa trappola infilandosi in situazioni del tutto controproducenti. Ma la questione è che il terrorismo ha un ruolo nefasto sull’azione della classe operaia nella misura in cui i proletari, di fronte ad atti di terrore, si vedono strappare l’iniziativa e restano paralizzati dal clima di terrore e di caccia alle streghe che immediatamente si instaura.

Bisogna poi dire che la borghesia italiana è riuscita addirittura a trarre profitto dalla presenza e dall’azione dei gruppi armati a vari livelli:

  • a livello di repressione, avendo l’opportunità di far passare senza grandi opposizioni nell’opinione pubblica le peggiori leggi liberticide;
  • a livello di infiltrazione di tali formazioni (BR in particolare) riuscendo così addirittura a muovere i fili del terrorismo secondo i propri progetti;
  • inventando di sana pianta storie sull’esistenza di formazioni terroriste (vedi il riferimento periodico agli anarchici insurrezionalisti …) per riprodurre situazioni di tensione e avere mano libera nel reprimere anche i normali movimenti di opposizione;
  • radicalizzando di proposito alcune particolari manifestazioni per separare fisicamente e politicamente dal resto del movimento una componente che si presenta più radicale, almeno sul piano della disponibilità allo scontro fisico. Quest’azione di boicottaggio, che la borghesia opera creando una serie di provocazioni e spingendo i giovani allo scontro fisico, di fatto impedisce che si possano avere momenti di incontro e di scambio tra componenti diverse del movimento e dunque, sul piano politico, sono quanto di meglio ci possa essere per la borghesia. E’ quello che si è verificato appunto a Roma il 15 ottobre 2011:

Ma è stato proprio il timore di questa collera crescente all’interno del proletariato che ha suggerito alla borghesia di provvedere in anticipo a bagnare le cartucce al proprio nemico di classe. Così, da una parte, c’è stata la discesa in campo di tutte le forze della sinistra borghese, dal PD ai vendoliani di SEL, da CGIL e FIOM fino ai vari sindacati di base e alle varie associazioni tipo ARCI e quant’altro è presente nella galassia della sinistra borghese. (…). Su un altro e diverso fronte ha lavorato lo Stato per creare, già alla vigilia della manifestazione, un’atmosfera di tensione. L’episodio di Bologna di tre giorni prima era servito perfettamente ad aizzare gli spiriti più bollenti del movimento e a portarli a Roma con un atteggiamento di sfida. Così, una volta scesi in piazza, i vari settori di proletari, disoccupati, cassaintegrati, studenti, precari, ecc. ecc. si sono sentiti stretti tra due fuochi: da una parte dalla sinistra borghese che cercava di realizzare l’ennesima sterile sfilata, dall’altra dalla tentazione di lasciare almeno un segno tangibile della manifestazione, di fare almeno un poco male a questo sistema di padroni che vuole scaricare tutto il peso della crisi solo su chi lavora e sugli strati più deboli.[10]

Come è ormai storia, gli scontri che ne sono seguiti hanno completamente disgregato e disperso una manifestazione di ben 200.000 manifestanti impedendo ogni sviluppo ulteriore del movimento[11]. Concretamente questo ha di fatto impedito che attecchisse realmente tra la gioventù in Italia un movimento tipo indignati e che potessero diffondersi quelle pratiche di assemblee, di incontri e discussioni che hanno fatto così bene al proletariato nel mondo intero.

3.3 Il ruolo del sindacato e del sindacalismo di base

Ma forse il principale elemento di freno dell’azione del proletariato in Italia è stato e resta l’azione del sindacalismo, ed in particolare quello di base. Nel 2011 c’è stato un record di ore si sciopero[12], a conferma dell’attivismo sindacale per evitare movimenti più ampi e/o tendenti all’autonomia. E mentre si fa sempre più strada tra i proletari l’idea che i sindacati tradizionali servono solo gli interessi dei padroni si sviluppa, ai margini delle strutture confederali, tutta una pletora di sindacatini divisi per aree geografiche, per settore lavorativo, ma soprattutto divisi tra di loro dall’ambizione di avere ognuno diritto di prelazione su quanto sfugge al controllo dei sindacati maggiori. Per capire questo fenomeno che è tipicamente italiano (a nostra conoscenza non esistono altri paesi con una tale quantità e variegazione di strutture sindacali) occorre fare un po’ la storia di queste formazioni.

Tra i primi a comparire abbiamo le Rappresentanze Sindacali di Base (RdB), che costituiscono la prima struttura ufficiale nell’ambito dell’INPS, nell’ottobre 1979:

Nel 1977 alcuni rappresentanti dei lavoratori della sede centrale dell’Inps di Roma, componenti del Consiglio dei Delegati, regolarmente eletti, tentano di ridisegnare un modello di democrazia partecipativa in forte contrasto con la segreteria provinciale Flep/Cgil e con il resto del CdD (Cgil - Cisl - Uil) dando vita ad un Comitato di Lotta contro il rifiuto costante del CdD di tener conto delle volontà dell’assemblea[13].

Successiva è “la nascita dei COBAS (acronimo di Comitati di Base della Scuola = Co.Ba.S, poi generalizzato in Co.Bas) (1986, assemblea al Liceo Virgilio di Roma; costituzione formale, 1987), sulla scia di un grande sciopero nazionale proclamato contro l’atteggiamento dilatorio del governo nelle trattative per il rinnovo contrattuale della scuola per il triennio 1985-88. (…) Si costituisce, agli inizi degli anni ‘90 il Cobas Coordinamento Nazionale, in cui confluiscono il Collettivo Politico Enel, i Collettivi della Sanità, delle Telecomunicazioni, degli Enti Locali, dell’Industria, del Trasporto e dei Servizi. Nel ‘99, il Cobas, Coordinamento Nazionale e il Cobas Scuola daranno vita alla “Confederazione dei Comitati di Base” (…) Quasi subito i Cobas diventano una bandiera. Nel giro di pochi anni arrivano ad avere i numeri per essere sindacato nazionale. (…) In poco più di un lustro i Cobas diventano all’Alfa di Arese il primo sindacato. Nel maggio del 1994 lo Slai Cobas vince le elezioni Rsu all’Alfa di Arese e tra gli operai dell’Alfasud e ottiene successi in numerose aziende. (…)”[14]

Le due diverse strutture sindacali RdB e COBAS, così come tutte quelle che verranno dopo, partono dall’idea che sia possibile praticare il sindacalismo, ovvero portare avanti una contrattazione permanente della forza lavoro con il padronato, in un’epoca in cui tale contrattazione è ormai impedita dell’assenza di ogni margine di manovra per la stessa borghesia che è esclusivamente interessata a togliere tutto quello che può dalle tasche dei lavoratori. Di fatto tutte le iniziative di costituzione di sindacati, come mostra in maniera emblematica proprio il citato sciopero dei lavoratori della scuole del 1986, non è stato mai ad iniziativa dei lavoratori ma sempre di un certo “ceto politico (…) in larga parte ereditato dal rottame parastalinista gravitante nell'orbita del Partito Comunista Italiano prima e di Democrazia Proletaria poi.”[15]

Nella primavera del 1992 nasce la CUB, Confederazione Unitaria di Base, che “organizza oltre 706.802 tra lavoratori dell’industria, dei servizi, del pubblico impiego, gli inquilini e i pensionati, ed è composta dai seguenti sindacati di base: FLMUniti (metalmeccanici, telefonici, energia); FLAICA (commercio, industria alimentare, igiene urbana, pulizie, servizi), ALLCA (chimici, energia, farmaceutici, plastica, gomma), CUB-Edili, CUB-Scuola, CUB-Informazione, CUB-Pensionati, CUB-Sanità, CUB-Tessili, CUB-Trasporti Aereoportuali, Cobas_pt-CUB, Fiap, FLTUniti (trasporto); CUB pubblico-impiego (pubblico impiego); SALLCA-CUB (Credito e Assicurazioni), Unione Inquilini (casa e territorio).”[16]

Ma tutto il percorso del sindacalismo di base, dalla sua nascita fino ai giorni nostri, come detto all’inizio, è all’insegna della competizione. E questa competizione si è periodicamente tradotta in scissioni traumatiche, tentativi di appropriarsi delle casse del sindacato, e tutto il ben di dio che si può immaginare in una struttura che differisce dalle grandi centrali sindacali solo per … una questione di taglia. Non è un caso che, con tutta la determinazione a lottare di ampi settori proletari, le lotte “controllate” dai vari sindacati di base siano rimaste sempre intrappolate nel loro ambito, come abbiamo anche recentemente cercato di mostrare.[17] Ecco alcuni passaggi significativi dell’opera di unificazione condotta da questi sindacati … “alternativi”:

Il 14 ottobre 1996 nasce, all'Alfa di Arese, il SinCobas (sindacato intercategoriale dei comitati di base), a partire da una scissione del comitato di base Slai Cobas e da successive separazioni di lavoratori e delegati da Cgil-Cisl-Uil.

Nel 2006 si forma l’Associazione Lavoratori Cobas, A.L.Cobas, (aderente alla CUB) dopo che con un atto d’imperio, il coordinatore nazionale dello Slai-cobas aveva espulso i compagni dell’ATM. Il coordinatore nazionale dello Slai aveva, inoltre, addirittura notificato alla controparte (direzione atm) la decadenza dalle rsu dei compagni, la richiesta di estromettere dalla sede interna i delegati eletti dai lavoratori e il cambiamento del conto corrente delle tessere. (…) Il coordinamento nazionale dello Slai, dopo l’espulsione dei compagni dell’ATM Milano ha espulso quelli di Varese e Como, bloccando il conto corrente dove venivano accreditate le tessere. Da quel momento chiunque ha osato dissentire con la direzione dello Slai, ha subito ogni possibile accusa personale: traditore, venduto alla Cub per un posto da funzionario, ladro dei soldi delle tessere, venduto alla Fiat e sempre alla ricerca del compromesso legale per fare soldi ecc. ecc..”[18]

Il 14 gennaio 2007 nasce il Sindacato dei Lavoratori Intercategoriale dalla fusione tra i sindacati SinCobas, SALC e SULT.

Il 17 maggio 2008, 2.000 delegati tengono un’assemblea nazionale a Milano in cui “il processo di lento avvicinamento delle posizioni delle più rappresentative organizzazioni sindacali di base, Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale, in atto da tempo, ha subito una positiva accelerazione. (…) Il bilancio che facciamo, a sei mesi dall'Assemblea di Milano, è solo parzialmente positivo. (…) Il permanere di organizzazioni sindacali oggettivamente ancora in concorrenza tra loro, tuttavia, riduce l’impatto della nostra azione e amplifica la consapevolezza di quanto uno strumento realmente unitario potrebbe giovare alla causa che ci siamo prefissati.”[19]

Il 12 settembre 2008 CUB, Confederazione Cobas e SdL intercategoriale sottoscrivono un Patto di Consultazione Permanente nazionale, allo scopo di coordinare l'azione e le iniziative sindacali delle tre organizzazioni di base. “Il Patto di Consultazione Permanente prevede:

·         riunioni periodiche a livello nazionale nel corso delle quali si confrontino le varie proposte di lotta, con l'obbiettivo di giungere a iniziative comuni, o ad iniziative di singola organizzazione ma non in competizione tra di loro;

·         la realizzazione di iniziative unitarie di dibattito, convegni, seminari e l'elaborazione di documenti, prese di posizione comuni sui principali temi di conflitto con il padronato, il governo, i sindacati concertativi;

·         la costituzione di un Forum permanente sulla rappresentanza, sui diritti sindacali, il diritto di sciopero e contro il monopolio concesso ai sindacati concertativi”.[20]

Sabato 7 febbraio 2009, la Confederazione Unitaria di Base (CUB), la Confederazione Cobas e SdL Intercategoriale, in continuità con il Patto di Consultazione Permanente stretto fra le tre organizzazioni, adottano il Patto di Base, con cui si intende perseguire obiettivi comuni e utilizzare strumenti organizzativi e di coordinamento sempre più incisivi. Questi i punti caratterizzanti il nuovo patto contenuti nella relazione introduttiva:

·         Il Patto di Base ha l’obiettivo di intensificare e facilitare l’unità d’azione tra le tre organizzazioni sindacali, portando a un più stretto e organico rapporto generale.

·         Il Patto di Base rappresenta lo sviluppo naturale del Patto di Consultazione e ne assorbe contenuti e finalità e si prevede, per gestire efficacemente mobilitazioni e iniziative di lotta comuni, la realizzazione di sedi unitarie di dibattito, convegni, seminari ed elaborazioni di documenti.

·         Inizialmente avrà organicità a livello nazionale e regionale, per procedere, nei tempi concordemente definiti, sul piano categoriale, territoriale e di posti di lavoro. Prevede quindi riunioni periodiche a livello nazionale e territoriale nel corso delle quali si cercherà di giungere in ogni occasione ad iniziative unitarie.”[21]

In un articolo di Umanità Nova del 19 aprile 2009 si legge: “In altri termini, le tensioni interne alla CUB, la più consistente organizzazione di quest'area (…) stanno (…) significativamente bloccando l'iniziativa del sindacalismo di base. Gran parte delle energie vengono assorbite dagli scontri interni e dal posizionamento in previsioni di scomposizioni e ricomposizioni mentre urgerebbe ben altro.[22]

Tra il 21 ed il 23 maggio 2010 si è svolta un’assemblea nazionale in cui si è deciso lo scioglimento del SdL, che unitamente all'RdB ed a parte della CUB ha dato vita all'Unione Sindacale di Base.”[23]

In un altro articolo di Umanità Nova del 27 marzo 2011 si legge ancora, con un tono evidentemente ironico: “Evitiamo quindi di fare considerazioni sullo scontro attualmente in atto riguardo alla gestione ed al controllo del CAF di base e sulla lotta all’ultimo sangue, tra strutture ormai nemiche, attuata allo scopo di strapparsi reciprocamente i clienti. Evitiamo di ricondurre ogni cosa ad un’interpretazione banale e non molto fantasiosa: la scissione come risultato di uno scontro senza quartiere per cercare di conquistare un’egemonia intraorganizzativa ed il controllo completo di risorse scarse.”[24]

Il 22 giugno 2012 si tiene, subito dopo la manifestazione di Milano in occasione dello Sciopero nazionale dei sindacati di Base, un’assemblea autoconvocata dei delegati e degli attivisti di USB Lombardia. “Alla riunione erano presenti delegati e attivisti delle province di Milano, Pavia, Brescia Como e Varese. Per i partecipanti è venuta meno, o si è notevolmente affievolita, l’idea di un sindacato “includente ed aperto a processi unitari”, a tal punto da vedere “questo obiettivo strategico sacrificato a logiche che rischiano di farci fare enormi passi indietro e di farci tornare alla frammentazione tanto criticata”. (…) Per ora non c’è l’abbandono del sindacato ma la costituzione di una componente interna: Unità di Base. (…) “Vogliamo- conclude il documento – continuare a costruire un modello di sindacato completamente nuovo, (…) un modello sindacale che rompa con la tradizione burocratica ed accentratrice della storia delle organizzazioni del movimento operaio del secolo scorso, che sono alla base delle degenerazioni, delle involuzioni e quindi delle sconfitte che ci hanno portato alla situazione attuale, a questa “Caporetto” dei diritti di lavoratori e lavoratrici e a questa deriva autoritaria in cui a comandare sono le banche e i poteri economici”. A buon intenditore poche parole.”[25]

3.3 Prospettive della lotta di classe in Italia

Per trarre delle prospettive da tutto quanto abbiamo esposto dobbiamo stare attenti a non cadere in due stati d’animo (e in due atteggiamenti politici) opposti e simmetrici: da una parte quello di entusiasmarci per ogni azione della classe pensando che le cose si sviluppino da sole fino alla rivoluzione, dall’altra demoralizzarci per le difficoltà incontrate sul campo e pensare che non ce la faremo mai a superarle. La lotta del proletariato è di quelle che vincono una sola volta nella propria storia dopo aver accumulato una serie di sconfitte. E questa serie di sconfitte sono, per il proletariato, la scuola di guerra di classe attraverso cui, giorno dopo giorno, attraverso avanzamenti ed arretramenti sul piano della coscienza di classe, i proletari temprano le proprie armi.

In questo inizio di autunno stiamo assistendo all’acutizzarsi di una serie di lotte di lavoratori – ILVA di Taranto, Carbon-Sulcis, Alcoa, ecc., che stanno cercando in tutti i modi di difendere il loro lavoro e il futuro dei propri figli. Il problema è che la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro in quanto proletari viene portata avanti come se ci potesse essere una compatibilità tra gli interessi proletari e quelli della borghesia.

Così gli operai delle acciaierie dell’ILVA, che si ritrovano un impianto chiuso dalla magistratura dopo aver scoperto che la “loro” produzione aveva procurato malattie respiratorie, cancro e morte a tanti altri proletari tarantini, si ritrovano stretti nel ricatto di dover scegliere tra la difesa del posto di lavoro e il fregarsene delle condizioni di salubrità della fabbrica e reclamare in alternativa il rispetto dell’ambiente e della salute di lavoratori e cittadini, cauzionando in questo modo, se non il licenziamento, un lungo periodo di cassa integrazione e di precarietà.

I minatori della Carbon-Sulcis, per protestare contro la chiusura della miniera, hanno iniziato una protesta scendendo a 400 metri di profondità e minacciando di usare il materiale esplosivo che utilizzano per svolgere quotidianamente il proprio lavoro. I minatori hanno anche stilato un piano per la riconversione della miniera e nello specifico per la produzione di energia pulita, ma è stato bocciato dal sottosegretario allo Sviluppo Economico De Vincenti per insostenibilità economica.

All’Alcoa, fabbrica di produzione dell’alluminio, la situazione è ancora bloccata in attesa che si faccia avanti un compratore disposto a investire. E dove, in seguito alle dichiarazioni del ministro Passera sulla non risolvibilità del problema, sono scoppiati degli scontri molto duri con le forze dell’ordine dopo il tentativo degli operai dell’Alcoa di spezzare il cordone delle forze dell’ordine in difesa del Ministero dello Sviluppo.

Tutte e tre queste lotte si urtano contro il problema delle compatibilità. Quella dell’ILVA con la questione ambientale, quella della Carbon-Sulcis con la produttività dell’impianto e quella dell’Alcoa con la possibilità di trovare un nuovo acquirente dell’impianto. Peraltro c’è spesso l’idea, veicolata dai vari sindacalismi, che la lotta è tanto più legittima quanto più si spinge a difendere la produttività e l’efficienza della fabbrica o dell’impianto in cui si lavora. Se si rivolge lo sguardo al panorama delle lotte in Italia si assiste ad una costellazione di lotte tutte del tipo visto sopra. Cos’è dunque che manca ai proletari per sviluppare una lotta veramente efficace?

Non manca la combattività. Non manca la determinazione. Ma resta ancora debole la percezione che per vincere occorre lottare su un piano esclusivamente proletario. Manca ancora il sentimento che, non solo in maniera ideale, ma anzitutto sul piano concreto e materiale, la lotta non può essere condotta per singole fabbriche o anche per singoli settori produttivi, né ancora che la lotta si possa svolgere con atti di forza, con singole manifestazioni o singoli scioperi generali. C’è ancora un cammino da fare per raggiungere una dimensione in cui il proletariato ritrovi la sua identità di classe, una dimensione nella quale lottare assieme a proletari di un’altra fabbrica o settore o città non è più una questione di alleanza tattica per essere momentaneamente più forti ma come l’unica chance per arrivare a costituire un fronte di lotta ampio e saldo con cui fronteggiare la borghesia e combattere per una società futura che restituisca la dignità a tutta l’umanità.

CCI                                                                       12 settembre 2012

 

[1] Italia: la maturazione della lotta di classe, (30/09/2010 su Rivoluzione Internazionale n°167).

[2] La lotta degli studenti: una generazione alla ricerca di un futuro negato, (08/12/2010 su Rivoluzione Internazionale n°168).

[3] Italia: la maturazione della lotta di classe, (30/09/2010 su Rivoluzione Internazionale n°167).

[4] Fiat, la mappa delle fabbriche in Italia, www.economiaweb.it/fiat-la-mappa-delle-fabbriche-in-italia.

[5] Vedi l’articolo: Che cosa ha significato il Referendum alla Fiat Mirafiori di Torino, su Rivoluzione Internazionale n°169.

[6] Riportato in: Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli

[7] Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli.

[8] Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia. 1984. Rizzoli.

[9] La Conferenza, tenutasi nella città di Jalta in Crimea l’11 febbraio 1945 a guerra ancora in corso e tenutasi tra i capi delle tre principali potenze belligeranti, Churchill (GB), Roosevelt (USA) e Stalin (URSS), sancì di fatto la spartizione del mondo in due diverse zone di influenza, che poi costituirono i due diversi blocchi imperialisti, quello americano e quello sovietico.

[12] Nel solo 2011 6mila ore di sciopero, con un aumento del 55% rispetto a cinque anni prima. www.dirittiglobali.it

[13] Fabio Sebastiani, Sindacalismo di base e democrazia sindacale: dall’autunno caldo quale modello di sindacato, www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=186

[14] Idem. Vogliamo precisare che noi non identifichiamo i Comitati di base della scuola che nascono alla fine del 1986, e che sono l’espressione di un movimento spontaneo che stava nascendo e che ha dato luogo a un momento importante di lotta almeno per tutto il 1987, con i Cobas-sindacato che nascono con il riflusso del movimento in effetti nel 1988.

[15] idem

[16] Chi siamo e cosa vogliamo. Una sintetica presentazione della CUB (03-10-2005), cub.it/article/?c=chi-siamo&id=3.

[18] A.L.Cobas, Chi siamo, 17/11/2005, cub.it/article/?c=organizzazioni&id=517.

[19] Fabrizio Tomaselli, Coordinatore nazionale SdL intercategoriale, Il tempo stringe: occorre accelerare il processo unitario dei sindacati di base! (29 Novembre 2008 in www.pane-rose.it).

[22] Un due tre, stella... La marcia del gambero del sindacalismo di base, Umanità Nova, n. 15 del 19 aprile 2009.

[24] Dove va il Sindacalismo di base?, Umanità Nova, n. 10 del 27 marzo 2011.

[25] Mishima, C’è fermento nell’USB. A Milano, una assemblea sancisce la nascita di una componente interna. E’ l’inizio di una rottura? (4 luglio 2012)

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