XIII Congresso della CCI. Rapporto sulla lotta di classe (estratti)

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Questo rapporto ha come primo obiettivo quello di combattere le campagne ideologiche della borghesia sulla “fine della lotta di classe” e la “scomparsa della classe operaia”, per sostenere che, malgrado le sue attuali difficoltà, il proletariato non ha perduto il suo potenziale rivoluzionario. Nella prima parte di questo rapporto, non pubblicato qui per ragioni di spazio, abbiamo mostrato che il rigetto della borghesia di questo potenziale si basa su una impostazione immediatista che prende lo stato della lotta di classe in un determinato momento come valido per ogni momento. A questo procedimento superficiale ed empirico, noi opponiamo il metodo marxista che sostiene che “il proletariato non può esistere che in quanto forza storica e mondiale, come il comunismo, azione del proletariato, che non è concepibile se non in quanto realtà storica e mondiale.” (Marx, L’ideologia tedesca).

Qui pubblichiamo solo la parte del rapporto centrata più particolarmente sull’evoluzione del movimento dopo la ripresa della lotta di classe alla fine degli anni ’60. Anche alcuni passaggi che trattano di situazioni recenti e a corto termine sono stati tagliati o sintetizzati.

1968-1989: il risveglio del proletariato

(…) Il significato profondo degli avvenimenti di maggio-giugno 1968 in Francia risiede in questo: l’emergere di una nuova generazione di operai che non era stata schiacciata né demoralizzata dalle miserie e dalle sconfitte dei decenni precedenti, che era stata abituata a un livello di vita relativamente elevato durante gli anni del “boom” del dopoguerra e che non era disposto a sottomettersi alle esigenze di una economia nazionale di nuovo sprofondata nella crisi. Il grande sciopero generale di 10 milioni di operai in Francia – che andava di pari passo con un enorme fermento politico per cui la nozione di rivoluzione, di trasformazione del mondo, tornava ad essere un oggetto di discussioni impegnate – ha marcato il rientro della classe operaia sulla scena della storia, la fine dell’incubo della controrivoluzione che le aveva tolto il fiato per tanto tempo. L’importanza del “maggio strisciante” in Italia e dell’ ”autunno caldo” l’anno successivo sta nel fatto che essi hanno portato la conferma di questa interpretazione, contro tutti quelli che non vedevano nel maggio ’68 in Francia che una rivolta studentesca. L’esplosione della lotta del proletariato italiano, che è il più avanzato al mondo dal punto di vista politico, con la sua potente dinamica antisindacale, ha chiaramente mostrato che il maggio ’68 non era stato un fulmine a ciel sereno, ma l’apertura di tutto un periodo di lotte di classe su scala internazionale. I successivi movimenti di massa (Argentina 1969, Polonia 1970, Spagna ed Inghilterra 1972, ecc.) costituirono una conferma supplementare.

Non tutte le organizzazioni rivoluzionarie esistenti sono state capaci di vederlo: le più vecchie, e in particolare la corrente bordighista, prese da una miopia crescente nel corso degli anni, sono state incapaci di vedere il profondo cambiamento che stava avvenendo nel rapporto di forza globale fra le classi; ma quelle che sono state capaci allo stesso tempo di capire la dinamica di questo nuovo movimento e di riappropriarsi del vecchio metodo della sinistra italiana che costituì un polo di chiarezza nella penombra della controrivoluzione, hanno dichiarato l’apertura di un nuovo corso storico, fondamentalmente diverso da quello che aveva prevalso nell’apogeo della controrivoluzione, dominata dal corso verso la guerra.

La riapertura della crisi economica mondiale avrebbe portato a una esacerbazione degli antagonismi imperialisti che, se avessero seguito la propria dinamica interna, avrebbero condotto l’umanità a una terza e forse ultima guerra mondiale. Ma nella misura in cui il proletariato aveva cominciato a rispondere alla crisi sul suo proprio terreno di classe, esso costituiva un ostacolo fondamentale a questa dinamica. In più, sviluppando le sue lotte di resistenza, il proletariato si mostrava capace di avanzare una sua dinamica verso un secondo assalto rivoluzionario contro il sistema capitalista.

La natura di massa di questa prima ondata di lotte, il fatto che essa aveva di nuovo permesso di parlare di rivoluzione, portò molti elementi sorti con questo movimento a prendere i loro desideri per realtà e a pensare che il mondo fosse sull’orlo di una crisi rivoluzionaria fin dall’inizio degli anni settanta. Questa forma di immediatismo era basata sull’incapacità di capire che:

·         la crisi economica che aveva provocato lo scoppio delle lotte non era che alla  sua fase iniziale e che, contrariamente agli anni ’30, questa crisi si imponeva a una borghesia armata di esperienza e fornita degli strumenti che la rendevano capace di “gestire” la discesa nell’abisso, e cioè il capitalismo di Stato, l’utilizzazione di organi costituiti a livello di blocco, la capacità di contenere gli effetti più nefasti di questa crisi attraverso il ricorso al credito e spostando il suo impatto verso la periferia del sistema;

·         gli effetti politici della controrivoluzione avevano ancora un effetto considerevole sulla classe operaia, a causa della rottura quasi totale della continuità con le organizzazioni politiche del passato, il debole livello di cultura politica nel proletariato nel suo complesso e la sua inveterata diffidenza verso “la politica” risultante dall’esperienza traumatica dello stalinismo e della socialdemocrazia.

Questi fattori apportavano la certezza che il periodo di lotta aperto nel 1968 non poteva che essere lungo. In contrasto con la prima ondata rivoluzionaria che era nata in risposta ad una guerra, e che per questo si era portata subito su un piano politico - troppo in fretta probabilmente, come nota Rosa Luxemburg rispetto alla rivoluzione del novembre 1918 in Germania - , le battaglie rivoluzionarie del futuro non potevano essere che preparate da tutta una serie di lotte di difesa economica che sono forzate a seguire un processo, difficile e diseguale, fatto di avanzate e di riflussi.

La risposta della borghesia francese al Maggio ’68 è stato il segnale della controffensiva della borghesia mondiale: per disperdere la lotta di classe si è fatto ricorso alla trappola elettorale (dopo che i sindacati avevano operato il sabotaggio delle lotte); agli operai è stata agitata la promessa di un governo di sinistra e l’illusione che questo avrebbe risolto tutti i problemi che avevano provocato le lotte, che avrebbe istituito un regno di prosperità e di giustizia,  e anche un po’ di “controllo operaio”. Gli anni ’70 possono quindi essere caratterizzati come gli anni delle “illusioni”, nel senso che la borghesia, grazie a uno sviluppo ancora limitato della crisi economica, poteva ancora vendere queste illusioni al proletariato. Fu questa controffensiva a spezzare lo slancio della prima ondata internazionale di lotte.

Ma l’incapacità della borghesia a mantenere le sue promesse significava che la ripresa delle lotte era solo una questione di tempo. Tra il 1978 e il 1980 ci furono lotte importanti: Longwy-Denain in Francia, con una tendenza all’estensione al di là del settore siderurgico e al confronto con l’autorità sindacale; lo sciopero dei portuali di Rotterdam, dove nacque un comitato di sciopero autonomo; in Gran Bretagna, “l’inverno dello scontento” che vide l’esplosione simultanea di lotte in numerosi settori e lo sciopero della siderurgia nel 1980; infine, la Polonia 1980, punto culminante di questa ondata e in qualche modo di tutto il periodo di ripresa.

Alla fine di questo vivace decennio, la CCI aveva annunciato che gli anni ’80 sarebbero stati “gli anni della verità”, non nel senso, come è stato spesso mal interpretato,  che esso sarebbe stato  il decennio della rivoluzione, ma nel senso che le illusioni degli anni ’70 sarebbero state spazzate via dalla brutale accelerazione della crisi e dai conseguenti drastici attacchi alle condizioni di vita della classe operaia; un decennio nel corso del quale la stessa borghesia avrebbe parlato un linguaggio crudo, quello che promette “lacrime e sangue” o come quello della Tatcher che affermava “non c’è alternativa”. Questo cambiamento di linguaggio corrispondeva anche a un cambiamento nella linea politica della classe dominante, con la messa al potere di una destra dura a condurre gli attacchi contro la classe operaia, e una sinistra falsamente radicalizzata all’opposi-zione, incaricata di sabotare e deviare dall’interno la risposta degli operai. Infine, gli anni ’80 sarebbero stati quelli della verità perché l’alternativa storica che si pone all’umanità – guerra mondiale o rivoluzione mondiale – non solo sarebbe diventata più chiara, ma sarebbe stata in un certo senso determinata dagli avvenimenti che si sarebbero avuti nel decennio che si apriva.

Ed effettivamente gli avvenimenti che inaugurarono il decennio lo mostravano chiaramente: da un lato l’invasione russa dell’Afga-nistan metteva crudelmente in luce la “risposta” della borghesia alla crisi e apriva un periodo di acutizzazione delle tensioni tra i blocchi (illustrata dagli avvertimenti di Reagan contro l’Impero del Male e dalle enormi spese militari legate a programmi tipo “guerre stellari”), dall’altro lo sciopero di massa in Polonia faceva chiaramente intravedere la risposta proletaria.

La CCI ha sempre sostenuto l’importanza cruciale di questo movimento: “ Questa lotta ha dato una risposta a tutta una serie di questioni che le lotte precedenti avevano posto senza trovare una risposta o  senza trovarne una chiara:

·         la necessità dell’estensione della lotta (sciopero dei portuali di Rotterdam);

·         la necessità della sua autorganizzazione (siderurgia in Gran Bretagna);

·         l’atteggiamento di fronte alla repressione (lotta dei siderurgici di Longwy-Denain).

Su tutti questi punti, le lotte in Polonia rappresentano un gran passo in avanti della lotta mondiale del proletariato ed è per questo che queste lotte sono le più importanti da mezzo secolo a questa parte.” (“Risoluzione sulla lotta di classe”, 4° congresso della CCI, 1981, su Révue Internationale n. 26).

In pratica il movimento polacco aveva mostrato come il proletariato potesse ergersi a forza sociale unificata capace non solo di resistere agli attacchi del capitale, ma anche di far intravedere la prospettiva del potere operaio, un pericolo ben individuato dalla borghesia che mise da parte le sue rivalità imperialiste per soffocare il movimento, in particolare con la messa in piedi del sindacato Solidarnosc.

Rispondendo alla questione di come estendere e organizzare la lotta al fine di unificarla, lo sciopero di massa in Polonia ha posto un’altra questione: quella della generalizzazione dello sciopero di massa al di là delle frontiere nazionali, come condizione indispensabile per l’apertura di una situazione rivoluzionaria. Ma, come dicemmo anche allora, questa non poteva essere una prospettiva immediata. La questione della generalizzazione era stata posta in Polonia ma toccava al proletariato mondiale, e in particolare a quello dell’Europa occidentale trovare la risposta.

(…) la prospettiva rivoluzionaria richiede un proletariato concentrato e soprattutto sperimentato e “istruito”. Il proletariato dei paesi dell’est ha un passato rivoluzionario glorioso, ma esso è stato completamente annullato dagli orrori dello stalinismo, il che spiega l’enorme fossato tra l’alto livello di auto-organizzazione e di estensione del movimento in Polonia e la sua bassa coscienza politica (predominanza della religione e soprattutto dell’ideologia democratica e sindacale). Il livello politico del proletariato dell’Europa dell’ovest, che per decenni ha fatto l’esperienza delle “delizie” della democrazia,  è notevolmente più elevato (cosa dimostrata, tra l’altro, dalla presenza in Europa della maggioranza delle organizzazioni rivoluzionarie internazionali). E’ innanzitutto e soprattutto nell’Europa occidentale che noi dobbiamo cercare la maturazione delle condizioni per il prossimo movimento rivoluzionario della classe operaia.

La profonda controrivoluzione che si è scatenata sulla classe operaia durante gli anni venti ha disarmato il proletariato nel suo insieme. Tuttavia si può dire che il proletariato di oggi ha un vantaggio sulla generazione rivoluzionaria del 1917: oggi non ci sono grandi organizzazioni rivoluzionarie che sono appena passate nel campo della borghesia e che per questo siano capaci di suscitare ancora una fiducia in una classe operaia che non ha avuto il tempo di assimilare le conseguenze storiche del loro tradimento. Questo fatto aveva costituito, con la socialdemocrazia, una causa importante nel fallimento della rivoluzione tedesca nel 1918-19. La distruzione sistematica delle tradizioni rivoluzionarie del proletariato, la sfiducia che la classe ne ha tirato verso ogni organizzazione politica, la sua amnesia verso la sua propria storia (fattore che si è notevolmente accelerato nel corso dell’ultimo decennio) costituiscono una grave debolezza per la classe operaia di tutto il pianeta.

Il proletariato dell’Europa occidentale non era pronto a cogliere la sfida posta dallo sciopero di massa in Polonia. La seconda ondata di lotta era stata smussata con la strategia della sinistra all’opposi-zione; gli operai polacchi si sono trovati isolati nel momento in cui avevano più bisogno che la lotta si allargasse in altri paesi. Questo isolamento (coscientemente imposto dalla borghesia internazionale) ha aperto le porte ai carri armati di Jaruzelski. La repressione del 1981 in Polonia segnò la fine della seconda ondata di lotte.

Avvenimenti storici di tale ampiezza hanno conseguenze a lungo termine. Lo sciopero di massa in Polonia ha provato definitivamente che solo la lotta di classe può costringere la borghesia a mettere da parte le sue rivalità imperialiste. In particolare esso ha mostrato che il blocco russo -– storicamente condannato, a causa della sua debolezza, ad essere “l’aggressore” in ogni guerra – era incapace di rispondere alla crisi economica con una politica di espansione militare. Si era chiarito che gli operai del blocco dell’est (e, molto probabilmente, della stessa Russia) non potevano assolutamente essere arruolati come carne da cannone in una qualunque futura guerra per la gloria del “socialismo”. Così lo sciopero di massa in Polonia è stato un fattore importante della successiva implosione del blocco imperialista russo.

Benché  incapace di porre la questione della generalizzazione, la classe operaia occidentale non ha battuto in ritirata per lungo tempo. Con una prima serie di scioperi nel settore pubblico in Belgio nel 1983 essa si è lanciata in una “terza ondata” di lotte molto lunga che anche se non è sfociata nello sciopero di massa, ha mostrato una dinamica globale verso questo sbocco.

Nella nostra risoluzione del 1980 citata prima, facevamo un paragone tra la situazione della classe attuale con quella del 1917. La realtà della guerra faceva sì che ogni resistenza della classe finiva direttamente con il confrontarsi con lo Stato e per questo a porre la questione della rivoluzione. Allo stesso tempo la guerra implicava numerosi inconvenienti (la capacità della borghesia a seminare divisione tra gli operai dei paesi “vincitori” e quelli dei paesi “vinti”; a tagliare l’erba sotto i piedi della rivoluzione ponendo fine alla guerra, e così via). Una crisi economica lunga e internazionale tende viceversa non solo a uniformare le condizioni d’insieme della classe, ma dà anche al proletariato più tempo per sviluppare le sue forze, per sviluppare la sua coscienza attraverso tutta una serie di lotte parziali contro gli attacchi del capitale. L’ondata rivoluzionaria degli anni ’80 aveva chiaramente questa caratteristica: se nessuna lotta aveva il carattere spettacolare del  maggio 1968 in Francia o del 1980 in Polonia, ognuna ha però contribuito ad apportare alcune importanti chiarificazioni sul perché e come lottare. Per esempio, il richiamo alla solidarietà per superare i limiti settoriali contenuto nelle lotte in Belgio del 1983 e del 1986 o in Danimarca nel 1985, ha mostrato concretamente come poteva essere risolto il problema dell’estensione; lo sforzo dei lavoratori di prendere in mano le loro lotte (assemblee dei ferrovieri in Francia nel 1986, o dei lavoratori della scuola in Italia nel 1987) hanno mostrato come organizzarsi al di fuori dei sindacati. Ci sono anche stati tentativi maldestri di tirare le lezioni delle sconfitte come in Gran Bretagna per esempio, dopo le lunghe, combattive ma massacranti lotte condotte dai minatori e dai tipografici a metà degli anni ’80; lotte, alla fine del decennio, che hanno mostrato che gli operai non volevano essere trascinati nelle stesse trappole (gli operai di British Telecom che sono scesi in sciopero per poi riprendere il lavoro prima di essere demoralizzati; le lotte simultanee in diversi settori durante l’estate 1988). Allo stesso tempo l’apparizione di comitati di lotta in diversi paesi apportava un inizio di risposta su come gli operai più combattivi possono agire di fronte alla lotta nel suo insieme.

Tutti questi fatti, apparentemente senza legame l’uno con l’altro, convergevano verso un unico punto che, se fosse stato raggiunto, avrebbe rappresentato un approfondimento qualitativo della lotta di classe internazionale.

Tuttavia, a un certo livello, il fattore tempo ha cominciato a giocare di meno in favore del proletariato. Confrontata all’approfondirsi di una crisi di tutto un modo di produzione, di una forma storica di civilizzazione, la lotta di classe, pur continuando ad andare avanti, non è riuscita a tenere il ritmo dell’accelerazione della situazione, non arrivando al livello richiesto perché il proletariato si affermi in quanto forza rivoluzionaria positiva. Malgrado ciò, la lotta della classe continuava a bloccare la marcia verso una guerra mondiale. Così, per la maggior parte dell’umanità e del proletariato stesso, la realtà della terza ondata è rimasta piuttosto dissimulata, a causa certo del black out della borghesia, ma anche per la sua progressione lenta e non spettacolare. La terza ondata era anche “nascosta” per la maggioranza delle organizzazioni politiche del proletariato che tendevano a non vedere che le sue espressioni più aperte, e in più a non vederle che come dei fenomeni separati, senza connessioni.

Questa situazione, in cui nonostante una crisi senza tregua la classe dominante non riusciva neanche essa a imporre la sua “soluzione”, ha dato origine al fenomeno della decomposizione, che è diventato sempre più identificabile, nel corso degli anni ’80, a diversi livelli: a livello sociale (atomizzazione crescente, delinquenza, diffusione dell’uso di droghe, ecc.) , ideologico (sviluppo di ideologie irrazionali e fondamentaliste), ecologico, ecc. Essendo il prodotto di un blocco della situazione, un blocco dovuto al fatto che nessuna delle due classi fondamentali della società arriva a imporre la sua “soluzione”, la decomposizione agisce a sua volta nel senso di minare la capacità del proletariato di ergersi a forza unita; alla fine del decennio, la decomposizione è sempre più al centro della scena, culminando nei giganteschi avvenimenti del 1989 che hanno marcato l’apertura definitiva di una nuova fase nella lunga caduta del capitalismo in fallimento, una fase durante la quale tutto l’edificio sociale ha cominciato a scricchiolare, tremare e crollare.

1989-99: la lotta di classe di fronte alla decomposizione della società borghese

Il crollo del blocco dell’est si è dunque imposto a un proletariato che, per quanto combattivo e sulla strada di sviluppare la sua coscienza di classe, non aveva ancora raggiunto il livello necessario per essere capace di reagire sul suo terreno di classe ad un avvenimento storico di una tale importanza.

Il crollo del blocco dell’est e l’enorme, mistificatoria campagna ideologica sulla “morte del comunismo” che la borghesia ha sviluppato in questa occasione ha bloccato la terza ondata e (ad eccezione di una debole minoranza politicizzata della classe operaia) ha avuto un impatto profondamente negativo sulla coscienza di classe, elemento fondamentale per la capacità della classe di sviluppare una prospettiva, di mettere avanti uno scopo globale alla lotta, in un periodo tra l’altro in cui è sempre più difficile separare le lotte difensive dalla battaglia offensiva e rivoluzionaria del proletariato.

Il crollo del blocco dell’est ha portato un colpo alla classe in due maniere:

·         ha permesso alla borghesia di sviluppare tutta una serie di campagne sul tema della “morte del comunismo” e della “fine della lotta di classe” che ha profondamente intaccato la capacità della classe di situare le sue lotte nella prospettiva della costruzione di una nuova società, ergendosi a forza autonoma e antagonista al capitale. La classe operaia, non avendo giocato alcun ruolo specifico negli avvenimenti del 1989-91, è stata toccata profondamente a livello della fiducia in se stessa. Sia la combattività che la coscienza della classe hanno subito un riflusso considerevole, certamente il più profondo dopo la ripresa storica del 1968. I sindacati hanno ricavato il più grande profitto da questa perdita di fiducia, facendo un ritorno trionfale come “solo e vero mezzo che hanno gli operai” per difendersi;

·         allo stesso tempo, il crollo del blocco dell’est ha aperto le porte a tutte le forze della decomposizione che stavano alla sua origine, sottoponendo sempre più la classe alla putrida atmosfera del “ciascuno per sé”, alle influenze nefaste del gangsterismo, del fondamentalismo, ecc. In più la borghesia si è mostrata capace di rivolgere contro la classe operaia le manifestazioni della decomposizione del suo sistema. Un esempio tipico di questo è stato l’affare Doutroux in Belgio, dove le sporche pratiche delle cricche borghesi sono state utilizzate come pretesto per trascinare la classe operaia in una vasta campagna democratica per un “governo pulito”. L’utilizzazione della mistificazione democratica è diventata sempre più sistematica, perché essa è allo stesso tempo la “logica conclusione da tirare dalla fine del comunismo” (secondo la borghesia) e costituisce lo strumento ideale oggi per accrescere l’atomizzazione della classe e incatenarla allo Stato capitalista. Le guerre provocate dalla decomposizione – il massacro del Golfo nel 1991, l’ex-Yugoslavia, ecc. – hanno certamente permesso a una minoranza di vedere più chiaramente la natura militarista e barbara del capitalismo, ma hanno anche l’effetto più generale di aumentare il senso di impotenza nel proletariato, il sentimento di vivere in un mondo crudele e irrazionale nel quale non c’è altra soluzione che quella di nascondere la testa sotto la sabbia.

La situazione dei disoccupati mostra con chiarezza i problemi che si pongono oggi alla classe. Fino all’inizio degli anni ottanta la CCI aveva considerato i disoccupati come una fonte potenziale di radicalizzazione per l’insieme del movimento di classe. Ma sotto il peso della decomposizione si è visto che è risultato sempre più difficile per i disoccupati sviluppare le loro proprie forme collettive di lotta e organizzazione, essendo essi particolarmente vulnerabili agli effetti più distruttivi della decomposizione (atomizzazione, delinquenza, ecc.). E questo è vero in particolare per i disoccupati giovani, che non hanno mai fatto l’esperienza della disciplina collettiva e della solidarietà del lavoro. Allo stesso tempo questa influenza negativa è stata aggravata dalla tendenza del capitale a “disindustrializzare” i suoi settori “tradizionali” – miniere, cantieri navali, siderurgia, ecc. – dove gli operai hanno una lunga esperienza di solidarietà di classe. Invece di portare la loro forza collettiva alla loro classe, questi proletari hanno avuto tendenza a diluirsi in una massa inerte, finendo con il togliere all’insieme della classe una sorgente importante di identità e di esperienza.

I pericoli contenuti nel nuovo periodo per la classe operaia e l’avvenire delle sue lotte non possono essere sottostimati. Se la lotta della classe operaia ha chiaramente sbarrato la strada alla tendenza alla guerra mondiale negli anni settanta e ottanta, essa non può né fermare né rallentare il processo di decomposizione. Per scatenare una guerra mondiale, la borghesia avrebbe dovuto infliggere una serie di sconfitte importanti ai battaglioni centrali della classe operaia. Oggi, il proletariato è confrontato a una minaccia, dai tempi lunghi ma non meno pericolosa,  di una cottura “a fuoco lento” in cui la classe operaia viene sempre più schiacciata da questo processo di decomposizione, fino a poter perdere la sua capacità di affermarsi in quanto classe, mentre il capitalismo passa di catastrofe in catastrofe (guerre locali, catastrofi ecologiche, carestie, epidemie, ecc.). Tutto questo può arrivare fino al punto che le premesse stesse per una società comunista possono essere distrutte per intere generazioni, per non parlare della possibilità stessa della distruzione totale dell’umanità.

Secondo noi, malgrado i problemi posti dalla decomposizione, malgrado il riflusso della lotta di classe avutosi in questi ultimi anni, la capacità del proletariato di lottare, di reagire al declino del sistema capitalista, non è sparita, e il corso verso scontri di massa resta aperto. Per mostrare questo è necessario esaminare di nuovo la dinamica generale della lotta di classe dall’inizio della fase di decomposizione.

L’evoluzione della lotta di classe dopo il 1989

Come la CCI aveva previsto all’epoca, nel corso dei due o tre anni che hanno seguito il crollo del blocco dell’est il riflusso della classe operaia è stato molto marcato sia a livello della sua coscienza che della combattività La classe operaia subiva in pieno la campagna sulla “morte del comunismo”.

Nel corso del 1992 gli effetti di questa campagna hanno cominciato a diminuire e si sono potuti vedere dei primi segni di una ripresa della combattività, in particolare attraverso la mobilitazione degli operai italiani contro le misure di austerità del governo Amato nel mese di settembre. Queste mobilitazioni sono state seguite in ottobre dalle manifestazioni dei minatori contro la chiusura delle miniere in Inghilterra. Alla fine del 1993 ci sono stati nuovi movimenti di lotta in Italia, in Belgio, in Spagna e soprattutto in Germania con scioperi e manifestazioni in numerosi settori, in particolare nell’edilizia e in quello automobilistico.

Nell’editoriale della nostra Révue Internationale n. 76, opportunamente intitolato “la difficile ripresa della lotta di classe”, dicevamo: “la calma sociale che regnava da quasi quattro anni è definitivamente interrotta”. Pur salutando questa ripresa della combattività nella classe, la CCI sottolineava le difficoltà e gli ostacoli con cui questa ripresa si sarebbe confrontata: la forza ritrovata dei sindacati; la capacità della borghesia di manovrare contro di essa, in particolare la sua capacità di scegliere il momento e i temi su cui provocare  movimenti importanti; la capacità della classe dominante di utilizzare a pieno il fenomeno della decomposizione per rafforzare l’ato-mizzazione della classe (all’epoca c’era un grande utilizzo degli scandali, di cui un esempio importante fu la campagna su “mani pulite” in Italia).

Nel dicembre del 1995 tutto l’ambiente politico rivoluzionario ha subito una prova importante. Sull’onda di un conflitto nelle ferrovie e a seguito di una attacco molto provocatorio alla protezione sociale di tutti i lavoratori, tutto concorreva a far sembrare la Francia sull’orlo di un movimento molto importante, con scioperi e assemblee generali, con slogan lanciati dai sindacati e gridati dai lavoratori che mettevano in evidenza come la sola maniera per vincere era quella di “lottare tutti assieme”. Un certo numero di gruppi rivoluzionari, normalmente scettici sulla lotta di classe in generale, si sono particolarmente entusiasmati per questo movimento. La CCI, al contrario, ha messo in guardia gli operai sul fatto che questo “movimento” era innanzitutto il prodotto di una gigantesca manovra della classe dominante che, cosciente del malcontento crescente in seno alla classe operaia, cercava di fare un’opera preventiva prima che la collera sfociasse in una vera lotta spontanea. In particolare, presentando i sindacati come i campioni della lotta, come i migliori difensori dei metodi operai di lotta (assemblee, delegazioni di massa verso gli altri settori, ecc.) la borghesia cercava di rafforzare la credibilità del proprio apparato sindacale, in preparazione di futuri scontri importanti. Benché la CCI sia stata molto criticata per la sua “visione cospiratrice” della lotta di classe, questa analisi è stata confermata in seguito. Le borghesie belga e tedesca, con i loro sindacati, hanno in effetti effettuato delle copie conformi del “movi-mento francese”, mentre in Gran Bretagna (campagna sui portuali di Liverpool) e negli Stati Uniti (sciopero alla UPS) avevano luogo diversi tentativi di rinnovamento dell’immagine dei sindacati.

L’ampiezza di queste manovre non ha rimesso in discussione la tendenza strisciante alla ripresa della lotta di classe. In effetti si potrebbe dire che queste manovre, destinate a provocare lotte in condizioni sfavorevoli e spesso su parole d’ordine sbagliate, costituiscono una misura del pericolo costituito dalla classe operaia.

Il grande sciopero in Danimarca all’inizio dell’estate del 1998 ha portato una importante conferma delle nostre analisi. A prima vista questo movimento sembrerebbe avere molte somiglianze con gli avvenimenti del dicembre 1995 in Francia. Ma, come scrivemmo nel nostro editoriale della Révue Internationale n. 94, non era così: “Nonostante la sconfitta dello sciopero e le manovre della borghesia, questo movimento non ha lo stesso significato di quello del dicembre 1995 in Francia. In particolare, mentre in Francia il ritorno al lavoro si era fatto sotto un sentimento di euforia,con una sensazione di aver vinto che non lasciava spazio a una rimessa in discussione del sindacalismo, la fine dello sciopero in Danimarca era accompagnata da un sentimento di sconfitta e da poche illusioni sui sindacati. Questa volta l’obiettivo della borghesia non è stato quello di lanciare una vasta campagna internazionale di credibilizzazione dei sindacati, ma di bagnare le polveri, di giocare d’anticipo su un malcontento e una combattività crescente che si faceva spazio poco a poco sia in Danimarca che in altri paesi d’Europa e non.

Questo editoriale mostra anche altri aspetti importanti dello sciopero: il suo essere di massa (un quarto del proletariato danese in sciopero per due settimane) a testimonianza reale del livello montante della collera e della combattività nella classe e l’utilizzo intensivo del sindacalismo di base per assorbire la combattività ed il malcontento operaio verso i sindacati ufficiali.

Al di là di tutto, è il contesto internazionale ad essere mutato: un’atmosfera di combattività crescente che si esprimeva in numerosi paesi ed in maniera continua:

·         negli Stati Uniti, durante l’estate 1998, con gli scioperi di quasi 10.000 operai alla General Motors, quello di 70.000 operai della compagnia telefonica Bell Atlantic, quella degli operai del settore sanità a New York, senza parlare dei violenti scontri con la polizia durante una manifestazione di 40.000 edili a New York;

·         in Gran Bretagna, con gli scioperi non ufficiali della sanità in Scozia, dei postali a Londra, così come i due scioperi degli elettrici nella capitale che hanno mostrato una chiara volontà di battersi malgrado l’opposizione della direzione sindacale;

·         in Grecia, durante l’estate, dove degli scioperi tra gli insegnanti sono arrivati allo scontro con la polizia;

·         in Norvegia dove in autunno vi è stato uno sciopero paragonabile in ampiezza a quello della Danimarca;

·         in Francia, dove si sono sviluppate tutta una serie di lotte in vari settori, nella scuola, nella sanità, nelle poste e nei trasporti, in particolare lo sciopero degli autista dei bus a Parigi in autunno dove i lavoratori hanno risposto sul loro terreno di classe ad una conseguenza della decomposizione – il numero crescente di aggressioni che subiscono – rivendicando dei posti di lavoro in più piuttosto che la presenza della polizia sugli autobus;

·         in Belgio, dove una lenta ma chiara ascesa della combattività, manifestata negli scioperi nell’industria automobilistica, nei trasporti, nelle comunicazioni, è stata contrastata con una gigantesca campagna sul tema del “sindacalismo di lotta”. Ciò si è manifestato esplicitamente con la promozione di un “movimento per il rinnovamento sindacale” che utilizza un linguaggio estremamente radicale e “unitario” e  il cui leader, D’Orazio, si è visto dotare di un’aureola di radicalismo, perché perseguito in giudizio per “violenza”;

·         nel terzo mondo, con gli scioperi in Corea, delle voci su di un malcontento massiccio e crescente in Cina e, più di recente, in Zimbawe dove uno sciopero generale è stato indetto per canalizzare la collera degli operai non solo contro le misure di austerità del governo ma anche contro i sacrifici imposti dalla guerra nella repubblica democratica del Congo; questo sciopero ha coinciso con diserzioni e proteste in seno alle truppe.

Si potrebbero fare altri esempi, benché sia difficile ottenere informazioni per il fatto che – contrariamente alle grandi manovre sindacali largamente amplificate dai mezzi di informazione nel 1995 e 1996 – la borghesia ha risposto alla maggior parte di questi movimenti con la politica del black-out, della censura, del silenzio, a riprova del fatto che questi movimenti sono l’espressione di una vera e crescente combattività che la borghesia non vuole incoraggiare.

Le risposte della borghesia e le prospettive della lotta di classe

Di fronte alla crescita della combattività, la borghesia non può restare inerte. Essa ha già lanciato o intensificato tutta una serie di campagne sia sul terreno della lotta che sul piano politico più in generale, e ciò per intaccare la combattività della classe ed impedire lo sviluppo della sua coscienza. Si assiste oggi ad un rifiorire dei sindacati “di lotta” (come in Belgio, Grecia o nello sciopero degli elettrici inglesi), e nello stesso tempo si sviluppa la propaganda sulla “democrazia” (la vittoria dei governi di sinistra, l’affare Pinochet, ecc.), le mistificazioni sulla crisi (la “critica” della mondializzazione, gli appelli ad una sedicente “terza via” che utilizzerebbe lo Stato per tenere le redini di una “economia di mercato” ribelle) e che continuano con le calunnie contro la rivoluzione d’Ottobre, il bolscevismo e la Sinistra comunista, ecc.

Oltre a queste campagne, vediamo che la classe dominante si appresta ad utilizzare al massimo tutte le manifestazioni della decomposizione sociale per aggravare le difficoltà alle quali la classe operaia deve far fronte: resta ancora un cammino molto lungo da percorrere tra il genere di movimento che abbiamo visto in Danimarca e lo sviluppo di scontri massicci di classe nei paesi del cuore del capitale, scontri che offriranno di nuovo la prospettiva della rivoluzione a tutti gli sfruttati e oppressi della terra.

Tuttavia, lo sviluppo della lotta durante il recente periodo ha mostrato che, malgrado tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare nell’ultimo decennio, la classe operaia non ne esce sconfitta e conserva anche un enorme potenziale per combattere questo sistema moribondo. In effetti, esistono molti fattori importanti che possono permettere la radicalizzazione degli attuali movimenti della classe e portarli ad un livello superiore:

·         Lo sviluppo sempre più aperto della crisi economica mondiale. A dispetto di tutti i tentativi della borghesia per minimizzare il suo significato e mistificarne le cause, la crisi resta “l’alleata del proletariato” nel senso che essa tende a mettere a nudo i reali limiti del modo di produzione capitalistico. L’anno scorso, abbiamo già assistito ad un approfondimento maggiore della crisi economica e sappiamo che il peggio deve ancora venire; sono i grandi centri capitalistici a risentire prima di tutti di questo ultimo tonfo;

·         L’accelerazione della crisi corrisponde all’accelerazione degli attacchi capitalistici contro la classe operaia. Ma essa significa anche che la borghesia è sempre meno in grado di diluire nel tempo questi attacchi, di riportarli o di concentrarli su alcuni settori. Sarà sempre più tutta la classe operaia ad essere colpita e tutti gli aspetti della sue condizioni di vita ad essere minacciati. Così la necessità degli attacchi massicci della borghesia metterà sempre più in chiaro la necessità di una risposta di massa della classe operaia;

·         Nello stesso tempo, la borghesia dei principali centri capitalistici sarà anche costretta ad impegnarsi sempre più in avventure militari; la società sarà sempre più impregnata da un’atmosfera di guerra. Abbiamo detto che in alcune circostanze (come immediatamente dopo il crollo del blocco dell’Est), lo sviluppo del militarismo può far aumentare il sentimento di impotenza del proletariato. Nello stesso tempo abbiamo notato, come durante la guerra del Golfo, che alcuni eventi possono anche avere un effetto positivo sulla coscienza di classe, in particolare all’interno di una minoranza più politicizzata o più combattiva. Resta vero che la borghesia è incapace di mobilitare in massa il proletariato per le sue avventure militari. Uno dei fattori che spiega la vasta “opposizione” in seno alla classe dominante ai recenti raids sull’Irak è la difficoltà a “vendere” questa politica di guerra alla popolazione in generale e alla classe operaia in particolare. Queste difficoltà vanno crescendo per la classe dominante, perché a livello militare essa sarà sempre più costretta a mostrare i denti.

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Il Manifesto Comunista descrive la lotta di classe coma una “guerra civile più o meno velata”. La borghesia, pur tentando di creare l’illusione di un ordine sociale in seno al quale i conflitti di classe apparterrebbero al passato, è tuttavia costretta ad accelerare le condizioni stesse che polarizzano la società intorno a due campi opposti da antagonismi inconciliabili. Più la società borghese sprofonda nella sua mortale agonia, più il velo che nasconde questa “guerra civile” sparirà. Di fronte a contraddizioni economiche, sociali e militari sempre più forti, la borghesia è costretta a rinserrare tutto il suo stato politico totalitario sulla società, per impedire ogni attentato al suo ordine e domandare sempre più sacrifici e dare sempre meno in cambio. Come nel secolo scorso, quando il Manifesto fu scritto, la lotta degli operai tende a ridivenire la lotta di una classe “fuori legge”, una classe che non ha alcun interesse da difendere nell’attuale sistema e le cui ribellioni e proteste sono effettivamente interdette dalla legge. In ciò risiede l’importanza di tre aspetti essenziali della lotta di classe oggi:

·         la lotta per costruire un rapporto di forze in favore degli operai, è la chiave perché la classe sia capace di riaffermare la sua identità di classe contro tutte le divisioni imposte dall’ideologia borghese in generale ed i sindacati in particolare e contro l’atomizzazione aggravata dalla decomposizione del capitalismo. E’ soprattutto una chiave nella pratica perché essa si rivela una necessità immediata in ogni lotta: gli operai non possono difendersi che allargando il fronte della loro lotta in maniera più ampia possibile;

·         la lotta per uscire dalla prigione sindacale; sono nei fatti i sindacati che mettono avanti dappertutto la “legalità” capitalista e le divisioni corporative nella lotta, che cercano di impedire agli operai di costruire un rapporto di forza a loro favore. La capacità degli operai di affrontare i sindacati e di sviluppare le proprie forme di organizzazione sarà dunque un criterio cruciale della reale maturazione della lotta nel periodo futuro, quali che siano le difficoltà di questo processo;

·         lo scontro con i sindacati è nello stesso tempo scontro con lo Stato capitalista; e lo scontro con lo Stato capitalista è la chiave della politicizzazione della lotta di classe. In molti casi è la borghesia che prende l’iniziativa di fare di “ogni lotta di classe una lotta politica” (Il Manifesto) perché essa non può, in fin dei conti, integrare la lotta di classe nel suo sistema. L’inizio del “confronto” è stato e sarà sempre più intrapreso dalla classe dominante. Ma la classe operaia dovrà rispondere, non semplicemente sul terreno della difesa immediata, ma prima di tutto sviluppando una prospettiva generale per le sue lotte, ponendo ogni lotta parziale nel contesto più vasto della lotta contro tutto il sistema. Questa coscienza sarà per ancora molto tempo necessariamente limitata ad una minoranza. Ma questa minoranza aumenterà e questa crescita si manifesterà nell’aumento dell’influenza delle organizzazioni politiche rivoluzionarie su un numero sempre maggiore di operai radicalizzati. Da ciò deriva la necessità vitale per queste organizzazioni di seguire molto da vicino lo sviluppo del movimento della classe e di essere capaci di intervenire al suo interno.

La borghesia può cercare di venderci la menzogna secondo la quale la lotta di classe è morta. Ma essa è già sul punto di prepararsi alla “guerra civile aperta” che è sicuramente contenuta nel futuro di un ordine sociale che è con le spalle al muro. La classe operaia e le sue minoranze rivoluzionarie devono, anche loro, prepararvisi.

28/12/98