1. Crisi economica

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1.1 Quadro internazionale della crisi e situazione economica dell’Italia

La fase attuale della crisi economica si è ormai installata nel cuore del capitalismo e sta minando alle basi quella che era stata la culla dello stesso capitalismo, l’Europa. In questo quadro l’Italia si trova in una posizione particolarmente fragile e, nonostante le misure draconiane che sono state finora prese, si registra un debito consolidato di quasi 2000 miliardi di euro, con una tendenza continua a crescere![1] D’altra parte la politica imposta all’Italia (come alla Spagna, alla Grecia, ed in genere alle popolazione europee) di tagliare su spese e salari, porta necessariamente a una riduzione della domanda e ben difficilmente, ammesso che ce ne possano essere i margini, la situazione che ne consegue può portare ad una ripresa dell’economia. Questo anche per la perdita di competitività avutasi negli anni, legata a un minore aumento di produttività[2]. L’andamento impazzito dei mercati finanziari strozza sempre più la cosiddetta economia reale[3] e gli impianti che chiudono in giro per l’Italia non si contano, con incremento di disoccupazione, povertà, precarietà, …. Certo, le difficoltà non sono solo dell’Italia. Sappiamo ad esempio che da dicembre 2007 a giugno 2009 sono stati persi negli Usa 8,4 milioni di posti di lavoro.[4] Nella stessa Europa, “a maggio sono circa 48 milioni i disoccupati nell'area dell'Ocse: quasi 15 milioni in più rispetto all'inizio della crisi finanziaria iniziata alla fine del 2007.”[5] Ma la cosa non è certo consolante visto che: “La disoccupazione in Italia dovrebbe salire dall'8,4% del 2010 e del 2011 al 9,4% nel 2012 e al 9,9% nel 2013. (…) Tra il 2010 e il 2011 è cresciuta in Italia la disoccupazione di lunga durata. L'anno scorso il 51,9% dei disoccupati lo era da più di 12 mesi contro 48,5% nel 2010.”[6] O ancora che: “Con il tasso record del 35,9% segnato a marzo, l'Italia è al quarto posto tra i 33 Paesi aderenti all'Ocse nella poco invidiabile classifica della disoccupazione giovanile ed è nella stessa, difficile posizione per i 'Neet', i giovani totalmente inattivi cioè “né a scuola, né al lavoro”. Nella Penisola la disoccupazione nella fascia d'età tra 15-16 e 24 anni è aumentata durante la crisi di 16,5 punti percentuali rispetto al 19,4% del maggio 2007.”[7]

1.2 Attacchi economici e processo di pauperizzazione della popolazione

Come evidenziato in precedenza, il punto su cui si scarica tutto il peso della crisi è, sistematicamente, la classe dei lavoratori che, essendo l’unica a produrre ricchezza, è anche quella più tartassata della società. Anche se può risultare scontato, vale la pena ricordare che gli attacchi più brutali e devastanti sono stati portati avanti proprio dall’ultimo governo in carica, che si è distinto per cinismo e ferocia delle manovre. Anzi va ribadito che si è puntato proprio sulla figura del serio professionista Monti per far passare delle misure assolutamente antipopolari che avrebbero potuto far saltare in poco tempo governi non ben ancorati da un rapporto di fiducia con la popolazione, come il precedente governo Berlusconi. Ecco l’elenco degli attacchi economici più importanti:

  • Innalzamento dei contributi da dover pagare all’Inps mediante l’aumento delle aliquote da versare;
  • Applicazione sui conti correnti di un prelievo annuo di 34,20 euro, in caso di persona fisica, o di 100 euro, in tutti gli altri casi;
  • Aumento notevole sulle accise sui carburanti fino ad arrivare a 0,7042 euro/L per la benzina (8,2 cent in più) e 0,5392 euro/L per il gasolio (11,2 cent in più);
  • Aumento dell’Iva al 21% che, con la legge di stabilità, dovrebbe arrivare al 22 e non è del tutto escluso che passi al 23 nel luglio 2013;
  • Taglio di ulteriori 3,1 miliardi di euro di fondi alle regioni: 2,1 miliardi per le regioni ordinarie e 1,035 miliardi per le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano. Ci saranno inoltre dei tagli ai comuni con oltre 5.000 abitanti che si aggireranno su 1 miliardo e 450 mila euro già dal 2012, importo uguale riguarderà i comuni con più di 1.000 abitanti dal 2013;
  • Nuova imposta municipale sulla casa, IMU, basata su una rivalutazione di circa il 60% sugli estimi catastali e con aliquote dello 0,4% sulla prima casa e 0,75% sulle altre;
  • Facoltà di licenziare per motivi economici per aziende in crisi. Il lavoratore ha diritto a una indennità risarcitoria dalle 16 alle 24 mensilità;
  • Abolizione della pensione di anzianità, aumento dell’età pensionabile a 66 anni e calcolo degli anni in più che i lavoratori faranno di conseguenza con il metodo contributivo.[8]

Adusbef e Federconsumatori hanno calcolato che, con questa manovra, le ricadute saranno, nel 2014, pari a 1.129 euro per ogni famiglia. Tali ricadute, sommate alle misure per il 2011 volute dal governo Berlusconi, raggiungono la cifra di 3.160 €. L’impatto sulla capacità di consumo è pari al 7,6% all’anno.

Tra le varie storie di ordinaria follia con cui procede ormai questo governo nella sua azione di bonifica delle pubbliche finanze, (si intende, solo a carico dei lavoratori!), la storia degli esodati è una storia tutta italiana con 390 mila lavoratori che, in un primo momento, erano stati incoraggiati a lasciare, prima dei tempi, il proprio posto di lavoro per permettere all’azienda di appartenenza una ristrutturazione o l’uscita dalla crisi, e lo avevano fatto sulla base di accordi con lo Stato che aveva promesso un accompagnamento economico fino a raggiungere l’età della pensione. Sennonché, con l’ultima riforma sulle pensioni dell’autunno scorso (l’ennesima!) che ha innalzato l’età pensionabile a 66 anni, l’insieme di queste persone si è trovata con le “regole del gioco” cambiate dopo aver fatto l’accordo e concretamente con degli anni in più di attesa per raggiungere la pensione, senza alcuna garanzia di ricevere né uno stipendio o pensione né alcun sussidio dallo Stato. Questa situazione ignobile, che ha mostrato l’incapacità di questo governo di “professori” di fare le giuste proiezioni sull’effetto di una legge, ha avuto in più l’aggravante dello stupido gioco dello stesso governo (e del ministro Fornero in particolare) a minimizzare il problema, emanando un decreto che recupera la situazione solo per 65 mila esodati per riconoscere solo a distanza di tempo che il problema è più ampio, affermando che per gli altri … «si vedrà».”[9]

C’è ora da chiedersi: cosa ha prodotto questa serie di attacchi nella popolazione? Siamo più poveri di prima, questo è ovvio, ma di quanto siamo tornati indietro? A tale scopo facciamo un piccolo passo indietro cercando di confrontare la situazione attuale con quella degli anni del dopoguerra.

1.2.1 Dal dopoguerra agli anni ‘60

La situazione che si presenta in Italia nel secondo dopoguerra è qualcosa di assolutamente drammatico. Dopo tutte le distruzioni del conflitto, che aveva provocato nella sola Italia quasi mezzo milione di morti, si sviluppa un’inflazione galoppante che fa aumentare i prezzi delle merci di 20 volte! Tra l’altro, nei negozi non era possibile trovare molto e bisognava ricorrere al mercato nero, sempre fornitissimo di ogni tipo di merce (un po’ come succedeva nell’ex regime stalinista in Russia). Ma poteva comprare al mercato nero solo chi aveva soldi per farlo, mentre per la parte più povera della popolazione la situazione era decisamente nera.

«In Italia nel 1951 c’erano 869 mila famiglie (3 milioni e mezzo) in cui non si mangiava ne’ carne ne zucchero. Anche nelle famiglie più adagiate lo zucchero e la carne non comparivano molto spesso e quelle poche volte che comparivano erano l’unica portata. (…). Anche i cereali come la pasta e il pane che era solitamente il cibo dei poveri in Italia non si faceva largo uso. (…) Gli appartamenti degli italiani (avevano): per il 76% avevano la cucina; il 52% l’acqua corrente; e solo il 27% l’energia elettrica. (…). C’era quasi in tutti gli appartamenti la radio: era un oggetto di uso comune e quasi tutti potevano permettersela, era servita a portare nelle famiglie la voce del duce e dei suoi discorsi e verso la fine della guerra (solo nelle case dei più coraggiosi) la voce di Radio Londra. La radio a quei tempi trasmetteva i giornali radio e anche le canzoni, era nato infatti nel 1951 il festival di San Remo.»[10]

E’ interessante notare, come sopra riportato, che nell’immediato dopoguerra praticamente tutte le famiglie possedevano la radio. Anzi, come viene precisato, la radio era diffusa anche prima della guerra con il preciso motivo che era servita a portare nelle famiglie la voce del duce e dei suoi discorsi. Un po’ come si è prodotto successivamente con la televisione che, oltre ad essere uno strumento ludico, è anzitutto uno strumento di indottrinamento e quindi di controllo politico di tutta la popolazione.

«Negli anni ’50 e ’60, in Italia, l’industria divenne l’attività principale, quella con il maggior numero di addetti. (…) Nel Nord il livello di vita salì molto rapidamente e si ebbe una forte richiesta di manodopera. Nel Sud agricolo vi fu una riduzione di posti di lavoro e la povertà rimase diffusissima. Negli anni ’50 meno del 10% della popolazione dell’Italia settentrionale aveva un’alimentazione scarsa, mentre nell’Italia meridionale più del 50% si trovava in questa situazione. (…) Fino all’inizio degli anni ’60, i salari degli operai rimasero molto bassi e molti si trovarono a lavorare in ambienti nocivi o a svolgere lavori pericolosi. Si verificarono perciò moltissimi incidenti mortali e casi di danni permanenti. Alcune industrie chimiche divennero vere e proprie fabbriche della morte: fu il caso dell’IPCA di Torino, una fabbrica di coloranti, dove 140 operai morirono per carcinoma alla vescica[11]

1.2.2 La situazione degli anni 2000

Sulla base degli elementi riportati ci si può chiedere quale delle due epoche, quella del dopoguerra e quella attuale, offre di più alla popolazione. Naturalmente, nel fare il confronto, dobbiamo tener conto del fatto che la situazione del dopoguerra risentiva di tutte le distruzioni della guerra e delle difficoltà a ripartire con un’economia a pezzi. Inoltre parliamo di 70 anni fa, quando anche la tecnologia non era ancora quella dei nostri tempi. Il che significa che non avere la luce elettrica o l’acqua corrente o i servizi igienici all’epoca era come non avere oggi, poniamo, un sistema di riscaldamento in casa, il che può essere duro, ma non drammatico. Per quanto riguarda le morti bianche per lavoro, nonostante tutto il grande can can che fa la politica su questo piano e le misure prese (più per non dover pagare gli indennizzi e le cure agli operai che per convinzione), si lamentano in Italia in media 3 vittime al giorno per incidenti, oltre all’incremento dell’incidenza di malattie tumorali per la crescente dispersione di rifiuti tossici sul territorio. Ma soprattutto il problema è di prospettiva. Negli anni ’50 la gente soffriva tanto ed ha affrontato dei sacrifici inenarrabili. Ma quella generazione ha affrontato tutto questo perché vedeva davanti a sé una prospettiva, vedeva che, anche se lentamente, si spostavano degli equilibri. I genitori tutti di quel periodo hanno fatto di tutto per mandare avanti i propri figli e far conquistare loro un posto nella vita, e in generale ci sono riusciti. Oggi la situazione è totalmente rovesciata. A partire da tutto questo, che futuro ci possiamo immaginare? Certo, di difficoltà ne hanno affrontate e superate anche le generazioni precedenti, particolarmente quelle che sono venute immediatamente dopo la guerra e che hanno sofferto i patimenti di un periodo di povertà e di ristrettezze. Ma quella generazione, anche se ha avuto un cammino tutto in salita per un lungo periodo, è poi riuscita a ottenere delle condizioni di vita complessivamente migliori. Il tenore di vita è globalmente migliorato. Molti dei figli di quella generazione hanno fatto un salto sociale, diventando dottori, professionisti, vivendo una vita più agiata e meno di stenti. Oggi la prospettiva è del tutto invertita. Se prima l’operaio voleva ed otteneva di fare il figlio dottore, adesso il professionista fa il figlio operaio, e l’operaio fa il figlio … disoccupato. In altri termini le generazioni precedenti hanno sofferto anche per qualche decennio, ma poi hanno conosciuto nuove prospettive; attualmente invece quello che spaventa di più è proprio che non si vede nessuna prospettiva, anzi che all’orizzonte si vede solo un peggioramento di quello che già viviamo adesso (si pensi in primo luogo alla crisi economica di cui nessuno, nemmeno fra i difensori del sistema capitalista, riesce ad immaginare un superamento vero e duraturo).

D’altra parte è in atto, come ragionevolmente ognuno di noi può constatare, un processo di impoverimento collettivo. E la situazione di degrado è tale che lo Stato si vede costretto a truccare le carte per nascondere il disastro:

«Non è vero che siamo meno poveri, come gli ultimi dati ufficiali sulla povertà (luglio 2010) farebbero pensare. Secondo l’Istat lo scorso anno l’incidenza della povertà relativa (cioè la percentuale di famiglie con un reddito al di sotto di una cosiddetta linea di povertà relativa, ndr) è stata pari al 10,8% (era 11,3% nel 2008), mentre quella della povertà assoluta risulta del 4,7%. Secondo l’Istat si tratta di dati “stabili” rispetto al 2008. In realtà, si tratta di un’illusione «ottica»: succede che, visto che tutti stanno peggio, la linea della povertà relativa si è abbassata, passando da 999,67 euro del 2008 a 983,01 euro del 2009 per un nucleo di due persone. Se però aggiornassimo la linea di povertà del 2008 sulla base della variazione dei prezzi tra il 2008 e il 2009, il valore di riferimento non calerebbe, ma al contrario salirebbe a 1.007,67 euro. Con questa operazione di ricalcolo, alzando la linea di povertà relativa di soli 25 euro mensili, circa 223 mila famiglie ridiventano povere relative: sono circa 560 mila persone da sommare a quelle già considerate dall’Istat (cioè 7 milioni e 810 mila poveri) con un risultato ben più amaro rispetto ai dati ufficiali: sarebbero 8 milioni e 370 mila i poveri nel 2009 (+3,7%).»[12]

Fig.1: La povertà assoluta: percentuale di persone povere in Italia, 1861-2011, (Fonte: Amendola, Salsano e Vecchi (2011), p. 297.)

Solo di recente, una ricerca condotta nell’ambito del 150° anniversario dell’Unità di Italia ha prodotto una prima stima dell’incidenza nazionale della povertà assoluta in Italia dal 1861 al 2008. Come si vede dal grafico di fig.1, lungo i 150 anni di storia unitaria l’incidenza della povertà passa dal 45 per cento di fine Ottocento all’attuale 4,4 per cento, ma è anche vero che il “miracolo” della sconfitta della povertà si osserva soprattutto negli anni Settanta del Novecento: in poco più di un decennio (1970-1981) l’incidenza passa dal 20 per cento a meno del 5 per cento. I decenni più recenti registrano invece un sostanziale ristagno dell’indicatore.[13]

La borghesia italiana usa meno gli indicatori che, a differenza della povertà relativa (come visto visibilmente ingannevole), danno indicazioni più precise sul presente e, soprattutto, sul futuro, come la vulnerabilità alla povertà che non misura la povertà di oggi, ma quella di domani.

«Sono infatti vulnerabili le famiglie che hanno una probabilità superiore alla media nazionale di sperimentare, nel futuro (tipicamente nei dodici mesi successivi all’intervista), un episodio di povertà. Si tratta tanto di famiglie povere oggi, e che hanno bassa probabilità di uscire domani da questa condizione (si parla in tal caso di povertà cronica), quanto di famiglie non ancora povere, ma che non hanno strumenti idonei per fronteggiare eventuali shock negativi di reddito. Alcune stime preliminari hanno prodotto risultati molto netti che, se confermati, suggeriscono dimensioni insospettate del fenomeno. Dal 1985 al 2001 si stima che circa la metà della popolazione abbia un rischio elevato di cadere in povertà (Tab.1). Sorprendentemente, il gruppo dei vulnerabili, è composto non solo da famiglie povere, ma soprattutto da famiglie non povere. Il 40 per cento circa delle famiglie non povere è vulnerabile. Accanto a una povertà assoluta stabile, se non in leggera flessione, emerge dunque una latente fragilità delle famiglie italiane.»[14]

Tab.1: La vulnerabilità alla povertà in Italia, 1985-2011 (Fonte: Rossi e Vecchi,2011).[15]

D’altra parte l’impoverimento non procede in maniera uniforme su tutta la popolazione e su tutto il territorio, ma aggredisce soprattutto le aree storicamente più deboli, e particolarmente il sud:

«Il Rapporto annuale dell’Istat descrive un paese in cui coesistono regioni (nel Nord) con livelli di benessere o inclusione sociale analoghi a quelli della Svezia e regioni (nel Sud) con rischi di povertà o esclusione prossimi a quelli della Romania. (…) Le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale sono in Italia 15 milioni, una persona su quattro (il 24,7 per cento): una percentuale più elevata non solo della media dei 17 paesi dell'area euro (21,2 per cento) ma anche della media dei 27 paesi dell'Unione Europea (23,1 per cento).»[16]

1.3 Prospettive a breve e medio termine

Come si vede la situazione che si profila davanti a noi in Italia - ma è l’identica situazione in altri paesi con una sfasatura temporale in avanti o un po’ all’indietro - è di una catastrofe crescente e di una pauperizzazione generalizzata di tutta la classe lavoratrice. La miseria degli anni del II dopoguerra non sta dietro di noi, ma è la situazione verso la quale stiamo andando. Con l’aggravante che adesso non c’è nessun piano Marshall che ci possa venir a tirare fuori, non c’è nessuna capacità di recupero del capitalismo che ha ormai, e da tempo, esaurito tutte le sue risorse.

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